Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
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Dr Antonio Giangrande
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L’INVASIONE BARBARICA SABAUDA
DEL MEZZOGIORNO
D’ITALIA
DI ANTONIO GIANGRANDE
LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA
IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI
LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA
UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO
SOMMARIO
INTRODUZIONE.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
M COME MAFIA DEI TRADITORI.
I FALSARI DELLA STORIA. 4 NOVEMBRE DIMENTICATO.
IL CAOS ITALIANO.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
UNA COSTITUZIONE CATTO-COMUNISTA.
IL PAESE DELLE BANANE ED IL REFERENDUM DA PRESA PER IL CULO.
FRANCESCO SAVERIO NITTI, LE ORIGINI DEL DIVARIO NORD-SUD ED IL MILLANTATO CREDITO.
PARLIAMO DELLA QUESTIONE SETTENTRIONALE E DI QUELLA MERIDIONALE.
LADRI ED EVASORI. I PARASSITI D’ITALIA. QUELLO CHE NON SI DICE.
QUELLI CHE SON SECESSIONISTI...
QUELLI CHE SON INDIPENDENTISTI...
LA SECESSIONE IDEOLOGICA.
QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
CHI DICE TERRONE E’ SOLO UN COGLIONE.
IL SUD TARTASSATO.
QUELLI CHE SON RAZZISTI…EVASORI E LADRI.
LA QUESTIONE MERIDIONALE.
LA QUESTIONE MERIDIONALE SECONDO EUGENIO BENNATO.
MIMMO CAVALLO E POVIA: I NUOVI BRIGANTI.
BRIGANTI, TERRORISTI E PARTIGIANI.
LA STORIA INEDITA DEL FIGLIO DI GARIBALDI: QUELLO CHE LE CASE EDITRICI DEL SUD NON SCRIVONO.
I GARIBALDI…
LO STATO MAFIOSO. LA MAFIA E’ LO STATO.
ITALIANI: POPOLO DIFETTATO.
BENVENUTI AL SUD.
I VERI RAZZISTI STANNO A SINISTRA, NON AL NORD ITALIA.
MEDIA E STATO CANAGLIA. COSI' NASCEVA UNA NAZIONE.
EVVIVA IL REVISIONISMO: ECCO TUTTE LE BUGIE SULL'UNITA' D'ITALIA.
TUTTA UN’ALTRA STORIA.
ITALIANI. FRATELLI COLTELLI.
ITALIA RAZZISTA ED ANTIMERIDIONALISTA.
IL MEZZOGIORNO D'ITALIA.
L’ITALIA MERIDIONALE DURANTE IL REGNO DI OTTONE II DI SASSONIA.
L'ITALIA MERIDIONALE E I NORMANNI (VIII-X sec.).
IL PRETESO FEUDALESIMO NELL'ITALIA MERIDIONALE.
L’INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
1861: UNITA' D'ITALIA O INVASIONE SABAUDA?
IL GENOCIDIO DEI CARNEFICI.
I MIGLIORI COMANDANTI DELLA STORIA...E GIUSEPPE GARIBALDI NON C'E'!!!
GARIBALDI E I MILLE? UN INVESTIMENTO.
GIUSEPPE GARIBALDI, MERCENARIO DEI DUE MONDI.
QUANDO GARIBALDI LADRO LEGITTIMO’ LA MAFIA E LA CAMORRA.
ANITA GARIBALDI. LA MENZOGNA DEL GRANDE AMORE.
IL PERCHE’ DEL SEPARATISMO.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
SOLDI ED ANTICLERICALISMO.
FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.
LA MASSONERIA ED IL RISORGIMENTO.
INTRODUZIONE.
8 settembre 1943: fu il grande giorno dei vigliacchi e degli eroi. 75 anni fa l’annuncio dell’armistizio e la fuga del re, scrive Lanfranco Caminiti l'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Mi chiedo talvolta dove sarei andato a finire l’8 settembre. Cosa avrei fatto? Ho così tanto rispetto per i partigiani, tutti, “azzurri”, azionisti e comunisti, che neppure riesco a ipotizzare se avrei preso la strada della montagna o della lotta clandestina, se avrei “resistito”. Forse avrei provato a tornare a casa o sarei rimasto dove mi trovavo, incerto, sbandato, imbucato o schierato magari per caso, improvvisamente orfano. Orfano di schieramenti. Orfano di Stato. Orfano di patria. Della Patria maiuscola e muscolare, di quella in divisa e berretto, di quella dove c’è chi comanda e chi ubbidisce, chi va al macello e chi prepara i piani per il macello. Quel giorno, Benedetto Croce nel suo diario scrisse: «Sono stato sveglio per alcune ore, tra le 2 e le 5, sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo a questa parte costruito politicamente, economicamente e moralmente è distrutto, irrimediabilmente». Più o meno nelle stesse ore, Luigi Biraghi, classe 1914, tenente del 9° alpini, e che fu poi internato nei campi di concentramento tedeschi per non aver accettato di collaborare con i nazisti, scriveva nel suo diario: «Al mattino del 9 un sottufficiale e alcuni soldati tedeschi vengono all’accampamento e ci danno ordine di non uscire. Il Comandante del Battaglione non si oppone e ci invita ad attendere obbedendo. Più tardi il Colonnello Elefante ci ordina di deporre le armi. Obbediamo, ma poi, mentre siamo radunati in sede di Compagnia, non rendendoci conto della necessità di tale ordine, ci rechiamo al Comando di Battaglione per chiedere spiegazioni. La scena che costì ci si presenta agli occhi è quanto di più tragico e di più grottesco si possa immaginare. Giuseppe Elefante, in goffi abiti civili, pallido e tremante, tenta inutilmente di mettersi in testa un cappello basco per poi partire sulla motocicletta che lo attende e mettersi in salvo». Che due eserciti stranieri si siano combattuti su terre italiane portando strazi e lutti, mentre intanto ci si schierava di qua e di là, dividendosi per faglie che nessuna razionalità storica riesce a ricostruire – come poi forse accade sempre quando gli eventi precipitano in una guerra che diventa per forza di cose fratricida e perciò passionale – non è certo solo eredità dell’8 settembre. La guerra del Vespro, fra Angioini e Aragonesi, per dirne una, durò vent’anni, e sconvolse l’area del Mediterraneo tutto, oltre che i territori nostri. Mai però la frattura fra classi dirigenti – il cui unico obiettivo dopo l’armistizio era salvare la ghirba a qualunque costo – e popolo fu così evidente. Il popolo si divise, si frantumò, andò alla deriva, si arrese, lottò, salì in montagna, fu massacrato di terra, di cielo e di mare, reagì, si diede a ogni nefandezza, insomma visse e subì la guerra. Certo, non tutte le scelte furono uguali e non si possono sovrapporre o paragonare. I ceti dirigenti scapparono. Non era mai successo nelle innumerevoli guerre che si erano combattute sul nostro suolo: ogni ceto emergente si poneva alla testa d’una fazione contro un’altra; ogni principe, ogni barone, ogni prete, ogni chierico, radunava le sue forze, cercava alleanze e si lanciava contro il nemico, vero o supposto: si immolava, spesso, veniva martirizzato, spesso, o, altrettanto spesso, cambiava alleanze, e combatteva quella parte con cui prima aveva pattuito. Sempre esponendosi. L’otto settembre ci fu la fuga. La dismissione generale dei ceti dirigenti italiani. Della catena di comando, delle gerarchie, delle responsabilità, dei compiti istituzionali. Fu il presidente Ciampi – dopo le iniziative per i caduti di Cefalonia e altro – a spendersi tanto per stabilire l’immagine di un esercito che, nello sconquasso generale dopo l’annuncio dell’armistizio, mantenne o scoprì l’onore della Patria, salvandolo dalla vergogna. Un commendevole impegno. Allora, corroborato da un proliferare di trasmissioni televisive e pagine di quotidiani sulla stessa falsariga. Io non vorrei però che le buone intenzioni la scippassero a tutti, questa data, per consegnarla, trasfigurata e imbalsamata, “costituzionale”, alla Storia. Perché, è vero, andrebbe istituito, l’8 settembre, come festa nazionale. Ma a fianco di san Francesco e santa Caterina, san Gennaro e santa Chiara. Come queste, dovrebbe essere una data protettrice popolare, un sant’otto settembre, una ricorrenza in cui chiedere grazie e miracoli, portare a spalla una qualche “macchina”, appendere ex voto, fare pellegrinaggi e comitive. Non si scherza coi santi e in questo caso non si scherzerebbe neanche coi fanti. Perché l’8 settembre è la data dei chiunque, è la data di “quelli in basso” lasciati allo sbando e alla mercé degli eventi, mentre la “classe dirigente” fugge o decide di farsi proteggere da un qualche straniero. Così, all’inizio dell’estate, non appena gli Alleati cominciano a sbarcare e le bombe americane – che sono liberatrici, e non doveva essere facile capirlo lì per lì – cadono copiose il 19 luglio sul quartiere di san Lorenzo a Roma, devastandolo, sovrani e corte, governo, generali e burocrati “di rango” scappano portandosi dietro l’argenteria di famiglia o quanto hanno arraffato nel tempo e che riescono a stipare in fretta e furia tra i bagagli; mentre il lupo nazista, che non ha mai smesso di arrotare i denti, comincia a guardarci come il pranzo che ha ingrassato con lo sguardo e finalmente è da sbranare. Affonderà i denti, il 16 ottobre, nel ghetto. E poi ancora alle Fosse Ardeatine. E ovunque in Italia sarà l’orrore. Nel miserabile corteo di automobili che il 9 settembre portava i Savoia e la loro corte da Villa Ada verso Pescara non c’era neppure l’ambigua disperazione della fuga interrotta a Varennes di Luigi XVI e Maria Antonietta – l’evidenza del crollo d’un mondo millenario di certezze e un ultimo tentativo di preservarle, salvando la propria regale testa. Perché questo è in definitiva l’8 settembre: la vera metafora collettiva, il vero paradigma di questo paese, la vera festa nazionale, dove, quando c’è una emergenza, “in alto” ci si preoccupa del proprio culo e si arraffa e stipa in fretta e furia quanto si può e “in basso” si comincia a pregare e arrangiare senza sapere a che santo votarsi. Quando c’è una emergenza, una catastrofe, un fuggi fuggi. Ma in questo paese il fuggi fuggi, l’emergenza, la catastrofe è pane quotidiano. Ossessiva ricorrenza. Porta Pia, il Piave, Vittorio Veneto, quelle sono le date buone da mandare a memoria da ragazzini, quelle “patrie” dove aleggia una qualche Vittoria, una breccia da sfondare, una trincea tenuta sino allo spasimo, una linea nemica conquistata. Ma l’8 settembre, no, questa lasciatecela: quella è l’Italia della “fuga”, della rotta, del tutti a casa. La Caporetto della Politica, dello Stato, del Governo. Delle politiche, degli stati, dei governi. Un evento tanto italiano. Degli italiani “di rango”, però. Una tenue, e anche un po’ invereconda, giustificazione “storica” della fuga dei Savoia starebbe nella paura della ritorsione dei tedeschi verso la Real Casa dopo la dichiarazione dell’armistizio: salvando se stessi salvavano lo Stato, la possibilità dello Stato. Ma in realtà è agli italiani che sottrassero i loro corpi. E che i corpi degli italiani tutti diventassero carne da macello non li trattenne minimamente. Avessero preso sputi e pernacchie, i fuggiaschi, molte cose forse sarebbero cambiate, chissà. Tornarono, dopo il 25 aprile, quegli stessi che erano scappati e finirono alla testa delle istituzioni incertamente ricostruite (molti non si peritarono di chiedere gli stipendi arretrati). E anche tutto questo è tanto italiano. I costituzionalisti ci spiegano che la “sovranità” si fonda sui “due corpi del re”, uno è quello trasfigurato, sacrale, istituzionale, che incarna l’autorità e tiene insieme il popolo, e l’altro è quello carnale, reale, che si vede, pure da lontano ma che si sa presente. Quando muore, per preservarne la dignitas, si prepara un doppio cereo. Dev’essere una teoria universale, se Kurosawa ci ha fatto un film straordinario, Kagemusha, raccontando la storia del sosia d’un re che interpretò talmente bene la sostituzione di un corpo da convincersi di incarnare anche l’altro. Forse, i brigatisti che rapirono Moro dovevano pensarla così, ma si trovarono fra le mani il corpo d’un uomo ostinatamente umano, mentre il corpo dello Stato si ritrovava altrove e in fretta rinnegava pure quell’altro, dandogli del matto. I “corpi reali” sen fuggirono, senza lasciarci neppure un sosia. Senza dignitas. Noi non abbiamo mai avuto una patria, per secoli. Per secoli, abbiamo avuto monarchie territoriali, feudi e baronie, ducee e contee, ma mai una patria, mai una nazione. Almeno, non nel senso in cui la descrisse Ernest Renan, nella celebre conferenza, Che cos’è una nazione?, tenuta alla Sorbona l’ 11 marzo 1882: «La nazione è dunque una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni». Ve lo immaginate un plebiscito, nel 1882, da tenere da Pinerolo a Partinico, da Alghero a Santa Maria di Leuca sulla unità della nazione italiana appena costituita e ancora fragile? L’otto settembre finisce l’Italia costruita nel Risorgimento. Forse a quell’Italia – «tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo a questa parte costruito» – pensava Croce. Quell’Italia ancora fortemente improntata di intenzioni, volontà, visioni di ceti dirigenti, ma che era riuscita a intercettare secoli di desideri sociali. Il fascismo però – benché avesse voluto pretenziosamente richiamarsi a quella, intestandosi radici e filiazioni che nulla c’entravano – l’aveva già fatta a pezzi, l’Italia del Risorgimento, col suo impero del piffero, le sue leggi razziali, l’asservimento al tedesco. L’otto settembre in realtà chiude la parabola di Caporetto. Che era stato il primo segnale forte di un fallimento di classe dirigente – sarà solo un destino della Storia, che Badoglio fosse l’uomo di Caporetto e anche quello dell’8 settembre – e dello scollamento dei ceti popolari. A Caporetto furono i soldati a fuggire – stanchi dell’insipienza dei comandi, della follia dei loro ordini, dei massacri che continuavano senza senso. Solo le fucilazioni di massa dei carabinieri riporteranno l’ordine. Solo la violenza fascista riporterà l’ordine. L’otto settembre saranno “i comandi” a fuggire. Ma nessun carabiniere sparerà contro di loro.
Nordisti e sudisti sempre colpa degli altri, risponde Aldo Cazzullo il 5 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera".
Caro Aldo, un ascoltatore di Prima Pagina si è chiesto perché l’Italia non è simile alla Germania sul versante economico. Per l’elevato debito pubblico, è stato risposto. A mio avviso anche per Garibaldi che ha riunito due Italie fondamentalmente diverse. Ce ne rendiamo conto adesso. Le nazioni tedesche sono due: Germania e Austria a motivo della loro origine storica ed economica, e non sentono il bisogno di fondersi. Senza Garibaldi avremmo ancora il regno storico delle Due Sicilie di stampo agricolo e turistico, quest’ultimo in costante ascesa, rimpianto da tanti meridionali. Dall’altra parte avremmo il Nord altamente industrializzato e con un Lombardo-veneto che gareggia con la ricca Baviera, anche in Italia avremmo la nostra Germania. Bruno Mardegan Bellagio (Co)
Caro Bruno, La sua lettera conferma una cosa che ho sempre pensato. La convinzione dei nordisti, secondo cui il Settentrione sarebbe come la Baviera se non fosse gravato dal peso del Sud, va di pari passo con quella dei sudisti, secondo cui il Mezzogiorno sarebbe ricco e felice se il Nord non l’avesse invaso, conquistato, colonizzato. Al di là del fondo di verità che può anche esserci dietro i rispettivi lamenti (una città come Napoli ha sicuramente perso peso politico, demografico ed economico con l’unificazione; il Nord sarebbe sicuramente ancora più ricco senza decenni di Cassa del Mezzogiorno e di assunzioni folli alla Regione Sicilia), le due visioni combaciano perfettamente in un punto: la colpa dei nostri mali non è nostra, ma di altri italiani. È una visione consolatoria, quindi popolare. Piace e va di moda, perché è una delle cose che molti italiani amano sentirsi dire. Ma è sbagliata e alla lunga controproducente: perché se i nostri problemi non dipendono da noi, allora non possiamo fare nulla per risolverli. Mi ostino invece a credere in un’Italia unita che esce dalla crisi tutta insieme. Ma — e su questo sono d’accordo con lei — visti i tempi è sempre più difficile.
Esistono gli Italiani? scrive FunnyKing il 20 luglio 2014 su "Rischio Calcolato". La domanda non è provocatoria. Ovvero, nell’espressione geografica comunemente conosciuta e chiamata “Italia”, non vi è dubbio che ufficialmente esista ed eserciti il monopolio della violenza un soggetto conosciuto sotto il nome di “Repubblica Italiana”. Ma gli italiani come popolo esistono davvero? E se esistono sono la maggioranza dei residenti all’interno dei limiti territoriali millantati dall’entità conosciuta come “Repubblica Italiana”. Dunque all’interno dell’entità “Repubblica Italiana” ovvero entro i suoi presunti confini vivono persone, uomini donne e bambini ed anno una lingua più o meno comune, una passione maggioritaria per il giuoco del calcio, una serie infinita di sfrenati campanilismi che si spingono da quelli regionali a quelli delle singole città, fino ai quartieri e alle singole vie (e non mi stupirei si arrivasse ai caseggiati). Essi, costretti dalla legge, chi più chi meno (e se ci riescono) pagano le tasse e sono dediti principalmente ad una singola vera passione nazionale: fare esclusivamente i propri interessi, o al massimo quelli della propria famiglia o clan. Il tratto squisitamente individualista dei residenti nell’entità “Repubblica Italiana” è tanto più evidente quanto più i singoli hanno successo, e si mimetizza in finto socialismo per coloro che per sfortuna o demerito non raggiungono il successo personale. Nel senso che questi ultimi trovano conveniente coalizzarsi (temporaneamente) per espropriare parte o tutto del “successo” ottenuto dai loro co-residenti più bravi o fortunati.
Si noti come in questa definizione ci finisca sia il Brambilla con la Fabbrichetta e il conto nel paradiso fiscale, come il tipico comunista/socialista fino a quando i soldi li mettono gli altri. Insomma tutte le sfumature di grigio da un estremo all’altro.
Ora. In una situazione come questa credo sia perfettamente inutile aspettarsi un sussulto nazionale, uno sforzo di miglioramento collettivo, un cambiamento tedesco (questa è la mia personalissima utopia, lo so bene). Solo una guerra persa e il completo disastro per tutti, ha fatto vivere per un brevissimo periodo qualcosa che potesse davvero essere definito Stato Italiano, quei pochi anni dell’immediato dopoguerra e la fase costituente. Poi più nulla, 60 anni di guerra fra singoli, clan, famiglie e consorterie varie. Però i residenti nell’espressione geografica comunemente chiamata “Italia” hanno anche un altro tratto comune, sono individualisti e geniali. E lo dimostrano in tutto il mondo, ovunque sono andati a mettere radici. E tanto più la nazione nella quale si sono stabiliti ha i tratti della “grande nazione” con un nocciolo culturale comune che la tiene insieme, buone leggi, stabilità e ordine essi prosperano. Proprio perchè si trovano nella situazione di potersi fare bene gli “affari propri”, senza che qualche loro simile stia al governo.
Avete fatto caso al fatto che in i residenti e i nativi dell’espressione geografica conosciuta sotto il nome di Italia a fianco di una miriade di fantastiche e geniali piccole aziende e imprese non sono quasi mai riusciti a creare un colosso multinazionale? Pensateci bene. Esistono davvero gli Italiani. Io vorrei che esistessero, ma il che presupporrebbe una coscienza comune e una responsabilità civile collettiva, e siccome quello che vorrei io o che vorreste voi è irrilevante di fronte alla realtà dei fatti, probabilmente meglio sarebbe polverizzare l’espressione geografica generalmente conosciuta sotto il nome di “Repubblica Italiana” o “Italia” in molte entità con leggi proprie e più confacenti ai Clan e alle Famiglie o agli individui che le popolano. Per inciso esisterebbe un valido esempio, e non a caso li si è formato il grandioso pensiero del filosofo più rappresentativo della cultura media e mediana dei residenti nell’espressione geografica chiamata Italia. Tale grandioso filosofo giustamente siede in parlamento e dovrebbe presto essere fatto Senatore a vita. Il suo unico e semplice enunciato, che definisce alla perfezione 60 milioni di persone è: Te lo dico da amico, fatti li cazzi tuoi (Antonio Razzi docet)
Gli italiani non esistono. Siamo un grande mix genetico. Tranne i Sardi. La distribuzione genetica in Italia per linea paterna. La penisola dal punto di vista genetico è divisa da una linea che separa più Est da Ovest che Nord da Sud. L’unica che fa storia a sé è la Sardegna, scrive Luigi Ripamonti il 3 maggio 2018 su "Il Corriere della Sera". Gli Italiani? Non esistono. «Si tratta solo di un’aggregazione di tipo geografico. Abbiamo identità genetiche differenti, legate a storie e provenienze diverse e non solo a quelle» spiega Davide Pettener, antropologo del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, che ha creato una banca di campioni di Dna per tracciare la storia genetica degli Italiani insieme a Donata Luiselli del Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna e collaboratori, Lo studio rientra in un progetto mondiale finanziato dalla National Geographic Society.
Maschi e femmine. «Coinvolgendo i centri di donazione Avis abbiamo raccolto 3 mila campioni di sangue di italiani provenienti da tutte le regioni» racconta Pettener. «Di questi ne abbiamo per ora utilizzati circa 900. Ogni persona coinvolta doveva avere i 4 nonni provenienti dalla stessa provincia. I primi dati, pubblicati sulla rivista PlosOne, hanno riguardato i cosiddetti marcatori uniparentali: il cromosoma Y, trasmesso per via paterna e il Dna mitocondriale, per via materna». Risultato? «Si pensa in genere che la variabilità genetica in Italia segua un cambiamento graduale secondo un asse Nord-Sud— spiega l’esperto— Invece, dal punto di vista del cromosoma Y (linea paterna), emerge, a parte la Sardegna, un’Italia divisa secondo una linea più longitudinale, che separa una zona nord-occidentale da una sud-orientale. Ciò non si osserva però con il Dna mitocondriale (linea materna), che ha una distribuzione più omogenea, spiegabile con la maggiore mobilità femminile legata a pratiche matrimoniali che prevedevano lo spostamento della donna. Il quadro complessivo è frutto di spostamenti lungo due traiettorie diverse iniziati nel neolitico, con l’avvento delle tecnologie agricole e dell’allevamento, Nei periodi successivi è successo di tutto: Germani, Greci, Longobardi, Normanni, Svevi, Arabi sono passati lasciando i loro geni».
Malattie. La storia genetica degli Italiani, però, non è stata influenzata solo dalle migrazioni. Anche l’adattamento alle diverse pressioni selettive è stato determinante, influenzato la suscettibilità a malattie diverse. A sancirlo è un altro studio, pubblicato su Scientific Reports, coordinato dal gruppo di Antropologia Molecolare e Adattamento Umano del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali (BiGeA) dell’Università di Bologna. «L’evoluzione delle popolazioni dell’Italia settentrionale è stata condizionata da un clima freddo, che ha reso necessaria una dieta molto calorica e grassa» spiega Marco Sazzini, ricercatore del BiGeA. «La selezione naturale ha favorito in queste popolazioni la diffusione di varianti genetiche in grado di modulare il metabolismo di trigliceridi e colesterolo e la sensibilità all’insulina, riducendo il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete. Clima diverso e contributo genetico di altre popolazioni mediterranee hanno fatto sì che gli abitanti dell’Italia centro-meridionale mantenessero più diffusamente varianti genetiche responsabili di una maggiore vulnerabilità a tali malattie». Oltre al clima e alla dieta un altro fattore che ha indirizzato gli adattamenti genetici degli Italiani, soprattutto in Sardegna e nell’Italia centro-meridionale sono le malattie infettive. In Sardegna, ad esempio, la malaria ha rappresentato una delle principali pressioni ambientali, mentre nel Sud la selezione naturale ha potenziato le risposte infiammatorie contro i batteri di tubercolosi e lebbra, le quali potrebbero però essere una delle cause evolutive alla base di una maggiore suscettibilità a patologie infiammatorie dell’intestino, come per esempio il morbo di Crohn.
Il caso della Sardegna. A proposito di Sardegna, un aspetto interessante di questi studi è quello relativo all’analisi delle popolazioni isolate. «I Sardi» sottolinea Pettener, «si differenziano da tutte le popolazioni italiane ed europee. Mentre la Sicilia è stata un hub per tutte le popolazioni mediterranee, la Sardegna conserva le più antiche tracce non avendo subito invasioni e si è differenziata da tutte le popolazioni europee al pari di Baschi e Lapponi. «Lo studio delle popolazioni isolate, come e più della Sardegna, per esempio come quella Arbëreshë (le popolazioni di lingua albanese stanziate in alcune zone del Sud), i Ladini, sparsi nelle valli delle Dolomiti, i Cimbri dell’Altopiano di Asiago o i Grichi e i Grecanici del Salento e della Calabria è interessante perché ci permette di vedere come eravamo, presumendo che ci siano stati pochi innesti nel tempo di Dna differente. Una vera macchina del tempo».
I cittadini italiani non esistono. Altro che Unità... La verità nei geni, scrive Venerdì, 10 gennaio 2014 Affari Italiani. Altro che Unità d'Italia. A leggere il dna degli italiani, sembra quasi che il Risorgimento non ci sia mai stato e che Garibaldi e i suoi Mille, girando per le campagne abbiamo fatto più un passeggiata che una conquista. Per non parlare poi del fenomeno immigrazione dal sud al nord d'inizio Novecento: nelle patrimonio dei cittadini tricolore, la massa che dal Meridione si è spostata nell'operoso nord non ha lasciato tracce. L'effetto che si scopre analizzando il dna degli italiani e che la diversità che c'è tra i sardi e le popolazioni delle Alpi è maggiore di quella che c'è tra portoghesi e ungherese, praticamente ortogonali nella geografia europea. Infine, ed è la “mazzata finale” per i teorici delle razze: difficile sostenere che esista un ceppo italico: a leggere le caratteristiche della nostra evoluzione, sembriamo uno dei Paesi in cui l'effetto straniero abbia maggiormente inciso. Insomma, un porto di mare per genti di tutte le razze. A rivelare che duecento anni di unioni e figli e un governo unico del Paese non hanno modificato granché il patrimonio individuale è uno studio coordinato dall'Università di Roma La Sapienza. Un team di ricercatori della Sapienza, coordinato dall’antropologo Giovanni Destro Bisol, in collaborazione con gruppi di ricerca delle Università di Bologna, Cagliari e Pisa, ha messo in luce che le popolazioni italiane sono estremamente eterogenee da un punto di vista genetico, tanto da poter paragonare la loro diversità a quella che si osserva tra gruppi che vivono agli angoli opposti dell’Europa. L'altra faccia del rovescio della medaglia dello studio è che almeno per quanto riguarda il patrimonio genetico siamo uno dei Paesi più ricchi d'Europa. Non aiuterà lo spread, ma almeno è un record positivo. Alla base di questa diversità c’è un motivo comune e cioè l’estrema estensione latitudinale dell’Italia. La varietà degli habitat che si trovano lungo la dorsale della nostra penisola favorisce la varietà di piante e animali ospitati nel nostro territorio. D’altro canto per le sue caratteristiche geografiche l’Italia sin da tempi antichissimi ha rappresentato un corridoio naturale per i flussi migratori provenienti sia dall’Europa centrale sia dal Mediterraneo: nel caso dell’uomo hanno contribuito alle diversità tra popolazioni anche le differenze culturali (in primis linguistiche), creando un ulteriore fattore di isolamento rispetto a quello geografico. In entrambi i casi, il risultato finale è la creazione di un “pattern” davvero unico in Europa. L’accento sull’importanza degli aspetti culturali non è casuale, ma deriva da quello che i ricercatori considerano un aspetto particolarmente originale del loro studio: avere incluso nell’indagine, oltre a popolazioni ampie e rappresentative di città o di grandi aree (ad esempio L’Aquila oppure Lazio), anche gruppi di antico insediamento come le “minoranze linguistiche” (Ladini, Cimbri, e Grecanici), portatrici di aspetti culturali e sociali peculiari nel panorama italiano. Sono proprio alcuni di questi gruppi, come nel caso delle comunità “paleogermanofone” e ladine delle Alpi oltre a gruppi della Sardegna, che contribuiscono in maniera determinante alla notevole diversità osservata in Italia. Un dato tra tutti: se si considerano ad esempio i caratteri trasmessi dalla madre ai figli di entrambi i sessi (e cioè il DNA mitocondriale), comparando la comunità germanofona di Sappada, nel Veneto settentrionale, con il suo gruppo vicinale del Cadore, o quella di Benetutti in Sardegna con la Sardegna settentrionale, l’insieme delle differenze genetiche calcolate è di 7-30 volte maggiore di quanto si osserva perfino tra coppie di popolazioni europee geograficamente 20 volte più distanti (come Portoghesi e Ungheresi oppure Spagnoli e Romeni). “I nostri dati - spiega Giovanni Destro Bisol che ha curato la ricerca – testimoniamo come fenomeni migratori e processi di isolamento che hanno coinvolto le minoranze linguistiche, per la maggior parte insediatesi nel nostro territorio prevalentemente tra il medioevo e il diciannovesimo secolo, abbiano lasciato testimonianza non solamente nei loro aspetti culturali (alloglossia, aspetti della tradizioni e del folklore,) ma anche nella loro struttura genetica”. “Questo studio ci lascia anche una riflessione che va aldilà della dimensione strettamente scientifica e investe l’attualità” conclude Destro Bisol “…sapere che l’Italia, indipendentemente dai flussi migratori recenti, è stata ed è tuttora terra di notevole diversità sia culturale che genetica, può aiutarci ad affrontare in maniera più serena un futuro pieno di occasioni di incontro con i portatori di nuove e diverse identità”.
Gli italiani non esistono, scrive l'11 aprile 2010 Eva Danese. Ho deciso di rendere nota la mia traduzione di un articolo svedese riguardante l’Italia, pubblicato poco prima delle nostre elezioni regionali. Perché ho deciso di sottoporlo alla vostra attenzione? Prima di tutto, perché può essere sempre interessante conoscere punti di vista esterni o alternativi su qualsiasi situazione, compresa quella italiana. Secondo, per stimolare in voi una riflessione e magari, perché no, per conoscere le vostre sensazioni a riguardo. Che ve ne pare? Buona lettura!
“Gli italiani non esistono” di Kristina Kappelin, pubblicato il 27 marzo 2010 sul quotidiano svedese “Sydsvenskan”. Il treno da Salerno a Roma è ovviamente in ritardo. Quando finalmente entra in stazione è infinitamente lento. E’ partito da Palermo stamattina alle sette. Ora sono le quattro del pomeriggio. Praticamente è avanzato sui malridotti binari a una velocità media di 80 kilometri orari. Le cabine sono degradate e i sedili così sporchi che quasi si è restii sedersi. La situazione rispecchia il razzismo che ancora esiste in Italia. I ferrivecchi servono per i viaggi verso il sud, mentre i vagoni nuovi e belli si dirigono da Roma verso il nord. Ci sono voluti anni e anni per fare arrivare il treno rapido Eurostar a Napoli e a Bari. Eppure va ancora più lentamente nella tratta Milano-Torino. “L’Italia è fatta. Ora dobbiamo fare gli italiani”. Più o meno così scrisse il capo di stato Massimo d’Azeglio nel 1860. È ancora vero. Gli italiani si sentono patrioti solamente in occasione dei mondiali o delle olimpiadi. Altrimenti sono ancora prima di tutto siciliani, lombardi o veneziani. Si noti che gli sportivi italiani non gareggiano indossando i colori della bandiera italiana, ma l’azzurro, il “blu Savoia”, un tempo il colore della famiglia reale. Insomma, quanto sono uniti gli italiani? Il paese si prepara a celebrare i suoi primi 150 come nazione il prossimo anno. La dichiarazione di unità è datata 17 marzo 1861. Il conto alla rovescia è già cominciato. Uno dei siti prescelti per i festeggiamenti è Torino. La città fu la capitale durante i primi quattro anni. Divenne anche rapidamente il centro industriale del paese, più che altro grazie alla Fiat. Quando coloro che cercavano lavoro dal sud prendevano il treno verso il nord per trovarne impiego nelle fabbriche di automobili, si andavano a scontrare con il dramma degli italiani che non erano ancora “fatti”. Il lavoro lo ottenevano. La residenza andava male. “Stanze in affitto, ma non ai cani e ai meridionali” si vedeva scritto su molti cartelli. Torino è il capoluogo del Piemonte. Quando l’Italia nel fine settimana andrà al voto per le regionali, avrà fra i candidati Roberto Cota, del partito settentrionale “Lega Nord”. Il partito conduce una politica contro gli extracomunitari così come contro i meridionali e vuole fare dell’Italia uno stato federale. Il sogno è che il nord Italia diventi un piccolo regno a sé, con il fiume Po come confine meridionale. Cota ha buone probabilità di vincere. La Lega Nord potrebbe prendere il posto del partito di Berlusconi, il Popolo della Libertà, nelle regioni del nord. Gli italiani, fino ad oggi, non sono ancora stati “fatti”. Mentre il vecchio treno lentamente si avvicina a Roma, vedo il paesaggio campano, con le sue costruzioni abusive, e i mucchi di spazzatura fra i peschi in fiore. L’Italia del sud avrebbe avuto lo stesso problema di criminalità organizzata oggi se gli italiani fossero stati “fatti”, se tutto il paese si riconoscesse nella Costituzione, se la politica fosse considerata giusta e i politici onesti? La bandiera italiana sventola sulla stazione di Formia. È verde, bianca e rossa come il basilico, la mozzarella e il pomodoro. Una cosa sulla quale la maggior parte degli italiani vanno d’accordo.
Guerra ai briganti, non alle mafie. Una politica scellerata e disastrosa. Enzo Ciconte ricostruisce le vicende della repressione spietata del banditismo in Italia (Laterza). Il 6 settembre l’autore dialoga con Gian Antonio Stella al Festivaletteratura, scrive Gian Antonio Stella il 5 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Uno scontro tra briganti e soldati in un dipinto realizzato dal francese Horace Vernet durante il suo soggiorno in Italia. «C’è un diffuso mercato delle teste. È abituale trovare in vari tribunali ambigui figuri che si aggirano con capienti ceste piene di teste tagliate e messe sotto sale perché si conservino meglio e più a lungo». Gela il sangue il racconto di Enzo Ciconte sui momenti più bui della guerra al brigantaggio. Quando, appunto, era in vigore in vari Stati italiani «la regola che, ucciso un bandito e portata la sua testa al podestà, si aveva diritto a scegliere tra una taglia proporzionata alla nomea della vittima e la cancellazione del bando a carico di un parente, di un amico o di un servitore». La testa di un bandito per la libertà di un altro. Ammesso che il decapitato fosse sul serio un brigante e non un poveretto messo a morte perché spiantato, come un certo Antonio Benaglio che il Consiglio dei Dieci veneziano ordinò ai rettori di Bergamo di arrestare «trattandosi di sogeto di conditione vile et consuetudinario nei delitti li soli inditii bastano per ordinarne la retentione». Fu spietata e disumana, per secoli, soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo, la repressione dei «briganti», criminali o idealisti che fossero, di cui parlerà oggi lo storico calabrese presentando a Mantova il libro La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza). Basti ricordare che quasi tre secoli prima dell’eccidio degli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, il peggior crimine compiuto dalle truppe italiane dopo l’Unità, Papa Sisto V era stato così duro nel «metter ordine» che, scrive la Treccani, «il noto avviso del 18 settembre 1585» ironizzava che «quell’anno erano state esposte più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato». «Per distruggere il brigantaggio abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi: ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato», ammonì Paquale Villari. Certo, non tutti furono ciechi. Il deputato milanese Giuseppe Ferrari, raggiunta faticosamente Pontelandolfo, denunciò in Parlamento già nel 1861: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente; mi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri…». Tutti sordi. E così, spiega Ciconte, «esiste un numero sterminato di libri o articoli che hanno descritto le efferatezze, la crudeltà, gli eccidi, le stragi, gli episodi di gratuita e selvaggia violenza dei briganti» e insieme, per citare Giuseppe Galasso, «pagine e pagine di romanzieri o di storici» che al contrario li descrivono «come eroi, uomini senza paura in grado di tenere testa ai potenti del tempo, giovani affascinanti con un grande sprezzo del pericolo», al punto che «le figure dei briganti e le loro gesta sembrano essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali». Ma «come si conciliano o si spiegano due letture così opposte e divergenti?» Risposta non facile. A volte i briganti furono davvero dei ribelli che via via combattevano le angherie spagnole, francesi, borboniche, savoiarde… Altre erano disperati oppressi dalla fame, altre ancora criminali calzati e vestiti o un impasto degli uni e degli altri. La grande mattanza si concentra però non sui vinti (torto o ragione che avessero), ma sulla belluina «ferocia di Stato» dei vari repressori. Che dichiaravano d’aver tutti lo stesso obiettivo: «Il Terrore. Seminare il Terrore». Ed ecco le teste mozzate riposte in piccole gabbie di cui scrive Édouard Gachot parlando di «cinquecento gabbie esposte lungo la strada per Napoli». E l’ordine di Gioacchino Murat: «È una guerra di sterminio che voglio contro questi miserabili!» E l’invettiva del generale Manhès contro gli abitanti di Serra San Bruno: «Vivrete come i lupi delle vostre foreste. Voi donne, genererete figli che vi saranno aspidi!» E la lettera del generale Morozzo Della Rocca a Cavour: «Un po’ di metodo soldatesco è medicina salutare a codesto popolo». E certi messaggi da brivido: «La testa di Palma mi giunse ieri verso le sei e mezzo. È una figura piuttosto distinta e somigliante ad un fabbricante di birra inglese. La testa l’ho fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito…». Solo le mafie, sostiene l‘autore de La grande mattanza, furono lasciate in pace: «Negli anni cruciali della costruzione dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria. Con i moderni agglomerati mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione…». Una scelta scellerata, «le cui conseguenze arrivano sino a noi».
La prima guerra civile italiana. Nel nuovo speciale di Storia in Rete (allegato al numero di giugno della rivista a euro 9,90) intitolato Savoia vs Borbone si mettono a confronto le posizioni di alcuni storici su un tema molto caldo: il Risorgimento, scrive Matteo Sacchi, Sabato 23/06/2018, su "Il Giornale". Nel nuovo speciale di Storia in Rete (allegato al numero di giugno della rivista a euro 9,90) intitolato Savoia vs Borbone si mettono a confronto le posizioni di alcuni storici su un tema molto caldo: il Risorgimento. Il volume contrappone le ragione dell’Unità d’Italia con quelle di chi sostiene che il Regno delle Due Sicilie ebbe solo a perdere dall’annessione alla Monarchia sabauda. Qui abbiamo sintetizzato, per quanto possibile, gli argomenti presentati dai due «schieramenti». La rivista presenta interventi e interviste tra gli altri di: Pino Aprile, Alessandro Barbero, Sergio Boschiero, Gennaro De Crescenzo, Gigi Di Fiore, Dario Marino, Emanuele Mastrangelo, Aldo A. Mola, Pierluigi Romeo di Colloredo. Il dibattito resta aperto.
Altro che briganti, fu una resistenza contro un'invasione. Quali sono gli argomenti più forti di coloro che sostengono che il Regno delle Due Sicilie con l'ingresso nel regno di Italia ebbe - economicamente, socialmente - solo da perderci? Lo speciale di Storia in rete intitolato Savoia vs Borbone ne fa una belle cernita, attingendo alle opere di molti degli autori più noti nell'aver cercato percorsi diversi da quelli della storiografia più battuta sul Risorgimento: da Gennaro De Crescenzo a Pino Aprile passando per Gigi di Fiore. Partiamo dall'economia. Per quanto la pubblicistica inglese, sin dalle lettere di William Ewart Gladstone del 1851, descriva il regno borbonico come un luogo arretratissimo, gli storici che rivalutano i Borbone pongono l'accento su quelli che secondo loro sono chiari segni di sviluppo del Regno. Il più noto è il primato ferroviario della Napoli-Portici, la prima strada ferrata della Penisola (lunga 7,5 chilometri) del 1839. Ma sono molte le industrie specializzate del Sud, spesso nate direttamente con patrocinio Reale, che sono state riscoperte negli ultimi anni: le Reali Officine di Mongiana (armi), una cantieristica sviluppata, il perfezionamento a livello altissimo delle tecniche di produzione delle ceramiche... Si pone anche molta attenzione ai dati statistici che - pur con l'affidabilità limitata dell'epoca - lasciano in più casi intendere come i livelli occupazionali del Sud erano più alti di quelli di alcune regioni del Nord; e anche l'apporto alimentare medio era maggiore. Tutti dati che, invece, precipiterebbero verso il basso dopo «l'occupazione» piemontese. Una occupazione che, secondo la maggior parte di questi autori, si sarebbe volta rapidamente in predazione di ricchezze. Secondo alcuni, come Pino Aprile (lo ha sostenuto nel suo saggio Carnefici, 2016), addirittura in un vero e proprio genocidio. I metodi utilizzati contro i «briganti» (etichetta che funzionava benissimo per delegittimare i sostenitori del passato regime) furono quanto mai brutali. Ed è questo uno di quei temi in cui la storiografia che potremmo definire «borbonica» è riuscita a mettere in piena luce episodi che, indubbiamente, furono molto violenti. Un esempio può essere il caso della distruzione dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni. Nei pressi dei due abitati un contingente di 40 bersaglieri e 4 carabinieri, nel giugno del 1861, venne aggredito da bande di legittimisti sostenute dagli abitanti locali. I soldati del Regno d'Italia vennero prima costretti alla resa e poi massacrati (si salvarono soltanto in due). La risposta del generale Cialdini a questo atto, inumano anche per i criteri del tempo, fu ancora più inumana. Ordinò di fare terra bruciata, distruggendo completamente le due località. Gli ordini prevedevano non venissero passati per le armi donne e bambini. Ma andò diversamente...Il livello di violenza dello scontro tra «briganti» e truppe regie fu altissimo. Come è chiaro che la tassazione elevata e la mancata eliminazione del latifondo colpirono duramente la popolazione meridionale. Secondo molti storici i quali rivalutano l'amministrazione borbonica, gli effetti furono così gravi da spiegare il calo demografico che, secondo la documentazione disponibile, sembrerebbe caratterizzare buona parte del territorio meridionale. Il genocidio di cui appunto parla Pino Aprile. A questo andrebbero sommate politiche chiaramente volte a favorire le industrie del Nord del Paese e a far gravare tutti i costi del conflitto sugli «sconfitti». Abbastanza, secondo alcuni, per attribuire il divario nord-sud non a una situazione preesistente ma proprio dalle scelte portate avanti da Casa Savoia e dai suoi ministri intenti a trattare il Sud alla stregua di una colonia, più che di un «pezzo» di una nazione unitaria.
La povertà meridionale era già lì, Savoia l'unico futuro. Alcuni dei dati presentati dalla storiografia che potremmo definire, semplificando un po', «pro borbonica» vengono accettati anche dagli storici che continuano ad attribuire un valore essenzialmente positivo al Risorgimento. A cambiare è semmai il modo in cui vengono valutati. Come si capisce bene leggendo gli interventi sullo speciale di Storia in rete di Aldo A. Mola o Pier Luigi Romeo di Colloredo. Partiamo proprio dalla Napoli-Portici su cui ritorna Romeo di Colloredo. Il primato è indubbio. Peccato che poi le ferrovie del Regno delle Due Sicilie abbiano continuato a crescere a ritmo lentissimo e prima dell'Unità sia stata realizzata solo un'altra novantina di chilometri di binari. Al Nord nel frattempo la crescita era diventata frenetica con centinaia di chilometri realizzati ogni anno. E il Regno d'Italia in seguito portò il ritmo della produzione ferroviaria a quasi 400 km l'anno nel primo decennio post unitario. Le industrie del Sud avrebbero poi prosperato soprattutto in regime protezionistico e quindi sarebbero state ontologicamente fragili. Questa fragilità di base, figlia di iniziative tutte fatte dall'alto, sarebbe stata la causa del loro deperimento, non la rapacità piemontese. Quanto alla felicità dei sudditi borbonici: spiegherebbe poco i 220 calabresi morti combattendo a fianco di Garibaldi e i moltissimi siciliani che scelsero subito di schierarsi con la spedizione dei Mille. Quanto al brigantaggio, si insiste sul fatto che esistesse ben prima dell'arrivo dei Savoia e che fosse il risultato dell'arretratezza economica di quei territori che erano tutt'altro che felici anche sotto i Borbone. Un esempio? Nel 1828 il Cilento si rivoltò. Il motivo? La tassazione troppo alta. Il risultato finale? Il villaggio di Bosco da cui era partita l'insurrezione venne distrutto e dato alle fiamme dalle truppe borboniche. Insomma una situazione pre-esistente che dopo l'unità ha preso semplicemente un'altra direzione. Aldo A. Mola insiste invece molto sul fatto che il Regno delle Due Sicilie non è stato travolto dai Savoia ma semplicemente era inevitabilmente destinato all'estinzione. L'Europa intera stava andando verso lo sviluppo di Stati nazionali. E i Borbone erano politicamente isolati e fragili. Sarebbe bastato Garibaldi da solo con i suoi 40mila volontari e la vittoria del Volturno (2 ottobre 1860) a determinare la fine del Regno delle Due Sicilie. Le cui classi dominanti aderirono molto rapidamente al nuovo Regno d'Italia, ottenendo un'ampia rappresentanza politica d parlamentare. E qui si entra nella parte più calda del dibattito, quella sul genocidio. Per la maggior parte degli storici accademici il crollo demografico del Sud è solo apparente e dipende in buona sostanza dal fatto che i rilevamenti demografici borbonici erano realizzati in modo sostanzialmente approssimativo. Non è possibile rintracciare, almeno secondo Emanuele Mastrangelo, che ribatte direttamente alle tesi di Pino Aprile, una qualunque volontà specifica del Governo italiano sabaudo di colpire la popolazione del Sud. Esiste la questione del brigantaggio certo, causò migliaia di vittime, ma niente di paragonabile ad altri casi europei coevi di insorgenza, come le guerre carliste in Spagna (1833-1840 e 1872-1876)). Ampio spazio è anche dato alla vicenda del forte di Fenestrelle dove vennero imprigionati (tra il 1860 e il 1870) i militari fedeli ai Borbone e che negli ultimi anni è stato spesso definito come un «lager». A partire da Alessandro Barbero, sono molti gli storici che hanno ridimensionato i termini della durezza carceraria a cui vennero sottoposti i prigionieri. La loro non fu certo una vacanza ma non risultano affatto le migliaia di morti (per alcuni 40mila), citate da alcune fonti, si ridurrebbero a circa 40 in cinque anni. Si sarebbe passati dall'oblio al mito senza tappe intermedie.
Lo Stato nemico dei briganti e amico dei mafiosi, scrive il 20 giugno 2018 su "La Repubblica" Enzo Ciconte, Storico. Perché il Regno d’Italia, nato a seguito dell’impresa di Garibaldi e dei suoi Mille, sin dall’inizio sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione con camorra e mafia – che altro non sono che gruppi di uomini che si organizzano e decidono di agire contro le leggi usando la violenza per ottenere potere e ricchezza – mentre invece combatte i briganti fino alla loro sconfitta finale? È una scelta precisa: lo Stato combatte i briganti fino alla loro distruzione mentre per il fenomeno mafioso imbocca la strada opposta della tolleranza e della convivenza i cui effetti si prolungheranno fino ai nostri giorni. La scelta è fatta per assecondare i desideri della grande proprietà terriera meridionale che non accetta di venire incontro alle richieste dei contadini di avere almeno uno spicchio di terra delle immense distese di terreni demaniali usurpati con l’inganno dai galantuomini. Queste erano le terre richieste, mentre non c’erano rivendicazioni su quelle dell’aristocrazia il cui possesso legittimo non era posto in discussione. Ma la grande paura avvinse gli uni e gli altri preoccupati del fatto che, intaccate le proprietà degli usurpatori, si finisse col prendere di mira anche le altre proprietà. La conseguenza fu che tutte le richieste contadine furono respinte. E ciò alimentò il grande brigantaggio sociale che spinse alla macchia gran parte dei contadini che avendo occupato le terre temevano di finire in prigione. Nel fenomeno del brigantaggio, oltre ai criminali, ci furono anche coloro che sognavano il ritorno al potere della dinastia dei Borbone. Ma il brigantaggio di marca borbonica e clericale è durato un paio d’anni; s’è spento ben presto nell’illusione di far risorgere due regni – quello dei Borbone e quello del papa – che non sarebbero più tornati. Persino il generale Govone, uno degli ufficiali più noti di quel periodo, ha colto la radice sociale del fenomeno scrivendo che il brigantaggio era “una vendetta sociale la quale talora si applica con qualche giustizia”. I proprietari si sentirono minacciati dai briganti e protetti dai militari mentre i mafiosi erano visti, dagli stessi proprietari, come persone con le quali si poteva trattare e raggiungere un accordo. La lotta al brigantaggio è affidata con ampia delega ai militari che mostrano la loro inadeguatezza ad affrontare un nemico che usa i metodi della guerriglia invece che quelli insegnati nelle accademie militari più prestigiose e moderne. La carica in terreno aperto era un sogno irrealizzabile e le bande brigantesche erano favorite perché conoscevano i posti, i boschi e gli anfratti delle montagne. Il potere affidato ai militari ha determinato nei fatti la supremazia sulle autorità civili, prefetti e magistratura compresa. Hanno origine ben presto conflitti tra apparati dello Stato che si manifestano nei primi anni del nuovo Regno e che prelude ad altri, più impegnativi, conflitti. Durante il primo decennio della destra storica si sospendono le garanzie costituzionali per ragioni d’ordine pubblico. Non tutti erano d’accordo, ci furono discussioni e fondati dubbi sulla legalità dei provvedimenti che non vengono bloccati perché riguardano il Mezzogiorno; circostanza, questa, che rese la prima sperimentazione, che è una soluzione di forza, accettabile, o quasi. Eppure, nonostante un dispiegamento impressionante di militari, gli stati d’assedio e l’adozione di leggi eccezionali come la legge Pica, cresce e si rafforza la convinzione nei vertici militari – con l’avallo tacito o esplicito dei ministri e di qualche presidente del Consiglio – che per sconfiggere i briganti ci sia bisogno del terrore e di oltrepassare la stretta legalità adottando misure non consentite dalle leggi ordinarie. Nasce da questa convinzione l’idea che occorra dare mano libera ai militari che fucilano un numero enorme di persone, molte delle quali catturate senza armi in mano, arrestano i parenti dei briganti senza consegnarli alla magistratura, oppure uccidono i briganti mentre sono portati da un luogo ad un altro. Ci sono, inoltre, stragi e incendi dei paesi da parte delle truppe. S’introduce nella cultura dei militari – gran parte dei quali sono i parlamentari del nuovo Regno d’Italia – l’idea che i predecessori francesi e borbonici avevano messo in pratica: bisogna dare l’esempio e terrorizzare le popolazioni, fare stragi, bruciare paesi o case, arrestare tutti i parenti dei briganti per il solo fatto di essere parenti. Emergono una concezione e una cultura che s’impadroniscono della concreta azione dei militari, i quali non trovano ostacoli nel governo se non quando non se ne può proprio fare a meno. Questa è la ragione che spiega il fatto che nessuno degli ufficiali superiori, responsabili di stragi, di assassinii, di violazioni della legalità verrà mai punito. I vertici militari e i vertici governativi copriranno sempre chi ha commesso le violazioni. Dunque, nella lotta ai cafoni meridionali emergono i tratti illiberali e la mentalità coloniale di gruppi dirigenti che si definiscono liberali e che nella pratica sconfessano questa loro appartenenza. Un fatto è certo: la lotta, anzi la guerra vera e propria, intrapresa dai poteri costituiti contro banditi e briganti ha riguardato quasi sempre le classi subalterne, infime come vengono definite in alcuni documenti, i contadini affamati e senza terra, i poveri e i poverissimi, i braccianti senza lavoro, i soggetti più deboli. Per queste ragioni ci furono più guerre oltre a quella militare: una guerra civile che ha contrapposto selvaggiamente italiani del Nord e italiani del Sud, una guerra fratricida, paese per paese, di meridionali contro altri meridionali, una guerra di classe tra proprietari e contadini senza terre. Il brigantaggio è stato un fenomeno sociale e di classe che fu trasformato in un problema criminale. È stato un errore tragico che ha segnato la stessa formazione delle classi dirigenti meridionali ed italiane. In quegli anni di sfiducia profonda e di disprezzo verso i meridionali, sentimenti che aveva una parte della classe dirigente nazionale, si inviarono nel Mezzogiorno, oltre ai quadri dell’esercito e dei carabinieri, anche prefetti, questori, magistrati, personale amministrativo d’origine settentrionale perché solo loro avrebbero potuto risolvere i problemi della realtà meridionale, peraltro del tutto sconosciuta ai nuovi arrivati. Ma fu un’illusione che si rivelò sbagliata e dannosa. Il libro: “La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio”, Laterza
Camilleri, Pirandello e Verga e il marciume dell’Unità d’Italia, scrive il 14 ottobre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio On Line". “Quando fu fatta l’unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E ancora oggi è così”. Andrea Camilleri, scrittore siciliano famoso in principal modo per i romanzi aventi come protagonista il commissario Montalbano, da cui è stata prodotta una serie televisiva, pronunciò le parole sopra riportate in un’intervista concessa a Roberto Cotroneo nel 2008, che prendendo le mosse dalla situazione politica di allora, lo scontro tra l’appena nato Partito Democratico guidato da Veltroni e Silvio Berlusconi, ha toccato le corde della questione meridionale e dell’Unità d’Italia. Senza giri di parole Andrea Camilleri denunciò il fatto che il Mezzogiorno non è altro che una colonia destinata a soccombere sempre di più, poiché rende man mano di meno e non può essere utile alla gestione politica quale è dal 1860: “Io penso che nel 2008 l’operazione colonialista, iniziata subito dopo l’Unità d’Italia nei riguardi del Sud, sia arrivata al punto finale: questa colonia del Sud rendendo sempre di meno, sempre di più viene abbandonata a se stessa. E la colonia del Sud è come se non facesse parte dell’Italia, come qualche cosa di aggiunto all’Italia. Però se poi vado a vedere chi costituisce la mente direttiva delle industrie del nord, dell’informazione del nord, mi accorgo che sono dei meridionali. E allora mi sento in dovere di chiedere una quantificazione in denaro delle menti meridionali che promuovono il Nord. Voglio metterlo sul piatto della bilancia. Voglio vedere quanto può valere il cervello di un industriale meridionale che lavora e produce ricchezza al Nord”.
Cervelli del Nord che producono ricchezza al Sud non esistono per Camilleri, il quale ha anche la spiegazione di tale circostanza: “La spiegazione risale al 1860. Quando una rivoluzione contadina venne chiamata brigantaggio. Per cui uccisero 17 mila briganti che non esistono da nessuna parte del mondo. Ed erano invece contadini in rivolta, o ex militari borbonici. Tutto già da allora ha preso una piega diversa. Quando fu fatta l’Unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E ancora oggi è così”. Andrea Camilleri, il maggiore scrittore italiano in vita, parla insomma di colonia interna, di sfruttamento sistematico del Mezzogiorno sin dal momento dell’Unità, di falso Risorgimento che in realtà è stato una guerra di conquista, di storia nascosta. Col passare del tempo il Sud non poteva che diventare inutile, sfruttato ed inquinato, e allora bisogna trasferire le menti al Nord dopo averle opportunamente programmate affinché dimenticassero le proprie radici, una situazione cui non è esente da colpe la classe dirigente locale: “Nell’Ottocento, quando cominciò a sorgere la cosiddetta questione meridionale, c’erano parecchi deputati meridionali che si battevano per la questione meridionale. Oggi si battono per altro, non per la questione meridionale”. Che il neonato Stato Italiano fosse marcio lo avevano rilevato anche altri due grandissimi scrittori siciliani, Luigi Pirandello e Giovanni Verga, i quali, inizialmente entusiasti per quella doveva essere una nuova epoca dorata per la Sicilia cui fu promessa l’autonomia, divennero critici e rinnegarono nei fatti l’Unità d’Italia. Pirandello nacque nel 1867 in una famiglia che aveva partecipato attivamente ai moti risorgimentali, lottando al fianco dei Mille per la liberazione della Sicilia, ma egli manifestò le proprie aspre critiche soprattutto nel romanzo “I vecchi e i giovani”, dove sono a confronto la vecchia generazione, quella protagonista dell’Unità, e la nuova, quella che vive sulle proprie spalle i fatti del 1860. È un’opera il cui fulcro è l’eredità lasciata ai giovani, ma non i giovani del tempo, bensì quelli che sarebbero continuati a nascere nei decenni successivi. Donna Caterina, nel romanzo, afferma: “Qua c’è la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale dei cosìddetti cappelli, le tasse comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane”. Eccoli qui, ma non solo essi, gli ottomila telai di cui parla Andrea Camilleri. È quella che Pirandello chiama “bancarotta del patriottismo”, l’inganno e il fallimento del Risorgimento, l’amara consapevolezza che dietro i Mille vi era ben altro disegno, ben altri burattinai che della Sicilia e, del resto, di tutto il Mezzogiorno, non se ne curavano se non come territorio attraverso cui accrescere la propria posizione, il proprio potere, la propria ricchezza. La critica di Giovanni Verga si dispiega invece nel cosiddetto “Ideale dell’ostrica”, secondo il quale è impossibile migliorare la condizione nella quale si è nati, una sorta di cu nasci tunnu un po muriri quatratu, nonostante tutti gli sforzi che possano essere fatti: Mastro Gesualdo non diverrà mai Don Gesualdo, al massimo Mastro Don Gesualdo, e la famiglia di Padron ‘Ntoni, appena cercherà di ampliare la propria “attività” perderà la barca – migliorare non si può, si può solo fare peggio, dunque è meglio restare, come un’ostrica, attaccati al proprio scoglio. I lavori di Verga sono tutti incentrati sulla condizione delle classi più povere e disagiate, implacabilmente sfruttate e impossibilitate a raggiungere non solo il benessere, ma neanche una condizione leggermente migliore rispetto a quella di partenza. In maniera un po’ velata, certo, ma evidente a chi vuole andare oltre il racconto e contestualizzare l’opera di uno scrittore, capire le basi sulle quali è stata scritta, sono presenti la sfiducia e la delusione verso qualcosa che sembrava oro, ma era un’illusione, un miraggio, un inganno: era l’oro dei pazzi.
L’insabbiamento culturale della Questione Meridionale, scrive Franco Busalacchi il 30 novembre 2017 su "I Nuovi Vespri". E’ stato un lavoro scientifico: dai primi anni dell’unità fino al fascismo, dal dopo guerra ai giorni nostri, una strategia ben precisa ha occultato la vera natura degli eventi risorgimentali e tutto quello che ne è seguito. Ricostruiamo i passaggi principali con i contributi di Nicola Zitara, Carlo Coppola, Pino Aprile.
Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l’unità d’Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di “regime” stese, dai primi anni dell’unità, un velo pietoso sulle vicende “risorgimentali” e sul loro reale evolversi. Tutte le forme d’influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borbone o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi. Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II – il “Franceschiello” della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d’Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una “santa” e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio. La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone – interessatamente – d’essere stato – lui cattolicissimo – “la negazione di Dio”. Soprattutto si minimizzò l’entità della ribellione che infiammava tutto il l’ex Regno di Napoli, riducendolo a “volgare brigantaggio”, come si legge nei giornali dell’epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della “cattiveria” dei Borbone contrapposta alla “bontà” dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici. Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d’Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.) Le ragioni per cui la verità sulle vicende risorgimentali non vengono alla luce sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D’Azeglio enunciò nel secolo scorso “Abbiamo fatto l’Italia, adesso bisogna fare gli Italiani”, e possono essere esemplificate nel seguente modo:
a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l’unità si ottenne, ammantando di leggende “l’eroico” operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall’esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall’esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile – nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte – e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere “liberate” e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori. Per contro si diede della deposta monarchia borbone un’immagine traviata e distorta, e del ‘700 e ‘800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d’oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l’unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello “straniero”.
b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com’era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo “revisionista”, riconducendo anzi l’origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l’indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell’impianto culturale del regime.
c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l’impianto di pubblica istruzione del periodo fascista. La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l’Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.
La lettera della contessa Adelasia di Sicilia: è a Palermo il documento più antico d'Europa. Adelaide del Vasto, nota anche come Adelasia Incisa del Vasto fu la terza moglie di Ruggero I di Sicilia e la madre di Ruggero II: la missiva è una richiesta di protezione, scrive "Balarm" il 7 febbraio 2018. È datato 1109 il documento di straordinaria importanza che è conservato a Palermo: si tratta di una lettera scritta a mano dalla contessa Adelasia (o Adelaide) del Vasto degli Aleramici (1074-1118) moglie di Ruggero I, conte di Sicilia e di Calabria che ha fondato la dinastia normanna in Sicilia, e quindi madre di Ruggero II. Oltre a essere il documento cartaceo più antico di tutta l'Europa, la lettera è bilingue: è scritta in greco e arabo, e venne scritta per ordinare ai vicecomiti della terra di Castrogiovanni (oggi Enna) di proteggere il monastero di San Filippo di Demenna, sito nella valle di San Marco, che rientrava nel suo patrimonio personale. Adelasia usò la carta perché non si trattava di un documento solenne, per i quali veniva ancora usata la pergamena. I restauri hanno mostrato che la carta è di provenienza araba: all’analisi microscopica si nota come l'impasto sia composto da cellulosa di lino in fibre poco raffinate e frammentate. Una provenienza confermata dalla materia prima, dalla scarsa raffinazione, dall’assenza di filigrana e dalla grande quantità di amido di frumento ritrovata nella fibra. Questo "primo pezzo di carta" è detto anche Mandato di Adelasia ed è naturalmente malridotto, anche all'indomani del restauro messo in opera dal Centro di Restauro di Roma, oggi è comunque conservato all’Archivio di Palermo in via Maqueda. Il documento importantissimo è per la storia della Sicilia e testimonia i forti legami dell'isola con il mondo arabo anche dopo il cambio di egemonia, oltre al vissuto della contessa Adelaide del Vasto. Era figlia dell'aleramico Manfredi Del Vasto, fratello di Bonifacio del Vasto, marchese di Savona e della Liguria Occidentale, dopo la morte del marito divenne reggente del regno fino alla maggiore età del figlio Ruggero II (nel 1112). L'anno dopo sposò in seconde nozze Baldovino I di Gerusalemme e divenne Regina di Gerusalemme ma fu ripudiata per motivi politici nel 1117. Allora tornò in Sicilia e si ritirò nella cittadina di Patti, a Messina, dove morì il 16 aprile dell'anno seguente. Le sue spoglie sono sepolte nella cattedrale di Patti in un mausoleo rinascimentale. Ruggero I di Sicilia è citato spesso come il Gran Conte Ruggero, stabilì la propria corte a Mileto, in Calabria. Lì sposò la normanna Giuditta d’Évreux e insieme al fratello Roberto, pianificò la conquista della Sicilia, allora in mano ai musulmani.
NEGAZIONISMO. Scrive "Un Popolo Distrutto" il 10 gennaio 2018. Qualsiasi Stato tende a conservare le forme e gli uomini che esercitano il Potere e a resistere ai mutamenti della storia, controllando la memoria storica della società conservata negli archivi - soprattutto i più rilevanti: quelli delle classi dirigenti e quelli in cui il conflitto di classe interno e internazionale viene testimoniato. Inoltre, influenzando i cittadini attraverso una politica culturale che li standardizza allo status quo esistente, e che viene esercitata soprattutto nelle aule scolastiche e attraverso i mass media: manuali scolastici nella formazione culturale di massa e televisione. La storia degli archivi è legata alla storia del Paese e, pertanto, la chiusura di taluni fondi archivistici è strettamente connessa al mancato ricambio della classe politica in Italia e alla non partecipazione reale delle masse alla gestione pubblica: una democrazia bloccata, cioè una falsa democrazia. E' importante tutelare la memoria collettiva, ma strenue sono le resistenze, per una volontà di rimozione, che impedisce "… al materiale dimenticato di divenire cosciente, avendo a suo tempo provocato questo oblio così da espellere dalla coscienza le corrispondenti esperienze patogene", allo stesso modo nei comportamenti della collettività sono dannose per la coscienza storica.
"Quando l'oblio è politico … La memoria collettiva ha costituito un'importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle forze sociali" (Jacques Le Goff).
Già Gramsci, nei Quaderni dal carcere, rifletteva che le interpretazioni del Risorgimento delle classi dirigenti, erano legate a una serie di fatti. Tra questi era essenziale "non spiegare razionalmente il brigantaggio". Sui fondi documentari sul brigantaggio post-unitario ("fino al '70 - anche dopo - col nome di brigantaggio - scriveva Gramsci nel carcere di Turi - si intendeva quasi sempre il movimento caotico, tumultuario e punteggiato di ferocia, dei contadini per impadronirsi della terra"). Scrisse Luigi Settembrini: "L'ultima delusione, poi, ci è data dall’Ufficio storico del Corpo di Stato maggiore; il quale pure aveva destato nel pubblico italiano la speranza della storia. Invece è riuscito un maggiore inganno, perché le sue narrazioni, assumendo per documenti quanto nel tempo si è scritto di adulterato o di addirittura inventato, dimostrano che anche esso ha il fine di consolidare come storia il doppio uragano di glorificazioni al Nord e denigrazioni al Sud, doppio uragano che col pretesto politico non è che sfruttamento economico". Settembrini per le sue attività antiborboniche e liberali del '48 venne condannato a morte con la restaurazione borbonica, la pena venne poi commutata in ergastolo. Dopo l'occupazione militare del Regno delle Due Sicilie, insegnò all'Università di Napoli diventandone in seguito rettore. Durante la sua attività nell'ateneo napoletano, rammaricato per il disfacimento degli istituti e dei costumi napoletani a seguito dell'Unità d'Italia, agli studenti che si lamentarono di alcuni regolamenti e dell'iniquità nella distribuzione dei fondi scolastici, egli rispose: «Colpa di Ferdinando II!». Gli studenti stupiti gli chiesero le motivazioni ed egli replicò: «Se avesse fatto impiccare me e gli altri come me, non si sarebbe venuto a questo!». Nonostante sia stato negato ufficialmente, i documenti esistono e sono custoditi nell'Ufficio Storico dell'Esercito, ben 140 dossier ciascuno dei quali racchiude dalle 800 alle 1000 pagine numerate, con i dati rilevanti sulla repressione militare del brigantaggio; con rapporti spesso in codice tra governo centrale di Torino e luogotenenza di Napoli; con informazioni sulle zone militari, sui reggimenti, sugli scontri, sulle attività di spionaggio; con le statistiche dei militari uccisi; con numerosi rapporti sulle bande e sui singoli contadini-briganti. Nonostante siano passati più di 150 anni non si è ancora sciolto il segreto di stato e tutti i documenti non sono stati trasferiti all'archivio centrale dello Stato.
Impadronirsi della memoria e dell'oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degli individui che hanno dominato e dominato le società storiche (Jacques Le Goff).
Un Paese nato dai Complotti. Scrive "Un Popolo Distrutto" l'8 gennaio 2018. Depistaggi, infiltrati, attentati, complotti, miti e leggende: l’Italia è una repubblica fondata sui servizi segreti. Servizi italiani o stranieri non importa. Da tempo immemore – ben prima che fosse una Repubblica. Il buon Camillo Benso Conte di Cavour faceva un uso spropositato di “black op” (“black, operation”, operazioni coperte), come le si chiamano oggi, per realizzare i propri scopi politici. Giovanni Fasanella, storico cronista dell’Unità a Torino e autore di una trentina di libri, ha ricostruito la vicenda di tale Curletti, capo dei servizi sabaudi preunitari, nel libro Italia Oscura. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, la storia che non c’è sui libri di storia. Citando documenti e memoriali ritrovati nell’archivio storico della Difesa ha ricostruito gli spostamento del Curletti che, a quanto pare, scorrazzava per borghi e città dell’Italia risorgimentale ad alimentare moti carbonari, spargere foglietti di propaganda, organizzare brogli nei plebisciti e alimentare bande di criminali per destabilizzare gli ordini costituiti. Un perfetto agente provocatore. Il ruolo del capo della polizia segreta di Cavour, tale Curletti, che ha alimentato moti carbonari, brogli elettorali, bande criminali per destabilizzare l’Italia pre-unitaria e creare voglia di Risorgimento. Lo scopo era chiaro. I mandanti occulti un po’ meno. C’erano interessi della Corona – scrive Fasanella. Non i Savoia, non solo, bensì sua Maestà d’Inghilterra. Che aveva tutto l’interesse a fare dell’Italia uno Stato unitario. Perché? Perché con l’apertura del canale di Suez (1871) serviva una “piattaforma” nel Mediterraneo per mantenere un ruolo egemone nel commercio internazionale. Serviva il meridione. Ed è così che corsi e ricorsi cominciano a dipanarsi: dove abitò Mazzini per lungo tempo? A Londra. Dove sbarcò Garibaldi in Sicilia? A Marsala, dove i britannici schieravano una flotta a largo delle coste e dove nutrivano interessi in due settori chiave dell’economia siciliana: vino e zolfo. Grazie a un paziente lavoro d’archivio e in virtù di una legislazione, quella britannica, che consente già di avere accesso ai documenti classificati confidential, secret, top secret conservati negli archivi di stato di Ken Gardens, nei pressi di Londra, è oggi possibile disporre di un quadro assai interessante (e intrigante) della strategia messa in campo dalla Gran Bretagna verso l’Italia fino alla fine degli anni ’70. Quella tra il Regno delle Due Sicilie, prima e l’italia dopo, contro la Gran Bretagna per il controllo del Mediterraneo e delle rotte petrolifere verso il Nord Africa e il Medio Oriente, fù una guerra segreta, perché combattuta con mezzi non convenzionali tra nazioni amiche e, per una lunga fase della loro storia, persino alleate. Invisibile e impercettibile, ma non meno dura delle altre». Una guerra non combattuta, quindi, con le armi tradizionali, ma con una intensa attività di intelligence e della diplomazia britannica con l’obiettivo di orientare e manipolare l’opinione pubblica italiana e condizionare i partiti di governo (e non solo) al fine di tutelare gli interessi strategici del Regno Unito. Un condizionamento così intenso da offuscare, in alcune fasi, addirittura l’arcinota influenza nelle vicende interne italiane degli stessi Stati Uniti. Nel secondo dopoguerra, hanno sempre riservato un’attenzione particolare per l’Italia in ragione della sua posizione strategica di confine con le propaggini dell’Impero sovietico e quindi della lotta al comunismo, per la Gran Bretagna le motivazioni dell’interesse per il nostro Paese sarebbero andate al di là delle pur importanti questioni di equilibri internazionali e avrebbero sconfinato nella difesa degli interessi nazionali, con particolare riguardo alle questioni dello sfruttamento del petrolio. «In molte parti del mondo – si legge in un rapporto del ministero dell’Energia britannico dell’agosto 1962 – la minaccia dell’Eni si sviluppa nell’infondere una sfiducia latente nei confronti delle compagnie petrolifere occidentali […] a scapito degli investimenti e degli scambi delle imprese britanniche». Per gli inglesi, l’Italia, paese uscito sconfitto nel 1945, non avrebbe avuto alcun titolo ad esercitare un’autonoma politica estera nel bacino del Mediterraneo e in Medio Oriente. Una prerogativa che gli inglesi rivendicavano per loro, come contropartita sia per la nascita di uno stato unitario che per la vittoria nella seconda guerra mondiale. Ciò portò ad una «guerra senza quartiere a quella parte della classe dirigente italiana cosiddetta “sovranista” – i De Gasperi, i Mattei e i Moro, solo per citarne alcuni esponenti – che mal sopportavano il ruolo del “protettorato” britannico che, in nome dell’interesse nazionale italiano, “disturbava” Londra proprio nelle aree più strategiche, a cominciare da quelle petrolifere in Iran, Iraq, Egitto e Libia». Dai documenti inglesi, emergerebbe, infatti, un interventismo nella politica italiana che si sarebbe spinto fino ad autorizzare black operations per intralciare sia i rapporti tra l’Italia e il mondo arabo sia l’ingresso dei comunisti nell’area di governo negli anni settanta. Francesco Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca del caso Moro e poi Presidente della Repubblica, disse: «Io non mi meraviglierei […] se un giorno si scoprisse che anche spezzoni di paesi alleati […] avessero potuto avere interesse a mantenere alta la tensione in Italia […]. E quindi a tenere basso il profilo geopolitico del nostro Paese».
LO STRISCIANTE RAZZISMO ANTIMERIDIONALE. Scrive "Un Popolo Distrutto" il 22 gennaio 2018. Dopo il brigantaggio queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni. [C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli]. Con i “discorsi biologico-razzisti” degli ultimi decenni dell’Ottocento nelle teorie dell’antropologia criminale di Cesare Lombroso e del suo allievo Alfredo Niceforo, si ammetteva una differenza tra i caratteri delle popolazioni italiane in “due razze”: una del Nord e una del Sud, gli “arii” e i “mediterranei”. La “decadenza” dell’Italia era causata da questa differenza razziale, dove la società meridionale non poteva che essere “atavica”, incline al delitto passionale, al brigantaggio, alla mafia, alla camorra, ovvero quelle tipiche forme di “delinquenza selvaggia e primitiva”. Invece il carattere antropologico faceva loro buon gioco per la spiegazione che i mediterranei erano profondamente individualisti, mentre nell’Italia settentrionale, il senso civico e il “sentimento di organizzazione sociale” della “razza degli arii” consentivano un radicamento socialista. Il rapporto tra enunciazioni e pratiche di potere riproduce una retorica paternalistica del Nord che per costruire un impero è convinta di essere la parte buona che protegge la parte debole, “cattiva”, (il sud), invadendola della propria idea di sviluppo e civiltà. La compenetrazione del sapere scientifico, infarcito di abbondanti stereotipi e luoghi comuni, con il potere suscita gli effetti desiderati: “La morale di base di una società arretrata da un’immagine scontata, pittoresca, che si fa beffa di un secolo di storia, riportando alla memoria le stampe dell’Illustrazione Italiana di fine Ottocento, dove le genti del Sud sono rappresentante come “lazzaroni” che mangiano con le mani la pasta e si dilettano al sole, adagiandosi nell’ozio. L’insieme di questi stereotipi vanno affiancati quelli ormai celebri: il Sud, terra della sporcizia delle clientele, dello sperpero, dell’indolenza e dell’imbroglio”. Dinanzi al riproporsi ridonante di luoghi comuni da una parte, e, dall’altra parte, la tendenza risentita che suscita la reazione oppure la difesa da qualsiasi accusa di razzismo, luogo per antonomasia dell’arretratezza, della diversità e dell’inferiorità rispetto al resto dell’Italia e dell’Europa. Un tenace catalogo che oscilla lungo l’intersezione tra una diversità antropologica e certe dirette conseguenze in termini economiche, sociali e politici. I meridionali sono passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e, dunque, inabili alla formazione di una cultura razionale, civica, ordinata. Di conseguenza, il contesto sociale ed economico è sottosviluppato a causa del clientelismo politico, delle relazioni gerarchiche e patriarcali, e delle varie forme di manifestazione del crimine organizzato. Con buona approssimazione, la descrizione del Mezzogiorno potrebbe essere qui terminata, ma invece diviene un buon cibo per inchieste giornalistiche, fiction, documentari televisivi e nel suo interno si inserisce il “dispositivo Saviano”: «a partire da una descrizione del territorio apparentemente accuratissima, pagina dopo pagina si fa descrizione morale di una popolazione preda inguaribile dei suoi incubi atavici, dunque lotta fra Bene e Male, ove il male è tanto assoluto da non potere postulare che un intervento radicale, ossia portato alle radici antropologiche della questione: un intervento dello stato-chirurgo sul cancro-popolazione» (Petrillo 2011). Così la realtà romanzata fa buon gioco di stereotipi, corroborandosi in un atto di fede: a ben vedere, non è assai diverso da quanto in precedenza letto. Sebbene non manchi letteratura che faccia giustizia di questi cliché antimeridionali, la ragione per cui siano ancor oggi in circolazione più prepotentemente di quanto non si voglia credere s’annida forse in quel “senso comune” sorretto dalle verità delle rappresentazioni, da immagini cristallizzate nel tempo e, semmai, corroborato persino da ricerche scientifiche. L’orientalismo aiuta sicuramente a costruire un’immagine dominante del Mezzogiorno italiano al contempo come paradiso turistico e inferno sociale, ma «la soggezione simbolica passa anche e soprattutto attraverso la sua definizione come luogo dell’arretratezza e del sottosviluppo, come forma incompiuta di nord» il Nord europeo a percepirsi nella sua compiutezza di civiltà superiore, dall’altro, e, a definire il Sud stesso come una sua copia imperfetta ovvero come una porzione della civiltà occidentale che non segue il ritmo del suo cuore pulsante, collocato lontano dalle rive mediterranee. Il Sud è un Nord “esterno” e “senza”, senza storia, senza progresso, senza la luce della ragione, senza futuro, insomma senza tutte quelle conquiste del Nord moderno. «L’idea di Sud come di non Nord, di un Sud pensato da altri, non più soggetto di pensiero, ma brutta copia di un’altra latitudine, è un processo facilmente percepibile all’interno del territorio italiano». D’altro canto, nella storia d’Italia il pregiudizio o il razzismo antimeridionali sono stati sempre adoperati per soddisfare istanze economiche ma anche politiche e ideologiche. A questo punto anche la stessa “questione meridionale” è il prodotto della “surdeterminazione” di differenti istanze. Infatti, in alcuni temi della quistione meridionale, proprio Gramsci segnala come «l’ideologia diffusa in forma capillare dai protagonisti della borghesia nelle masse del Settentrione» rappresenti “il Mezzogiorno” dentro il refrain di «palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia», perché «i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari» (Gramsci, 1930). Esemplare è l’esercizio gramsciano di decostruzione e dell’unificazione italiana e della “questione meridionale”. In quel pregiudizio, o meglio, in quel razzismo antimeridionale, solidificatosi in “senso comune”, Gramsci intravede il riflesso delle istanze economiche e delle istanze ideologiche, in un rispecchiamento “surdeterminato”. In questa sovrapposizione, il pregiudizio in termini di inferiorità biologica, vale a dire di naturalizzazione ed essenzializzazione, non fa che consolidarsi nelle forme del razzismo. Intrecciato alla vicenda storica del nazionalismo, il razzismo è però qualcosa che eccede il nazionalismo. A tutt’oggi non c’è alcuna difesa d’ufficio verso una causa meridionalistica, quanto piuttosto l’indagine di cosa si nasconda dietro questo archivio di rappresentazioni corroborate da studi pluridecorati quando non prodotti di inchieste o scoop di noti giornalisti.
L'UNITA' IL PECCATO ORIGINALE. Scrive "Un Popolo Distrutto" il 30 gennaio 2018. L’intera storia di questo Paese andrebbe riscritta per smascherare il sistematico ricorso alla coercizione armata degli apparati dello Stato per perpetuare il potere della “borghesia compra dora” (una classe media indigena alleata con gli investitori stranieri, multinazionali, banchieri e gli interessi militari) asservita al grande capitale cosmopolita e del suo partito: la massoneria. Le origini di molti mali dell’Italia di oggi risiedono nelle circostanze con cui l’unità nazionale fu raggiunta, cioè una spietata guerra di conquista e di saccheggio scatenata dal Piemonte contro i floridi stati preunitari. Gli obbiettivi di Cavour erano quelli di garantire alla nascente industria del Nord i capitali per il suo sviluppo e un mercato per i suoi prodotti. Quindi si deve parlare di una vera e propria guerra coloniale: dove la potenza imperialista interviene direttamente per garantire la sicurezza degli investimenti e lo sfruttamento del territorio. Con l'emancipazione nazionale il grande capitale arruola tra gli indigeni il personale di cui ha bisogno: tecnici, amministratori, forze di polizia. Poi in modo più sfumato, la potenza imperialista continua a condizionare la colonia attraverso i programmi di assistenza economica, militare e culturale, ma ricorrendo anche alla corruzione, all’intimidazione, al colpo di stato e all’intervento militare diretto. Il tutto nell’interesse del grande capitale, che nel frattempo è diventato cosmopolita. In italia il Regno del Piemonte si sostituì, all’Austria come potenza coloniale e l’unità segnò il punto di transizione dall’epoca coloniale al neocolonialismo. Di fatto termina una dominazione straniera e sorge uno Stato unitario e formalmente indipendente sul piano politico, ma pur sempre aggiogato al carro del grande capitale. Fu la grande finanza ebraica a spingere i governi europei a intraprendere le iniziative coloniali dell’Ottocento. Ciò accadde perché il grande capitale non trovava più sufficientemente remunerativi gli investimenti nelle loro nazioni d’origine. Il caso italiano non fa eccezione: furono i Rothschild di Parigi e i loro agenti a Parigi, Londra e Ginevra a finanziare le guerre d’indipendenza, la costruzione di cantieri navali, ferrovie e fabbriche di armi, l’allestimento di una moderna flotta. Re Vittorio Emanuele II e Cavour contrassero con la finanza ebraica debiti di tali proporzioni da rendere necessario il saccheggio sistematico del resto della Penisola. Questo fu il meccanismo criminale che portò all’unificazione della Penisola. L’Italia è sempre stata una terra ricca grazie ai suoi porti, alla sua collocazione geografica, alla fertilità delle campagne, all’ingegnosità dei suoi abitanti: c’era tanto da predare in Italia. La resistenza delle strutture tribali alle strutture del capitalismo avanzato provocano un fenomeno di reazione, che è possibile osservare nella storia di ogni Paese toccato dal colonialismo. Questa situazione si trova anche nel Mezzogiorno italiano e prende il nome di brigantaggio. Con l’affermazione di una classe sociale, detta borghesia compradora, da non confondere con la borghesia produttiva che fa impresa o la piccola borghesia cittadina dedita al commercio spiccio, né quella rurale dei piccoli proprietari terrieri. Ma l’agente del grande capitale nei Paesi in via di sviluppo: è la classe sociale degli amministratori, degli ufficiali dell’esercito, degli impiegati di banche straniere e multinazionali, dei liberi professionisti, la cui unica ragione è la difesa degli investimenti stranieri sul territorio minacciati dalle rivendicazioni sociali del popolo oppresso. I suoi membri traggono una rendita di posizione, che si esprime nelle forme del potere personale, del prestigio e della ricchezza. La borghesia compradora comparve in Italia alla vigilia dell’unità col preciso compito di saccheggiare il Paese per sé e per i propri padroni: i potenti banchieri israeliti di Parigi, Londra e Ginevra guidati dai Rothschild. Furono costoro, che finanziarono le guerre d’indipendenza e il processo di modernizzazione del Paese. Considerati gli interessi che essi difendono, non sorprende che governi di diverso colore politico si alternino tra loro senza che nulla cambi. (“Tutto cambia perché nulla cambi”. Tomasi di Lampedusa). Il sacco d’Italia iniziò accentrando in un’unica mano la leva della fiscalità a partire dal 1861 e fu condotto per mezzo di un esercito di amministratori corrotti e soldati. Così, servendosi della borghesia compradora selezionata e arruolata dalla massoneria, il grande capitale instaurava le sue strutture economiche nella Penisola. Il risultato fu un’ondata di miseria quale non se ne ricordava da secoli: fu a quel punto che milioni di compatrioti iniziarono a emigrare in America con le famose valige di cartone. (Oggi il fenomeno si ripete: sono giovani diplomati e laureati che partono in cerca di opportunità di lavoro che in Italia mancano, piccoli imprenditori che chiudono le loro fabbrichette in Italia per delocalizzare le produzioni, pensionati che fuggono in Portogallo, in Romania o in Tunisia per poter vivere dignitosamente gli ultimi anni della loro vita con quel poco di pensione che si ritrovano). Tutto questo accade perché esiste una casta che nulla produce, ma depreda, dilapida e si vende le ricchezze che dovrebbe amministrare in nome del popolo sovrano. Dal 1861 i vari governi che governavano il Paese imposero al Sud la pesante tassazione che già gravava sul Nord, aggiunsero nuovi balzelli, come l’odiosa tassa sul macinato, confiscò i palazzi e le tenute fondiarie della Chiesa, che i soliti faccendieri si accaparrarono a prezzi stracciati. Tutto ciò serviva ad alimentare la corruzione, la speculazione e il clientelismo mentre prestiti sempre crescenti venivano richiesti sui mercati alimentando la spirale del debito pubblico. Fu così l’Italia si configurò, fin dall’inizio, la “cleptocrazia” cioè il governo basato sul malaffare.
Ma la vera grande protagonista dell’unità d’Italia fu la massoneria: il Grande Oriente d’Italia sorse ufficialmente come estensione della Loggia Ausonia, fondata nel 1859 a Torino con la benedizione di Cavour. Vi entrarono in massa personaggi che occupavano posizioni sociali di rilievo ed erano incredibilmente ardenti patrioti. Fu quindi la massoneria a selezionare la borghesia compradora in Italia, che sostituì gli amministratori e gli sbirri austriaci e assorbì al proprio interno quelli borbonici. In una continuità, assicurata dalla massoneria, nella trasmissione del potere da una generazione all’altra, attraverso i meccanismi ben noti del nepotismo, della raccomandazione e della corruzione. È l’Ordine che garantisce l’impunità della casta al potere, controllando contemporaneamente il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, mettendo in relazione il magistrato col il malavitoso, il politico corrotto col faccendiere corruttore, l’élite italiane e con quelle straniere. Tutto ciò si palesa chiaramente nella storia di Adriano Lemmi, il “banchiere del Risorgimento”, Gran Maestro della Massoneria negli anni tra il 1885 e il 1896. Egli fu il punto di congiunzione tra il mondo dell’alta finanza e la borghesia compradora italiana. Lemmi fu l’eminenza grigia dietro il primo ministro Francesco Crispi, un “33” del Rito Scozzese. Fu Lemmi a creare una Loggia supersegreta, la Loggia di Propaganda, per nascondere l’affiliazione massonica dei personaggi più autorevoli e influenti del tempo: banchieri e uomini politici. (Quando il Venerabile Licio Gelli assurse a eminenza grigia della Prima Repubblica, non fece altro che ricopiare i metodi di Lemmi creando la Loggia Propaganda 2). Come ogni borghesia compradora, anche quella italiana è corrotta, inefficiente e arrogante. Il primo scandalo dell’Italia unita fu quello delle Ferrovie meridionali, nel quale Lemmi figura come l’organizzatore di un giro di mazzette che coinvolse faccendieri, uomini politici e avvocati. Nel 1893 il governo Giolitti cadde a causa dello scandalo della Banca romana, una truffa colossale di cui Lemmi era il regista. Pure negli odierni scandali bancari si può leggere, dietro alle collusioni tra politica e finanza, la lunga mano della massoneria. Poco più di un secolo dopo, la storia si è ripetuta con lo scandalo della metropolitana di Milano, per il quale il Presidente del Consiglio Bettino Craxi e altri furono condannati per corruzione. Possiamo aggiungere che Craxi e Martelli, nel 1981, avevano letteralmente comprato il Partito Socialista con i soldi messi a disposizione dalla P2 secondo le dichiarazioni dell’on. Cicchitto. La super-loggia di Gelli fu coinvolta anche nello scandalo del crack del banco Ambrosiano, al quale va collegata l’uccisione del banchiere massone Roberto Calvi. Questi fenomeni crimininali si ripetono periodicamente nella storia italiana proprio a causa del peccato originale della genesi dell’Italia unita: un’operazione colonialista condotta in nome del grande capitale, nel quale la massoneria ha giocato un ruolo decisivo.
BUONI E CATTIVI. Scrive "Un Popolo Distrutto" il 31 ottobre 2017. Per decenni in Italia si divisero i protagonisti della storia in buoni e cattivi: i buoni erano chiaramente i padri fondatori dell’Italia del Risorgimento, come la Casa Savoia, Cavour, Mazzini e Garibaldi, mentre i cattivi erano i Borbone, i briganti i meridionali e persino il papa Pio IX. La storia era dogmatica e indiscutibile! Un tempo era vietato o disdicevole, politicamente e moralmente scorretto parlare male di Garibaldi. Diffamare l'Eroe dei due mondi equivaleva ad un’offesa alla Patria. Finalmente oggi la patina moralista si stà sgretolando man mano che la verità storica la stà erodendo, anche di fronte ad un’unità mai realmente fatta, e i cadaveri della storia del Risorgimento saranno richiamati di nuovo in vita e passati in rassegna. Dopo decenni di diffusione quasi clandestina di scritti illegali, poiché censurati in quanto ostili al regime storiografico e culturale, con la fine degli anni '90 il compatto muro di silenzio che ha custodito la leggenda metropolitana del Risorgimento nazionale ha iniziato a vacillare, a creparsi, a crollare rovinosamente”. Oggi sappiamo che esiste un’altra storia che va contro corrente, che prima la casa Savoia, e più tardi il fascismo hanno represso. Il Dogma del “mai parlare male di Garibaldi” ha avuto come conseguenza che alla libera ricerca storiografica si sono legate le mani e che la verità fosse nascosta. L’Italia soffre sino ad oggi della natura della sua unità: La Questione Meridionale, il contrasto tra Polentoni e Terroni ed il leghismo sono i sintomi di questa sofferenza. Fino a quando l’Italia indosserà questi tessuti nella tunica della sua storia nazionale, per tante disfunzioni non ci sarà rimedio e per tanti conflitti non ci sarà soluzione. Della storia risorgimentale è stato tramandato soprattutto il mito, mentre non sono state raccontate tante vicende, per il semplice fatto che non si voleva macchiare l'immagine edulcorata del processo di unificazione nazionale portato avanti dai liberali e dai massoni. La storiografia del Risorgimento non fa eccezione alla regola che nella storia di numerosi stati nazionali la verità spesso è sacrificata. E questo vale soprattutto per il Regno delle due Sicilie, che è stato rappresentato a tinte molte fosche e orrende, per giustificare e glorificare il processo dell'unificazione. Il Regno delle due Sicilie fu sancito con la peggior condanna: la Damnatio memoriae, e il nucleus della condanna della memoria la subì Ferdinando II. Analogamente alla prassi presso gli antichi Romani, ogni suo ricordo fu condannato, il lutto fu proibito, armi e stemmi furono distrutti, la sua “casa” fu devastata e per motivi di prevenzione l’infamia perpetua fu estesa a tutti i suoi discendenti. Per questa ragione oggigiorno si trovano solo ancora scarse tracce del Regno delle due Sicilie. Nel linguaggio colloquiale abbiamo “l’esercito di franceschiello” e l’aggettivo “borbonico” che hanno un valore apertamente peggiorativo. L’aggettivo borbonico facilmente cade quando qualcosa deve essere descritto come arretrato, sottosviluppato o corrotto. Intanto il patrimonio culturale dell’Italia spesso è indicato con gli attributi Farnese, Gonzaga, Sforzesco, D´Este ecc., borbonico nel migliore dei casi si usa per descrivere le carceri. Mai durante una visita – per esempio - alla reggia di Caserta cadrebbe la parola “borbonica”. Mentre i re italiani Vittorio Emanuele II e Umberto I sono entrati nella storia con i sopranomi “Re Galantuomo” e “Re Buono”, mentre Ferdinando II è tuttora conosciuto come “Re Bomba“, perché fece bombardare Messina. Mentre in quasi ogni cittadina quanto piccola che sia si può passeggiare in una Via Garibaldi oppure in una Via Cavour addirittura magari trovare una statua di Garibaldi in piazza; esistono solo due comuni nel Sud, a Battipaglia ed a Scafati con un monumento a Ferdinando II. Se si osservano con sguardo critico le nicchie nella facciata esterna del Palazzo Reale a Napoli, nella quale si possono ammirare otto figure rappresentanti i sovrani delle dinastie ascese al trono di Napoli, si può facilmente capire per conto di chi è stata fatta quella disposizione. Tra Murat e Vittorio Emanuele II, per la volontà di chi l’ha ordinato, cioè la casa Savoia, non c’è un sovrano borbonico come per esempio Ferdinando II. Lungo i confini del Regno delle due Sicilie e quello Pontificio spesso si trovano testimoni in pietra dei due regni caduti, si tratta di 686 pietre di confine, che dividevano questi due stati preunificatori sulla penisola italiana. Il successo della “spedizione dei mille” fu il frutto di una preparazione lunga e meticolosa, alla quale i principali artefici furono gli inglesi. La domanda che ci facciamo è: Quali erano le motivazioni della Gran-Bretagna per la caduta del Regno delle due Sicilie? Certamente non era una rarità che le instabilità fossero provocate con delle manipolazioni, infatti secondo Osterhammel gli Inglesi erano “maestri” di tali manipolazioni. Ricorrendo ad un arsenale di strategie di destabilizzazioni, i territori furono preparati ad un ‘take–over imperiale‘. La forma dell’intervento, con presa di possesso, mira ad un’annessione o ad un’occupazione a lungo termine di una comunità collettiva straniera, è spesso preceduta dalla rottura di una coalizione vincente, che economicamente assicurava l’interesse della sicurezza e dell’economia, più che del colonialismo formale. Nel caso del “reluctant imperialists” britannico durante l’epoca del libero scambio (all’incirca dal 1820 al 1870) a causa del diffuso anti-annessionismo e dell’anti-interventismo c’era la necessità di offuscare le vere ragioni dell’intervento attraverso legittimi accertamenti. Sia l’ambizione di potere inglese che quella francese si collocavano con un inchino elegante davanti allo spirito filantropico di quell’epoca. Il crudo egoismo appariva spesso sotto forma di bisogno umanitario che nascondeva le vere ragioni di un intervento. Le giustificazioni preferite erano le provocazioni simboliche. L’offesa inflitta attraverso un colpo con la maniglia di un ventaglio con le piume da parte di Dey Hussein d’Algeria il 29.04.1827, al console francese, già offeso precedentemente, diede l’impulso necessario alla conquista dell’Algeria da parte della Francia. Ma quali motivi si nascondevano dietro il favoreggiamento britannico all’annessione piemontese del Regno delle due Sicilie? Una giustificazione spesso utilizzata in questo contesto è la tutela della vita dei cittadini e delle loro proprietà come anche l’autorizzazione a svolgere un’attività economica. Questa salvaguardia è garantita indirettamente da governi amici sul posto. Questo tipo d’intervento serve a rimuovere tutte le autorità statali, per instaurare e quindi sorreggere i regimi dei collaboratori. “…Il cosiddetto Risorgimento italiano “non fu che un episodio dell’imperialismo inglese” (Socci, in Nicoletta 2001). Il 1 Marzo 1848 Lord Palmerston fece chiaramente capire, che per lui le amicizie e le ostilità nella politica internazionale non dipendevano da principi ma dall’utilità che avrebbero per la Gran-Bretagna. L’idea chiave della politica britannica non era orientata verso parametri filantropici e morali, ma all’espansione ed al rinforzamento del proprio potere (cfr.Campolieti 2001: 29). L’Italia, la Grecia, il regno Ottomano e la costa nordafricana erano l’obiettivo della politica estera e la British Navy spesso diede supporto agli sforzi diplomatici (cfr.Thomson 1989: 52). La sicurezza delle rotte di commercio e il benessere dei cittadini britannici erano gli obiettivi principali. Nella House of Commons invece quasi quotidianamente si fece riferimento all’importanza del commercio con l’India e la sicurezza per le rotte marine attraverso il mediterraneo orientale. Il significato politico delle isole mediterranee Malta e Sicilia aumentano in questo contesto: la doppia nota della politica estera britannica, fatta da interesse commerciale e necessità militare che, come si verificò, avrebbe contribuito alla caduta del Regno delle due Sicilie. Ma il maggior vantaggio della rivalorizzazione del mediterraneo lo ebbe il sud con la tempestiva apertura del Canale di Suez (cfr.Mariano 1991: 163). Il Canale di Suez, tragitto di collegamento per l’India, ottenne un significato strategico rilevante. La Gran Bretagna aveva un doppio interesse per il Canale di Suez. Prevalentemente quest’interesse era dovuto a motivi economici, perché il commercio britannico rappresentava l’82% del traffico marittimo nel canale (cfr. Bierschenk 1977: 4). In più esisteva anche un interesse politico, poiché il canale era la principale linea di congiunzione con l’India, Ceylon, la strada di Singapore e British-Burma, dove sotto il dominio britannico vivevano circa 250.000 persone. In più serviva anche come collegamento con la Cina, dove l’84% del commercio estero era controllato dalla Gran Bretagna. Anche se le due grandi nazioni Francia e Gran Bretagna erano d’accordo sul fatto di impedire qualunque espansione russa, in realtà erano in parte ostili tra di loro. L’ambizione politica di Napoleone III minacciò gli interessi inglesi. Quando i Francesi costruirono, prima degli Inglesi, la prima nave da guerra in acciaio, la Gloire, l’Inghilterra intensificò i suoi sforzi per non rimanere indietro. Sotto il comando dell’ammiraglio Lalande, la politica marittima francese divenne una minaccia per l’Inghilterra. Aceto nella sua opera “De la Sicile et des rapports avec l´Angleterre” dichiara che la Sicilia é il punto più strategico di tutto il Mediterraneo. Inoltre evidenzia che l’antagonismo anglo-francese per l’isola. Dopo l’apertura del canale di Suez, la Turchia aveva una posizione molto vantaggiosa sul commercio verso l’oriente. Per questa ragione l’Inghilterra si dichiarò sostenitrice della Turchia. Il Meridione Italiano cosi diventò una base logistica estremamente importante per far fronte alla Russia. L’Inghilterra nel Mediterraneo oltre ai porti, messi a sua disposizione da forze minori, possedeva anche le basi di Gibilterra, Malta e le Isole Ioniche (cfr. Mariano 1991: 165). Nel Mediterraneo occidentale l’Inghilterra era regredita e così il centro strategico ebbe più rilevanza (cfr.Mariano 1991: 165). Nel 1860 il punto nevralgico fu la Sicilia, la cui posizione centrale la fece diventare chiave di tutto il Mediterraneo. Attorno alla Sicilia s’incontrano il bacino orientale e quello occidentale del Mediterraneo e il proprietario di quest’isola controlla sia lo stretto ed anche il canale. Quanto importante fosse l’interesse dell’Inghilterra per la Sicilia, lo dimostra la quantità di vice consolati britannici sull’isola. Oltre al console Godwin in Sicilia c’erano altri undici vice-consoli. A causa del valore enormemente strategico dell’Isola, l’Inghilterra diede il suo sostegno per l’unificazione italiana. Mariano constata, che gli Inglesi in realtà nella fase decisiva dell’unificazione italiana non hanno seguito principi etici, ma hanno agito strettamente in maniera antifrancese. Quanto il governo di sua maestà rispettasse “l’indipendenza” degli Italiani, lo dimostrano le vicende della Sardegna. Londra temeva, che il governo Italiano offrisse la Sardegna al papa in cambio dello stato pontificio. Giacché il papa intratteneva ottimi rapporti con la Francia, l’Inghilterra si oppose con tutta la sua forza contro questo progetto. Lord Palmerston reagì bruscamente a questo piano: “L´Inghilterra si opporrebbe strenuamente ad una simile estensione dell’´influenza francese in questo mare”. L’enorme significato strategico dell’isola mediterranea si riesce a spiegare con riferimento alla “querelle” per la proprietà dell’isola vulcanica u´bummuluni, come si chiama nel dialetto siciliano dei pescatori. La nomenclatura dell’isola non è per niente facile perché ben tre poteri hanno fatto appello ai lori diritti e questo ha influito sulla adozione di un nome. L’isola viene anche descritta come ‘isola dei setti nomi ‘: Sciaccia, Nertita, Corrao, Hotham, Julie, Graham e Ferdinandea. Il 2 luglio nel 1831 a Sacco del Corallo, a circa metà distanza tra Sciacca e Pantelleria, avvenne un’enorme esplosione subacquea. Dopo l’esplosione emerse un’isola alta 63 metri, lunga 4,5 chilometri e larga un chilometro. La posizione dell’isola risvegliò subito il desiderio di possederla, avendo un alto valore strategico come base militare navale. Da Malta fu inviata sull’isola la corvetta Rapid sotto il comando di Charles Henry Swinburne. In nome di sua maestà l’isola fu presa in possesso dall’impero britannico. Humprey Senhouse sbarcò con sette marinai sull’isola avvolta da vapori di zolfo ed issò sulla sommità più alta l’Union Jack: l’isola fu battezzata Graham. Ferdinando II intese questo atto come offesa e violazione del diritto internazionale. L’isola si trovava chiaramente in acque territoriali borboniche, perché faceva parte geograficamente e geomorfologicamente delle isole Pantelleria, Lampedusa e delle altre isole del Regno. Il 17 agosto Ferdinando II emanò un decreto, nel quale prendeva possesso dell’isola in nome del Regno delle due Sicilie. L’isola fu chiamata Ferdinandea, dato che l’arrivo in Sicilia del re Ferdinando II avvenne nel momento dell’evento geologico. La corvetta Etna fu inviata con a bordo cartografi, per inserire l’isola sulla pianta marittima borbonica. Poco dopo sbarcarono sull’isola i due francesi Constant Prevost (geologo) e Eduard Joinville (pittore) che, in riferimento al “mese di nascita” la battezzarono a loro volta Giulia / Julie. Le impressioni che ebbe dell’isola il pittore Antoine Eduard Joinville si possono ammirare al Louvre (L´ile de Julia). Inghilterra, Francia ed il Regno delle due Sicilie si contesero duramente la proprietà dell’isola. Le richieste territoriali fecero diventare sempre più probabile un imminente casus belli. In questi scontri diventò evidente, che Ferdinando II difendesse energicamente la sua sovranità da ogni affronto (cfr. Selvaggi 1996: 17). Mentre il conflitto era lontano da una soluzione, Nettuno eliminò l’oggetto di dissidio, e l’isola sprofondò di nuovo in mare. “La sua sparizione era però giunta quasi come una benedizione, perché di colpo placò ogni rivendicazione di sovranità, eliminando un formidabile potenziale casus belli tra Stati che si guardavano già in cagnesco. La situazione ridicola trae la sua comicità dal fatto che a causa di uno scoglio senza valore scoppiò quasi la guerra tra Inghilterra, Francia e Regno delle due Sicilie. Dall’accaduto per un semplice ammasso di rocce si può capire il valore della Sicilia. Se uno scoglio grezzo, avvolto da fumarole di zolfo e nebbia giallastra quasi sarebbe diventato causa di una guerra, le vicende di seguito descritte per un’isola alquanto importante dal punto di vista commerciale e strategico non creano stupore.
LA MASSONERIA SFRUTTO' LA MAFIA PER SABOTARE LE DUE SICILIE. Scrive "Un Popolo Distrutto" l'1 gennaio 2018. Spaghetti, pizza e mafia, ma siamo sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti impiegati per dipingere il sud Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra le regioni europee più retrograde». Ma la verità è più complessa, ed ha un’origine non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Dal 1861 il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. La risposta è spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea». Rileggendo la storia a ritroso, il binomio atlantico-mafia compare già al momento dello sbarco angloamericano in Sicilia del 1943: «E’ il mafioso Lucky Luciano a facilitare la conquista dell’isola, e papaveri di Cosa Nostra presenziano anche all’armistizio di Cassibile, che sancisce la fine delle ostilità tra l’Italia e gli Alleati». Quasi un secolo prima ci fu lo sbarco di Garibaldi a Marsala, nel 1860, con i “picciotti” impegnati a dare «un contributo determinante alla spedizione di Mille, benedetta e protetta da Londra». Ma cosa sono, davvero, la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta? Perché affiorano in tutti i passaggi della storia italiana a fianco di Londra e Washington? E perché sono sovente associate ad un’altra organizzazione segreta di matrice anglosassone, la massoneria? Generalmente non se parla, nei film e nei prodotti televisivi sulla mafia, e nemmeno tra le migliaia di pagine stampate. Sulla mafia, campano non soltanto i malavitosi, ma anche i “professionisti dell’antimafia” che pullulano nei tribunali, pennivendoli del calibro di Roberto Saviano ed il variegato mondo di intellettuali e soloni che ruota attorno alla “lotta alla mafia”. Nessuno di loro, però, ha «intuito la vera natura del crimine organizzato». Ci arrivò Falcone, quando osservò che la mafia «presenta forti analogie con le Triadi cinesi, la malavita turca e la Yakuza giapponese». Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono «società segrete paramassoniche dedite al crimine, vere e proprie “sette” che rispondono alle logge inglesi ed americane, sin dalla loro origine agli inizi dell’800». Una verità nota agli “addetti ai lavori”, cioè i vertici della mafia, i politici, il Grande Oriente d’Italia, la Cia e l'Mi6. Una realtà spesso intuita e talvolta accennata da onesti magistrati e seri studiosi, anche se nessuno ha finora prodotto uno studio organico sul tema. Ma perché le mafie si sviluppano nelle regioni meridionali quasi contemporaneamente, tra gli anni ‘10 e ‘30 dell’Ottocento? Le solite risposte di comodo sono: l’arretratezza del Meridione, il retaggio della dominazione spagnola, la presenza del latifondo, le mentalità della popolazione, la diffusione di miseria e povertà. Ma sono risposte fuorvianti, visto che «il reddito pro-capite del Regno delle Due Sicilie era paragonabile a quello del resto d’Italia», e la povertà era «simile a quella di alcune zone del Piemonte e del Veneto, che non produssero crimine organizzato», inoltre, la dominazione spagnola aveva interessato pure la “civilissima” Lombardia e, per contro, «altre regioni meridionali persino più povere (come il Molise e la Basilicata) non conobbero le mafie, che germogliarono nelle due ricche capitali come Palermo e Napoli». Bisogna partire dagli anni a cavallo tra ‘700 e ‘800, quando il mondo è in fiamme per la guerra tra Francia rivoluzionaria e le altre monarchie europee: «La Rivoluzione Francese, in cui Londra ha giocato un ruolo determinante è sfruttata dagli inglesi per liquidare la Francia come grande potenza marittima, estendere i propri domini in India e rafforzare l’egemonia su un’area chiave del mondo: il Mar Mediterraneo, da unire in prospettiva al Mar Rosso ed all’Oceano Indiano con il canale di Suez». Il Regno di Napoli, di fronte all’avanzata delle truppe rivoluzionarie francesi, è costretto ad aprire i propri porti alla flotta inglese, «senza sapere che, così facendo, firma la sua condanna a morte: gli inglesi sbarcano infatti con l’obiettivo di rimanerci anche dopo la guerra, installandosi così nello strategico Sud Italia che presidia il Mar Mediterraneo». Per un certo periodo, gli inglesi diventano addirittura padroni del Regno: quando infatti il francese Gioacchino Murat si insedia a Napoli, il re Ferdinando IV si rifugia in Sicilia protetto dagli inglesi e Lord William Bentinck governa l’isola come un dittatore de facto. Sotto l’ombra del potere inglese, «arriviamo così alle origini di Cosa Nostra». Un grande esperto di mafia come Michele Pantaleone ricorda che nel Meridione il brigantaggio assunse una funzione “sociale” solo dopo il 1812, quando il potere feudale venne eliminato: Pantaleone scrive che lo «spirito di mafiosità» sorse in concomitanza con la formazione delle famigerate “compagnie d’armi”, create dalla baronia siciliana nel 1813 a difesa dei diritti feudali. Lo “spirito di mafiosità”, dunque, prende forma tra il 1812 e il 1850: «Il suo epicentro è nel palermitano e di qui si irradia verso la Sicilia orientale». Il 1812, anno citato in tutti i testi di storia sulla mafia, è quello in cui il “dittatore” Lord William Bentinck impone al re, esule a Palermo, l’adozione di una Costituzione sulla falsariga di quella inglese, di comune accordo con i baroni siciliani: «Gli stessi baroni che creano quelle “compagnie d’armi”», antesignane della futura mafia. «Strane davvero queste “compagnie”, “consorterie” o “sette” che iniziano a pullulare dopo il 1812: presentano singolari analogie con la massoneria speculativa che gli inglesi innestano ovunque arrivino: segretezza, statuti, rituali d’iniziazione, mutua assistenza, diversi gradi di affiliazione, livelli sconosciuti agli altri aderenti». E poi, le nuove “compagnie” accampano anche «la pretesa di non essere volgari criminali, ma “un’aristocrazia del delitto riconosciuta, accarezzata ed onorata”, proprio come i massoni si definiscono gli “aristocratici dello spirito” in contrapposizione all’antica nobiltà di sangue. “Mafia” nei rioni di Palermo significa “bello, baldanzoso ed orgoglioso”». La Restaurazione reinsedia Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, sul trono di Napoli. Il sovrano, nel 1816, si affretta a revocare la Costituzione scritta dagli inglesi, «considerata come un’insidiosa minaccia alle sue prerogative». Ma è tardi: «I germi inoculati dagli inglesi, le misteriose sette criminali che dalla periferia di Napoli e Palermo si irradiano verso i palazzi di baroni e notabili, e crescono. Corrodono il Regno delle Due Sicilie dall’interno, emergendo come un vero Stato nello Stato: trascorreranno poco meno di 50 anni prima che contribuiscano in maniera determinante allo sfaldamento del Regno borbonico». È tra il 1820 ed il 1830 che lo scrittore Marc Monnier (1829-1885) situa la comparsa a Napoli di una misteriosa setta paramassonica, la “bella società riformata”, dedita ad attività illecite: «E’ la futura camorra, che nel 1842 scrive il primo statuto definendo i vari gradi di affiliazione sulla falsa riga della libera muratoria, da “giovanotto onorato” a “camorrista”, passando per “picciotto di sgarro” e così via». Quasi contemporaneamente, al di là dello Stretto di Messina, la mafia è già ad uno stadio avanzato, perché nel 1828 il procuratore di Girgenti scrive dell’esistenza di un’organizzazione di oltre 100 membri di diverso rango, «riuniti in fermo giuramento di non rilevare mai menoma circostanza delle operazioni». Idem per la ‘ndrangheta in Calabria. Nel 1848, Londra incendia l’Europa usando come cinghia di trasmissione la solita massoneria: è la “Primavera dei popoli”, cui seguiranno tante altre primavere di complotti, da quella di Praga del 1968 a quella araba del 2011. Nel Mediterraneo gli inglesi si adoperano per staccare la Sicilia, avamposto strategico per ogni operazione militare e politica in quel quadrante, dal Regno Borbonico: i “baroni”, gli stessi che comandano le malfamate “compagnie d’armi”, insorgono contro Ferdinando II, proclamando decaduta la corona borbonica e affidandosi alla corona d’Inghilterra, disposta a difendere l’indipendenza dell’isola. Il contesto internazionale non è però favorevole alla secessione e Ferdinando II reprime manu militari l’insurrezione, guadagnandosi l’appellativo di “re bomba”, dipinto dalla stampa anglosassone come un despota sanguinario e illiberale. «Le carceri, che già allora sono il principale centro di propagazione delle mafie, si riempiono di patrioti-liberali e picciotti, uniti dal comune retroterra massonico: si saldano così legami che saranno presto utili». Geopolitica, ancora: i rapporti tra Napoli e Londra sono ai minimi storici anche per la contesa sullo zolfo siciliano, sicché Ferdinando II si avvicina alla Russia, allora acerrima rivale degli inglesi: sono gli anni del Grande Gioco, in cui Londra e San Pietroburgo si sfidano in Eurasia per l’egemonia mondiale. Quando nel 1853 scoppia la guerra di Crimea, il Regno delle Due Sicilie rimane rigorosamente neutrale: nega addirittura alle navi inglesi e francesi dirette verso Sebastopoli di attraccare nei propri porti per rifornirsi. Il primo ministro inglese, Lord Palmerston, non ha dubbi: il Regno Borbonico, nonostante la grande distanza geografica, è diventato un vassallo della Russia. Chi partecipa alla “Guerra d’Oriente” è invece il Regno di Sardegna, consentendo così al primo ministro, Camillo Benso, conte di Cavour, di acquisire un ruolo da protagonista nell’ormai imminente riassetto dell’Italia: «La storiografia certifica che Cavour, da buon reapolitiker qual è, non ha in mente “l’unità” della Penisola, bensì “l’unificazione” doganale, economica e militare di tre regni autonomi. Il Regno sabaudo allargato a tutto il Nord Italia, lo Stato pontificio ed il Regno borbonico: la soluzione, seppur caldeggiata da francesi e russi, è però osteggiata dagli inglesi, decisi a cancellare il potere temporale della Chiesa Cattolica e a sostituire gli infidi Borbone con i più sicuri Savoia, tradizionali alleati dell’Inghilterra sin dal Settecento». È “l’inglese” Giuseppe Garibaldi, eroe dei due mondi celebrato dalla stampa angloamericana nonché 33esimo grado della massoneria, a sbarcare nel maggio del 1860 a Marsala, feudo inglese per la produzione di vino, protetto dalle due cannoniere inglesi Argus e Intrepid. «La reazione della marina militare borbonica è nulla, perché la massoneria ha ormai assunto il controllo delle forze armate e dei vertici dello Stato. Le strade e le grandi città sono invece passate sotto il controllo del crimine organizzato: “i picciotti”, che agiscono sempre in sintonia con i “baroni”, danno un aiuto determinante all’avanzata dei Mille». E così il Regno delle Due Sicilie, svuotato da uno Stato parallelo che è cresciuto dentro lo Stato di facciata, si sfalda rapidamente: Reggio Calabria non oppone alcuna resistenza, mentre Napoli precipita nel caos, lasciando che il vuoto di potere sia colmato dalla camorra, lieta di accogliere Garibaldi e le sue truppe. Nasce così il Regno d’Italia, che ancora oggi paga il prezzo del suo peccato originale. Uno Stato strutturalmente debole, nato senza possedere il monopolio della violenza, costretto a convivere con due gemelli siamesi, le mafie e la massoneria, meri strumenti in mano a chi ha davvero orchestrato l’Italia unita: l’impero britannico. Londra, non è certo animata da nobili sentimenti: ha defenestrato i russofili Borbone per sostituirli con i fedeli Savoia, ha creato a Sud delle Alpi una media potenza da opporre alla Francia (si veda la Triplice Alleanza), ha partorito uno Stato sufficientemente robusto da reggersi in piedi, ma abbastanza debole da non insidiare la sua egemonia sul Mar Mediterraneo. Le mafie che hanno corroso il Regno delle Due Sicilie sono lasciate in eredità allo Stato unitario: è un’eredità avvelenata, finalizzata a compiere una perdurante opera di destabilizzazione nel Meridione, cosicché non possa mai sfruttare il suo enorme potenziale geopolitico di avamposto verso Suez, il Levante ed il Nord Africa. Ma le mafie come strumento di destabilizzazione non sono una peculiarità del Sud Italia.
Non c’è alcun dubbio che l’Italia “liberale” fondata nel 1861 sia terreno fertile per il crimine organizzato: mafia, camorra e ‘ndrangheta «si sviluppano nelle rispettive regioni come Stati paralleli a quello unitario, prosperando più che ai tempi del Regno delle Due Sicilie». La massoneria e le mafie, benedette da Londra, sono i motori dell’Italia liberale, un edificio che sembra spesso vicino al crollo: la mafia contribuisce a mantenere l’Italia in un perenne stato di fibrillazione, guidando ad esempio la rivolta del “sette e mezzo” che paralizza la Sicilia nel 1866. Il fenomeno mafioso è contenuto finché la destra storica, quella di Cavour, resta al potere. Ma poi esplode con l’avvento nel 1876 della sinistra storica: «Sotto la presidenza del Consiglio di massoni come Agostino Depretis e Francesco Crispi, è inaugurato il “Vice-Regno della mafia” che dal 1880 circa si estende fino al 1920». Lo Stato liberale abdica a favore del baronato. E l’intera Sicilia, formalmente governata da Roma, è in realtà un feudo anglo-mafioso: cosi Londra non ha bisogno di staccare l’isola del governo centrale come ai tempi di Ferdinando II, perché esercita il controllo de facto con la setta criminal-paramassonica, la stessa organizzazione che negli Stati Uniti assume nomi evocativi come “Mano Nera” o “Anonimi Assassini”: «Quando nel 1909 il commissario della polizia di New York, Joseph Petrosino, sbarca a Palermo per indagare sui legami tra mafia americana e siciliana, i picciotti non si fanno scrupoli a sparargli in testa». Nessuno deve disturbare i rapporti tra mafia e politica: il trasformismo parlamentare dell’epoca giolittiana è terreno fertile per la malavita, determinante per l’elezione degli onorevoli espressi dalle popolose regioni meridionali. Un cambiamento, si registra solo dopo la marcia su Roma del 1922, con l’irruzione sulla scena di Benito Mussolini, una vecchia conoscenza di Londra sin dalla Prima Guerra Mondiale e dalla campagna interventista del “Popolo d’Italia”, ed è vero che conquista la presidenza del Consiglio con l’appoggio determinante degli inglesi e della massoneria di piazza del Gesù, ma il duce del fascismo si emancipa in fretta e «l’omicidio Matteotti del 1924 può infatti essere considerato il primo tentativo inglese di rovesciarlo e ha certamente un certo peso sulla decisione del 1925 di abolire la libera muratoria (sebbene numerosi massoni, primo fra tutti Dino Grandi, restino al governo)». Fedele alla massima “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, Mussolini non può ovviamente accettare la convivenza con istituzioni parallele al governo, come la mafia. Nell’ottobre 1925 Cesare Mori è nominato prefetto di Palermo e, in poco meno di quattro anni, infligge un duro colpo a Cosa Nostra, avvalendosi dei poteri eccezionali affidatigli da Mussolini: nel 1927 il tribunale di Termini Imerese condanna oltre 140 mafiosi a durissime pene. Chi, ovviamente, stigmatizza la condotta del governo italiano è l’Inghilterra. Dezzani cita l’ambasciatore Ronald Graham, che scrive al premier Chamberlain: «Il signor Mori ha certamente restaurato l’ordine. Ha eliminato numerosi mafiosi e ras ed anche numerosi innocenti con mezzi molto dubbi, comprese prove fabbricate dalla polizia e processi di massa». Quindi mafie e massoneria, sorelle inseparabili, piombano “nel sonno”, in attesa di essere risvegliate al momento opportuno: proprio come ai tempi delle guerre napoleoniche, sbarcheranno in Sicilia con gli inglesi, accompagnati questa volta anche dalle forze armate statunitensi». È il 1943 e la mafia non solo facilita lo conquista dell’isola attraverso Lucky Luciano, ma addirittura «presenzia alla firma dell’armistizio di Cassibile nella persona di Vito Guarrasi, lontano parente di Enrico Cuccia (la cui famiglia è originaria del palermitano)». Finché il continente è occupato dai tedeschi, gli angloamericani coltivano la ricorrente idea di separare la Sicilia dal resto dell’Italia: è il momento d’oro del separatismo e del bandito Giuliano, destinato a scemare man mano che le truppe alleate risalgono la penisola. Perché infatti accontentarsi della Sicilia se, come ai tempi d’oro dell’Italia liberale, è possibile costruire dietro lo Stato di facciata un secondo Stato, retto dalle mafie a dalla massoneria? Inizia così la lunga stagione dei “misteri italiani” dove mafia, camorra e ‘ndrangheta figureranno a fianco di servizi segreti “deviati” e logge massoniche in decine di omicidi ed attentati: dal disastro aereo di Enrico Mattei alle bombe del 1993, dal sequestro Moro al rapimento dell’assessore Ciro Cirillo». Inutile stupirsi: «Il fenomeno rientra nella norma, perché sin dalle origini nella prima metà dell’800 le mafie non erano altro che società segrete paramassoniche, dedite al crimine e obbedienti alle logge inglesi e americane. Un pentito, Giovanni Gullà, ha rivelato agli inquirenti i meccanismi di “Mamma Santissima”, la nuova ‘ndrangheta, che contribuirà in maniera decisiva alla strategia della tensione: «La “Santa” si spiega nella logica della “setta segreta”: si è inteso creare una struttura di potere sconosciuta agli altri per ottenere maggiori benefici, la “Santa”, come setta segreta, è l’esatto corrispondente della massoneria coperta rispetto a quella ufficiale». Certo, l’appartenente alla ‘ndrangheta non può essere massone, ma questo vale solo per la ‘ndrangheta “minore” e la massoneria pubblica. La “Santa” invece «rappresenta una struttura segreta dentro la stessa ‘ndrangheta. E quindi, se il fine mutualistico può essere soddisfatto con l’ingresso di massoni nella struttura e viceversa, nessun ostacolo può essere frapposto. La “Santa” è dunque l’élite della ‘ndrangheta, «costituita negli anni ‘70 nel nome di tre personaggi storici, tutti risalenti al Risorgimento, tutti massoni, tutti ottime conoscenze di Londra: Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe La Marmora». Dalla “pax britannica” dell’ordine liberale alla “pax americana” dal 1945 a oggi. Nel biennio 1992-1993, che decretò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, la tesi dominante sul quel cruciale periodo della storia italiana: «Alla base delle stragi in Sicilia e “sul continente”, non ci fu il braccio di ferro tra malavita e Stato sul 41 bis, ma un più ampio ed ambizioso progetto con cui “menti raffinate” vollero ridisegnare la mappa economica e politica dell’Italia, inserendola nella più vasta cornice del Nuovo Ordine Mondiale». L’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima? Va collegato alla cruciale elezione del presidente della Repubblica di quell’anno. Gli omicidi di Falcone e Borsellino, sono analoghi ammonimenti lanciati al Parlamento, ma allo stesso tempo anche un avvertimento alla giustizia italiana affinché si fermi al livello “insulare” le indagini, senza approfondire i legami tra Cosa Nostra ed i servizi segreti della Nato. E le bombe del 1993 sono un “lubrificante” per consentire agli anglofili del Britannia di smantellare a prezzi di saldo l’Iri e l’industria pubblica. Quindi la mafia è lo strumento dell’oligarchia atlantica per perseguire obiettivi addirittura in contrasto con gli interessi di Cosa Nostra: è infatti assodato che la stagione stragista debilitò gravemente Cosa Nostra, “spremuta” nella strategia della tensione del 1992-1993 fino quasi a svuotarla. E non è certo un’eccezione l’impiego del crimine organizzato da parte degli angloamericani, già nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Per esempio sul caso Moro, a partire dal sequestro, il 16 marzo 1978 è appurato che la ‘ndrangheta abbia partecipato al commando che rapì il presidente della Dc, reo di turbare gli assetti internazionali con la sua apertura al Pci. Non solo, il capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, dichiarò che avrebbe potuto salvare Moro, se i servizi segreti non si fossero opposti. Prima ancora, la strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, l’ecatombe che inaugura la strategia della tensione perpetrata dalla destra eversiva di Franco Freda, in stretto contatto con la ‘ndrangheta. Senza dimenticare l’omicidio di Enrico Mattei, nel 1962 dov'è Cosa Nostra a sabotare, all’aeroporto di Catania Fontanarossa, il velivolo su cui trovò la morte il presidente dell’Eni, scomodo alle Sette Sorelle». Ma oggi il sistema internazionale è entrato in una crisi irreversibile, schiacciato dalla crisi del capitalismo anglosassone e dall’emergere di nuove potenze. Si avvicina quindi il tempo del riscatto e bisogna sfruttare il declino dell’egemonia angloamericana per liquidare le società segrete paramassoniche che da due secoli corrodono il Meridione e l’Italia, impedendo di sfruttarne l’enorme potenziale come ponte naturale tra Europa e Asia.
IL "BUROCRATICO" SACCHEGGIO. Scrive Un Popolo Distrutto" il 6 febbraio 2018. Quando si unisce un paese o si fa una guerra di liberazione, ai “liberatori” non dovrebbe essere consentito il diritto di saccheggio, anche perché si invase il Regno per liberarlo dalla tirannide e non si dichiarò guerra ai Borbone che tanti sacrifici avevano fatto per mantenere una fiscalità bassa che non opprimesse la popolazione. Ma il biondo eroe don Peppe Garibaldi, famoso eroe anche nell’oltremare del Sud America, dove grazie alle lettere di “corsa” assalta e depreda, per far bottino, le navi brasiliane e spagnole. Garibaldi, nella sua breve sosta a Marsala, incontrandosi poi con il Sindaco ed i decurioni della città non perderà tempo a pretendere che gli consegnassero il denaro contenuto nelle ‘casse’ comunali. E così con spirito corsaro appena entra a Palermo per prima cosa si fa consegnare dal banco 2.178.818 lire dei 5 milioni di ducati che erano custoditi. Ma con l’onestà che lo distingueva, lasciò un pezzo di carta, una ricevuta, con scritta la promessa che il nuovo stato avrebbe restituito tutto e rimesso i conti in ordine. Quel foglietto restò negli archivi dell’istituto: prima in quello contabile e poi in quello storico. ( Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Edizioni Piemme ). E pensare che “…nel 1859, al Banco di Sicilia dovettero chiamare gli operai per rinforzare il pavimento che, nonostante la blindatura, non bastava per sostenere il tesoro conservato in cassaforte. Lingotti a tonnellate!… Ad alleggerirla, in quel maggio del 1860 e a risolvere i problemi e i pericoli del sovrappeso della cassaforte ci pensò, alla sua maniera, Garibaldi, rapinando i palermitani e i siciliani dei loro risparmi. Garibaldi nella sua gita in Sicilia perfettamente organizzata in ogni suo dettaglio sbarcherà a Marsala, scortato dalla marina borbonica dal comandante Acton che solo dopo un tranquillo sbarco tra le navi di sua maestà britannica che si trovavano lì per puro caso, si deciderà ad usare il cannone, ma si trattò di un uso bonario quasi di festa! A Marsala troverà ad attenderlo il console inglese Collins e qualche rappresentante della stessa colonia inglese presente in quella città, ma la popolazione restò ostile ed avversa alla sua venuta. Altro che accoglienze trionfali con bandiere e mortaretti che falsamente riportano i testi della storiografia ufficiale e scolastica, gli unici botti li sparò il traditore borbonico Guglielmo Acton (che sarà ricompensato col grado di contrammiraglio e poi ministro della marina del Regno d’Italia). Ad agosto sempre a Palermo “…correvano i tempi di piglia piglia. Dai beni dei Liguorini e Gesuiti volsero ducati diciottomila alla pubblica istruzione. Ordinarono una sovrimposta del due per cento sui valori di tutti i beni del clero, da pagarsi in tre rate. Da tutte le parti del mondo erano venuti sussidi e obbligazioni per la santa causa della rivoluzione; fatta questa vincitrice, non si tenne conto di quei denari,; e si obbligò il tesoro siciliano a pagar milioni per arme, cannoni, munizioni, vestiari, cavalli, spie, e altri compensamenti, e anche 700.000 ducati prezzo dei quattro decrepiti legni a vapore sicchè il Garibaldi e il Crispi si rivalsero di ogni minimo quattrino speso, e intascarono quanto era stato offerto dai rivoluzionari del mondo. Né sazi di tanto, il dittatore in ottobre comandò allo scrivano di razione così:” Rimborserà il tesoriere generale d’un milione e quattrocentomiladucati, per estinguere cambiali all’estero, senza darne conto, ponendo l’esito al capitolo delle spese comuni nello stato discusso. E vi era la firma di Domenico Peranni allora ministro delle Finanze. Il denaro se lo presero; i conti li sapevano il Garibaldi, il Crispi, il Peranni, e un Michele Minneci; questi due beneficiatissimi di Ferdinando II, allora predicatori acerrimi della tirannia dei Borboni. (Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Edizioni Brenner). E così con la risalita del Regno fu sistematicamente depredato tutto quello che si poteva, il 6 settembre 1860, cioè il giorno prima dell’arrivo del filibustiere a Napoli, le risorse pubbliche ammontavano a 29.749.256 franchi. I Borbone avevano lasciato intatto il tesoro del Regno, tesoro che fu subito predato dal pirata dei Due Mondi. Pietro Calà Ulloa, ministro in esilio di Francesco II, in una lettera indirizzata al politico britannico Disraeli, descrisse il fatto come un “prodigio di dilapidazione e di corruzione… si cominciò con l’impadronirsi delle residenze reali, delle loro mobiglie, della loro argenteria, degli oggetti d’arte e di lusso , senza redigerne alcun inventario…”. Giacinto De Sivo di quel triste periodo storico ci ha lasciato questa traccia:”…il settembre fu sequenza di iniquità, empietà e misfatti. Plebe irta d’arme, popolo indignato, Nazionali scherani, garibaldini atei e vandali, scellerati potenti; rapine, contrabbandi, mancanza di commercio, caro di vettovaglie; erario dilapidato, non percepiti i dazi, nessuna giustizia, nessuna sicurezza di vita e di roba; ospedali carichi di feriti, case cariche d’alloggi; teatri, piazze, chiese, fatti luogo di spettacoli turpi, accozzamenti di mali preti, di donne, di camorristi, e chiedere soccorsi per feriti e martiri, tutte estorsioni. Nelle province turbolenze, paure e rabbie. Chi a predare, a carcerare, a uccidere; chi a pagare, fuggire, a fingersi liberale. La stampa tutta faziosa, spaventata da tante fazioni opposte, accusava i ministri, il Bertani e i suoi latrocinii; e finiva gridando tribunali statarii e forche…” (Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Edizioni Brenner). Non appena terminata la visita al santuario di Piedigrotta, Garibaldi, attorniato da una schiera di delinquenti, diede inizio al il saccheggio di Napoli e della Chiesa. Per cominciare, camorristi e prostitute furono gratificati con grosse somme di denaro; indi, senza indugio, si diede a cancellare l’assetto istituzionale del Sud. I decreti cominciarono a sortire nuovi privilegi a scapito della proprietà privata, demaniale, e della Chiesa. Ai gattopardi si stavano sostituendo le iene fameliche. Al buonsenso si stava sostituendo il malcostume; alla morale il disordine e la rapina. Cominciarono a piovere come grandine i decreti di confisca dei pegni, depositati nei Monti di Pietà, e dei depositi bancari. Il ladrone, da pirata con esperienza decennale nel saccheggio del del Sud-America per conto della massoneria, cominciò quello del Banco di Napoli dalle cui casse estorse ben 80 milioni di ducati. Poi mise mano ai beni della Casa Reale, a quelli dei Maggiorati Reali e dell’Ordine Costantiniano fino ad allora amministrati dal Presidente dei Ministri. Fu anche abolito l’Ordine dei Gesuiti con tutte le diramazioni e dipendenze. I beni mobili ed immobili dell’ordine furono dichiarati nazionali, cioè piemontesi. Furono confiscati 30 milioni di franchi di rendite in cedole sopra il debito pubblico (gli attuali BOT e CCT ) che gli ex consiglieri del Re si affrettarono a rivelare quali beni personali dei membri della famiglia Reale. (La Civiltà Cattolica, Serie IV, Vol. VIII, anno 1860, pag 360). …Il Piemonte, con la sua rete di funzionari, portaborse e burocrati onnivori, lasciò il Meridione conquistato, avvilito, depresso e spogliato di ogni avere. Con la scusa dell’Unità d’Italia rubarono tutto…” Questi ladri affamati ed assetati, ebbero persino il coraggio di predare 67.059.000 ducati, della dote ereditaria di Maria Cristina di Savoia, madre di Francesco II. Tali ruberie furono denominate Reintegrazioni legittime in quanto, secondo i nuovi padroni di Napoli, i Borbone quei soldi li avevano rubati. Il ministro Conforti aveva assegnato tutti i soldi, rubati alla Casa Reale, al Garibaldi, mammasantissima del momento ed anche degli anni successivi, il quale da buon corsaro non li aveva disdegnati; a tale sconceria si opposero gli agenti di cambio, per cui l’intera somma al momento fu gioco forza assegnata all’erario. Si assegnarono 6000 franchi al giorno per le spese della tavola del bandito dittatore nizzardo, somma che i suoi pro-dittatori dilapidavano allegramente. Contro quelle ruberie protestò Francesco II attraverso il Ministro degli Esteri Casella e proclamò “…di aver unito la sua causa a quella del popolo, e di non aver curato di porre in salvo le sue sostanze, perché avrebbe sdegnato di salvare per esso una tavola in mezzo al naufragio della Patria”. (Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Vol.II, Edizioni Brenner, Cosenza, 1984, pag. 211). “Ma anche l’onesto generale Enrico Cialdini, entrato trionfante in Napoli alla testa di ottomila bersaglieri, il 12 ottobre (la capitale era stata ormai declassata a capoluogo di provincia) preso alloggio nella profanata Reggia di Napoli, “quell’eroe immacolato non fottette tutti i candelabri d’argento che vi trovò? Li fuse, il grand’uomo… ne fece un po’ di lingotti e via… Li spedì a Torino, cacchio, a casa sua!…” (Angelo Manna, Briganti furono loro quei vili assassini dei fratelli d’Italia, Sun Books, Roma, 1997, pag 143). Ma si mormorava che anche Silvio Spaventa, direttore di polizia di Garibaldi, aveva fatto liquefare 600 paia di candelieri d’argento preziosissimi. Sparirono altresì tanti dipinti di valore, orologi di pregio, impagabili oggetti d’argento e la notevole armeria del Re, fra cui la famosa spada che Francesco I, Re di Francia, aveva impugnato a Pavia nella battaglia contro le truppe di Carlo V. “…Con le rendite private confiscate a casa Borbone vennero pagati i migliori: il luogotenente Farini Luigi Carlo(quello dell’Affrica e dei beduini che erano rose e fiori al nostro confronto…) si assegnò, bontà sua, uno stipendio di 11mila ducati al mese; tremila al mese si beccarono i tre generali garibaldesi promossi generali dell’esercito italiano: Turr, Medici e Cosenz, l’amico del cuore di Carlo Pisacane che gli involò Enrichetta de Lorenzo, e fu per quelle amichevoli corna che il cornutone pensò di andarsi a suicidare nella disperata spedizione di Sapri…” ( Angelo Manna, Briganti furono loro quei vili assassini dei fratelli d’Italia, ibidem, pag 144). Ma come mai questo falso eroe, questo falso rivoluzionario, questo falso biondo, questo falso capellone, questo vero assassino, questo vero pirata, questo falso socialista, questo vero massone e mercenario, ha fucilato solo contadini ed operai, mai un latifondista. Ha saccheggiato chiese, conventi, casse dei comuni e quelle della banche. Era o no un fervente repubblicano e patriota? No, Garibaldi non era niente, era solo un mercenario al servizio del sistema liberal-massonico. Infatti, anni dopo, quando Londra gli tributò il dovuto riconoscimento di servo e lacchè, Disraeli, che sapeva tutto, rifiutò di stringergli la mano, lo considerava un bieco pirata. Il Garibaldi, spacciato dagli oleografi risorgimentali eroe dei due mondi, colui che della giustizia umana aveva fatto la sua bandiera, non è mai andato a confiscare i beni di Cavour che erano tanti, e quelli dell’aristocrazia piemontese. Ed i liberali napoletani? Tutti ad applaudire le ruberie dello straniero venuto dal Nord. Questi sono stati i nostri liberatori a cui gli hanno intitolato piazze e scuole in tutta Italia.
Così, con questi atti di pirateria e con il saccheggio e la spoliazione sistematica del Sud iniziò la predatoria spedizione dei Mille tanta cara e tanto celebrata dalle menzogne dei nostri storiografi e dai nostri risorgimentalisti.
Garibaldi e il saccheggio del Regio Banco di Sicilia. 31 Maggio 1860: il giorno funesto del saccheggio del Banco di Sicilia, scrive Ignazio Coppola su "Inuovivespri.it" il 31 maggio 2017. Storia & Controstoria. Il primo della storia. Dell’enorme tesoro in lingotti d’oro che allora il Banco di Sicilia conteneva e che fu saccheggiato da Garibaldi ne è testimonianza il fatto che poco meno di un anno prima (nel 1859) era stato eseguito il rafforzamento della pavimentazione del Banco stesso resa pericolante dall’enorme peso della traboccante cassaforte in cui appunto erano contenute ingenti somme di denaro e enormi quantità di lingotti d’oro…Il 27 maggio del 1860 data l’inizio della scientifica spoliazione e della rapina delle ricchezze e dei beni delle genti del Sud e dei siciliani Con l’entrata di Garibaldi a Palermo ha infatti inizio il saccheggio della tesoreria del Regio Banco di Sicilia . Del resto che cosa ci si poteva aspettare da un predone che in sud america era uso, grazie alle lettere di “corsa” assaltare e depredare, per far bottino, le navi imperiali brasiliane e spagnole. Dell’enorme tesoro in lingotti d’oro che allora il Banco di Sicilia conteneva e che fu saccheggiato da Garibaldi ne è testimonianza il fatto che poco meno di un anno prima (nel 1859) i dirigenti del banco siciliano avevano commissionato ad alcune imprese edili il rafforzamento della pavimentazione del Banco stesso resa pericolante dall’enorme peso della traboccante cassaforte in cui appunto erano contenute ingenti somme di denaro e enormi quantità di lingotti d’oro. Ad alleggerirla in quel maggio del 1860 e a risolvere i problemi e i pericoli del sovrappeso della cassaforte ci pensò, alla sua maniera, Garibaldi rapinando il contenuto della cassaforte e depredando i palermitani e i siciliani dei loro risparmi. Il tutto avvenne in occasione dell’incredibile e inspiegabile ingresso di Garibaldi in una Palermo presidiata da 24000 borboni e dopo la farsa della battaglia di Calatafimi, dove grazie al tradimento e alla corruzione (il prezzo del tradimento ammontò allora a 14000 ducati) del generale Landi ,3000 borboni batterono in ritirata di fronte a circa 1000 garibaldini male in arnese e nella quasi totalità inesperti all’ uso delle armi. In quell’occasione, proprio quando i borboni in numero nettamente superiore e attestati in una posizione più che favorevole, si accingevano a sconfiggere facilmente i garibaldini, il generale Landi , che già aveva intascato una fede di credito di 14000 ducati, un somma enorme per quei tempi equivalenti a 430 milioni di vecchie lire e 224mile euro dei nostri giorni, diede ordine al proprio trombettiere, di suonare il segnale della ritirata, lasciando sbigottiti ed esterrefatti gli stessi garibaldini che, a quel punto, non credevano ai propri occhi. Come non credevano ai propri occhi gli stessi soldati borbonici che con rabbia e sdegno, loro malgrado, furono costretti a ubbidire. Scriverà poi Cesare Abba nelle suo libro “Da Quarto al Volturno”: “E quando pensavamo di avere perso improvvisamente ci accorgemmo di avere vinto e meravigliati dal campo stemmo a guardare la lunga colonna ritirarsi a Calatafimi”. E ancora, uno dei Mille, Francesco Grandi nel suo diario così riportava: “Ci meravigliammo non credendo ai nostri occhi e alle nostre orecchie, da come si erano messe le cose, quando ci accorgemmo che il segnale di abbandonare la contesa non era lanciato dalla nostra tromba ma da quella borbonica.” Più chiaro di così. Tanto potè a Calatafimi il tradimento e la corruzione del generale Landi come possiamo rilevare da quanto riportato nei loro diari degli stessi garibaldini increduli testimoni dell’ “inglorioso” evento. Ma “l’intelligenza con il nemico” di Landi nella battaglia di Calatafimi non fu certo pari a quella del generale Lanza a Palermo. Questi lo superò di gran lunga, nel modo come all’alba del 27 maggio agevolò l’entrata di Garibaldi a Palermo da porta Termini, lasciandola deliberatamente sguarnita e non prendendo alcun provvedimento malgrado alcuni suoi ufficiali lo sollecitassero a fare uscire le truppe( che contavano ben 24000 uomini) acquartierate al palazzo reale per contrastare i circa 3000 garibaldini ( ai Mille si erano nel frattempo aggiunte alcune bande di picciotti molte delle quali condotte da noti mafiosi dell’epoca) che si accingevano a entrare in città. Lanza lasciò deliberatamente il grosso delle truppe inoperose e poca resistenza poterono fare le 260 reclute che erano rimaste a presidio di porta Termini da cui, travolta questa scarsa resistenza, i garibaldini dilagarono in città rimanendone nei giorni successivi assoluti padroni poiché Lanza si ostinava a tenere inspiegabilmente (era evidente il tradimento e la connivenza con il nemico) le sue truppe acquartierate e inoperose nei pressi del Palazzo Reale. Nei giorni seguenti, fedele a un copione già stabilito e concordato, chiede per il giorno 29 maggio all’ammiraglio inglese Mundy, che si trovava con la sua nave ammiraglia Hannibal nella rada di Palermo la mediazione per la firma di un armistizio che verrà accordato e che si protrarrà sino al 3 giugno. Nelle more dell’armistizio, per accordare ulteriori 3 giorni di proroga Garibaldi, pretenderà la consegna di tutto il denaro del Regio Banco delle Due Sicilie. E come è facilmente arguibile, da copione già scritto, il Lanza acconsentirà facendo per questo nascere il legittimo sospetto, alla luce degli avvenimenti di quei giorni caratterizzati da tradimenti e corruzioni, che, nella divisione della torta del saccheggio del Banco, una fetta non indifferente andasse alla fine nelle capienti tasche del generale borbonico. Del resto, di qualche giorno a Calatafimi sulla falsariga della corruzione e del tradimento, lo aveva preceduto per cifre più modeste il generale Landi. La cronaca di quei giorni e della consegna di quanto contenuto e saccheggiato dal Banco delle Due Sicile” e bene e dettagliatamente riportata nel libro di Lucio Zinna “il Caso Nievo” (che come si sa fu il vice intendente di finanza della spedizione dei Mille). Zinna fa una puntuale e interessante ricostruzione del caso Nievo e della sua misteriosa morte avvenuta nel marzo del 1861, nell’affondamento del Piroscafo Ercule a punta Campanella nei pressi di Napoli mentre stava portando a Torino la rendicontazione della gestione amministrativa e finanziaria dell’impresa dei Mille comprendente anche, si presume, la vicenda riguardante la “consegna” del denaro del Banco delle Due Sicile preteso da Garibaldi all’atto dell’armistizio. Ma sfortunatamente tutto andò a fondo nel naufragio dell’Ercole e ogni notizia al riguardo si perse con la misteriosa morte di Nievo. Lucio Zinna nel suo interessante libro, così puntigliosamente e minuziosamente, ricostruisce la cronaca del ” prelievo” fatto da Garibaldi a danno dei palermitani e dei siciliani al Banco delle Due Sicilie: “ Il primo giugno Francesco Crispi e Domenico Peranni ( ultimo tesoriere di nomina borbonica, ben presto e per breve tempo Ministro delle Finanze della dittatura garibaldina) ricevettero nel palazzo delle finanze, dallo stesso generale Lanza e in presenza di funzionari, la somme che vi erano custodite. Complessivamente 5 milioni 444ducati e 30 grani. E poiché nella monetazione siciliana-spiega Zinna nella sua puntuale ricostruzione – un ducato, equivalente a dieci tarì, corrispondeva al cambio in lire italiane di 4,20, la somma complessiva ammontava a 22 milioni 864mila 801 ducati e 26 centesimi pari a 166 miliardi 962 milioni 738 mila 984 lire che tradotti in euro fa 86 milioni 229 058 e 44 centesimi. Un importo complessivo costituito dai depositi dei privati tranne 112 mila 286 ducati di pertinenza erariale. Una somma enorme equivalente a quasi metà delle spese sostenute nella guerra franco piemontese del 1859 contro l’Austria. E fu così che privati cittadini palermitani e siciliani si videro così spogliare di tutti i loro risparmi ai quali Garibaldi rilasciò una improbabile ricevuta con su scritto “Per spese di guerra” con l’impegno che il nuovo stato avrebbe restituito il prestito. Il foglietto contenente la ricevuta restò negli archivi a futura memoria. Il dovuto non fu mai restituito ma distribuito ai garibaldini, alla copertura delle spese delle guerre sabaude e al ripianamento del debito pubblico dello stato più indebitato d’Europa che era allora il Piemonte per le enormi spese di guerra sostenute. I siciliani e i palermitani aspettano ancora di essere risarciti di queste rapine anche per questo la magica parola Risorgimento vorrà ancora oggi, per loro significare, con i dovuti interessi, Risarcimento. Di questo prelievo indebito e forzato è difficile, trattandosi di un vero e proprio atto di saccheggio e di pirateria dei depositi bancari dei siciliani, trovarne traccia nelle cronache e nei libri del tempo. Ne fa cenno nel suo libro-diario “La Flotta inglese e i mille” l’ammiraglio sir Rodney Mundy, inviato, con la sua flotta, dal governo del suo paese, a scortare e proteggere Garibaldi, che così debitamente riporta l’avvenimento: 1° giugno – Riferendosi alle clausole della convenzione firmata dal generale Lanza e dal sig. Crispi, segretario di stato del governo provvisorio, la Finanza e la Zecca reale passava agli insorti. Nelle casse furono trovate un milione e duecentomila sterline in denaro contante” (Corrispondente, in sterline, all’ingente somma così bene e minuziosamente descritta da Lucio Zinna). Per non fare torto ai siciliani e ai palermitani, appena giunto a Napoli, Garibaldi non si fece parimenti scrupolo di depredare e usare lo stesso trattamento e gli stessi metodi di rapina alla capitale del Regno delle Due Sicilie. Il palazzo reale fu spogliato e depredato di tutto e così come avvenne a Palermo fu saccheggiato l’oro della Tesoreria dello Stato e tutti i depositi del Banco di Napoli requisiti e dichiarati beni nazionali. Con un decreto del 23 ottobre, ben 6 milioni di ducati equivalenti a 118 miliardi delle vecchie lire e a 90 milioni degli attuali euro provenienti da questi saccheggi furono poi divisi tra gli occupanti e i loro sodali. Furono pure requisiti il patrimonio e i beni personali di Francesco II di cui indebitamente si impossessò Vittorio Emanuele II. Più avanti il re di Sardegna si offrirà di restituirli al legittimo proprietario se questi avesse acconsentito a rinunciare al suo diritto al trono delle Due Sicilie. “La dignità non si compra” fu la lapidaria risposta del deposto ultimo re della dinastia borbonica in Italia, definita “la negazione di Dio”, al re “galantuomo” che lo aveva depredato di tutto. E dire che di recente il ballerino cantante principe Emanuele Filiberto di Savoia e suo padre Vittorio Emanuele, degni discendenti del re “galantuomo”, con la regale faccia tosta che li contraddistingue, rientrati dall’esilio pretendevano un cospicuo risarcimento per svariati milioni di euro per i danni subiti, a loro dire, dallo stato italiano. Avrebbero fatto bene i due ridicoli e patetici rampolli discendenti di casa Savoia a rileggere la Storia di quei tempi e rivisitare i massacri le rapine, le spoliazioni e i saccheggi perpetrati indebitamente dai loro avi a danno delle popolazioni meridionali e per questo, esse e non i Savoia, legittimamente destinatarie di risarcimenti mai bastevoli a compensare gli incommensurabili e inestimabili danni subiti. Ma torniamo al generale Ferdinando Lanza. Dopo avere consentito a Garibaldi di depredare, nelle more dell’armistizio del 30 maggio, il Banco di Sicilia in cui si presume abbia avuto la sua parte di “bottino”, giusto il tempo di consentire saccheggio, firmerà appena sette giorni dopo (il 6 giugno) una disonorevole e umiliante capitolazione. Ben 30 mila borboni bene armati e in pieno assetto di combattimento (ai 24000 uomini accampati, che Lanza teneva inoperosi nel piano di palazzo reale, se ne erano nel frattempo aggiunti 6000 agli ordini di Bosco e Won Mekel rientrati a Palermo dopo il vano inseguimento alla colonna del garibaldino Orsini) si arrenderanno a poco più di 3000 tra picciotti e garibaldini male in arnese e scarsamente armati. Una incredibile e assurda capitolazione che non trova alcuna elementare spiegazione in nessun manuale di strategia militare, se non giustificata dalla corruzione e dal tradimento dei generali Landi a Calatafimi e Lanza a Palermo. Scrive, a proposito di questa inconcepibile resa, ancora Cesare Abba: “Gli abbiamo visti partire. Sfilarono dinanzi a noi alla marina per imbarcarsi, una colonna che non finiva mai, fanti, cavalli, carri. A noi pare un sogno, ma non a loro”. Era un sogno. I garibaldini ancora una volta, come a Calatami, non credevano ai propri occhi: avevano guadagnato una battaglia che, considerata l’enorme disparità in campo a loro sfavorevole mai pensavano di poter vincere. Un sogno per i garibaldini, un incubo per i soldati duosiciliani cui li aveva precipitati il tradimento e la corruzione dei propri generali. Rientrato a Napoli, Ferdinando Lanza finirà davanti alla Corte Marziale per alto tradimento. Non ci sarà il tempo di condannarlo per il precipitare degli eventi dovuti alla fuga da Napoli di Francesco II. Il generale Lanza potrà così godersi il frutto delle proprie malefatte. Della sua “intelligenza con il nemico” negli avvenimenti di Palermo del giugno del 60 ne è riprova quanto avvenne poco meno di tre mesi dopo a Napoli. Il 7 settembre Lanza si recherà a palazzo d’Angri a rendere omaggio a Garibaldi e a complimentarsi per le sue “vittorie” e ricordargli che a queste vittorie lui aveva dato il suo determinante e peculiare contributo. Altrettanto bene non finirà invece al generale Landi. Vi ricordate delle fede di credito di 14mila ducati quale prezzo della sua arrendevolezza a Calatafimi? Ebbene nel marzo del 1861 quando si presenterà presso la sede del banco di Napoli per esigere il prezzo del “malaffare”, dai funzionari del banco si sentirà dire che quella fede di credito era taroccata. Il suo valore non era di 14mila ducati ma bensì di 14 ducati a cui erano stati aggiunti truffaldinamente tre zeri. Ai dirigenti, che gli aprivano sconsolatamente le braccia, confesserà con rabbia di averla avuta personalmente da Garibaldi. Corrotto e truffato dunque, Landi, precedentemente degradato e posto in pensione, morirà per il dispiacere poco tempo dopo. Saccheggi, spoliazioni, tradimenti corruzioni, truffe da Garibaldi ai Savoia questi gli ingredienti che caratterizzarono la conquista del Sud e portarono a una mal metabolizzata “Unità d’Italia”. Oggi, a distanza di 150 anni da quegli avvenimenti, nulla è cambiato. Con queste premesse del resto cos’altro potevano pretendere gli italiani e le popolazioni meridionali che di questa mala Unità ne pagarono e ne continuano a pagare le drammatiche e costose conseguenze.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
AI MIEI TEMPI...AI MIEI TEMPI...
1. “La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell’autorità e non ha nessun rispetto per gli anziani. I ragazzi d’oggi sono tiranni. Non si alzano in piedi quando un anziano entra in un ambiente, rispondono male ai loro genitori...”
2. “Non ho più speranza alcuna per l’avvenire del nostro Paese, se la gioventù d’oggi prenderà domani il comando, perché è una gioventù senza ritegno e pericolosa”.
3. “Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico. I ragazzi non ascoltano più i loro genitori. La fine del mondo non può essere lontana”.
4. “Questa gioventù è guasta fino in fondo al cuore. Non sarà mai come quella di una volta. Quella di oggi non sarà capace di conservare la nostra cultura...”
5. “Oggi i ragazzi amano troppo i propri comodi. Mancano di educazione, disprezzano l'autorità, i figli sono diventati tiranni anziché essere servizievoli. Contraddicono i genitori, schiamazzano, si comportano da maleducati con i loro maestri. Oggi il padre teme i figli. I figli si credono uguali al padre e non hanno né rispetto né stima per i genitori. Ciò che essi vogliono è essere liberi. Il professore ha paura degli allievi, gli allievi insultano i professori; i giovani esigono immediatamente il posto degli anziani; gli anziani, per non apparire retrogradi o dispotici, acconsentono a tale cedimento e, a corona di tutto, in nome della libertà e dell'uguaglianza, si reclama la libertà dei sessi”.
6. «In questi ultimi tempi, il mondo si è degenerato al di là di ogni immaginazione. La corruzione e la confusione sono diventate cose comuni. I figli non obbediscono più ai genitori e ormai non può che essere imminente la fine del mondo».
Di chi sono queste frasi? Di qualche scrittore contemporaneo? Di genitori o professori amareggiati d'oggi? No! Sentite!
La prima citazione è di Socrate, filosofo greco, che visse dal 469 al 399 prima di Cristo.
La seconda citazione è del poeta greco Esidio, vissuto 720 anni prima di Cristo.
La terza citazione è di un sacerdote egiziano che viveva 2000 anni prima di Cristo.
La quarta è stata scoperta recentemente in una cava di argilla tra le rovine di Babilonia, ed avrebbe più di 3000 anni.
Quanto alla quinta, è tolta dal libro VIII de "La Repubblica" di Platone, vissuto dal 428 al 347 prima di Cristo.
La sesta è una tavoletta assira del 2.800.
Conclusione? Tutto quello che si dice o si scrive, è già stato detto o scritto.
PARLAR MALE DELL'ITALIA? LA GODURIA DEGLI ITALIANI.
"Quando me la prendo con i gufi, non dico che non si può parlare male del governo, ma che non si può parlare male dell’Italia. Se all’esterno raccontiamo che siamo un insieme di difficoltà come facciamo ad attrarre investimenti?". Lo ha detto a Palermo il premier Matteo Renzi a Palermo il 16 novembre 2016.
Parlare male dell’Italia è il nostro sport nazionale? Risponde Luciano Fontana il 13 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. "Caro direttore, si leggono sovente nella posta grandi elogi del sistema di comportamento e altro, solo all’estero, il peggio solo a noi ma non è così. Una signora russa che viene per lavori a casa mia l’altro giorno mi ha detto: «Grazie Italia, grazie Italia. In questi anni ho potuto curare e guarire mio figlio!». Ha ultimato inoltre l’acquisto di un appartamentino nel suo Paese. Insomma: «Italiani, brava gente». Valeria Forti, Milano".
Cara signora Forti. Parlare male dell’Italia è lo sport nazionale più diffuso, nella politica, nelle professioni, nella vita quotidiana. Il motto americano «Right or wrong, it’s my country» («giusto o sbagliato è il mio Paese») non ha mai avuto fortuna nella nostra discussione pubblica e privata. Ritrovare un po’ d’orgoglio di quello che siamo e di quello che siamo riusciti a fare dal dopoguerra in poi non sarebbe male. Il nostro sistema sanitario, lodato dalla signora russa, offre cure a tutti ed è certamente migliore, per tanti aspetti, di quelli di altri Paesi. Provate a chiedere a chi, non essendo ricco, ha dovuto rivolgersi a un ospedale americano. Così come possiamo essere orgogliosi non solo di quello che ci rende unici al mondo (paesaggio, arte, cultura, borghi storici) ma anche dei primati che abbiamo saputo conquistare nella moda, nel design, nella cucina, nella manifattura. Qui però dobbiamo fermarci e guardare all’altra faccia della medaglia. Il sistema sanitario italiano, spesso molto efficiente soprattutto al centro-nord, è lo stesso che a Nola lascia i pazienti sul pavimento, e offre quotidiani esempi di inefficienza, sprechi e corruzione. Ogni sondaggio sul Paese più desiderato al mondo dai turisti mette l’Italia al primo posto: perché allora non siamo mai primi negli arrivi e nei soggiorni, perché consideriamo gli stranieri solo persone a cui spillare il massimo dei soldi? Per non parlare di quanto poco ci occupiamo della tutela dell’ambiente e del territorio, di quanto sia bassa la competitività del nostro sistema economico e alte invece la corruzione e le complicazioni burocratiche, di come abbiamo aperto una voragine nei conti pubblici. Insomma abbiamo molti motivi per non essere contenti del nostro Paese. Non dobbiamo offenderci se qualcuno ce li ricorda. Ma oggi può essere uno di quei giorni in cui l’Italia «giusta o sbagliata» è il nostro Paese. E dunque ringraziare la signora russa che ci ricorda gli aspetti positivi.
Perché solo gli italiani (che vivono in Italia) possono parlar male dell'Italia? Scrive Daria Simeone, Mamma italiana a Londra, il 9/08/2015 15:27 su "Huffingtonpost.it". Una mia amica del cuore qualche tempo fa sosteneva che i rosiconi sono la peggiore specie. Seguita dai permalosi. Io le confessavo di essere molto permalosa e un po' rosicona. Per fortuna mi vuole bene e resterà mia amica. Dal basso della mia permalosità capisco i tanti italiani che diventano permalosi - e un po' rosiconi - quando ci toccano la "Madreh Patriah". L'ultima volta è capitato ieri sera. Ero su la Rambla del Poblenou a Barcellona in compagnia di amici e mendicanti. Una processione niente male, alcuni chiedevano 50 centesimi e portavano delle scarpe da ginnastica migliori delle mie. Comunque, siamo finiti a parlare di senzatetto. Notavo quanti ce ne fossero a Barcellona, ma anche a Roma e Milano. "Ah beh a Londra non ce ne sono perché con quel tempo di merda morirebbero di reumatismi" mi ha risposto prontamente un compatriota, prima ancora che tirassi in ballo la città in cui vivo. Così come i cani randagi che secondo un mio collega italiano non esistono in Inghilterra perché finiscono tritati nel Christmas pudding. Oppure quando si parla dei negozi che, dove sono nata io, non fanno orario continuato "perché da noi tra le 13 e le 17 fa caldo, se esci per andare in un negozio ti dissolvi al sole come un lemonissimo". E d'inverno? "Beh perché gli inglesi pensano solo a fare soldi, noi vogliamo pranzare tutti assieme come una vera famiglia che ha un tavolo su cui mangiare, mica come quei disadattati inglesi che mangiano sui divani". E la Svezia che ha i latte papas che possono prendersi un congedo di paternità proprio come le madri? "E vabbé, tanto poi si suicidano tutti da quelle parti". Un'altra cosa tipica è: "E comunque che palle questi expat che parlano male dell'Italia come se avessero trovato la terra promessa: bravi, restatevene pure lì". Oppure: "Qui si cerca di mettere l'Italia in cattiva luce per screditare Renzi". Italiani permalosi (come me), una cosa: Ma chi se ne importa di screditare Renzi. Anzi due: non è che il congedo di paternità, in Inghilterra o in Svezia, l'ho ottenuto io dopo estenuanti lotte e proteste in piazza. Non è un mio merito di cui mi posso vantare. E'un esempio, un buon esempio, a cui non farebbe male guardare. Ciò non toglie che ci sono cose del Regno Unito che mi hanno indignato, a parte il tempaccio intendo. Come il potere quasi mafioso degli agenti immobiliari, la regolamentazione del mercato del lavoro così liberale da essere spesso crudele. Su tante cose potremmo vantarci di essere migliori, ma non faremmo altro che il "gallo 'ncoppa 'a munnezza", tradotto: non possiamo usare le debolezze altrui per distrarre l'attenzione dalle nostre. Gli expat, poi, non è che smettono di essere italiani solo perché vivono altrove. Non sono alieni, non appartengono ad un'altra categoria umana. Non vi raccontano i fatti loro per screditare Renzi o l'Italia. L'Italia sono anche loro. E soprattutto, statene pur certi, quando c'è da difendere l'Italia dagli "attacchi dello Straniero" sono i primi a farlo.
a) perché solo gli italiani hanno il diritto di parlare male dell'Italia, non ci allarghiamo.
b) perché sono permalosi, proprio uguali uguali a voi.
c) perché per molti di loro la terra promessa è ancora l'Italia.
Degli italiani all’estero e di quelli in Italia, scrive Patrizia La Daga il 13 giugno 2016 su "Leultime20.it". Chi segue Leultime20.it da tempo sa bene che la sottoscritta risiede in Spagna, a Barcellona, ormai da molti anni. La condizione di espatriata, oltre alla passione per i libri e la cultura, ha fatto sì che nel 2012 nascesse questo sito, un modo per riavvicinarmi al mio Paese natale e alla sua lingua, nella quale tanto amo scrivere. Il mio vivere in terra straniera non è stato soltanto fonte di ispirazione di molti post, bensì mi ha aiutato ad avere una visione più ampia sul nostro Paese e in particolare sugli italiani. Un popolo che troppo spesso, purtroppo, appare pronto ad applaudire le mediocrità altrui e a rinnegare le eccellenze proprie. Questa scarsa autostima collettiva si accentua quando si parla degli italiani che vivono in Italia. La differenza tra gli italiani che risiedono in Patria e quelli all’estero, infatti, è spesso enorme e me ne sono resa conto soprattutto in questi ultimi mesi, grazie a un progetto dedicato ai connazionali nel mondo, che molti di voi forse già conoscono: il portale ItalianiOvunque.com Per sviluppare i contenuti del nuovo magazine online ho avuto modo di confrontarmi con centinaia di persone, sia attraverso interviste e colloqui individuali, che mediante conversazioni sui numerosi gruppi di Facebook e altri canali sociali riservati agli italiani all’estero. In tutti questi incontri ho potuto constatare che, a eccezione di una piccola percentuale di “delusi e incazzati” (passatemi il termine poiché “arrabbiati” non dava l’idea), chi vive lontano dall’Italia la ama di più e ne apprezza in misura maggiore la bellezza e la cultura. Facile, dirà qualcuno, chi non vive in Italia non è costretto a subire le innumerevoli mancanze che affliggono il nostro Paese. Malasanità, corruzione, amministrazioni cittadine inefficienti e chi ne ha più ne metta…Sì, è vero, gli italiani all’estero non vivono le situazioni di disagio dei concittadini in Patria, ma ne vivono altre, spesso molto più simili di quel che si crede e aggravate dall’essere stranieri. Perché l’erba del vicino poche volte è davvero più verde. La corruzione affligge la classe politica di mezzo mondo, le liste d’attesa per una visita medica sono lunghe in numerosi paesi stranieri, il sistema scolastico non è migliore per definizione all’estero, le città difficilmente raggiungono la bellezza di quelle italiane e il clima di alcune nazioni deprime persino i nativi. Gli italiani all’estero quando tornano in Italia trovano un paese pieno di problemi, è vero, ma sanno anche apprezzarne il valore. Cosa che molti residenti in Patria finiscono per dimenticare. Il cibo non è un dettaglio indifferente quando si parla di qualità della vita. E vi garantisco che per la maggior parte degli italiani all’estero avere a disposizione un supermercato italiano è un sogno ricorrente, ma non l’unico. Lo stile di vita, le abitudini, i libri, i film, la possibilità di partecipare agli eventi (culturali, musicali etc.) sono tutti aspetti che creano nostalgia tra gli espatriati. Perché gli italiani all’estero sono cittadini del mondo, non amano muri e confini, ma uno spazio nel cuore per la terra natale lo conservano sempre. Mi è anche capitato di confrontarmi con persone ostili, che invece di cercare di “fare comunità” per condividere il meglio di quello che il Paese può offrire, hanno deciso di distanziarsene quanto più possibile. Una scelta che fatico a comprendere, ma che rispetto, naturalmente. In genere, tuttavia, quando si presenta agli italiani all’estero un progetto che consente loro di raccontare le proprie esperienze, di ottenere informazioni, di accedere ai prodotti del proprio Paese e di creare una comunità, l’accoglienza è entusiasta. La cultura italiana, si tratti di quella legata al cibo e al made in Italy, ma anche alla storia, alla letteratura e all’arte, è un collante che dovrebbe unire tutti gli italiani nel mondo, ovunque essi risiedano. Perché non è giustificabile che spesso ci amino più gli stranieri di quanto sappiamo fare noi. Concludo questo post chiedendo un piacere a tutti voi lettori: se avete notizia di belle storie di italiani in Patria o all’estero, fatemele conoscere. Perché quella parte d’Italia che funziona, insieme agli italiani che la fanno funzionare o che le rendono onore all’estero, non meritano di restare nell’ombra.
L'ITALIA DEI CAMPANILI.
Giordano Bruno Guerri: l’Italia è una repubblica fondata sulla rimozione. Fratelli d'Italia non lo saremo mai, perché l'identità italiana è fondata sui conflitti di campanile. Ma per capire la storia non bisogna rimuovere i periodi considerati negativi, scrive Bruno Giurato il 28 Maggio 2016 su "L’Inkiesta”. L'identità storica e politica dell'Italia è fondata su due elementi base: la baruffa e la rimozione.
La baruffa, perché la faziosità, il fare la guerra o le pernacchie (o meglio: la guerra e le pernacchie insieme) al vicino è una costante italiana che troviamo praticamente ovunque e da sempre. Un'occhiata allo splendido volume di Giancarlo Schizzerotto, Sberleffi di Campanile, da poco uscito per Olschki potrà confortare in questo giudizio: dai palii "di scherno" nella Toscana del Trecento, alle squadracce col manganello e l'olio di ricino, fino ai servizi completi dei partigiani post 45, comprensivi di rasatura e stupro alle repubblichine.
La rimozione perché, con altrettale regolarità, ogni nuova stagione politica è stata costruita sulla damnatio memoriae di quella precedente. Gli esempi di un'identità storica costruita sull'oblio forzato di quello che c'è stato prima sono anche questi moltissimi. Una perfetta -e perfino ovvia e noiosa nell'aderire a un modello- applicazione del concetto freudiano di "rimozione". La politica, la pubblicistica, la storiografia italiana sono spesso costruite su un fondo di appartenenza ideologica e identitaria che è l'esatto contrario della critica. E anche del pensiero.
Ma naturalmente ci sono delle eccezioni. Una di queste è Giordano Bruno Guerri. Individualista, libertario, vicino, da sempre e "de core", alle posizioni dei Radicali, ha ottenuto fama e successo come storico con la sua biografia del Giuseppe Bottai, il "ministro della cultura" del fascismo. Ora è il presidente della fondazione del Vittoriale con risultati, in termini di marketing culturale oltre che di valore scientifico, notevoli. L'argomento del nostro Dossier è l'occasione per fare due chiacchiere con lui sull'ineliminabile faziosità italiana.
In Russia, nella parata annuale sulla Piazza Rossa sfilano insieme le bandiere dello Zar, quelle dei Partito Comunista, quelle della Russia attuale. In Italia ogni stagione successiva si attua sulla rimozione della precedente.
«E invece sono sempre stato uno studioso di periodi storici "bui". Essendo bui bisogna illuminarli. Ma battute a parte in Italia c'è sempre la damnatio memoriae del passato, dai Guelfi e Ghibellini a mille divisioni, fino ai campanili e allo sport. Ma per capire l'origine di queste contrapposizioni in ogni aspetto dello scibile umano dobbiamo risalire alle divisioni delle città comunali: un confine ogni dieci chilometri».
Un sistema di potere labirintico.
«L'Imperatore, il Re, quando non tutti e due. E poi il Papa, i feudatari. Il cittadino doveva soggiacere a un sacco di poteri in contrasto. Tutto questo ha provocato la nostra divisione su tutto».
Quindi in Italia finiamo per non conoscere la storia, perché ne rimuoviamo una parte, oscurandola, ad ogni cambio di epoca?
«Esattamente. Abbiamo un milione di esempi».
Ecco, un esempio?
«Il brigantaggio meridionale. Per un secolo e mezzo ci hanno raccontato il Risorgimento come una passeggiata trionfale, e il brigantaggio come una serie di episodi di criminalità pura. E invece il brigantaggio, bisognerà dirlo, è stato una forma di resistenza a un invasore».
I Borboni non erano il male assoluto, quindi?
«Certamente avevano delle forme di governo piuttosto arcaiche. Ma avevano anche non poche forme di tollarenza e di viver civile. Erano lo stato che non faceva guerre. Avevano una grande flotta mercantile, delle industrie e una buona riserva di danaro, che venne saccheggiata dall'Italia del Nord: lo stato unitario certamente depredò il Sud, che venne risarcito dopo decenni e decenni. Ma vorrei farle un caso più recente».
Quale?
«Naturalmente il fascismo. Che si è cominciato a studiare dopo decenni, con Renzo De Felice, e anche con i miei lavori, solo nel 1976. Con il libro di De Felice sul consenso si è cominciato ad ammettere che gli italiani erano in buona parte fascisti. E con il mio libro su Bottai si cominciò ad ammettere che esisteva una cultura fascista. Adesso, quarant'anni dopo, al museo di Salò, ho ritenuto opportuno far allestire una mostra sul culto del Duce. Un fenomeno che conosciamo».
E l'hanno contestata
«Hanno detto che è una mostra che rinfocolerà le nostalgie, ci sono state contestazioni molto dure».
Un paradosso: non è che l'antifascismo (in forme patinate, vintage, strumentali) è più in voga adesso di trent'anni fa?
«Non ho questa sensazione. Quella dei contestatori di una mostra su Mussolini mi sembra solo una battaglia di retroguardia. Quando facemmo la grande mostra sugli anni 30 a Milano, che fece vedere come nel periodo fascista ci fosse stata una grande architettura successe l'Ira di Dio. Ora qui invece sembra più una polemica sociale: Salò non vuole essere associata all'ultima fase del fascismo».
Quindi nemmeno il fascismo è stato un male assoluto?
«Il male assoluto non esiste. Il male assoluto sarebbe il demonio: un concetto religioso che non prendo nemmeno in considerazione. Che in un regime durato vent'anni siano state fatte delle cose nessuno lo può negare».
Anche Togliatti arruolò alcuni degli intellettuali del fascismo nel partito comunista. Ma non ci sono solo i Borboni e il Fascismo. Oggi, si parva licet, lo schema delle fazioni è sempre in moto. Renzi contro antirenziani; Berlusconi contro antiberlusconiani; Mani pulite contro ex-socialisti.
«Mi sembra evidente, lo leggiamo tutti i giorni. Basta guardare i toni della battaglia nel Pd, o nella lotta a destra tra berlusconiani e antibelusconiani. I popoli hanno un carattere».
Qual è la ricaduta della nostra genetica faziosità sugli intellettuali italiani? Non è che per non finire nella fossa degli impresentabili, gli intellò di casa nostra finiscono per apparire sempre più conformisti e corrivi alle idee comuni?
«Anche, ma c'è un altro elemento: il prototipo dell'intellettuale italiano è il Cortigiano. I poeti e i pittori e i filosofi stavano a casa del Principe, a produrre cultura sì, ma per il Principe. Badando bene a non disturbarlo. E' un marchio che si paga nei secoli a venire».
E poi?
«E poi il popolo italiano non è un popolo di rivoluzionari. Non abbiamo mai fatto rivoluzioni. E gli intellettuali non guidano il popolo, ne sono solo un'espressione, ma raffinata. Quindi gli intellettuali "scomodi" da noi sono davvero pochissimi».
Il Paese dei campanili così legato alle tradizioni: "Noi prima di tutto italiani". Nell’indagine realizzata da Demos, Veneto e Lombardia sono lontani da Barcellona: i venti d’autonomia spirano sempre più deboli, scrive Ilvo Diamanti il 25 settembre 2017 su "La Repubblica". L'Identità territoriale, in Italia, appare, fin dai tempi dell'Unità, attraversata da tensioni profonde. I referendum sull'autonomia, che si svolgeranno in Lombardia e nel Veneto, fra meno di un mese, sono destinati ad acuire le divisioni. Tanto più perché il clima del confronto fra centro e periferia, fra Stato e Regioni, si è surriscaldato, dopo l'intervento del governo contro la legge veneta che prevede l'esposizione del gonfalone di San Marco negli edifici pubblici. Un provvedimento che rischia di accendere una campagna elettorale fin qui piuttosto spenta. Evocando, con qualche forzatura, l'esempio catalano. L'Italia è storicamente segnata dalla distinzione, per alcuni versi una "frattura", fra Nord e Sud. E, quindi, dalla "questione meridionale", affiancata e sfidata, negli ultimi decenni, da una "questione settentrionale", polemica non solo verso il Mezzogiorno, ma, anzitutto, contro lo Stato. L'Italia, peraltro, ha sempre presentato un'identità frammentata da particolarismi. Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica nella seconda metà degli anni Novanta, una fase particolarmente accesa da conflitti territoriali, era solito dire che "l'Italia è un Paese di paesi. E di città. Unito dalle sue differenze." In altri termini, dal suo pluralismo di tradizioni, culture, paesaggi. Un "Paese di paesi". Mi sembra una definizione efficace e di lunga durata dell'Italia. Evoca, infatti, un profilo che si ripropone ancora oggi, quando si indaga sulle diverse e principali appartenenze territoriali dei cittadini. Lo dimostrano i dati di un sondaggio di Demos (per Intesa Sanpaolo), condotto nelle scorse settimane. Dal quale emerge un sentimento di appartenenza territoriale composito e frastagliato. I contesti nei quali si riconoscono gli italiani, infatti, sono diversi. Anzitutto, l'Italia, indicata come primo riferimento dal 23% del campione. Quasi 1 italiano su 4. Ma ciò significa che gli altri 3 guardano altrove. In particolare: alla loro città (quasi 2 su 10). Quindi, alla loro Regione (12%). Poi alla "macro- area". Nord, Centro e Sud, insieme, raccolgono quasi il 20% delle preferenze "territoriali". Ci sono, infine, molte persone che si orientano oltre i confini nazionali e locali. L'8% si definisce, anzitutto, europeo. Mentre il 18% si rivolge in primo luogo "al mondo". Esprime, dunque, uno spirito apertamente "cosmopolita".
Nell'insieme, dunque, circa metà delle persone intervistate si richiama anzitutto all'ambito "locale". Gli italiani. Si dicono milanesi, napoletani, siciliani, veneti, piemontesi. Bolognesi, toscani. Romani. Marchigiani. Ma anche: del Nord oppure meridionali. Nel Mezzogiorno, in particolare, il sentimento "meridionalista" scavalca il 22%. Tuttavia, se consideriamo anche la seconda indicazione, cioè l'altra identità territoriale possibile per i cittadini, l'Italia si ripropone con forza, su livelli molto elevati. E ciò sottolinea una tendenza anch'essa di "lunga durata", del nostro "Paese di paesi". Ne ho scritto altre volte, in passato, visto il mio vizio di osservare il territorio, come chiave di lettura degli orientamenti politici, ma anche sociali. Noi siamo un popolo di "e italiani". Oppure, reciprocamente, di "italiani e". Detto in altri termini: siamo milanesi, napoletani, siciliani, veneti, piemontesi. Bolognesi, toscani. Cuneesi e vicentini. Romani. Marchigiani. Meridionali, settentrionali. "E" italiani. Ma anche viceversa. Italiani "e"... romani, napoletani, emiliani. E via dicendo. Le diverse identità territoriali, dunque, non appaiono in contrasto con quella nazionale. Ma ne costituiscono, semmai, il complemento. La conferma giunge se osserviamo questi orientamenti in controluce. Attraverso il contesto territoriale ritenuto "più lontano". Il distacco dall'Italia, infatti, continua ad apparire limitato. Espresso da una quota di persone inferiore al 10% (il 7%, per la precisione). Nonostante i localismi e le pulsioni indipendentiste - anche se non più apertamente secessioniste - che agitano il Paese. L'ambito che ha visto crescere maggiormente il distacco dei cittadini, negli ultimi 10 anni, è, invece, l'Europa. Com'era prevedibile. Dunque, siamo e restiamo un "Paese di paesi". Di città e di regioni. Un Paese dall'identità incompiuta e, quindi, "debole". Ma, per questo, dotato di "resistenza". In grado di superare le sfide che vengono dall'esterno. Dalla globalizzazione. Dal cammino incerto dell'Europa. Dalle presunte "invasioni". Perché il perimetro delle nostre appartenenze è aperto e flessibile. Capace, per questo, meglio di altri, di adattarsi ai cambiamenti e alle tensioni che giungono anche dall'interno.
Così, i referendum che si svolgeranno nel Lombardo-Veneto vanno ricondotti al significato reale che assumono presso i cittadini. Esprimono, cioè, una domanda di autonomia, non di distacco. (Il quesito referendario, d'altronde, parla di autonomia, non di indipendenza). Ma riflettono anche la ricerca di consenso politico e personale, da parte dei partiti e dei governatori - leghisti - che guidano le Regioni. (Come suggerisce un sondaggio dell'Osservatorio Nordest di Demos, di prossima pubblicazione sul Gazzettino). Così, a mio avviso, ha ragione Massimo Cacciari quando recrimina contro coloro (il governo regionale del Veneto) che hanno approvato la legge sull'esposizione della bandiera con il "Leone di San Marco". Ma anche contro chi l'ha "impugnata" (il governo nazionale). Perché: "queste cose non fanno che alimentare le pulsioni di quelli che andranno a votare al referendum". In altri termini: questa polemica rischia di amplificare la campagna elettorale in vista del referendum autonomista. Con l'effetto - imprevisto e non voluto dal governo nazionale - di mobilitare i cittadini. Fino ad oggi piuttosto distratti, intorno a questa scadenza. Peraltro, anche l'iniziativa del governo regionale del Veneto potrebbe avere effetti imprevisti, dai promotori. Perché la bandiera "venetista" issata non "al posto di", ma "accanto a" quella italiana potrebbe essere concepita come una conferma ai dati presentati in questa Mappa. Che non prevedono l'alternativa: veneti O italiani. Ma, al contrario, l'integrazione reciproca: veneti E italiani. Guidati da Luca Zaia: il governatore di una Regione italiana. Perché il Lombardo-Veneto non è la Catalogna.
È ora di dirselo: l'Italia dei comuni, dei campanili (e del partito dei sindaci) è un disastro. Gli enti locali in dissesto aumentano in modo esponenziale anno dopo anno. Non si contano più i Comuni sciolti per mafia. Così l'Italia "provinciale" arranca, e i sindaci possono (o sanno) fare poco o niente per migliorare le cose, scrive Flavia Perina il 4 Aprile 2017 su “L’Inkiesta”. L’Italia dei sindaci, l’Italia dei Comuni, dei campanili, l’Italia “local” che funziona bene in contrapposizione all’Italia “glocal” che arranca, l’Italia che ci piace esaltare per luogo comune, quella del mitizzato “territorio” che sarebbe poi l’insieme di forze politiche, economiche, sociali che fanno rete per gestire le città: sicuri che sia vera? Viene da chiederselo dopo il litigio tra Chiara Appendino e Maria Elena Boschi sui fondi Imu e Ici da restituire a Torino, che ha rivelato nervi tesi da entrambe le parti ma soprattutto un colossale deficit della Città della Mole, solitamente considerata feudo di efficienza nordica. Senza quei soldi, dice la sindaca Cinque Stelle, Torino dovrà tagliare i fondi a scuole paritarie, cultura, turismo, oltreché le agevolazioni alle famiglie a basso reddito sulla tassa rifiuti. Magari esagera. E però se una città come Torino sta messa così, figuriamoci il resto, figuriamoci dove la rinomata eccellenza sabauda non ci sta. Sono 146 gli enti locali in pre-dissesto, 84 quelli in dissesto vero e proprio (praticamente falliti). Nell’elenco c’è persino Taormina, la “Perla dello Jonio” scelta da Matteo Renzi per il G7 del prossimo maggio. L’escalation negli ultimi anni è esponenziale. Nel 2009 c’erano solo due Comuni in bancarotta, e facevano notizia: oggi si è così abituati che le classifiche non vanno nemmeno più sui giornali malgrado le imponenti conseguenze per i cittadini. A Casal di Principe, per citare un esempio al top, restano inevase 700 domande di assegni familiari per mancanza di assistenti sociali che le esaminino, le scuole non hanno ottenuto il certificato di agibilità sanitaria e più di metà dei 20mila cittadini non usufruisce dell’acqua corrente. Fosse solo questione di soldi, si potrebbe dire: è la crisi. Ma tra il 2011 e il 2012 sono aumentati del 380 per cento anche gli scioglimenti di comuni per infiltrazioni mafiose, e un altro balzo del 220 per cento si è registrato l’anno successivo. Sono 146 gli enti locali in pre-dissesto, 84 quelli in dissesto vero e proprio (praticamente falliti). Nell’elenco c’è persino Taormina, la “Perla dello Jonio” scelta da Matteo Renzi per il G7 del prossimo maggio. L’escalation negli ultimi anni è esponenziale. Nel 2009 c’erano solo due Comuni in bancarotta, e facevano notizia: oggi si è così abituati che le classifiche non vanno nemmeno più sui giornali. Il “partito dei sindaci”, nonostante ciò, è il solo partito italiano a cui non siano state fatte le bucce. Questa categoria gode di simpatie sconosciute al resto della politica, un po' perché eletta direttamente dal popolo, un po’ perché talmente abile nel gioco dello scaricabarile – la colpa è sempre di qualcun altro – da aver resistito assai bene all’offensiva contro le caste che ha messo in ginocchio le classi dirigenti nazionali. Con le sue ordinanze creative – dal divieto di rovistaggio alle multe per il pallone ai giardinetti, dalle sanzioni ai burqa a quelle per chi dorme sulle panchine – alimenta l’immagine di saggio e severo pater familias, e grazie al contenzioso col governo può giustificare ogni inefficienza con l’avarizia delle autorità centrali. Il combinato disposto delle due cose, paternalismo e ossessione contabile, ha trasformato l'arte di costruire città in amministrazione di condominio e il risultato è un'«Italia dei Comuni» assai malmessa, immobile, anche anagraficamente vecchia - nei piccoli centri l'indice di vecchiaia è quasi cento punti sopra la media nazionale, 226 contro 144 – che ha abbandonato ogni ambizione e progetto oltre la routine della sopravvivenza. Non sarà da questo tipo di territorio che potranno arrivare energie per il Paese, e dovremmo tutti mettere un punto all'astratta esaltazione della dimensione “local”, rovinosa anche sotto altri profili: basta vedere la vicenda delle banche popolari, con i loro traffici di paese, e i costi che sta comportando per tutti i contribuenti (oltrechè per i loro clienti). Piccolo non è bello. O almeno, è bello se fai parte del “giro” dei feudatari del villaggio, pessimo per tutti gli altri che infatti fuggono nelle grandi città, nazionali ed estere, in cerca di fortuna. Piccolo non è necessariamente virtuoso. Piccolo oggi è diverso dal passato, piccolo è spesso povero, spaventato, prigioniero dei clan. E un soffio metropolitano ed europeo è l'unica speranza per questa Italia piccola, che scivola nell'indigenza senza che nessuno se ne accorga, privata anno dopo anno dei servizi più banali, dai trasporti pubblici all'acqua potabile, soffocata dalla piccineria di chi la amministra.
Sul water o in piazza, l’Italia dei campanili che ripudia i “cugini”. Da Pisa-Livorno a Modena-Reggio, le unioni “impossibili”, scrive l'01/11/2012 Pierangelo Sapegno su “La Stampa”. Può darsi che l’Italia dei campanili trovi persino difficile farsi rappresentare da Roberto Cenni, il sindaco di Prato che ha parlato ai giornalisti seduto sul water, tutto così elegante, in giacca e cravatta, il panciotto e il ciuffo brizzolato che scivola sulla fronte come un riporto, se non fosse per quella toilette con lo sciacquone da tirare. Però, nel mare di ricorsi e di insulti piovuti sul taglio delle Province, non c’è solo il radicalismo di un’identità quasi paesana, ma anche - addirittura - qualche antica rivalità storica. Prendete Modena e Reggio Emilia, o Pisa e Livorno, costrette da ieri a stare insieme, sotto lo stesso tetto, come in una buona famiglia. I livornesi quando parlano con uno di Pisa, glielo dicono in faccia, «Deh, ma te ne rendi conto? Tu sei di Pisa». E il proverbio, di quelle parti, dice che «è meglio un morto in casa, che un pisano sull’uscio», perché, nella leggenda popolare, i pisani erano gli esattori delle tasse. In realtà, la Storia racconta che Livorno viene inventata dai Medici per dare il colpo di grazia alla grande Repubblica marinara in crisi. Prima era solo una galera. All’improvviso, Firenze costruisce il porto e lo riempie di gente raccattata da tutti gli angoli, per togliere così l’ultimo respiro alla sua rivale. La missione riesce, ed è da allora che le due città, distanti l’una dall’altra neanche un tiro di schioppo, si odiano così cordialmente. Pure Modena e Reggio Emilia stanno vicine vicine: 30 km d’autostrada a malapena. Però sono lontanissime fra loro, essendo Modena un ducato degli Este, città universitaria, molto raffinata e quasi snob, con le sue imprese eccellenti e il suo nobile passato, al contrario di Reggio Emilia, non a caso la provincia di Peppone e don Camillo, città fortemente terrigna e contadina, dove nella piazza grande del Municipio si portavano ancora le mucche fino a qualche tempo fa. Erano tutt’e due insieme sotto gli Este, ma Modena era la capitale. Solo che anche questa lontananza finisce per scadere nel ridicolo assieme al suo campanilismo più becero, con gli Ultràs del Modena che arrivano perfino a disegnare una coreografia allo stadio tutta in gialloblu, per bocciare l’unione con la vicina nemica, come recitava l’enorme striscione appeso sugli spalti: «Modena è provincia ed è solo gialloblu». Certo, non sono gli unici che protestano, e lì vicino a loro, per sfuggire questo comune destino, Piacenza ha pensato persino di organizzare un referendum per togliersi dall’Emilia: meglio in Lombardia che assieme a Parma. E invece, da ieri, è finita proprio sotto il mantello di Maria Luigia. Dall’altra parte non è che avrebbe avuto vita tanto diversa: la via era quella di stare con Mantova, Cremona e Lodi, che già protestano e urlano di loro. Niente in confronto a Monza, Varese e zone limitrofe. Lì sono finiti tutti sotto Como, a parte Monza, anche perché Como non la voleva (Leonardo Carioni, Lega Nord: «Noi non abbiamo niente a che fare con Monza, come logistica, territorio e identità. È impensabile una cosa del genere»). Risultato: Monza è stata accorpata a Milano e per questo ora protesta. Dario Allevi, pdl, presidente di Monza e Brianza dice che è «indecente. Non capisco per quale motivo sia stata prevista una deroga solo per Sondrio e Mantova. È arrivato il momento di alzare i toni». A Varese li hanno levati così in alto da appellarsi persino a Mario Monti «in quanto varesino come noi», come ha fatto Lara Comi, europarlamentare pdl.
Naturalmente, il governo è andato avanti per la sua strada, e forse non solo a Palazzo Chigi, perché se chiedi alla gente, a quanti sta davvero a cuore questa dispersione di Province come ai politici? Sta di fatto che la partita non si è chiusa certo qui. Non c’è Provincia che non abbia annunciato il suo bel ricorso al Tar, come Dario Galli, leghista, presidente di Varese, o alla Corte Costituzionale, come ha deciso la regione del Molise, dopo che le hanno accorpato Isernia e Campobasso. Il presidente Michele Iorio ne ha promessi addirittura due, a scanso di equivoci. Melius abundare. «Aspettiamo la risposta il 6 novembre», ha detto, mentre Rosario De Matteis, dalla sua roccaforte di Campobasso, tuonava che «il governo Monti è come l’Armata Brancaleone: ormai non sanno più che fare». Poco importa che molte di queste Province ritornino in fondo nel loro alveo, come Lecco che in fondo era già con Como, o Biella che era con Vercelli, e Rimini con Forlì, e tante altre così, da Vibo Valentia a Verbania. Il campanile e i suoi interessi sono più forti di tutto. Treviso, ad esempio, aveva i giorni contati, bocciata com’era dalla legge, essendo troppo piccola con i suoi 23 mila chilometri quadrati appena. L’hanno messa con Padova, e Rovigo con Verona. Però, è insorta lo stesso.
Fra le storie diverse («che c’entra Siena con Grosseto?», si lamentano a piazza del Campo) e odi fraterni, il linguaggio molte volte è trasversale, dalla Basilicata alle Alpi, come se i nostri campanili almeno in questo avessero trovato una cosa in comune. Purtroppo, non è un bel linguaggio, tipo quello che usa il presidente della Provincia di Avellino, Cosimo Sibilia, per differenziare - si dice così - «la peculiarità delle due aree». È che l’Italia dei campanili sembra proprio aver trovato nel politichese e negli slogan degli ultrà il suo minimo comune denominatore. Sibilia è arrabbiatissimo perché Avellino è finita nel calderone della nuova grande provincia «Ave-Sannio», con capitale Benevento. Se non deve dilungarsi sulle peculiarità, è molto più diretto: e allora «è un provvedimento devastante» (uno), «hanno umiliato e mortificato il nostro territorio» (due), e «siamo ai limiti del colpo di Stato» (e tre!). Naturalmente, a questo punto, anche lui andrà al Tar. Alla fine, Roberto Cenni, il sindaco offeso di Prato, è davvero la rappresentazione, un po’ ridicola, del nostro campanilismo a oltranza. E i toni giusti sono quelli di Cristiano Vignali, «politologo e storico teatino», che ha lasciato ai posteri questa cronaca: «Migliaia di giovani lunedì mattina hanno sfilato in corteo tra ali di folla osannanti per riconsegnare la città in mano ai teatini e salvare la provincia di Chieti». Purtroppo, Chieti è stata cancellata. E abbiamo chiesto: ci hanno detto che erano qualche decina. Facciamo trenta?
L’Italia dei 100 campanili… e nessuno Stato, scrive il 27 novembre 2016 Pino Marchionna. E “Fatta l’Italia, ora facciamo gli italiani”. Mai come in questi giorni la celebre frase di Camillo Benso Conte di Cavour ben si attaglia alla situazione paradossale che stiamo vivendo. Ad oltre centocinquant’anni dall’unità d’Italia, siamo ancora “la terra dei cento campanili”, a causa di quell’approccio politico che spesso trasforma le differenze in divisioni e mette gli uni contro gli altri, attraverso rivendicazioni territoriali, giurisdizionali, culturali ed economiche proprie del campanilismo. Da sempre gli italiani si sono dimostrati legati al proprio campanile, per il ruolo simbolico di identificazione che svolge, a tutela del proprio linguaggio, delle proprie tradizioni, della propria storia. E come ricordava lo storico Fernand Braudel “la ricchezza della realtà italiana è anche il segno della sua “insigne debolezza”, giacché la pluralità di tradizioni, di culture e linguaggi, ha sempre costituito un elemento di volubilità rispetto a quel “cemento” sociale che ha caratterizzato la storia di altre grandi nazioni europee”. Questo tratto distintivo della nostra millenaria ed insufficiente storia nazionale è riapparso – come un fiume carsico, che improvvisamente risbuca in superficie – con il ricorso della Regione Veneto alla Corte Costituzionale avverso la Legge Delega 124/2015, meglio nota come Legge Madia. Non sono certo nelle condizioni tecniche di commentare la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionali gli articoli 11, 17, 18 e 19 della Legge Delega. Sottolineo soltanto come la motivazione dell’illegittimità sia incardinata sull’insufficienza del semplice parere della Conferenza Unificata Stato-Regioni al posto della necessaria e previa intesa. Nel momento storico in cui la globalizzazione genera interdipendenze e commistioni inedite, soprattutto in seguito al fenomeno dei flussi migratori dai paesi più poveri del mondo, in una Italia che dovrebbe cogliere e valorizzare la sfida della pluralità culturale, modernizzando la propria struttura istituzionale, torniamo al punto di partenza: ognuno pensa a sé stesso, guardando sempre e comunque al proprio campanile. Questa è la nuova frontiera delle minoranze rilevanti, i cosiddetti “veto players”, che da partiti caratterizzati da una forte ideologia autonomistica si sono trasformati in grumi di potere finalizzati alla difesa di interessi locali che si sovrappongono a quelli più generali del Paese, anzi spesso li superano, in sfregio alla collettività nazionale.
Catalogna, ma anche Lombardia e Veneto. La prova dei referendum per l’indipendenza, scrive il 23 settembre 2017 "Quasi Mezzogiorno". Da una parte la capitale spagnola, Madrid, dall’altra la ribelle Barcellona che invoca più spazio per la Catalogna. Una vecchia storia fatta di voglia di indipendenza e senso di rivalsa, una guerra che si sta consumando oggi a colpi di sentenze e richiamo alle urne. Madrid ha detto no al referendum per l’indipendenza invocando la giustizia e per due volte la Corte Costituzionale è intervenuta, prima bocciando la convocazione alle urne, e quindi la legge che rendeva possibile il voto, e poi sospendendo la legge di “rottura” dalla Spagna adottata la settimana scorsa dal parlamento di Barcellona, che entrerebbe in vigore se al referendum dovesse vincere il Sì. Tentativi falliti, si passa alla forza: a dieci giorni dal voto gli agenti della Guardia Civil hanno arrestato Josep Maria Jové, braccio destro del vice presidente catalano, insieme ad altre 13 persone tra funzionari ed esponenti del governo regionale. I principali organizzatori del referendum non riconosciuto da Madrid finiscono nei guai per aver sfidato il governo centrale. Non ci sta il governo catalano, non ci sta il popolo, sceso in piazza per protestare, non ci sta neanche il Barca, il club-bandiera della Catalogna che esprime la sua condanna per qualsiasi azione contro il diritto di decidere. Venti di guerra civile soffiano in piazza e nei palazzi del potere con il duro scontro tra il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, che invoca “la tutela dei diritti di tutti gli spagnoli”, e il dirigente della sinistra repubblicana catalana Gabriel Rufian che gli ha intimato di togliere “le sue sporche mani dalla Catalogna”. Attacco alla democrazia sono le tre parole più usate da chiunque commenti quello che è successo il 20 settembre a Barcellona (agli arresti si aggiungono una ventina di perquisizioni e milioni di schede elettorali sequestrate) e in Italia già si pensa al 22 ottobre, quando ci sarà il referendum – questo del tutto costituzionale – con il quale Lombardia e Veneto chiedono di entrare nel “club” delle Regioni autonome.
Crimea, Scozia e Catalogna, tutti i perché delle secessioni in atto, scrive Stefano Cingolani il 24/03/2014. E' impressionante come oggi, mentre a Ovest si diffonde l’euroscetticismo, a Oriente, là dove il limes è ancor oggi confuso e mobile, si minacci una guerra per entrare nell’Unione...Con le armi o con le urne, ormai da tempo è tutto un correre a ridisegnare le mappe, un gioco di separazioni più o meno consensuali, una corsa alla secessione: la Scozia e la Catalogna, i paesi Baschi e la Corsica, le Fiandre o la Sicilia (passando per la Sardegna), il Veneto e il Tirolo. Per non parlare dei Balcani dove la Bosnia, grande come il Lombardo-Veneto, è divisa in tre. Il Kosovo, il Montenegro, la Macedonia, anzi le due Macedonie, in lite tra loro anche sul nome (la Grecia sostiene che solo la sua ha il diritto di chiamarsi come la patria di Alessandro). E poi la Slovacchia che ha tranciato un solco con la Repubblica ceca, la Moldova piccolo cuscinetto tra Ucraina e Romania. E via via divorziando. Insomma, non c’è solo la Crimea, siamo di fronte alla “balcanizzazione dell’Europa”, secondo Lord Robertson ex segretario generale della Nato, laburista scozzese che si rivolge ai suoi compatrioti per invitarli a pensarci due volte prima di chiudere il vallo di Adriano. Ma attenti, c’è secessione e secessione, ci ammonisce Bernard-Henri Levy, l’ormai appassito nouveau philosophe che si è fatto immortalare sulle barricate di Kiev: “Non si può paragonare Kosovo e Crimea”, sentenzia BHL tra le piume della sua vanità. Un vero truismo, direbbero i vecchi filosofi. E poi c’è sempre un distinguo, esiste sempre un’eccezione. Prendete il Kurdistan, mica può essere paragonato ai paesi sotto il tallone di zar Putin? Certo che no, infatti non esiste. I curdi sono schiacciati da almeno tre talloni: quello siriano, quello iracheno e quello turco e anche gli stivali sono diversi, la Turchia se non altro fa parte della Nato. Princìpi puri e principio di realtà, del resto, si sono sempre scontrati da che mondo è mondo. La separazione democratica è diversa da quella imposta con il ferro e il fuoco, è ovvio. Eppure l’adesione alla Germania, l’Anschluss, venne approvato dagli austriaci (seppure sotto una qualche minaccia dell’esercito hitleriano). Dunque, non basta il voto, bisogna che sia libero, consapevole, trasparente e non come le urne di vetro usate in Crimea dal gran burlador di Mosca. Ma dividersi non è affatto facile, per i popoli e gli stati ancor meno che per le famiglie; anzi spesso non funziona proprio e si finisce per cercare un protettore, un grande amico, magari un imperatore benevolente pronto ad accogliere nelle sue braccia amorevoli la pecorella smarrita. E non vale solo per i nuovi staterelli dell’est europeo o del Caucaso, ma anche per entità con ben altro pedigree. Come ad esempio la Scozia.
Qual è la linea di demarcazione? Etnica? Linguistica? C’è di mezzo il mito, la storia, l’economia, la politica? Di tutto un po’, ma certo nelle Highlands il mito ha una importanza altrettanto grande che sulle montagne della Serbia. Gli scozzesi hanno combattuto per secoli gli inglesi. Morta Elisabetta I, fin dal 1603 con Giacomo VI Stuart hanno piazzato un loro re in Inghilterra aprendo la strada all’ Unione. L’autonomia è sempre rimasta viva, l’indipendenza è rifiorita con i nazionalismi ottocenteschi e di nuovo nell’ultima parte del secolo scorso. E tuttavia, una divisione etnica è difficile da digerire tanto profondo è il metissage nelle isole britanniche. William Wallace, l’eroe popolare, è riemerso agli onori con la cultura pop. Braveheart, il film di Mel Gibson, coglie il nuovo spirito del tempo, anche se trasforma il figlio di un latifondista che conosceva il latino e il francese in una sorta di capo di sanculotti in tartan. Persino il gruppo metal rock Iron Maiden ne fa l’eroe delle sue canzoni come The Clansman. La trasfigurazione conta più della realtà. Prendete il kilt.
William Wallace non indossava il gonnellino come lo conosciamo oggi. Ma, quando deponeva l’armatura di cavaliere la classica tunica medievale. Persino il plaid a scacchi e colori dei clan, il breacan, con il quale si cingevano i fianchi passandolo attraverso una spalla, è una moda introdotta solo due secoli dopo nel corso del ‘500. Quanto all’indumento a pieghe con tutti i suoi orpelli, diventato emblema di ogni “cultura e società celtica, irlandese, gallese, galiziana, è un’invenzione inglese e ha solo un flebile legame con il folklore o con indumenti degli antichi celti più o meno ricostruiti dagli archeologi. Proprio così. Nasce nei primi decenni del ‘700 grazie a tal Thomas Rawlison che si era rifugiato nelle Highlands anche per sfuggire alla chiesa d’Inghilterra che non amava le sette calviniste (tanto che furono costrette a emigrare in America). Altro che tradizione, è una operazione commerciale, del tutto capitalistica, al pari di Braveheart. Adesso li vediamo sventolare ovunque, in guerra e in pace, da settembre probabilmente copriranno gli scranni del parlamento scozzese. E’ stato il romanticismo a trasfigurare tutto, anche il kilt, ed è il nazionalismo che l’ha mistificato, rendendolo un simbolo importante quanto la croce di Sant’Andrea. E’ accaduto lo stesso a tantissime leggende che formano la cosiddetta cultura etnica e che con l’etné non hanno nulla a che vedere. Trasformare un plaid in kilt è molto più facile che scegliere una nuova moneta. Infatti, i primi intoppi per il progetto di Salmond sono insorti proprio sulla sterlina. Un’idea, infatti, è quella di continuare ad usare la valuta inglese. “E già, e chi garantisce per il vostro debito”, ha subito replicato Mark Carney, il canadese che guida la Banca d’Inghilterra. Bisognerebbe introdurre dei meccanismi simili a quell’ambaradan che la Bce ha creato per i paesi che partecipano all’euro. Ma attenzione: la moneta unica continentale nasce con una debolezza di fondo, perché è priva di una politica fiscale comune. Dunque la Scozia potrebbe sì distaccarsi, ma dovrebbe lasciare a Londra quanto meno il controllo ferro sulle tasse e le spese, cioè sui due attributi fondamentali della sovranità di uno stato. Gli scozzesi fanno leva sulle riserve petrolifere nel Mare del Nord, molte delle quali sono al largo delle loro coste. Già, ma quanto al largo? E poi oggi sono gestite dalle grandi compagnie inglesi come la Bp e la Shell. Che cosa vuol fare Salmond, appropriarsene? Nazionalizzarle come Chavez in Venezuela? Ci provi pure sghignazzano i boss delle multinazionali. Dunque, la Scozia può essere indipendente, ma non sovrana. E qui comincia una discussione, anzi una trattativa durissima perché gli inglesi cercheranno di far valere il loro potere monetario contro la secessione.
“Ah sì? Allora noi adottiamo l’euro”, replicano gli indipendentisti. Fermi tutti. Il problema del debito si pone lo stesso. E in questo caso Londra avrebbe l’ultima parola. Non solo. All’idea di una Scozia indipendente che viene accolta a braccia aperte a Bruxelles, comincia a rumoreggiare Madrid. Indiscrezioni su un veto spagnolo sono circolate nelle capitali europee al punto che il governo di Mariano Rajoy ha dovuto smentirle ufficialmente. Una cosa è certa: la Scozia è il vessillo che sventolano in piazza anche i catalani i quali mai come questa volta chiedono non solo ancor più autonomia e poteri, ma di separarsi dai castigliani. Una catastrofe per il resto della Spagna perché a Barcellona e nella sua regione è concentrata la maggiore ricchezza. Ma anche per la portata davvero storica di una frattura che metterebbe fine a cinquecento anni di unità.
A differenza dalla Scozia, la Catalogna non avrebbe problemi di carattere monetario, visto che fa già parte della zona euro. L’integrazione piena in una struttura sovranazionale, infatti, favorisce il distacco dagli stati nazionali, anzi lo rende non solo fattibile, ma addirittura legittimo. E’ quel che sosteneva in Italia Gianfranco Miglio quando agli esordi della Lega Nord progettava le macroregioni e dialogava con i bavaresi della CSU, affascinati lì per lì dall’idea, o con gli svizzeri del Canton Ticino. E oggi Luca Zaia, tardo epigono proclama: “Il Veneto come la Catalogna, sono in ballo 21 miliardi di euro” (calcola le tasse che non andrebbero versate a Roma non quello che gli altri contribuenti italiani versano al Veneto). Il movimento Plebiscito.eu vuole la secessione e la regione guidata dalla Lega ha in discussione un progetto di legge per un referendum. Ma c’è anche chi chiede, con un sondaggio on line su affaititaliani.it, se la Sicilia deve seguire l’esempio della Crimea. Già, per andare dove? Verso gli Stati Uniti come sognava Finocchiaro Aprile nel 1943 quando sbarcavano i marines? A Barcellona si voterà il 9 novembre, dunque dopo la Scozia che farà da battistrada e influenzerà necessariamente le altre iniziative indipendentiste. E il paradosso dei paradossi vuole che proprio questa Europa dei tecnocrati odiata dalle “estreme” e disprezzata da Beppe Grillo, questo super-stato burocratico, lontano dai popoli come dice anche Matteo Renzi, potrà consentire proprio ai popoli di esprimersi liberamente senza paura di restare appesi al nulla o di finire nelle fauci di un lupo siberiano o di un leone dell’Atlante. Perché il mosaico di stati europei è in gran parte una costruzione artificiosa.
Scrive Tony Judt in “Dopoguerra” che dopo il primo conflitto mondiale, con il disfacimento degli Imperi centrali e quello ottomano, vennero cambiati i confini, dopo la seconda guerra mondiale vennero spostati interi popoli, costruendo stati su base “etnica”. I singoli paesi nel 1939 erano ancora multiculturali e multireligiosi, nonostante i regimi fascisti, nel 1949 non più. Sono pressoché scomparsi gli ebrei, ma non solo: in Polonia i polacchi erano il 68% della popolazione oggi sono oltre il 90, la stessa Italia diventa più omogenea, mentre nei Balcani e nei territori occupati dall’Armata rossa, avviene un rimescolamento all’insegna di vere e proprie deportazioni. L’Europa degli alleati vincitori, dunque, anche in occidente nasce alimentando il pregiudizio, una grave colpa che attraversa i decenni come un fiume carsico e riesplode prepotente con la fine della guerra fredda. Le guerre di Jugoslavia lo dimostrano. Gli Stati Uniti erano “distratti” da Saddam Hussein e l’Unione europea era ossessionata dalla “questione tedesca”, così la Germania che impose il riconoscimento unilaterale della Slovenia e della Croazia, considerati paesi satelliti, proprio mentre era impegnata a digerire il boccone degli Ossie. E cominciarono sette anni di stragi e flagelli le cui ferite non sono ancora rimarginate.
Il pregiudizio etnico è lo stesso che oggi opera come un verme nella pancia degli ucraini e dei russi, così simili da tutti i punti di vista e così lontani. Dove possono andare da soli questi staterelli che dovremmo chiamare da operetta se sul palcoscenico d’Europa non si recitasse un dramma? Non sono autosufficienti né sul piano economico né su quello militare. Quindi cercano un padrino. Il patronage può essere rude e opprimente come quello russo o morbido e avvolgente come quello europeo. Ma esiste un modello ideale al quale riferirsi? E’ impressionante come oggi, mentre a ovest si diffonde l’euroscetticismo, a oriente, là dove il limes è ancor oggi confuso e mobile, si minacci una guerra per entrare nell’Unione, la versione moderna e benevolente del Sacro romano impero. Non è, dunque, una mera bizzarria da studioso, è emerso in questo mondo non più piatto, ma diviso in placche tettoniche, un desiderio di separarsi e riaggregarsi in modo diverso all’interno di entità nuove che meglio rispondano (o almeno così si pensa) ai bisogni di questa era. E che mettano in qualche modo rimedio agli errori dei vincitori, quelli compiuti nel 1945, ma anche quelli del 1989 e degli anni successivi all’implosione dell’Unione sovietica. E’ il messaggio che arriva dalla Crimea e dalla Scozia (o dalla Catalogna), luoghi opposti gli uni agli altri anche sulla mappa geografica, ma luoghi dell’ira per il passato, dello scontento per il presente e (forse) della speranza per il futuro.
Non solo Crimea, ecco le Regioni europee che puntano all’indipendenza. Citando il Kosovo, dopo la vittoria schiacciante dei sì al referendum in cui si chiedeva agli abitanti della Penisola di voler far parte della Russia, Putin ha lanciato l’assist perfetto ai movimenti separatisti di mezza Europa: dalla Catalogna alla Scozia (che va al voto il 18 settembre), fino all’Irlanda del Nord, passando per le Fiandre. Anche in Italia c'è chi vorrebbe fare del Veneto una Repubblica a sé stante, scrive Silvia Ragusa il 23 marzo 2014 su "Il Fatto Quotidiano".
Il popolo di Crimea, secondo il presidente russo Vladimir Putin, si è comportato in base alla “regola dell’autodeterminazione dei popoli”. Lo ha detto nel suo discorso al Parlamento di Mosca, il giorno dopo aver firmato il decreto che riconosce l’indipendenza della penisola ucraina. Non è cosa nuova. L’altro precedente, continuava Putin davanti a una platea entusiasta, si è avuto quando “l’Occidente ha riconosciuto legittimo il distacco del Kosovo dalla Serbia, dicendo che non c’era bisogno di alcun permesso dal potere centrale”. Il leader russo ha accusato gli Usa di usare la “legge del più forte” e di aver ignorato le risoluzioni dell’Onu. Nel 2008, infatti, Pristina dichiarò unilateralmente la sua secessione dalla Serbia con una risoluzione votata dal suo parlamento provvisorio: esattamente come oggi la Crimea si sente russa, ai tempi il Kosovo – prevalentemente albanese - voleva la separazione dalla Serbia. Non servì alcuna consultazione popolare, il voto dei deputati fu risolutivo.
Il Kosovo quindi non è la Crimea. Se oggi Putin porta come esempio la crisi dei Balcani per sottolineare l’ipocrisia della comunità internazionale, dovrebbe ricordarsi di quando, insieme alla Cina, si oppose fermamente alla secessione del Kosovo appoggiando i tentativi serbi di non concedere alcuna sovranità a Pristina, a differenza di Europa e Stati Uniti che riconobbero immediatamente la sua autonomia. Tuttavia, facendo leva sul principio di autodeterminazione dei popoli, Putin ha lanciato l’assist perfetto ai movimenti separatisti di mezza Europa: dal meridione catalano al settentrione scozzese, passando per l’Irlanda, le Fiandre giù fino all’Italia. Così, proprio pochi mesi dopo le elezioni europee del prossimo maggio, l’Europa si troverà a dover gestire le spinte separatiste di alcune sue zone strategiche.
Catalogna, la Crimea spagnola. “L’ultimo trucco di Mas: portare la gente in strada come in Ucraina”. Il titolo in prima pagina è del quotidiano spagnolo La Razón. I mass media di Madrid hanno guardato al referendum in Crimea con apprensione. Esiste infatti un “parallelismo” tra il voto in Crimea e il referendum del prossimo 9 novembre sull’autonomia catalana. Almeno secondo il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel García-Margallo. Gli articoli della Costituzione ucraina “sono uguali alle leggi della Costituzione spagnola”. Insomma per García-Margallo il parallelismo tra Catalogna è Crimea è “assoluto”. Artu Mas, presidente della Catalogna, non si è scomposto: ha allontanato i parallelismi e ha garantito che i catalani sono come il biblico David che riuscirà a vincere Golia con “astuzia, determinazione e volontà”. Poi però Mas ha spiegato di non scartare “una dichiarazione unilaterale d’indipendenza”, se quella che lui stesso chiama “via britannica” – l’accordo tra inglesi e scozzesi per un referendum simile – sarà ancora ostacolata da Madrid.
Se ce la fa Barcellona, ce la fa anche Venezia. “Vuoi tu che il Veneto diventi una Repubblica federale indipendente e sovrana?”. La domanda è semplice e diretta, valida fino al 21 marzo. In soli tre giorni ha già raccolto 1 milione e 300mila voti: il referendum per l’indipendenza del Veneto, promosso da Plebiscito.eu, ha superato le più rosee aspettative degli organizzatori. Tant’è che i riflettori della stampa mondiale, non solo italiana, si sono accesi su Gianluca Busato, che ha così commentato i risultati: “L’obiettivo di due milioni di veneti che votano il referendum di indipendenza del Veneto è raggiungibile”. Il governatore Luca Zaia ha preso come fonte d’ispirazione quello che accade in Catalogna: “Dobbiamo capire se sull’indipendenza riescono ad aprirci un varco. La loro deadline è il 9 novembre 2014. Se l’indipendenza la ottiene Barcellona, seguendo il loro metodo potrebbe ottenerla anche Venezia”.
Scozia libera, sotto la regina Elisabetta. A nord del vallo di Adriano è già tutto deciso. Il leader dello Scottish national party, Alex Salmond, ha trovato l’accordo con il premier britannico David Cameron riguardo l’indipendenza della Scozia: il 18 settembre 2014 verrà indetto un referendum per la secessione dal Regno Unito. Gli scozzesi andranno al voto per rispondere a un’unica domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. I sondaggi dicono che perderanno. Ma da Edimburgo potrebbero arrivare delle sorprese. Secondo il progetto di Salmond, la Scozia diverrebbe nei fatti una nazione autonoma ma parte del Commonwealth, con governo indipendente sotto l’egida della regina Elisabetta. Il partito nazionalista sostiene che le risorse di petrolio nel mare del Nord, l’industria locale agricola, la pesca e il whisky consentono a una Scozia indipendente di essere prospera in termini economici. Altri partiti di Edimburgo e il governo britannico invece pensano che la secessione sia svantaggiosa per entrambi i Paesi.
Referendum anche in Irlanda del Nord. Il movimento indipendentista irlandese, il Sinn Fein, vuole realizzare un referendum per decidere se continuare a far parte del Regno Unito o unirsi al resto dell’isola. Il numero due del partito, Martin McGuinness, ritiene che il Nord sia pronto per un referendum nel 2016, proprio in coincidenza con il centenario della rivolta di Pasqua, la sanguinosa ribellione che ha portato alla guerra d’indipendenza contro l’Inghilterra.
Guerra tra Fiandre e Sud francofono. Anche in Belgio si respira aria di scissione. La trasformazione delle Fiandre in uno stato indipendente e sovrano è l’obiettivo della Nieuw vlaamse alliantie (Nuova alleanza fiamminga), il partito che ha trionfato alle ultime elezioni del 2010, dopo la crisi del governo, accanto agli indipendentisti fiamminghi di destra del Vlaams Belang, fautori della separazione dai valloni. Motivazione etno-culturale ed economica, perché spesso le regioni più ricche spingono per sganciarsi dal resto del Paese. Secondo i sondaggi però solo il 30 per cento degli abitanti delle Fiandre vorrebbe una piena indipendenza.
Lo stadio di Verona grida “scimmia” a ogni giocatore del Napoli annunciato dallo speaker, scrive il 20 agosto 2017 "Il Napolista". Con l’avvento di Tavecchio il calcio italiano ha deciso di arrendersi al razzismo, e questi sono i risultati. Una multa di 15mila euro potrà mai invertire il trend? Lo “storico” striscione dei veronesi all'indirizzo dei tifosi del Napoli: “Benvenuti in Italia”.
L’annacquamento voluto da Tavecchio. Il calcio italiano si è ufficialmente arreso al razzismo e alla cosiddetta discriminazione territoriale con l’avvento del presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio. L’annacquamento delle norme fu al primo posto del suo programma politico e venne votato praticamente da tutti presidenti di Serie A (compreso De Laurentiis). La correzione Tavecchio pose fine alla breve stagione della chiusura dei settori e degli stadi italiani per razzismo. Stagione che venne ferocemente contestata da tanti media, Sky Sport in testa, che derubricarono i cori discriminatori al rango di sfottò.
Una pratica diffusa al Bentegodi, non solo col Napoli. E così oggi negli stadi italiani è possibile ascoltare quel che è avvenuto ieri sera a Verona, con lo stadio intero che accompagnava col grido “scimmia” ogni calciatore del Napoli annunciato dallo speaker. Un’usanza, se così la vogliamo chiamare, che al Bentegodi accompagna più squadre avversarie, non soltanto il Napoli. Ma in questo caso non vale il detto: mal comune mezzo gaudio. Una pratica indecente, da sottosviluppo culturale. La società scaligera se la caverà – come da legge – con una multa che sarà più o meno di 15mila euro. La domande adesso è: davvero il calcio italiano pensa di risolvere il problema – sempre che si ponga l’obiettivo di risolverlo – con multe di 15mila euro?
Indipendenza veneta, una provocazione da non sottovalutare, scrive Ettore Bonalberti il 2/03/2014. Sono stati 2 milioni 360mila 235 voti, pari al 73% del corpo elettorale regionale i voti espressi. I sì sono stati 2 milioni 102mila 969, pari all’89%, i no 257.276 (10,9%). Almeno questi sono i dati comunicati dagli organizzatori. Come promesso, Gianluca Busatto ha proceduto a proclamare di fronte a qualche migliaio di persone “l’indipendenza del Veneto”, con queste parole: “quando la testimonianza della storia viene convocata dal tribunale del presente come retaggio e forte voce di libertà e modello di serenità e giustizia. Quando un popolo invoca il diritto di autodeterminazione come diritto naturale e fondamentale dell’individuo e che da questi si estende alla famiglia, alla comunità e alla nazione.” La consultazione referendaria e la proclamazione di ieri sera, Costituzione alla mano, non hanno, ovviamente, alcun valore formale, men che meno istituzionale. L’art. 5 della Carta sancisce che “la Repubblica italiana è una e indivisibile”. Una proposta di referendum per il Veneto indipendente esiste, tuttavia, anche in Consiglio regionale Veneto, ferma in prima commissione, dopo che già un comitato di giuristi aveva spiegato che la “via legale” alla separazione dall’Italia non esiste. I leghisti in consiglio stanno sollecitandone la più rapida approvazione che, la consultazione on line appena conclusa, ovviamente, concorre a velocizzare. Sebbene ci si trovi di fronte a un’evidente provocazione, abilmente sfruttata dagli improvvisati nuovi leader secessionisti, sarebbe assai grave non coglierne tutta la portata politica. Al di là della veridicità reale delle cifre annunciate, trattasi di una dimostrazione di malessere che sembra riprendere, in maniera assai più ampia e generalizzata, la vecchia partita avviata agli inizi degli anni’80 da Franco Rocchetta, presente in Piazza dei Signori a Treviso e Achille Tramarin, fondatori della primigenia Liga Veneta. Come “libera manifestazione del pensiero” nulla da eccepire, guai se, però, ne sottovalutassimo il suo significato e le conseguenze politiche di tale pronunciamento. Ogni anno, come ha ricordato il governatore Zaia, il Veneto consegna a Roma 21 miliardi di tasse che non rientrano e basta leggere il bell’articolo del prof. Ulderico Bernardi, espressione autorevole dell’idea autonomistica sturziana e popolare dei veneti, sul Gazzettino di ieri, per comprendere che il più grave errore sarebbe quello di mettere la testa sotto la sabbia e non dare risposte politiche e istituzionali alla rabbia dei veneti.
Alla vigilia delle elezioni europee solo una ripresa delle grandi culture politiche, tra cui quella popolare resta la più genuinamente legata all’idea di un’Europa diversa dall’attuale, ispirata ai valori comunitari propri dei padri fondatori: Adenauer, De Gasperi e Schuman, può offrire qualche risposta positiva alle attese che anche questo referendum virtuale esprime.
La secessione dovremo farla noi meridionali, scrive Giovanni Valentini il 9 Aprile 2014 su “La Gazzetta del Mezzogiorno". Il vento della secessione che spira dal Veneto non è solo il vento del separatismo e dell’egoismo sociale che anima il ricco Nord-Est contro il resto dell’Italia, e in particolare contro il nostro povero Sud. Fin qui, si potrebbe anche interpretare come una rivendicazione più o meno legittima di autonomia e indipendenza, in difesa degli interessi locali. E magari come una reazione ai tanti vizi, presunti o reali, attribuiti ai meridionali: l’assenteismo, l’assistenzialismo, il clientelismo, la corruzione, l’evasione fiscale, la criminalità organizzata e chi più ne ha più ne metta. Ma in realtà questa corrente secessionista rappresenta qualche cosa di più e di peggio. È il risultato di una rozza predicazione leghista che ha già arrecato molti danni al Paese e soprattutto al Mezzogiorno. Un effetto e una conseguenza di quella propaganda politica che, nel segno di un malinteso federalismo, ha prodotto nel 2001 la modifica del Titolo V della Costituzione, di cui oggi s’invoca a gran voce la riforma: un federalismo malinteso perché, da Carlo Cattaneo in poi, il vero federalismo serve a unire e non a dividere. Quella, come si ricorderà, fu una precisa responsabilità del centrosinistra. Un misfatto compiuto nel tentativo maldestro e illusorio di inseguire la Lega sul piano elettorale. E perciò, ora tocca proprio al centrosinistra riparare i danni, promuovendo finalmente la riforma annunciata dal governo Renzi. Attraverso l’improvvida modifica di quattro articoli della Costituzione (114, 117, 118 e 119), vennero diversamente ripartire le competenze fra Stato e Regioni, assegnando a queste ultime poteri esclusivi in settori nevralgici come la sanità, l’ambiente e i trasporti. Con l’articolo 119, in particolare, si attribuì agli enti locali autonomia finanziaria di entrata e di spesa. È così che il federalismo fiscale è diventato uno strumento che minaccia ormai di scardinare l’assetto e i conti dello Stato. Nell’ultimo decennio, secondo le stime della CGIA di Mestre, le Regioni italiane hanno speso 89 miliardi di euro in più, di cui oltre la metà sono stati assorbiti dalla sanità (49,1). A fronte di un aumento dell’inflazione pari al 23,9%, la spesa pubblica è cresciuta addirittura del 74,6. E nel 2010, ultimo dato disponibile riferito ai bilanci di previsione, le uscite regionali hanno superato complessivamente i 208 miliardi. In questa abnorme dilatazione, rientrano anche le spese incontrollate che hanno suscitato e continuano a suscitare scandali: dalle “mutande verdi” del Piemonte ai viaggi all’estero, dai fuoristrada “di servizio” ai pranzi o alle cene di lavoro del Lazio e della Calabria. Di quale federalismo, dunque, stiamo parlando? E di quale secessione? Qui occorre, semmai, accentrare di nuovo competenze e funzioni sia per organizzare meglio la politica nazionale, dal governo del territorio alla sanità, dall’energia e ai trasporti; sia per ridurre drasticamente le spese. È proprio questo l’obiettivo strategico a cui punta la riforma del Titolo V, proposta da Renzi. Sono le regioni meridionali, piuttosto, che hanno pagato finora il prezzo più alto di questa degenerazione federalista e che dovrebbero invocare una secessione riparatrice. Negli ultimi dieci anni, infatti, il divario Nord-Sud s’è ulteriormente aggravato, com’è stato documentato nei giorni scorsi in un seminario della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. E questo è accaduto in particolare a danno del welfare e delle prestazioni sanitarie, penalizzando ancora una volta la popolazione meridionale. Da qui, senza rinnegare il modello federalista, deriva la richiesta - da una parte - di garantire “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep) uguali su tutto il territorio nazionale e - dall’altra - di riconoscere priorità al Mezzogiorno nell’utilizzo del Fondo per le politiche perequative: soprattutto in materia di istruzione, assistenza sociale, sanità, ma anche nella difesa dell’ambiente, come nella gestione dei rifiuti e delle acque. Se le Regioni più ricche possono permettersi tassazioni maggiori per assicurare un livello superiore di servizi, buon per loro. Ma questo non deve andare a discapito dei cittadini meridionali, sottoposti tuttora a un regime fiscale più alto a fronte di un livello di servizi erogati nettamente inferiore. In forza dell’unità nazionale sancita dalla Costituzione, lo Stato non può accettare né referendum secessionisti né questo separatismo strisciante che di fatto continua ad allargare il “gap” fra il Sud e il Centro-Nord. Anche se il nuovo presidente del Consiglio non ha neppure menzionato il Mezzogiorno nel suo discorso di presentazione alle Camere, e anzi ha abolito il ministero della Coesione territoriale che aveva prodotto risultati rilevanti sotto la gestione di Fabrizio Barca, ora la riforma del Titolo V è l’occasione propizia per rafforzare i poteri di riequilibrio dello Stato nelle aree più arretrate, in nome di un federalismo più equo e solidale. Oggi resta più attuale che mai l’assunto che il Paese o riparte dal Sud o non riparte.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD. Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche “il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna, dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile»: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le “scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo?». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la “liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era “la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati “belli” del Nord e quelli “brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente “disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati “belli” del Nord restano del Nord; quelli “brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale», parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la “Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama “New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già “meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce “isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce “Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce “Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è “rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
L’egoismo sociale della Catalogna, scrive il 20 settembre 2017 Barbara Di su "Il Giornale". Quanto sta avvenendo in Catalogna in vista del referendum per l’indipendenza è molto significativo per comprendere il funzionamento dell’egoismo sociale e le conseguenze della violazione del suo principio base. Se i governanti di tutti i livelli di potere coinvolti, dai catalani, agli spagnoli fino agli europei, imparassero ad apprezzare gli egoismi umani ed il loro indispensabile contributo all’evoluzione ed al benessere di ogni società, comprenderebbero finalmente quali meccanismi governano ogni sfera sociale da che esiste l’umanità e riuscirebbero meglio a gestire una situazione che rischia di essere ogni giorno più esplosiva. L’egoismo sociale, infatti, è il prodotto più geniale e nobile dell’istinto di sopravvivenza umano e di tutti gli egoismi, più o meno evoluti, che da questo discendono. Si tratta della consapevolezza degli esseri umani della necessità di interagire e collaborare con gli altri membri di una società al fine di soddisfare al meglio gli egoismi di tutti, attraverso la collaborazione, la suddivisione dei compiti e lo scambio tra egoismi. Uno scambio continuo in cui ogni parte rinuncia ad un proprio egoismo (risorse, tempo, energie, denaro, appagamento autonomo dei bisogni) cedendolo alla controparte per appagare i suoi bisogni ed ottenerne in cambio l’appagamento di un egoismo, diverso o ritenuto di grado superiore nella sua scala di priorità.
È questo l’unico motivo per cui ci si riunisce in una sfera sociale, ossia ogni insieme, più o meno ampio e complesso, di individui riuniti al fine di soddisfare i propri egoismi. È da questo egoismo che nascono le relazioni sociali, che io immagino come un continuo movimento dei singoli all’interno di ogni sfera sociale, a partire dalla famiglia, che, nelle varie situazioni si muove ed agisce per appagare i bisogni di uno, di alcuni, di tutti contemporaneamente, a seconda di quale sfera egocentrica si trovi in un dato momento al centro comandi. Ciò che caratterizza la specie umana è, poi, proprio la capacità incredibile di espansione delle sfere; il singolo ha trovato modo di ampliare i propri desideri e obiettivi, inventandosene in continuazione di ulteriori, grazie alla creazione di sfere sempre più grandi in cui riunirsi ad altri e muoversi tutti insieme per l’appagamento dei bisogni dei membri. Ci si aiuta l’un l’altro, si suddividono i compiti, ciascuno dà il proprio contributo e così ognuno può ottenere ciò che da solo non avrebbe mai raggiunto. Più sono complicati da raggiungere gli obiettivi, più sono necessari diversi contributi coordinati tra loro, più la sfera si allarga, includendo innumerevoli sfere egocentriche che lavorano insieme per soddisfare i desideri comuni, così come dei singoli. Si formano così le associazioni di persone, con gli scopi e le dimensioni più diverse, a loro volta inserite in altre associazioni più grandi, sfere formate da altre sfere, fino ad includere l’intera umanità. In ambito pubblico, inoltre, le sfere sociali sono la struttura portante con cui i membri delle comunità locali soddisfano i bisogni più vari; sono sfere incluse in altre sempre più grandi, a seconda della complessità degli obiettivi che ci si prefigge e del territorio in cui coabitano tutti i pallini egocentrici coinvolti, in un modo o nell’altro, dalle decisioni pubbliche. E non è ancora finita, perché anche gli Stati fanno parte di sfere sociali più ampie, federazioni, unioni continentali, o anche solo collaborazioni, tramite accordi internazionali, commerciali o politici che siano, fino a giungere alle organizzazioni internazionali che possono abbracciare la quasi totalità degli Stati, proprio quando gli egoismi comuni perseguiti perdono la dimensione locale ed abbracciano l’intera umanità. È proprio analizzando tutte queste sfere sociali dal punto di vista egoistico che emerge sia la genialità dell’essere umano, sia la necessità di trovare il modo per coordinarle e farle funzionare al meglio, senza che si sovrappongano in modo inefficiente. In una parola: sussidiarietà. In tanti, infatti, fin troppo spesso, vorrebbero occuparsi di questioni che non gli competono, condizionare scelte che non li riguardano o che coinvolgono gli interessi di altri soggetti, pretendendo di escluderli da ogni decisione, arrogandosi il diritto di scegliere al posto dei diretti interessati. Posto che i singoli hanno creato una sfera sociale proprio per perseguire i loro egoismi particolari, sono solo i creatori ed i membri di quella sfera a poter decidere cosa sia meglio per sé, come farla muovere ed operare, se ingrandirla, se includere od escludere altri soggetti, quali regole di comportamento tenere, come punire o escludere chi non le rispetta, come difendersi dagli attacchi esterni. Ritengo allora che ogni sfera sociale dovrebbe avere competenza solo sugli egoismi delle sfere egocentriche, delle persone che racchiude, solo di quelle e solo di tutte; non di più, perché sarebbe un’imposizione inammissibile nei confronti di chi non ne fa parte; non di meno, perché sarebbe una prevaricazione della maggioranza sulla minoranza. Certo, le sfere spesso si sovrappongono, possono avere confini labili e variabili, ma se si pone attenzione agli obiettivi egoistici perseguiti da ogni sfera sociale in via diretta ed immediata, se se ne comprende lo scopo egoistico istituzionale, si possono individuare i diretti interessati e lasciare solo a loro il potere decisionale. Ecco, in estrema sintesi, questo non è altro che federalismo, o meglio ancora sussidiarietà. Se la applichiamo a qualsiasi attività umana svolta in forma aggregata, a qualsiasi servizio pubblico o interesse privato, vediamo come la logica egoistica degli interessi coinvolti possa essere la chiave di volta per trovare il migliore equilibrio tra le sfere sociali e, soprattutto, per la loro organizzazione. Così come è inefficiente che lo Stato centrale si occupi della perdita delle condutture dell’asilo di Pozzallo, altrettanto illogico che il sindaco di Pozzallo possa imporre le sue scelte su una centrale elettrica, anche se si dovesse trovare nel suo territorio. Se mi guardo intorno, soprattutto in Italia e ancor di più in Europa, vedo invece che si procede alla rinfusa, per passi avanti e indietro, a destra o sinistra, nella suddivisione delle competenze, più attenta ad una logica di mantenimento del potere che di efficienza. E ritengo sia proprio questo il morbo generatore della pesante burocrazia che soffoca, anziché aiutarla, l’attività dei cittadini che, invece, sono riuniti in una società per avere un vantaggio dall’unione e non certo un fardello che ne ostacola lo sviluppo. È, allora, ritornando al fondamento dell’egoismo sociale che si può tentare di mettere ordine in questo caos, che poi è pure il terreno di coltura prediletto della corruzione. Partendo dagli egoismi dei membri di ogni sfera sociale si può avviare un meccanismo di sussidiarietà che parta da un principio molto semplice: tutti coloro che hanno un interesse diretto decidono come far muovere la sfera sociale, tutti gli altri devono stare fuori dal centro comandi. Sì, ma mi si dirà, spesso certe decisioni o attività di una sfera sociale possono avere conseguenze dirette sugli interessi di persone esterne. È un’eccezione che però contiene già la soluzione: se tocca interessi diretti di altri, vuole dire che quella sfera più piccola, in quella determinata situazione, si trova all’interno di una sfera sociale più grande, dove coesistono anche gli altri interessati. Sarà, quindi, il centro comandi di questa sfera più ampia ad avere la competenza per quelle decisioni a cui la sfera più piccola dovrà adeguarsi, e via via così fin dove può espandersi l’inclusione di ogni sfera sociale in un’altra e poi in un’altra ancora. Ora, se questa è la base di ogni società, ecco che il caso della Catalogna evidenzia come il desiderio di indipendenza sia una richiesta di maggiore sussidiarietà che, a quanto pare, la Spagna non ha saputo gestire nel modo più corretto, andando ad occuparsi di questioni che dovevano rimanere gestite dal centro comandi catalano. Ciò ha comportato il pericolo maggiore in cui rischia di incorrere ogni società: la violazione del principio base dell’egoismo sociale. Perché una società possa, infatti, dirsi positiva da un punto di vista egoistico, in ogni scambio ed in ogni sfera sociale, il risultato, l’appagamento degli egoismi, ottenuto dal singolo deve essere superiore a quello che avrebbe ottenuto impiegando le proprie risorse per se stesso; in caso contrario, o si ha uno sfruttamento ingiustificato delle risorse altrui oppure la società è in perdita e non ha nessuna ragione di esistere, meglio scioglierla. Ecco quello che stanno chiedendo i catalani: sciogliere un vincolo sociale in cui si sentono sfruttati e da cui non ritengono di trarre benefici maggiori delle rinunce a cui sono sottoposti. E si tratta, peraltro, della stessa richiesta di tutti i movimenti indipendentisti, o sovranisti come si usa dire ora, che si stanno ribellando ad un’Europa che non riconoscono come utile ai loro bisogni. È proprio l’Unione Europea la prima, d’altronde, a violare il principio base dell’egoismo sociale, sia non contribuendo ad accrescere il benessere dei cittadini europei in misura superiore ai sacrifici imposti, sia soprattutto ad ingerirsi nel centro comandi degli Stati membri imponendo regole che non le competono. Nel momento in cui i burocrati europei hanno cominciato a perdere di vista quali siano gli unici interessi diretti su cui possono avere competenza, a distruggere lo spirito di sussidiarietà su cui era nata la Comunità Europea, ad ingerirsi nelle decisioni che dovevano rimanere di stretta competenza delle sfere sociali statali, ecco che hanno creato i presupposti perché fossero gli stessi cittadini europei a voler disgregare una sfera sociale che non soddisfaceva i loro egoismi né aumentava il loro benessere come avrebbe potuto e dovuto.
Ecco perché in fondo, il referendum catalano non è che l’inevitabile conseguenza del centralismo sia spagnolo che europeo. Per questo considero un controsenso che i catalani pensino di distaccarsi dalla Spagna, ma rimanere in Europa, così come la Scozia dopo la Brexit. Ma si tratta di un controsenso facilmente spiegabile se si pensa alle modalità con cui opera l’UE nei confronti degli Stati membri, imponendo loro misure che hanno ricadute sui cittadini dei singoli Paesi, ma di cui non si assumono la responsabilità diretta, scaricandola sui governanti locali. In altre parole, l’UE prende saldamente il controllo del centro comandi imponendo la rotta, ma lascia il volante radiocomandato in mano ai governanti locali, che non hanno la forza politica di opporsi alle loro decisioni, ma se ne prendono le colpe. Ed ecco che da qui nascono le spinte indipendentiste di Stati e staterelli che si illudono di poter riprendere finalmente il proprio centro comandi, salvo poi un domani ritrovarsi con gli stessi vincoli europei che ne impediscono lo sviluppo e il benessere. Il punto non è, infatti, chi abbia torto o ragione, ma proprio la mancanza di una chiara assunzione di responsabilità da parte di chi effettivamente gestisce il centro comandi. Devono essere i governanti statali ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte nazionali e risponderne ai propri cittadini elettori, così come i governanti europei devono rispondere a tutti i cittadini europei delle scelte che riguardano tutto il continente, ma questo è possibile solo quando la suddivisione dei centri comandi e delle sfere sociali è ben delineata e risponde agli effettivi egoismi direttamente coinvolti. In caso contrario, se non ci preoccupa del principale difetto europeo, suddividendo in modo coerente le competenze tra tutte le sfere sociali con un effettivo equilibrio che solo la sussidiarietà può dare, il risultato inevitabile non può che essere la disgregazione sia degli Stati membri sia della stessa Unione Europea. È solo l’inizio di una morte annunciata.
L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.
Valeria e i pregiudizi su Napoli: «Mi sentivo come Bisio in Benvenuti al Sud». Valeria Genova, 31 anni, da Treviso in Campania per seguire il marito. «Mia nonna mi ha salutata dicendo: stai attenta ai proiettili volanti. Pensavo che fosse il Far West, ora piango a lasciarla», scrivono Michela Nicolussi Moro ed Elena Tebano l'8 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". «Vedi Napoli e poi muori» scriveva Goethe nelle lettere del suo Viaggio in Italia, 1787, citando il detto locale: è così bella che se l’hai vista non hai bisogno di vedere altro. Valeria Genova, trentaduenne di Treviso, l’aveva preso un po’ troppo alla lettera: «Quando nel 2015 ho saputo che avrei dovuto seguire mio marito a Napoli mi sono messa a piangere — racconta —. Avevo paura. Dico solo che mia nonna mi ha salutata con queste parole: “Stai attenta ai proiettili volanti”». Adesso per lei è venuto il momento di lasciare il capoluogo campano e ha scritto un addio su Facebook così pieno d’amore per la città da essere diventato virale, con oltre 34 mila like e più di 14 mila condivisioni in meno di una settimana. Tanto che i tifosi del Napoli l’hanno invitata in curva a vedere l’amichevole di oggi allo stadio San Paolo. Ha promesso che ci andrà, se possibile anche con la figlia di due anni, sicuramente con il marito. Lui è pilota dell’aereonautica e, dopo un periodo in Inghilterra e un altro in Veneto, era stato trasferito a Pozzuoli.
I preconcetti (sbagliati). Valeria però di Napoli conosceva solo il sentito dire. «Benvenuti al Sud non è un’esagerazione, è proprio realtà; io mi sentivo come Bisio, sfigata nel dover andare a vivere in una città piena di problemi, come se fossi in mezzo al Far West», ha scritto nel post. Preconcetti, ammette a ragion veduta: «Sono passati due anni in cui ho vissuto Napoli in tutte le sue sfaccettature e non posso sentirmi più scema per tutti i pregiudizi che avevo su di lei — confessa —. Posso affermare con assoluta certezza e convinzione che Napoli è casa mia». E ancora: «In Napoli mi sono tuffata e adesso non vorrei più uscirne, vorrei stare per sempre tra le sue braccia, cullata dalle tante cose che la rendono speciale. Sì il clima, sì il mare, sì il cibo... ma è molto di più! Napoli è cultura, è ricchezza e povertà, è un groviglio di storie e racconti, è poesia e musica, è allegria e caparbietà, è capacità di vivere appieno la vita, è amore e consapevolezza».
L’accoglienza meridionale. A cambiare le cose è stata l’accoglienza del quartiere di Posillipo prima, poi della città intera: «Non conoscevo nessuno, non avevo né amici né parenti. Ma dopo tre giorni — racconta — la mamma di un bambino che era al nido con mia figlia mi ha iscritta in un gruppo WhatsApp con altre mamme e ha organizzato una piccola festicciola. Sono diventate le mie grandi amiche. La gente del Sud ha una propensione verso l’altro, un affetto, un comportamento accogliente e accudente che al Nord ci scordiamo». Infine è arrivata la scoperta della cultura che affonda le radici nella storia partenopea: «L’anima di Napoli è il teatro —spiega —. Per me, abituata a vedere quelli al Nord che faticano a riempire la sala, assistere al San Carlo sempre pieno è stata una grande emozione». Questa settimana Valeria traslocherà a Roma, la nuova destinazione del marito. «Farò l’ambasciatrice di Napoli» ha promesso. Porterà con se orizzonti un po’ più ampi e le parole di Alessandro Siani in Benvenuti al Sud: «Quando un forestiero viene al Sud piange due volte, quando arriva e quando parte».
Un Popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Per essere omologati nell'esercitare una professione bisogna essere abilitati. Gli abilitati conformati disconosceranno sempre la loro abilitazione truccata mirata alla coglionaggine certificata. Chi non è come il coglione comune è additato come un anormale, senza che di questi si conoscano pregi e virtù. Su di esso la scure del preconcetto e del pregiudizio.
Il pregiudizio è un giudizio anticipato basato su supposizioni o su informazioni incomplete.
Il preconcetto, invece, è un giudizio che non deriva da un esperienza diretta ma solo a detta di altri.
Da Treccani:
pregiudìzio, (ant. pregiudìcio) s. m. [dal lat. praeiudicium, comp. di prae- «pre-» e iudicium «giudizio»].
1. Nel diritto romano, azione giuridica precedente al giudizio, e tale da influire talvolta sulle decisioni del giudice competente.
2. a. Idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore (è sinon., in questo sign., di preconcetto): avere pregiudizî nei riguardi di qualcuno, su qualcosa; essere pieno di pregiudizî; giudicare senza (o con l’animo sgombro da) pregiudizî; molti continuano ad avere dei p. sulle capacità professionali delle donne; i suoi p. erano il risultato di un’educazione all’antica; pregiudizî di casta; p. morali, razziali, religiosi, sociali, politici; uno di quei settentrionali con la testa piena di pregiudizi, che appena scendono dalla nave-traghetto cominciano a veder mafia ovunque (Sciascia).
2. b. Convinzione, credenza superstiziosa o comunque errata, senza fondamento: combattere contro vecchi p. popolari; è un vecchio p. che rompere uno specchio porti sfortuna.
3. a. Il danno che può derivare agli interessi di una persona da un atto che pregiudichi, cioè comprometta l’esecuzione di una eventuale decisione favorevole del giudice competente; spec. in frasi del tipo: senza p. dei miei diritti; senza p. di terzi; in p. di, con riferimento ad azione giudiziaria, civile o penale, proposta a carico di qualcuno. b. Per estens., fuori del linguaggio giuridico, danno in genere: essere di p. (o di grave p.) per la salute, per la reputazione; recare p., danneggiare; bel modo quell’onesto curato ha saputo trovare per buttar via danari, con non mediocre pregiudizio d’un suo chierichetto, che deve essere un dì suo erede perché gli è nipote (Baretti).
preconcètto, agg. e s. m. [comp. di pre- e del lat. conceptus (part. pass. di concipĕre «concepire»), per traduz. del fr. préconçu].
1. agg. Propriam., concepito prima; si dice soprattutto di idee o giudizî formulati in modo irrazionale, sulla base di prevenzioni, di convinzioni ideologiche, di sentimenti istintivi, spesso per partito preso e senza una esperienza personale: opinioni p.; antipatia, avversione, ostilità p.; una presa di posizione preconcetta.
2. s. m. Convincimento, idea, opinione privi di giustificazioni razionali o non suffragati da conoscenze ed esperienze dirette: il tuo ragionamento parte da un p. erroneo; bisogna giudicare senza preconcetti; talvolta usato in luogo di pregiudizio, che con questo sign. è termine più com.: essere pieno di preconcetti; avere p. borghesi; una persona che non sa liberarsi dei suoi p.; la moderatezza delle mie parole mandava all’aria tutti i suoi p., le sue misure abituali (C. Levi).
PRECONCETTI E DISCRIMINAZIONE. Scrive Roberto Quaglia: "Caro Maurizio Costanzo Show, si ha un bel dire che avere dei preconcetti è male, ma, appunto, si ha un bel dire e basta e anzi, in tal dire - se vogliamo andare in fondo alla questione - v'è anche assai poco di bello. L'essere umano vive infatti grazie ad una visione del mondo costituita per lo più da preconcetti. La nozione stessa che avere dei preconcetti sia un fatto negativo, è essa stessa un preconcetto. Ma cos'è un preconcetto?
Dal dizionario Gabrielli: "PRECONCETTO: Che è concepito nell'animo prima di essere stato conosciuto, considerato, sperimentato, in modo da creare pregiudizio, da vietare un giudizio sereno della realtà." Come si vede, il preconcetto non è il pregiudizio, ma è di esso invece eventualmente la causa. Si noti come anche nel dizionario Gabrielli si accenni al significato negativo del termine (...vietare un giudizio sereno...). Il dizionario Gabrielli, definendo il preconcetto, è vittima esso stesso di un preconcetto, dal che consegue, in virtù della definizione che esso stesso attribuisce alla parola "preconcetto", che il redattore del dizionario ha definito tale concetto senza averlo prima conosciuto, considerato, sperimentato, in altre parole compreso, riportandone invece il significato popolarmente più diffuso, in altre parole il preconcetto. Pensare che in Australia vivano i canguri è un preconcetto, per ogni persona che non sia mai stata in Australia. Anche l'idea che l'Australia esista è un preconcetto, per chi non ci sia mai stato. Chi ci garantisce che l'esistenza dell'Australia non sia soltanto una leggenda infondata? E' opinione diffusa che l'Australia esista, ma finché uno non ci va, quella sua opinione è un preconcetto. Non c'è nulla di male in questi preconcetti. In realtà non c'è nulla di male nei preconcetti in generale. Il 99% delle nostre cognizioni sono in realtà preconcetti. Anche il concetto che Marilyn Monroe sia sessualmente appetibile è un preconcetto. In realtà è morta, sepolta e decomposta e quindi tutt'altro che sessualmente riutilizzabile. Anche il concetto che fosse sessualmente appetibile quando era viva è un preconcetto. Abbiamo giusto visto qualche sua truccatissima immagine bidimensionale in movimento, senza neanche udirne la voce (doppiata). Per quello che ne sappiamo noi puzzava, ed il suo alito poteva evocare l'impressione di un distillato di calzini marci. Per quello che ne sappiamo tutte le sue foto e tutti i fotogrammi di tutti i suoi film sono abilmente ritoccati per farcela sembrare arrapante. Non l'abbiamo conosciuta e sperimentata, questa è la verità, ogni opinione che abbiamo di ciò che lei fosse è un preconcetto. Se uno proprio non sa cosa fare, può sedersi ad una scrivania o altrove ed elencare su un foglio di carta tutti i propri preconcetti che gli vengono in mente, cioè tutte le cose che ritiene di sapere pur non avendo mai avuto occasione di verificarle, sperimentarle, farne esperienza in prima persona. Non ho idea a che cosa possa servire fare ciò, ma se a qualcuno viene davvero voglia di farlo, lui/lei saprà cosa gli/le servirà. Se allora i preconcetti non sono niente di male, cosa serve sapere cosa sono? E perché ne stiamo parlando? Be', tanto per iniziare per restituire la dignità perduta al concetto di preconcetto, incolpevole vittima di se stesso, cioè di un preconcetto. E tiriamo adesso in ballo un altro vocabolo vittima di un atroce preconcetto: "Discriminazione"! Ci hanno insegnato che discriminare è male. Ci si dice solidali con le cosiddette "vittime della discriminazione". Si parla nei telegiornali di "gravi fatti di discriminazione". La parola "discriminazione" è spesso associata a "intolleranza", come se significassero qualcosa di simile.
Il dizionario Gabrielli dice: "DISCRIMINAZIONE: L'atto e l'effetto del discriminare, distinzione, differenza." E ancora: "DISCRIMINARE: Far differenza o distinguere tra persone e cose; differenziare, distinguere." Nulla di negativo è contenuto in tal vocabolo. Che la discriminazione sia qualcosa di negativo in sé, è un preconcetto. Chiunque ritenga che "discriminare" sia male, ha adottato tale preconcetto, dal che consegue, in virtù della definizione del Gabrielli di "preconcetto", che tal persona non ha mai conosciuto, considerato, sperimentato, il reale significato della parola "discriminare". E discriminare, cioè distinguere, riconoscere differenze, è invece essenziale nella vita di chiunque. Ed è importante imparare a discriminare coscientemente, lucidamente, soprattutto riguardo ai preconcetti, cioè quella gran massa di convinzioni che non sono frutto dell'esperienza, della propria sperimentazione, di una conoscenza approfondita, delle necessarie verifiche. Bisogna prendere coscienza dei propri preconcetti e tra essi discriminare, separando i preconcetti utili da quelli dannosi, quelli sensati da quelli dissennati. E' utile e sensato avere il preconcetto che l'Australia esista, anche se non ci si è mai stati, perché a questo modo si può eventualmente prendere in considerazione l'opportunità di andarci in vacanza. E' dannoso e dissennato avere il preconcetto che i negri sono una razza inferiore, perché ci si crea dei nemici che nemici altrimenti non sarebbero, e si incentiva e legittima nel contempo altri individui a sviluppare lo stesso preconcetto nei nostri confronti. In sintesi, la via della saggezza e quella di imparare a discriminare tra i propri preconcetti, e non in base ai propri preconcetti. Tutto questo polpettone intendeva introdurre qualche divagazione circa il diffuso preconcetto della morte. Ne parleremo, caro Maurizio Costanzo Show, nella prossima lettera. Roberto Quaglia".
Stereotipi e pregiudizi. Alla base di atteggiamenti non basati sull'esperienza diretta vi sono spesso stereotipi e pregiudizi, scrive “Sapere.it”.
Per la psicologia sociale uno stereotipo corrisponde a una credenza o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.
Gli stereotipi. Gli stereotipi assomigliano molto dunque a degli schemi mentali e quando per valutare o prevedere il comportamento di una persona ricorriamo a degli stereotipi, questo tipo di ragionamento ricorda molto quanto detto a proposito delle euristiche: utilizzando uno stereotipo per valutare una persona noi non facciamo altro che utilizzare come scorciatoia mentale l'ipotesi che chi rientra in una determinata categoria avrà probabilmente le caratteristiche proprie di quella categoria. D'altra parte uno stereotipo non si basa su una conoscenza di tipo scientifico, ma piuttosto rispecchia una valutazione che spesso si rivela rigida e non corretta dell'altro, in quanto attraverso gli stereotipi si tende in genere ad attribuire in maniera indistinta determinate caratteristiche a un'intera categoria di persone, trascurando cioè tutte le possibili differenze che potrebbero invece essere rilevate tra i diversi componenti di tale categoria. Occorre tuttavia ricordare, sulla base di quanto detto poco sopra sulla somiglianza tra stereotipi e modelli mentali, che non necessariamente tutti gli stereotipi sono negativi: ad esempio, lo stereotipo che gli anziani hanno i capelli bianchi non ha una connotazione negativa, e se utilizzato tenendo conto che possono anche esistere eccezioni (vivendolo dunque non come “tutti gli anziani hanno i capelli bianchi” ma “molti anziani hanno i capelli bianchi”), può anche rivelarsi un'utile strategia cognitiva. In effetti se considerati come delle generalizzazioni che possono rivelarsi approssimative, gli stereotipi dimostrano di potersi rivelare, così come gli schemi mentali, delle valide strategie mentali. Può essere utile riflettere sul come e sul perché tendiamo a creare degli stereotipi, anche se spesso essi si rivelano nient'altro che concezioni errate. In parte molti dei nostri stereotipi sono mutuati culturalmente (come quelli legati alla differenza uomini/donne, oppure relativamente al carattere o ai difetti di certe popolazioni), e ci spingeranno ad etichettare certi atteggiamenti in maniera diversa a seconda dell'attore coinvolto per rimanere coerenti con lo stereotipo di base. Ad esempio, se condividiamo lo stereotipo che le donne siano meno brave degli uomini nell'impiegare il computer, interpreteremo come mancanza di competenza un errore che causa l'arresto del sistema operativo da parte di un'amica o di una collega, mentre vedremo come una distrazione lo stesso errore commesso da un amico o un collega. Al contrario vedremo come eccezioni che confermano la regola, una donna particolarmente a suo agio con questioni informatiche o un uomo che non è in grado di utilizzare un computer, senza rischiare così di dover mettere in forse lo stereotipo di riferimento. Gli studi sulla memoria hanno anche dimostrato come tendiamo a ricordare meglio e con più precisione episodi che confermano le nostre credenze e a dimenticare o sfumare quelli che le contraddicono; inoltre, dal punto di vista cognitivo, le persone tendono a dare un peso maggiore alle prove che confermano le proprie ipotesi piuttosto che a quelle che le contraddicono.
I pregiudizi. Similare alla connotazione più negativa di uno stereotipo, in psicologia un pregiudizio è un'opinione preconcetta concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni. Il significato di pregiudizio è cambiato nel tempo: si è passati dal significato di giudizio precedente a quello di giudizio prematuro e infine di giudizio immotivato, di idea positiva o negativa degli altri senza una ragione sufficiente (il pregiudizio è in tal senso generalmente negativo). Bisogna anche distinguere il concetto errato dal pregiudizio: un pensiero infatti diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze. Un pregiudizio può essere considerato un atteggiamento e come tale può essere trasmesso socialmente, e ogni società avrà dei pregiudizi più o meno condivisi da tutti i suoi componenti. Inoltre – riflessione valida anche nel caso degli stereotipi – tendiamo a formare i nostri pregiudizi soprattutto relativamente a persone appartenenti a un gruppo diverso dal nostro, di cui necessariamente avremo una conoscenza meno approfondita, e di cui saremo quindi meno in grado di vedere differenziazioni interne. Le ricerche sociologiche hanno anche posto in evidenza come le persone inserite, anche arbitrariamente, in un gruppo tendono ad accentuare le differenze che portano ad una distinzione del gruppo di appartenenza rispetto agli altri, e a cercare quindi di favorire il proprio gruppo. Spesso il nutrire pregiudizi relativamente a determinate categorie di persone porta, come evidenziato parlando degli atteggiamenti, a modificare il nostro comportamento sulla base delle nostre credenze, con la conseguenza di creare condizioni tali per cui ipotesi formulate sulla base di pregiudizi si verificano (profezie che si autoavverano). Naturalmente questi comportamenti porteranno poi al rafforzamento degli stereotipi stessi. Ad esempio, se per un qualche motivo Amilcare si è convinto che i toscani sono persone estremamente litigiose, incontrando il cugino livornese di Matilde assumerà probabilmente un atteggiamento più provocatorio, intendendo difendersi dagli “inevitabili” attacchi che si aspetta. Ma questo suo atteggiamento sarà visto come ostile e ingiustificato dal cugino toscano che a sua volta si metterà sulla difensiva nei confronti di Amilcare, che lo percepirà come litigioso, rafforzando di conseguenza il suo pregiudizio. È possibile eliminare i pregiudizi? Non si tratta di un'impresa facile, in quanto i pregiudizi, come abbiamo visto, sono determinati da una serie di concause che hanno le loro radici nel sociale e possono quindi vantare una forte influenza sugli individui. Favorire contatti tra gruppi diversi, migliorare la conoscenza delle persone che per qualche motivo vengono percepite come “diverse” può servire a ridurre i pregiudizi, ma naturalmente occorre che le persone siano effettivamente disposte a rivedere le proprie convinzioni.
Lombroso e quella paura dell’individuo anormale. Dalle sentenze al senso comune il senso della pericolosità è rimasto come incistato nei cervelli di ciascuno di noi. Situato all’incrocio tra il sapere medico e il sapere giudiziario, scrive Pier Aldo Rovatti il 16 dicembre 2016 su "L'Espresso". L'idea di pericolosità che una cultura neoilluminista avrebbe dovuto disinnescare e lasciarsi alle spalle, continua invece a tenere il campo e a produrre effetti inquietanti. La nozione di individuo pericoloso, quell’individuo che potremmo incontrare giù all’angolo della strada, sembra profondamente radicata nelle nostre menti, quasi non avessimo a disposizione alcuno strumento per contrastarla davvero o solo per snidarla: è molto difficile trovare qualcuno completamente immune, anche se molti pretendono di esserlo. È un pregiudizio? Non saprei battezzarlo: di sicuro agisce prima di ogni valutazione e contro ogni buon proposito. Michel Foucault ci ha raccontato, in alcuni suoi scritti degli anni Settanta, come nasce nella modernità questa nozione che in definitiva coincide con l’idea di anormale. L’individuo pericoloso viene descritto dalla psichiatria di allora come un tipo di folle capace di esplosioni imprevedibili e incontrollate, una follia monomaniaca, come la si chiamava, tanto più sorprendente quanto meno incanalabile in un profilo individuale di vita. Famosa è rimasta, grazie allo stesso Foucault, la vicenda del giovane contadino francese Pierre Rivière che d’improvviso stermina buona parte della propria famiglia e poi scappa nei boschi. Non aveva dato fin lì particolari segni di squilibrio (sarà lui stesso a fornirne qualche traccia in una “memoria” di sorprendente lucidità scritta in prigione dopo la cattura), il che metterà a lungo in scacco la giustizia del tempo e gli stessi psichiatri, tra cui il notissimo Esquirol. Infatti, ci si comincia allora a chiedere come trattare una pericolosità che si situa all’incrocio tra il sapere medico e il sapere giudiziario. Ancora oggi, quando sono passati quasi due secoli e la questione è stata studiata in lungo e in largo, restano parecchie ombre. Da noi, nonostante la chiusura dei manicomi (la “rivoluzione” condotta da Franco Basaglia prima a Gorizia e poi a Trieste, con il suo esito in una legge nazionale, la “180”, decisamente pionieristica), la soppressione dei cosiddetti Ospedali psichiatrici giudiziari è cronaca recentissima, ma le ombre potranno comunque essere completamente diradate solo nel momento in cui dal Codice penale scomparirà ogni riferimento all’individuo pericoloso (“pericoloso a sé e agli altri”), un individuo come tale criminogeno. Per ora simile norma, nonostante tutto, sussiste nella sua evidente vaghezza e nella sua impressionante lontananza dal mondo reale e dagli sviluppi effettivi della nozione stessa di individuo pericoloso. Dopo le teorie della “degenerazione” e dopo gli studi di Cesare Lombroso, per fare solo due esempi, la pericolosità individuale appare adesso inscindibilmente collegata al calcolo dei rischi che una società deve prevedere e prevenire. Le teorie della “degenerazione” hanno cercato di rispondere allo scacco di una pericolosità immotivata con l’ipotesi di tare ereditarie (oggi diremmo, leggibili nel Dna di una persona), e non c’è bisogno di ricordare le nefandezze di massa perpetrate dai regimi autoritari del secolo scorso (ma non solo lì) per liberarsi dai soggetti “deboli”, con pratiche che vanno dalla sterilizzazione alla soppressione fisica dei malati mentali. Roba vecchia? Ma quanto di tale ipotesi degenerativa è rimasto vivo nell’opinione comune (e anche nelle perizie psichiatriche)? Quanto a Lombroso e alla sua geniale fisiognomica dell’individuo anormale, con annesse immagini dei tratti della mostruosità umana e delinquenziale, è arduo convincersi che questa “cultura” sia ormai scomparsa dalla scena. Al contrario, si ha l’impressione che essa sia rimasta come incistata nei cervelli di ciascuno di noi. Per negarlo, dovremmo riuscire a dire a noi stessi che il nostro giudizio è totalmente immune dalla immediata valutazione delle fattezze di chi ci capita di incontrare e dunque dalla pretesa di capire al volo se si tratta di qualcuno di cui fidarsi o da evitare. Non c’è neppure bisogno di sottolineare che questo istantaneo identikit di pericolosità può portarci in fretta ad atteggiamenti di tipo razzistico che mai accetteremmo consapevolmente di attribuire a noi stessi. Insomma, la cartina di tornasole della pericolosità non è certo caduta in disuso e, siccome continuiamo tranquillamente e acriticamente ad adoperarla, dovremmo fermarci un momento a pensare se l’attuale cultura possa effettivamente chiamarsi neoilluministica, a partire proprio da un’analisi autocritica dei modi con cui esprimiamo nel concreto le nostre inclinazioni soggettive. Riusciamo a dribblare il problema spostando lo sguardo sui rischi sociali? Mi spiego. Esiste da alcuni decenni una pratica culturale che ci invita a distogliere l’attenzione dai singoli individui ritenuti pericolosi per concentrarci piuttosto sui cosiddetti studi attuariali, cioè sul calcolo dei probabili rischi cui sarebbe esposto un contesto sociale, per esempio quelli connessi al terrorismo. Si tratta di un duplice spostamento, dal singolo individuo pericoloso a un collettivo di individui o a una “popolazione” di soggetti produttori di rischio sociale, e, secondariamente, da un’indagine sulla storia pregressa degli individui a una prospezione rivolta al futuro e alla probabilità del danno sociale. In questo modo non sarebbe solo in gioco la psichiatria con i suoi folli muti e impenetrabili, e neppure avrebbero voce autorevole gli psicoanalisti, i quali hanno sempre tentato con i loro strumenti di penetrare dentro l’enigma della soggettività per dare parole a quanto dell’individuo si oppone con il suo silenzio a fornire una rappresentazione di se stesso. Quella che, invece, viene costruita è l’idea di una società pericolosa di per sé e quindi produttrice di rischi anonimi e diffusi da tradursi in probabilità. Arrivo così alla domanda decisiva: che ne è attualmente della pericolosità? A me pare che la partita, così impostata, risulti in buona parte truccata. Si vorrebbe cancellare l’idea dell’individuo pericoloso e con essa l’idea stessa di pericolosità, ma si ottiene il risultato opposto di diffondere ovunque il timore del pericolo e al tempo stesso di astenersi da un’indagine critica che scoperchi quanto di ideologico viene conservato nello stigma dell’“individuo pericoloso”. L’altra faccia della ponderazione dei rischi sociali potrebbe rivelarsi quella di un vero e proprio terrorismo psicologico. Il soggetto pericoloso può annidarsi dovunque e in chiunque: può essere chi vive dietro la porta accanto, ma anche chi vive assieme a te, potresti perfino essere tu stesso. La sentenza “pericoloso a sé e agli altri” non solo non viene ancora cancellata da codici ormai antiquati e retrogradi, al contrario sembra potersi applicare in un modo generalizzato e generico, ben al di là dei casi attribuibili a follia individuale. Pericolosi possiamo diventare tutti, basta rientrare per qualche aspetto nel dispositivo della paura sociale. Cosa significa, infine, pericolosità? Tutto, ma anche niente, poiché l’idea stessa di pericolosità ci sta sfuggendo di mano e sono diventati pressoché inservibili quegli strumenti, che pure avevamo, utili per criticare e smontare il pregiudizio della pericolosità.
Intolleranti e discriminati: sono gli italiani secondo l’Istat (e le donne sono quelle che stanno peggio), scrive il 19 luglio 2017 Alessandra Arachi su "Il Corriere della Sera". Sono numeri che vanno letti e riletti per poter credere fino in fondo che siano veri. Li ha prodotti l’Istat realizzando un’indagine sulle discriminazioni, le intolleranze e le violenze in Italia. La prima scoperta? Sono 11 milioni e 300 mila gli italiani che dichiarano di aver subito discriminazioni, ovvero un cittadino su quattro di un’età compresa tra i 18 e i 74 anni. Ma la prima scoperta non è certo la peggiore. L’Istat ha indagato le sensibilità degli italiani rispetto agli omosessuali: è venuto fuori che nel 2017 un italiano su quattro associa l’omosessualità a una malattia. Ed entrando nel mondo del lavoro, poi, si è scoperchiato il vaso di Pandora: più di una donna su due (il 51,8%) nell’arco della vita ha subito ricatti o molestie sessuali sul lavoro, in numero assoluto 10 milioni 485 mila donne in età compresa tra i 14 e i 65 anni. L’indagine dell’Istat è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare sull’intolleranza, voluta dalla presidente Laura Boldrini, che verrà presentata giovedì mattina a Montecitorio. È piena di numeri che ti saltano addosso, e che spaziano dal certificare quell’orribile violenza che porta ai femminicidi (una donna su tre fra i 16 e i 70 ha subito violenza fisica, in due casi su tre dal proprio partner), ad una violenza sottile e quotidiana che si chiama pregiudizio o, semplicemente, stereotipo. Un’altra cifra, per capire? Siamo sempre nel 2017 e, purtroppo sempre in Italia, il 34,4% dei cittadini (più di uno su tre) ha voluto rispondere all’Istat che una madre che lavora non può stabilire un buon rapporto con i propri figli. C’è poi un atteggiamento evidente, soprattutto in questi giorni caldi per gli sbarchi sui nostri mari, però l’Istat lo certifica: sono sei italiani su dieci che si mostrano diffidenti verso gli stranieri. Ma la verità è che la diffidenza persiste anche nei confronti degli omosessuali: un cittadino su cinque ritiene poco o per niente accettabile avere un collega, un superiore o, addirittura un amico omosessuale.
Se il comune di Arco ora chiede la certificazione di antifascismo. Ad Arco, in provincia di Trento, il comune chiede alle associazioni di volontariato di sottoscrivere una dichiarazione di riconoscimento dei "valori antifascisti", indispensabile per ottenere contributi pubblici e uso degli spazi comunali. Ma c'è chi protesta: "Iniziativa assurda", scrive Roberto Vivaldelli, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Non solo Boldrini e Fiano, l'antifascismo militante è materia di dibattito anche nelle piccole realtà locali. Il consiglio comunale di Arco, quarta città del Trentino, ha recentemente approvato una mozione in cui chiede a tutte le associazioni del territorio che fanno domanda di utilizzo di spazi pubblici e richiesta di contributo, di firmare una dichiarazione esplicita di riconoscimento dei “valori antifascisti”. L'amministrazione comunale, sorretta dal centro-sinistra autonomista, ha approvato un documento che presto si tradurrà in un modulo obbligatorio che tutte le associazioni dovranno sottoscrivere se vorranno beneficiare degli spazi comunali e del patrocinio. Facendo riferimento alla legge Scelba del 1952 e alla Legge Mancino del 2005, la recente delibera impone come requisito necessario per l'assegnazione di spazi e contributi pubblici "il non aver subito condanne, anche con sentenza non definitiva, per i reati delle leggi sopracitate” oltre a "prevedere, nei moduli di richiesta di utilizzo di spazi pubblici da presentare al momento della richiesta di autorizzazione, una dichiarazione esplicita di riconoscimento dei valori antifascisti espressi dalla Costituzione italiana". La delibera, in realtà, va oltre e impone alle istituzioni di controllare e visionare l'operato delle associazioni sui social network e su internet, istituendo un “meccanismo di intervento impeditivo per quanto riguarda l'assegnazione di contributi, patrocini o altre forme di supporto e sostegno ad associazioni che, pur avendo sottoscritto la suddetta dichiarazione, presentino richiami all'ideologia fascista, alla sua simbologia, alla discriminazione etnica, religiosa, linguista o sessuale, verificati a livello statutario, sui siti internet e sui social network, o nell'attività pregressa". Il comune, oltre a far sottoscrivere la dichiarazione a tutte le associazioni - siano esse di volontariato, sportive o altro - dovrà dunque tenere d'occhio i social e monitorare i contenuti dei singoli post, stabilendo se essi siano più o meno "discriminatori" ed eventualmente non concedere i contributi o gli spazi pubblici secondo questa valutazione. Per i proponenti, “l'antifascismo è la radice ideale e culturale da cui nasce la Repubblica italiana e la sua costituzione democratica, la quale rappresenta il metodo democratico contro ogni forma di totalitarismo”. L'obiettivo, non troppo velato, è quello di limitare in zona l'attività di Casapound, Forza Nuova e delle varie onlus e associazioni che gravitano attorno a quel mondo. Nella tranquilla città trentina, situata nel sud del Trentino a pochi chilometri dal Lago di Garda, non tutti però hanno appoggiato quest'iniziativa del consiglio comunale, bollandola come "illiberale" e "liberticida". C'è chi, come il signor Mario Matteotti, per tanti anni consigliere comunale del vecchio PCI e ora organizzatore di importanti manifestazioni cittadine come il carnevale - che non la politica hanno ben poco a che vedere - ha deciso di “ribellarsi” e di non sottoscrivere alcuna dichiarazione di antifascismo. E se il comune non farà un passo indietro, è pronto a rinunciare al volontariato, dopo tanti anni. “Parlo a nome di un gruppo di 50 persone e volontari - ci racconta - Per noi la costituzione è sacra e l'abbiamo sempre rispettata. Alcuni di noi sono stati persino consiglieri comunali e hanno militato in partiti di sinistra. Ma questo provvedimento è assurdo e fuori tempo massimo. Non firmeremo alcun modulo. Noi riteniamo che tutti, nel loro piccolo e nella loro quotidianità, abbiano sempre rispettato la costituzione". Per Matteotti si tratta di una questione di principio: "La mia storia personale parla chiaro, non accetto che mi si chieda di firmare una dichiarazione del genere e men che meno accetto che ci sia qualcuno che giudichi il mio essere o meno contro il fascismo”. Una presa posizione che ha scatenato il dibattito nella città trentina e in tutta la provincia, con alcune associazioni pronte a seguire l'esempio del signor Matteotti. Difficile che il comune faccia un passo indietro o riveda la sua posizione.
Esempi di pregiudizi e malafede, intriso di razzismo è quanto scrive il pochissimo letto Libero Quotidiano, che però fa il paio con quanto pubblicano le redazioni di giornalisti ignoranti e o politicizzati di stampa e tv, specialmente di Mediaset, intenti a denigrare territori e popolazioni che neanche conoscono. Fake news di organi di stampa ufficiali e riconosciuti come attendibili (sic), che influenzano milioni di coglioni.
Sono come gli Unni ed il loro re Attila, dopo di loro non cresce più l'erba (ossia la reputazione).
Soldi al Sud, rapinato il Nord. Da gennaio saranno ricalibrati gli stanziamenti regionali: il governo toglierà 40 euro a ogni settentrionale e a ogni abitante del Centro per dare 74 euro in più a ogni meridionale. Alla faccia di chi ha votato il referendum per l’autonomia, scrive Fausto Carioti il 24 novembre 2017 Libero. Più soldi pubblici agli abitanti delle regioni meridionali: 74 euro per ognuno di loro. Quota annuale, s’intende. E, per converso, 40 euro in meno per ogni residente al Nord e al Centro. È la ricetta del governo Gentiloni per il Mezzogiorno, destinata ad allargare l’ampio “residuo fiscale”, cioè la differenza tra quanto ogni italiano riceve dallo Stato e quanto versa ad esso. Un saldo già oggi negativo per gran parte dei settentrionali e decisamente positivo, invece, per i contribuenti del Sud. Non è un semplice progetto, i provvedimenti necessari sono stati tutti approvati: si parte il primo gennaio 2018. (...)(...) Anche se nessun membro del governo e della maggioranza ha pubblicizzato la cosa a nord della Campania, il criterio con cui Roma spalma sul territorio nazionale gli “stanziamenti ordinari in conto capitale” - in parole povere gli investimenti pubblici - sta infatti per mutare. Lo prevede il decreto legge 243 dello scorso anno, intitolato “Interventi urgenti per la coesione sociale e territoriale con particolare riferimento al Mezzogiorno”. Molto particolare. All’articolo “7 bis”, esso stabilisce che il volume annuale degli investimenti “nel territorio composto dalle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna” debba essere “proporzionale alla popolazione di riferimento”. Un diverso modo di calcolo che avrà conseguenze importanti. Le motivazioni della politica, come sempre in questi casi, sono nobili e si chiamano “maggiore equità”, “esigenza di colmare il divario” e così via. Ideali che però, alla fine, si traducono in moneta sonante. Fino ad adesso non si sapeva quanto sarebbe stato tolto agli uni e dato in più agli altri. È stato Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, a svelarlo in un’audizione tenuta due giorni fa in Commissione, a Montecitorio. L’economista (Pisauro è ordinario di Scienza delle finanze alla Sapienza) si è presentato ai deputati con una lunga relazione, all’interno della quale è contenuto un calcolo particolare fatto dai suoi uffici. «Un esercizio ipotetico», l’ha chiamato, una simulazione: cosa sarebbe successo nel periodo 2000-2016 se fosse già stato in vigore il nuovo sistema? «L’incremento complessivo di risorse di cui avrebbe beneficiato il Mezzogiorno», ha detto il presidente dell’Upb, «e il corrispondente decremento che avrebbe subito il Centro-Nord, mantenendo lo stesso livello complessivo della spesa ordinaria e la stessa distribuzione delle risorse aggiuntive, ammonterebbe in media a circa 1,5 miliardi annui». In termini pro capite, ha proseguito, «il Mezzogiorno avrebbe percepito maggiori risorse ordinarie pari, in media annua, a 74 euro, a fronte di minori risorse ordinarie per il Centro-Nord pari a 40 euro pro capite». Questa, dunque, è la novità - brutta per alcuni, bella per altri - che attende gli abitanti delle regioni italiane a partire dal prossimo anno. Un intervento che cambierà i diversi residui fiscali. Nel triennio 2013-2015, secondo i conteggi fatti dalla Banca d’Italia, gli abitanti del CentroNord hanno subìto un saldo negativo pari a 2.589 euro. Con grandi scarti tra quelle stesse regioni: è andata peggio ai lombardi, ognuno dei quali ci ha rimesso 5.422 euro, quindi agli abitanti dell’Emilia Romagna (-3.412), ai laziali (-3.359 euro) e ai veneti (-2.036). Ma ci sono state pure eccezioni vistose, riguardanti le solite regioni a statuto speciale, abituate a ricevere più di quanto versino. Gli abitanti del Mezzogiorno e delle Isole, invece, hanno tutti tratto guadagno dal rapporto fiscale con lo Stato centrale, in media per 3.152 euro. Più degli altri i calabresi, il cui risultato pro-capite è stato positivo per 5.519 euro. Seguono i sardi, con un attivo pari a 4.549 euro, i lucani (+4.412 euro), i molisani (+3.774) e quindi i residenti nelle altre regioni. La regola di distribuzione che entrerà in vigore tra poche settimane ridurrà ulteriormente quello che lo Stato restituisce al Nord e al Centro, a beneficio dei meridionali. È il motivo per cui l’esecutivo, già da tempo, ha iniziato a farsi bello dinanzi a costoro. Ad aprile il pd Claudio De Vincenti, ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno, annunciava al Mattino, il quotidiano di Napoli, che la nuova normativa è una vera svolta, «una misura assolutamente coerente con la scelta del governo di mettere il Sud in cima alla sua agenda». Due mesi fa, all’Economia del Mezzogiorno, lo stesso De Vincenti ha detto che quella operata da Gentiloni è «un’inversione di tendenza» dopo «gli anni di governi di destra con la presenza della Lega, nei quali la spesa in conto capitale complessiva è risultata paradossalmente più alta in termine pro capite al Centro-Nord rispetto al Sud». Né lui né nessun altro ministro si è sognato però di menzionare la stessa riforma agli elettori settentrionali.
Già Gilberto Oneto scriveva sullo stesso Libero il 29 dicembre 2010 "LA RAPINA AL SUD STRAPAGATA DAL NORD". Il Regno delle Due Sicilie è stato aggredito prima da una banda di irregolari organizzati e protetti da due Stati stranieri (il Regno di Sardegna e la Gran Bretagna) e poi dall’esercito sardo senza una regolare e motivata dichiarazione di guerra, e senza alcuna delle procedure che distinguono il comportamento delle comunità civili da consorzi di predoni e tagliagole. Si sono in seguito addotte le scuse più improbabili: che l’unificazione fosse volontà della stragrande maggioranza della popolazione e che il regime borbonico fosse «la negazione di Dio in Terra» che martoriava i propri disgraziati sudditi. Come è stato dimostrato dagli avvenimenti successivi al 1860, nessuna di tali condizioni era vera. L’unità era negli auspici solo di una minuscola conventicola di intellettuali e di cospiratori, e i Borbone non erano quella iattura che era stata dipinta. Ma, se anche Francesco II fosse stato un tiranno sanguinario, anche se i suoi sudditi fossero stati sottoposti alle più feroci vessazioni, non sarebbero state buone ragioni per aggredire e annientare uno Stato sovrano, riconosciuto e antico. Il comportamento sardo (e inglese) non può essere giustificato: non occorre neppure inventare o esagerare pregi del governo borbonico per condannare una aggressione che è riprovevole in sé e che lo sarebbe anche se avesse portato alle popolazioni meridionali ricchezze e felicità.
Forza di occupazione. Che il Meridione non abbia invece ricevuto dall’unità tutti quei vantaggi che in molti si aspettavano e che lo Stato italiano vi abbia per molto tempo esercitato la parte del vessatore più che del liberatore è cosa nota. È sicuramente vero che il nuovo regime si è comportato nel Sud come una forza di occupazione più che di unificazione, ma è altrettanto vero che non è stato molto più tenero in tutte le altre regioni “liberate”. Qui se ne sono percepiti gli effetti con più dolore perché si partiva da condizioni iniziali molto diverse: la tassazione borbonica era mitissima, la leva assai più breve (addirittura sconosciuta in Sicilia), le riserve auree più cospicue che altrove, il percorso industriale appena iniziato e la struttura produttiva assai fragile. Ciò nonostante, presi dalla foga e da un insopprimibile vittimismo, taluni meridionalisti sulla scia delle esagerazioni di Francesco Saverio Nitti si spingono a sostenere che il Regno delle Due Sicilie fosse addirittura una delle prime potenze industriali d’Europa (c’è chi lo colloca senza esitazione addirittura al terzo posto dopo Francia e Gran Bretagna!), che i suoi opifici fossero in procinto di inondare i mercati internazionali e le sue navi di intasare tutti i porti. Si confondono auspici fantasiosi con una realtà che era assai meno rosea. A fronte di alcuni punti di eccellenza, il Regno era arretrato, senza vie di comunicazione, senza istituti di credito, senza un tessuto sociale attrezzato, senza un ceto imprenditoriale attivo, con livelli di istruzione assai bassi e una classe dirigente poco propensa al rischio e vocata alla rendita parassitaria. È vero anche che i primi decenni di unità hanno visto lo Stato italiano fare investimenti soprattutto al Nord, ma questo è spiegabile e ragionevole:
1) si trattava in larga parte di progetti infrastrutturali già progettati o addirittura incominciati dai più attivi governi settentrionali;
2) occorreva aiutare l’industria settentrionale che si trovava in situazione più competitiva rispetto al resto d’Europa sia per condizioni proprie che per facilità di collegamenti;
3) gran parte delle spese erano militari (fino al 40% degli investimenti pubblici) e per ovvie ragioni concentrate al Nord. In ogni caso era in Padania che lo Stato riscuoteva larga parte delle tasse. Quindi, dopo la rapina iniziale perpetrata dal governo provvisorio garibaldino e dai primi anni di quello sabaudo si è trattato della scelta di investire dove era più conveniente, di spendere i soldi dove erano raccolti.
Giochi con le cifre. Certo meridionalismo “militante” contemporaneo gioca con le cifre confrontando quanto sarebbe stato sottratto con quello che è stato investito. Qualcuno si è spinto a quantificare in moneta attuale la rapina subita dal Mezzogiorno all’atto dell’unità, quasi sempre omettendo di considerare che una buona parte è stata dissipata al Sud dal governo garibaldino, che parte è andata ai nuovi potentati locali e che anche il Meridione ha dovuto contribuire per quanto di sua competenza (la popolazione meridionale era più della metà di quella totale) alla spesa complessiva del nuovo Stato. Naturalmente si evita di raffrontare quelle cifre con quelle tolte alle comunità padane allora e soprattutto oggi.
A rimettere un po’ di ordine sui balletti dei numeri e sulle descrizioni un po’ troppo rosee dell’economia e della società meridionale pre-unitaria arriva adesso un bel libro di Romano Bracalini (Brandelli d’Italia) pubblicato da Rubbettino, uno straordinario editore calabrese. Vi si chiarisce come l’unità sia stata un affare per certi ceti economici e per la classe politica, ma una catastrofe per le prospettive settentrionali, trascinate sempre più lontano dall’Europa, e per quelle del Meridione, drogato da un flusso di denaro male utilizzato e in larga parte finito ad alimentare parassitismo e malavita. L’unità insomma ha fatto del bene solo alla conventicola di furbacchioni che l’ha inventata. Il libro riconduce alla verità storica e riporta alle sue giuste dimensioni un fenomeno che viene capziosamente gonfiato da certa pubblicistica meridionalista basata sul “risarcimentismo”, costruito sul principio del «ci hanno voluto e adesso ci mantengano». Si perde l’occasione di effettuare un esame sereno degli avvenimenti, mettendo così in difficoltà sia i meridionalisti veri sia ogni seria prospettiva di riscatto del Sud. In ogni caso come si è visto la manipolazione dei numeri risulta ininfluente sui giudizi di merito sulla vicenda risorgimentale e sulla “liberazione” del Meridione. Vale per chi sostiene che il Sud sia stato occupato per succhiarne le ricchezze e anche per chi al contrario giustifica l’annessione con lo stato di miseria e di arretratezza cui porre rimedio.
Il “risarcimentismo”. Niente giustifica l’aggressione. Nessun popolo può essere annesso senza il suo consenso, né per essere rapinato né per essere redento. Questo basta per esprimere giudizi senza il bisogno di sciorinare cifre vere o inventate, che umiliano le aspirazioni autonomiste meridionali sotto un “risarcimentismo” di comodo finalizzato a perpetrare il trasferimento di risorse dalla Padania. Soprattutto non ha senso come fa qualche meridionalista dell’ultima ora colpevolizzare i popoli padani che di “quel” Risorgimento sono stati vittime come tutti gli altri, ma che, a differenza degli altri, continuano a pagarne il conto anche 150 anni dopo.
Vittorio Feltri: "Calabria e Meridione, il problema non è l'indole dei terroni. Ma..." Scrive il 12 Novembre 2017 Vittorio Feltri su "Libero Quotidiano". I dati sono dati e non si discutono. A Bergamo, Brescia e Verona la disoccupazione non c’è, come ha scritto Paola Tommasi ieri su Libero. Queste città e queste province sono sgobbone e non lo scopriamo oggi, è un fatto straordinario che ha ragioni storiche. Parlo di Bergamo dove sono nato. Conosco la mia gente scorbutica e infaticabile. La quale è diventata così sotto la Serenissima. I carpentieri che hanno rifinito Venezia erano miei conterranei. Lavoravano per il Doge e vivevano a Padova (dove la vita costava meno), patria della commedia dell’arte. Arlecchino è nativo della Valbrembana, e Brighella era un suo conterraneo. Da quel tempo a oggi è passata molta acqua sotto i ponti del Serio e del Brembo, due fiumi che hanno propiziato le fortune orobiche. Dove c’è acqua corrente c’è energia, dove c’è energia si è sviluppata l’industria. A Bergamo il maggior contributo alla produttività fu portato dagli svizzeri dai quali imparammo il tessile. Due nomi per tutti: Legler e Honegger. Famiglie che oltre all’opero-sità ci hanno insegnato a stare al mondo. I bergamaschi hanno assimilato così la cultura del lavoro i cui frutti sono stati e sono copiosi. Costoro hanno grandi meriti e non li posso negare. Ma aggiungo che sono stati fortunati ad avere certi maestri. Oggi la mia città e la mia provincia sono fiori, borghi lindi e servizi eccellenti, montagne e colline ospitali e opulente. Non si diventa ricchi per caso. Mai conosciuto un ricco cretino o lazzarone. Ma attenzione. È l’ambiente che fa gli uomini e non viceversa. Sono le infrastrutture il propellente dell’economia. Esemplifico. La prima autostrada italiana è stata la Torino-Milano-Bergamo-Brescia che non fu realizzata per consentire alle auto di correre, bensì per far decollare gli affari. Gli orobici hanno sconfitto la miseria perché sono tignosi e duri quali rocce, ma non solo per questo: la sorte li ha aiutati. Sono diventati ciò che sono in quanto agevolati da varie circostanze favorevoli, non ultima la vicinanza a Milano, fucina inesauribile di iniziative imprenditoriali. Non la tiro per le lunghe. Paragonare le Orobie all’Aspromonte è un servizio stupido. La Calabria somiglia al Medioriente, meglio, alla Grecia. L’unità d’Italia le ha regalato il brigantaggio cui si sono dedicati poveracci piegati alla leva obbligatoria che ha ammaccato l’agricoltura locale. Lo Stato unitario non ha spinto lo sviluppo della regione, non ha dato strade e ferrovie, nessuna infrastruttura indispensabile per lo sviluppo. A Reggio sono arrivati soldi a pioggia, finiti nelle tasche dei boss, ma neanche un progetto. Il popolo o campa di espedienti o non campa. Chi ignora questa realtà non può capire il disagio ionico, lo giudica superficialmente e lo attribuisce a questioni antropologiche mentre, ripeto, è il tessuto sociale che influisce sui caratteri individuali. Insomma il problema non è l’indole dei terroni, bensì la condizione a cui essi sono stati condannati da una politica affidata a personaggi acefali, incapaci di gestire il presente e di immaginare il futuro. Segnalo che a Milano e dintorni risiedono 300 mila calabresi perfettamente integrati e indistinguibili dagli indigeni. Perché? L’ambiente li ha raddrizzati e resi idonei ai costumi nostrani. Il resto è chiacchiera che alimenta soltanto stupidi pregiudizi. Vittorio Feltri
Non si può discutere con certa gente. Sono convinti delle loro opinioni e non le cambieranno mai, giusto per dare ragione a quel detto: solo gli stupidi non cambiano opinione.
Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più. (Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017). In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso. Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue. Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente. Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.
(Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).
Il Sole24ore smentisce ItaliaOggi: Trieste nella top10 per qualità della vita. Dal 70esimo al sesto posto: una differenza enorme tra le due classifiche. Per Il Sole24ore il capoluogo giuliano è tra le migliori città d'Italia: anche qui però male in termini di sicurezza e criminalità, scrive Emanuele Esposito il 27 novembre 2017 su "Trieste Prima". Una differenza enorme, una classifica la pone al 70esimo posto, l'altra in sesta posizione. Questo il divario tra le classifiche della qualità della vita relative alle 110 province italiane pubblicate da ItaliaOggi e Il Sole 24 ore. Se ieri avevamo dato la notizia infausta della settantesima piazza, oggi il bicchiere è decisamente mezzo pieno. Infatti il quotidiano economico vede anche un miglioramento, dal 10° al 6° posto in classifica del capoluogo giuliano, prima provincia dell'ottimo Friuli Venezia Giulia (Gorizia 9, Udine 10 e Pordenone 13).
Le classifiche delle università? Sono “fake news”, scrive la Redazione ROARS il 10 giugno 2017. Le classifiche delle università? «Dal punto di vista delle scienze sociali sono spazzatura». A dichiararlo nel 2013 era stata Simon Marginson, intervistata da The Australian a proposito della classifica QS. La stessa classifica che il Corriere non esita a indicare come “la più importante a livello internazionale”, forse per compiacere il Rettore del Politecnico di Milano che primeggia tra gli atenei italiani. Un primato che non deriva da particolari meriti ma da un cambio delle regole, favorevole agli atenei tecnici, operato da QS nel 2015. Risultato? La Nanyang Technological University di Singapore, da 39-esima nel 2014 era salita fino al 13-esimo posto, sorpassando Yale, John Hopkins and Cornell. Su quell’onda, il Politecnico di Milano, 229-esimo nella classifica 2014, risalì magicamente al 189-esimo posto, mentre perdevano oltre 100 posizioni Pisa, Tor Vergata, Federico II di Napoli, Cattolica di Milano, Genova, Perugia e Bicocca. Clamoroso il caso di Siena che dal 2014 al 2015 si trovò ad arretrare di ben 220 (duecentoventi) posizioni in un anno. Il suo rettore Angelo Riccaboni, giusto un anno prima, aveva assicurato che «il ranking QS, redatto da Quacquarelli Symonds, è tra i più autorevoli al mondo». Più saggio il Rettore di Roma Tor Vergata: «È impossibile in ogni classifica anche sportive perdere centinaia di posizioni in pochi mesi se non cambiano gli indicatori». Una grande verità che viene troppo spesso rimossa quando si guadagna qualche manciata di posizioni e fa più comodo attribuirsene il merito. Oltre che per la volatilità dei criteri, la classifica QS è stata messa in discussione per il peso sproporzionato (50% del punteggio totale) che assegna a sondaggi reputazionali la cui aleatorietà e manipolabilità sono da sempre oggetto di discussione. Basta consultare Wikipedia per scoprire che furono proprio queste debolezze metodologiche ad indurre Times Higher Education a divorziare da QS (fino al 2009 esisteva un ranking THE-QS): The rankings of the world’s top universities that my magazine has been publishing for the past six years, and which have attracted enormous global attention, are not good enough. In fact, the surveys of reputation, which made up 40 percent of scores and which Times Higher Education until recently defended, had serious weaknesses. And it’s clear that our research measures favored the sciences over the humanities. Phil Baty (THE World University Rankings Editor): Ranking confession, Inside Higher Ed.
A titolo di cronaca, va detto che, nonostante i buoni propositi, nemmeno la classifica di THE ha mai brillato per scientificità. Basti pensare all’exploit di Alessandria di Egitto, collocata da THE davanti a Stanford e Harvard nella classifica 2010 dell’impatto citazionale. QS è anche nota per le spregiudicate pratiche commerciali: la vendita di consulenze alle università valutate e il suo “infamous star system”, che permette di pagare per veder comparire “stelle di qualità” accanto al nome dell’ateneo. “Valutazioni a pagamento per le università più piccole” (Ratings at a Price for Smaller Universities) aveva intitolato il New York Times. Inutile dire che non pochi atenei italiani pagano i servizi di QS. Se speravano che questo li aiutasse a salire nelle classifiche, il tonfo del 2015 dimostra che hanno fatto male i loro conti. Insomma, in termini di scientificità e imparzialità, le classifiche degli atenei godono di una reputazione immeritata. Poco male, penserà qualcuno: tra le tante “fake news” in circolazione le classifiche degli atenei non sono probabilmente tra le più dannose. In realtà, grazie alla loro pervasività mediatica contribuiscono a plasmare le agende dei governi perché ricacciano sullo sfondo tutti quegli obiettivi che non vengono contabilizzati nei ranking. Sono queste le considerazioni che Stephen Curry, Professore di Structural Biology all’Imperial College, London, ha riportato nell’articolo “University rankings are fake news. How do we fix them?” che ripubblichiamo di seguito per i nostri lettori.
Cari amici di Belluno, complimenti. Ma avete mai visto il cielo di Reggio? Scrive Mimmo Gangemi il 29 Novembre 2017 su "Il Dubbio". La classifica de Il Sole 24 Ore fa emergere un quadro incompleto e non si accorge che la vita è anche altro. Brava, Belluno, prima nella classifica di qualità della vita redatta da Il sole 24 ore. Ma in quale angolo del Nord si trova Belluno? No, non è snobismo né sarcasmo. È semplice ignoranza mia, compatite. La cerco su Google. È nell’alto Veneto. Sul Piave, che certo oggi mormora compiaciuto. Un colpo d’occhio notevole, il panorama, con le Dolomiti innevate a ridosso. Però mi porta brividi di freddo, da invogliarmi al cappotto in questa bella giornata con un rigurgito di tarda estate. E noi di Reggio? Scorro, scorro, scorro. E dov’è finita Reggio? Eccola, finalmente. Terzultima, modestia a parte. Volete mettere? Terzultima non è lo stesso che ultima o penultima. Gli facciamo un mazzo tanto a Caserta e a Taranto, mi dico mentre chiudo a cerchio pollici e indici e li allargo in fuori. Beh, noi meridionali usiamo così, le parole e i pensieri ci vengono meglio se li soccorriamo con i gesti. Da Reggio risalgo in su. Mi si smuove dolorosa la cervicale nello scorrere la classifica fino a Belluno. Alle alte quote, tutte città del Nord. Milano ottava, dopo essere stata seconda nella precedente competizione. Qui, torco il muso. Ottava, Milano? Dove l’umidità infracidisce le ossa, dove si respira nebbia, e monossido di carbonio e particelle microscopiche che s’infilano nei polmoni provocando tumori e malattie respiratorie, dove sono più i giorni che sembra di camminare per le vie di Pechino, la Pechino del carnevale della morte, tutti in giro con le mascherine per spuntare giorni in più al loro Dio? Guardo fuori. Al solito, giornata chiara e luminosa, con l’occhio che riesce a spaziare lontano. C’è il sole. E il cielo azzurro, il mare che ne assume le tinte. All’ultimo orizzonte acquoso, Stromboli tira una boccata di fumo, più a Sud le sue sorelle intralciano di terra le acque, l’imboccatura dello Stretto confonde il continente con la Sicilia che s’allarga scodinzolando in due direzioni, più a Sud ancora l’Etna tradisce, perché in cima è imbiancato come la foto di Belluno che oggi ci porgono i quotidiani. Meglio restare in maglione, la temperatura è gradevole. Sì, manco la giacca. Il cappotto, no di sicuro. Al più, l’impermeabile, ma per fare scena e presenza. Bastano però il clima e la natura benevola per compensare classifiche di civiltà che ci vedono buon ultime? No. Decisamente no. Poi, non ne abbiamo merito. Ce li ha regalati il Padreterno. E noi ci abbiamo messo tanto di nostro per guastarli. Sì, però… Però mi spunta l’idea che ci sia una stretta correlazione tra la latitudine e un’efficienza in grado di determinare migliori qualità della vita, che il clima sia inversamente proporzionale agli indici che spingono in alto il Nord e giù giù il Sud, quasi una questione di fisica. Magari la mia è solo una forzatura per assolvere, con nulla di attendibile. Poi mi sovviene L’Aquila. Per la durezza del clima è seconda in Italia solo a Belluno, si sverna come dentro una ghiacciaia. E, benché città del Sud, è piazzata abbastanza su nella graduatoria, al 63° posto, precede parecchie città del Nord e moltissime del Centro. Sembrerebbe avallare la mia ipotesi, che, peraltro, è in armonia con tutti i Sud del mondo, sempre ad arrancare i passi, non si trova un Sud dove gli indici del buon vivere esaminati siano migliori che al Nord, tranne nelle due Coree, ma lì è colpa della testa malata dei dittatori che si sono succeduti in quella del Nord. Insomma, il Padreterno avrebbe inteso pareggiare i conti, ha dato e ha tolto. Loro li ha voluti perfettini, efficienti, frettolosi, composti, ossequiosi delle regole, e freddi da frigorifero, carattere compreso. Noi invece allegri e chiassosi, esuberanti ed esagerati, goderecci, chiacchieroni, disordinati, lagnosi, vantalori dei fasti di un passato che non c’è più, e che, comunque, non può soccorrere il presente, e marchiati da tanti difetti che abbattono gli standard di civiltà. Che possiamo farci? Siamo più in basso, meno civili? Se sì, pazienza. Intanto, quaggiù ci rimaniamo, senza nessuna intenzione di un inverno là, ma proprio nessuna nessuna. Viva l’inciviltà, se la si misura con i canoni de Il sole 24 ore. Poi, il nordico Piemonte ci ha voluti nazione – Italia lo eravamo già, essa era qui dove il continente si consegna al mare nostrum. Ci avessero lasciati nel Regno delle Due Sicilie, non incideremmo nelle loro classifiche, non entreremmo a guastarle. Oh, non sono filo borbonico, evviva l’Italia. Dico solo che noi questi siamo, che ci hanno voluti, ci hanno presi con la forza e adesso ci devono usare il garbo di tenerci con tutte le scorze, le bucce, la rogna e quant’altro. E ci hanno voluti eccome. Persino i Bellunesi. Ne scovo otto tra i Mille scesi alla conquista. To’, guarda caso, l’otto per mille, devoluto non alla chiesa ma al Sud che non lo aveva chiesto. Torno serio. E ribatto a Il Sole che è una classifica da nordista, stilata sui canoni che più hanno peso e sostanza per uno di su. Chiaro che vincono le giacche blu se per il confronto vengono adottati i loro standard e i loro modelli e li si spaccia per dati inconfutabili su cui misurare il resto della nazione e la febbre del Sud. E infatti si limita ad analizzare la ricchezza e i consumi, il lavoro e l’innovazione, l’ambiente e i servizi, la demografia e la società, la giustizia e la sicurezza, la cultura e il tempo libero. Il risultato sarebbe ben diverso se avessero pesato altri parametri importanti – forse più incidenti a costruire un benessere interiore che a sua volta si traduce in qualità di vita – di quelli che è complicato trasformare in numeri, perché attengono l’anima, il cuore, la fantasia, i valori umani, i rapporti tra le persone, e se a essi avessero abbinato le condizioni esterne, anche climatiche, di paesaggio, di inquinamento. Non si può insomma stilare un rendiconto dei buoni e dei cattivi utilizzando criteri di parte improntati sulla rigida matematica. E non si può ignorare che, più a Nord si sale, più cresce il disagio dello spirito – ne sono esempio i paesi scandinavi, i più civili e nello stesso tempo quelli con la maggiore incidenza di suicidi. Boccio, quindi, la classifica de Il sole 24 ore. Fa emergere un quadro incompleto, falsato. Non s’accorge che la vita è anche altro. E, nel complimentarmi con gli amici bellunesi, puntualizzo: con tutto il rispetto, non me ne vogliate se ho certezza che non cambierei i miei giorni qui con quelli vostri lì.
"Attenti al Sud", un libro sulla cultura del pregiudizio. Mimmo Gangemi e Giuseppe Sottile a Ragusa per Panorama d'Italia, contro le leggi e le storpiature della realtà che accumunano oggi mafia e meridione, scrive Antonio Carnevale il 26 novembre 2017 su Panorama. Un’analisi anti-retorica, accettando il rischio di sfidare la dittatura del politicamente corretto. È stata questa la nota che ha dominato la presentazione del libro “Attenti al sud” (Piemme) durante la tappa a Ragusa del tour “Panorama d’Italia”. Mafia, ‘ndrangheta, cultura del pregiudizio, magistrati che fanno carriera grazie a casi gonfiati, ma anche cittadini comuni che si sentono stretti tra due fuochi: il cancro della criminalità organizzata da una parte e una sconfortante sfiducia nella giustizia dall’altra. Sono stati questi i temi finiti sotto la lente d’ingrandimento durante la serata. Argomenti spesso liquidati con semplici slogan ideologici o (peggio) trattati con il conformismo di un’imperante ipocrisia “buonista”. Invece no: non sul palco del piccolo e delizioso teatro Donnafugata di Ragusa, dove il direttore di Panorama Giorgio Mulè ha introdotto due ospiti più che titolati ad analizzare quei temi: Mimmo Gangemi, scrittore calabrese, che nel volume “Attenti al sud” firma un densissimo testo (al fianco di quelli dei suoi illustri colleghi Pino Aprile, Maurizio de Giovanni e Raffaele Nigro); e Giuseppe Sottile, siciliano, giornalista di lungo corso, che dalla cronaca giudiziaria a “L’Ora” di Palermo e poi al “Giornale di Sicilia” è passato negli anni a occuparsi sempre più spesso della sua regione e di antimafia, come testimoniano ancora le bellissime pagine che firma su Il Foglio, giornale di cui è stato condirettore e del quale è responsabile dell’edizione del sabato.
Il pregiudizio. “Il pregiudizio sul sud impera”, ha detto Gangemi. “Certo, non è sostenibile che la Calabria sia un’oasi di pace. Nelle aree più segnate dall’oppressione malavitosa si sono perpetrati crimini orrendi, con la ’ndrangheta che è testa, mani e piedi dentro i traffici peggiori: prima i sequestri, dopo la droga, le armi, le scorie tossiche, quelle radioattive. A delinquere è tuttavia una sparuta minoranza, seppure capace di un pieno controllo del territorio. L’Italia è stata però indotta a pensarla molto peggio”. “Il pregiudizio è in continua evoluzione”, sottolinea l’autore. “Lo è sin dai tempi in cui Giorgio Bocca spargeva falsità sulla Calabria nel suo L’Inferno. Profondo sud, male oscuro, del 1992, e lo è ancora oggi, con le molte inesattezze che danno vita a una narrazione falsata della realtà criminale”. Un esempio? “Gli elementi organici alla ‘ndrangheta nelle zone più calde della provincia reggina sono stimati dalla Dia in una percentuale pari al 2,7 della popolazione; ma questa cifra perde magicamente la virgola e si trasforma poi in 27 per cento: dieci volte tanto, così fu asserito nel 2012 e nel 2013 durante l’inaugurazione degli anni giudiziari a Reggio”. Non si tratta di casi isolati, afferma Gangemi: “Troppo spesso le accuse di ‘ndrangheta si sgonfiano nei processi. Non sempre gli errori giudiziari sono fatti in malafede. Ma domina una mano pesante. E si sa, ingigantire il mostro serve anche a far cresce le stellette e le carriere”.
Nuove leggi per la nuova mafia. È d’accordo Sottile: “Non c’è più bisogno di scomodare Leonardo Sciascia e i suoi ‘professionisti dell’anti-mafia’ per osservare che la gestione dell’emergenza, nata molti anni fa, è diventata una prassi anche oggi, ad emergenza finita” commenta. “Non è finita la mafia” puntualizza. “Ma la vecchia legislazione di emergenza si applica oggi a una mafia che si è trasformata, e le conseguenze sono nefaste”. Spiega il giornalista: “Quell’emergenza era nata quando la mafia faceva le stragi. Oggi non solo non ci sono più le stragi, ma nemmeno sono in circolazione i capi di quella vecchia mafia, ormai murati dentro il 41 bis, il carcere duro, lo stesso che ha scontato Riina per 24 anni, fino alla morte. Oggi c’è una nuova mafia, diversa, che continua a dissanguare il territorio, ed è giusto e sacrosanto combatterla. Ma è doveroso dire che contro la vecchia mafia stragista lo Stato ha vinto. E bisogna dunque denunciare che la cultura dell’emergenza, ormai sproporzionata, ha prodotto la cultura del sospetto e del pregiudizio, quella cultura malsana, cioè, per cui basta un “odore di fritto”, ovvero l’ombra di un “forse”, perché si possa avviare il sequestro preventivo dei beni, fino a un processo che nel migliore dei casi ci metterà 15 anni per arrivare alla verità, rovinando nel frattempo il malcapitato imprenditore, non importa se innocente”.
Il diritto alla paura. In poche parole, “la cultura dell’emergenza ha portato a stravolgere lo Stato di diritto”: su questo sono d’accordo Gangemi e Sottile, che con diversi esempi denunciano anche gli interessi nati attorno al fenomeno dei beni sequestrati: “50 miliardi di patrimonio totale, un tritacarne dove il fallimento s’incontra puntualmente prima che si concluda l’iter giudiziario”. Si fanno nomi e cognomi di chi è incappato nella trappola di una giustizia sbagliata. E si affaccia pure il tema inedito di un “diritto alla paura” dei cittadini, i quali “da soli non sanno più fidarsi di uno Stato che sembra perseguitarli anziché proteggerli”, come denuncia Gangemi. “Oggi la contrapposizione tra mafia e antimafia è diventata un tema di lotta politica” chiosa infine Sottile. “Ci sono professionisti seri che combattono la criminalità organizzata, e che svolgono un lavoro egregio” sottolinea. “Ma non si può negare che si sia formata una categoria di persone che proprio con l’anti-mafia ha accresciuto negli anni soprattutto il proprio potere personale, in termini sia di carriera professionale sia di capacità di manipolazione politica”. Un effetto collaterale di tutte queste storture è allora quella “Cultura del pregiudizio” che dà il titolo al testo di Mimmo Gangemi in “Attenti al sud”.
Le storpiature della realtà. “Durante la presentazione di un mio libro al nord” esemplifica lo scrittore “una ragazza ebbe a spendere parole di commiserazione per la vita grama che condurremmo quaggiù, costretti a sporgere uno spicchio di testa prima di svoltare l’angolo di una traversa, per essere certi che non provengano pallottole in senso contrario. Rimase sconcertata e dubbiosa vedendo che ci ridevo su: le incrinavo certezze. Quell’osservazione e altre meno fantasiose, ma altrettanto esagerate, danno il senso delle storpiature della verità e della condanna gravata addosso alla Calabria e al meridione in generale. Sono storpiature talvolta fatte ad arte, talvolta per ignoranza, talvolta per convenienza. Talvolta, forse, perché giova all’animo umano trovare altrove nefandezze da cui trarre conforto per quelle di casa propria”. Nel racconto del Mezzogiorno, insomma, si confondono troppo spesso i confini tra il bene e il male, tra mafia e antimafia, tra verità e menzogne, tra lotta alla criminalità e strumentalizzazioni politiche o carrieristiche. Stare “Attenti al sud” significa allora anche questo: puntare un faro sulle tante ombre e cercare di portarvi una nuova luce. Anche a costo di sfidare la dittatura, imperante, del politicamente corretto.
Attenti al Sud di Pino Aprile, Maurizio De Giovanni, Mimmo Gangemi e Raffaele Nigro, pubblicato ad Ottobre 2017. Descrizione. Nel verbosissimo e infinito fiume di parole scritto e detto per raccontare il meridione d'Italia, luci e ombre non sono (quasi) mai nella stessa scena. Da una parte si mettono in evidenza criminalità, sprechi, lentezze, degrado, dall'altra si inalberano una difesa esaltata e a oltranza e un folclore al limite della caricatura. Una contrapposizione che non serve a fare chiarezza. Quello che occorre, invece, è guardare i chiari e gli scuri insieme nella stessa foto. Questo fanno le quattro autorevoli voci che compongono questo libro. Quattro intellettuali "terroni" raccontano il Sud senza sconti, senza piagnistei, senza sensi di inferiorità né di superiorità, tra la "fuganza" di chi proprio non ce la fa a restare e la "restanza" di chi invece ha deciso di tenere duro e rivitalizzare la propria terra. E le ragioni per entrambe le scelte non mancano. Il risultato è una riflessione illuminante, una messa in guardia sul valore del nostro Sud. State attenti, dicono gli autori, significa sia preoccupatevi per il Sud, sia badate a voi perché potrebbe stupirvi ed esplodervi in mano. In ogni caso, stare attenti al Sud vuol dire stare attenti all'Italia intera.
Attenti al sud è un libro che per la prima volta analizza veramente il meridione per quello che è. Pino Aprile, Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro decidono invece di raccontare il sud Italia per quello che è, con le sue ombre e le sue luci, con la sua meravigliosa tradizione e bellezza e con le sue profonde nefandezze. Il problema però è proprio questo: di solito il Sud viene estremizzato e stereotipato in un senso o nell’altro, nel bene e nel male. C’è chi lo racconta per la lentezza, tutti gli sprechi, la mafia, il malaffare politico e c’è invece chi dice che il Sud è meglio e che non c’è niente di meglio al mondo del cibo, della gente, della cultura di quei luoghi. La verità invece per Aprile, De Giovanni e Nigro sta nel mezzo, nel riuscire a valutare tutti gli aspetti e tutte le sfaccettature di questo Sud che è poi lo specchio dell’Italia tutta pur rappresentandone solo una fetta. Senza mai quindi caricaturare, per gli autori bisogna stare attenti a questo Sud perché potrebbe sfuggire di mano o potrebbe esploderci in mano, tra chi ci resta nel suo paese e chi ha deciso di andare via e lo guarda con gli occhi della nostalgia, dell’amore e dell’odio di chi ti ha respinto. Attenti al sud è un saggio da leggere con attenzione per capire questo nostro Paese che è ancora possibile salvare.
Attenti al sud di Pino Aprile e Mimmo Gangemi: l’orgoglio di riscoprire il nostro territorio, scrive "TropeaFestival". Un dialogo vivace, brioso e al tempo stesso veritiero e a tratti amaro quello svoltosi questo pomeriggio al Festival Leggere&Scrivere tra Pino Aprile e Mimmo Gangemi, autori con Raffaele Nigro e Maurizio De Giovanni di Attenti al Sud (Piemme 2017). Gli scrittori Aprile e Gangemi, intervistati da Enrico De Girolamo, discutono, in chiave ironica e attuale, di un territorio caratterizzato da enorme bellezza e potenzialità ma tuttora spesso vittima di un giornalismo, come sottolinea Gangemi, e di un’opinione pubblica che ne rimandano “un’immagine distorta, ingenerosa e che fa male”. Il contributo di Aprile parte da Matera, città che è insieme “radice e sintesi di tutto quello che è sud, Mediterraneo, civiltà agricola”. Capitale della cultura 2019 eppure ancora oggi isolata e, come gran parte del meridione, non valorizzata a sufficienza, in primo luogo dai suoi stessi abitanti. Chi vive al sud in genere sembra riporre poco orgoglio nelle proprie bellezze e potenzialità: “non dite che abitate in un trullo” si usava dire in passato, e molti dei nostri tesori sono diventati tali solo dopo che turisti inglesi, francesi, tedeschi hanno preso a riscoprirli. Nonostante un certo pessimismo legato al fatto di vedere ancora i giovani andare via, è fondamentale riscoprire e ricordare le nostre ricchezze, la nostra cultura, tutto quel che qui è nato (per fare un esempio, archeologia e sismologia sono discipline nate nel meridione d’Italia ed esportate nel resto del mondo). Il messaggio più forte consiste proprio in questo: bisogna ricordare che l’idea di genocidio corrisponde a una serie di azioni volte a cancellare l’identità di un popolo. È necessario invece reagire, imparando dai vinti e dal passato e riappropriandosi con orgoglio della propria identità.
Attenti al Sud - Libro a cura di Antonio Carnevale, con una postfazione di Giorgio Mulé di Mimmo Gangemi, Raffaele Nigro, Pino Aprile, Maurizio De Giovanni. Descrizione. Quattro famosi scrittori "terroni" riflettono sul Sud dell'Italia. Un'analisi appassionata del Meridione - e in filigrana dell'Italia - più illuminante di mille rapporti ufficiali. O solo ombre o solo luci, così di solito è rappresentato il meridione nel dibattito nazionale. Da una parte criminalità, sprechi, lentezze, dall'altra difesa a oltranza, esaltazione e folclore al limite della caricatura. Invece occorre guardare i chiari e gli scuri insieme nella stessa foto. Questo fanno le quattro voci che compongono questo libro: raccontano il Sud senza sconti, senza piagnistei, senza sensi di inferiorità né di superiorità, tra la fuganza di chi proprio non ce la fa a restare e la restanza di chi invece ha deciso di tenere duro e rivitalizzare la propria terra. E le ragioni per entrambe le scelte non mancano. Il risultato è una riflessione illuminante, una messa in guardia sul valore del nostro Sud. State attenti, dicono gli autori, significa sia preoccupatevi per il Sud, sia badate a voi perché potrebbe stupirvi ed esplodervi in mano. In ogni caso, stare attenti al Sud vuol dire stare attenti all'Italia intera.
«Mentre il Nord sta dissanguando il Paese, per tenere in piedi le cattedrali di una religione perduta, ovvero quella industriale, il Sud, con una scarpa e una ciabatta (come dicono a Roma), sta reinventando il mondo.» Pino Aprile
«Abbiamo il dramma della bellezza. Perché questa bellezza ci accusa. Costantemente. La nostra è una fuga dalla bellezza. Ma la bellezza ci insegue.» Maurizio De Giovanni
Attenti al Sud di Aprile, de Giovanni, Gangemi e Nigro da oggi in libreria, scrive Maria Franco il 10 Ottobre 2017 su "Zoom Sud". Nel giugno del 2015 Panorama d’Italia, il tour organizzato dal settimanale diretto Da Giorgio Mulé, si accese, a Matera, di un dibattito tra «quattro moschettieri letterari del Sud». Gli interventi di Pino Aprile (pugliese); Maurizio de Giovanni (campano), Mimmo Gangemi (calabrese) e Raffaele Nigro (lucano), sono ora al centro di Attenti al Sud, che Piemme manda in libreria il 10 ottobre. Tra la restanza, esaltata da Pino Aprile, convinto che «al Sud le nuove generazioni, recuperando il valore della differenza, e traendo da questo valore il proprio orgoglio e la propria forza, e in moltissimi casi facendone anche la propria economia, partecipano a quel movimento mondiale che sta ribaltando i cascami di una vecchia civiltà» e la fuganza temuta da Raffaele Nigro, che legge «nei volti dei nostri ragazzi una voglia, una frenesia di fuga» che «dà spago ai filosofi dell’abbandono.», Maurizio de Giovanni inserisce un nuovo termine: militanza. «Militanza nel riconoscimento di un’identità e nell’orgoglio di questa identità. – dice il padre del Commissario Ricciardi e dei Bastardi di Pizzofalcone – Chiunque si trovi con un microfono in mano e con una telecamera puntata addosso, dovrebbe ricordarsi chi è. E dirlo. Con pregi e difetti. Io non sarei così deciso nello scorporare il buono e il cattivo in maniera radicale. Perché il buono diventa poco credibile quando viene scremato di tutto il cattivo. Questa ambivalenza dobbiamo sempre ricordarla, nel definire la nostra rotondità. Noi abbiamo una sfera di cose, ma dobbiamo fare in modo che questa sfera ruoti opportunamente, che stia costantemente in movimento e che mostri tutte le sue facce. Questa è la militanza: che il meridionale sappia di essere meridionale e se lo ricordi sempre; e che si assuma la responsabilità della propria identità, nel bene e nel male. Perché nel bene non avremmo né vergogna né paura della bellezza. E nel male fronteggeremmo il problema sapendo, finalmente, combatterlo.» Se la situazione del Sud può essere vista in chiaroscuro, quella della Calabria «una terra che arranca e zoppica» pende fortemente, secondo Gangemi, verso il secondo aggettivo: «Curioso, “attenti al Sud” mi suona “attenti ai calabresi”, in tempi in cui gravano pesanti il pregiudizio e la condanna sulla Calabria, talmente alla gogna che chi la vive si muove a disagio, sulla difensiva, da colpevole, comunque. Si fa di tutto per convincerci, e in parte è avvenuto, che siamo i peggiori; che, se non ci fossimo noi, l’Italia sarebbe ben altra cosa. Vero che la Calabria ha tanti demeriti, la ’ndrangheta su tutti, e che le classifiche di civiltà la bollano buona ultima. La censura va però molto oltre le colpe reali. E si tacciono i valori che qui resistono e altrove sono in via di estinzione o già estinti: il senso della famiglia, il calore umano, la solidarietà e l’accoglienza di cui è efficace testimonianza l’apertura generosa agli sventurati che giungono dalla quarta sponda d’Italia di mussoliniana memoria.» «Certo, non è sostenibile che la Calabria sia un’oasi di pace. – afferma l’autore de La signora di Ellis Island – Nelle aree più segnate dall’oppressione malavitosa si sono perpetrati crimini orrendi, con la ’ndrangheta che è testa, mani e piedi dentro i traffici peggiori: prima i sequestri, dopo la droga, le armi, le scorie tossiche, quelle radioattive. A delinquere è tuttavia una sparuta minoranza, seppure capace di un pieno controllo del territorio e di costringere il resto della popolazione a una sorta di libertà condizionata, libera finché non impatta in un interesse anche minimo di quelle poche bestie feroci, libera finché non progredisce in un benessere che accende gli appetiti.» «La condanna è generalizzata, – osserva Gangemi – senza ragionare che la stragrande maggioranza è composta da persone perbene al più con il difetto umano di avere paura e con nessuna intenzione di trasformarsi in eroi coperti di gloria ma con i gigli sul tumulo al cimitero venuti su a furia di lacrime. O che vivono una confusione tale da non sapere più in quale parte della barricata riconoscersi e fidare. Questo pure per le antiche ferite inferte dallo stato – e non rimarginate del tutto – che fin dall’Unità s’è macchiato di soprusi e di colpe che a lungo hanno messo la museruola all’idea di una patria comune.» I calabresi finiscono con lo scontare la ‘ndrangheta, male enorme «metastasi del cancro» che fu l’onorata società, due volte, «nel subirla e nell’essere trattati alla stessa stregua dei malavitosi, come se tutti, in diverse misure, ne siano parte. O tre volte, se si aggiunge la colpa, addossata di recente, di averla esportata. Sul punto, dissento e propendo per la tesi di Federico Varese, criminologo con cattedra a Oxford, di altra fattura rispetto ai fastidiosi esperti con cui i mass media asfissiano e ammalano di morbosità la nazione.» «La ’ndrangheta è una bestia feroce da annegare sotto gli sputi del disprezzo. – ripete Gangemi – E io sto con la Giustizia, la bella e formosa signora con la bilancia nella destra, la spada nella sinistra e una benda agli occhi. Però... Però, quella signora mi sussurra in un orecchio che…» bisogna fare molte correzioni anche nel campo che si proclama anti -‘ndrangheta: «I calabresi vogliono essere dalla parte della Giustizia, di quella che però non incuta timore, che rassicuri piuttosto, si mostri amica, vicina, pronta a soccorrere, di quella che riconosca il diritto di avere paura.» «’Ndrangheta e malaffare – e quanto non funziona a dovere sul fronte opposto – bisogna raccontarli. – scrive Gangemi – Tacerli non aiuta a uscirne. Tacerli è ipocrisia, è amor di patria mal riposto. Raccontarli significa mettersi davanti a uno specchio che non inganna e riconoscere le brutture che appesantiscono l’aria, appestano la vita. Prendere coscienza dei problemi è il primo passo da cui ripartire per ricostruirsi migliori.» E per evitare che si avveri un timore che “ingrigisce i pensieri”, ovvero che «l’attuale condizione di sconfitti – sconfitti continua ad apparirmi una resa provvisoria, da cui ci si può risollevare – sia destinata a trasformarsi in una condizione di vinti da cui non si emerge.»
Quattro scrittori "Attenti al Sud". Pino Aprile, Mimmo Gangemi, Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro protagonisti di un incontro sul mezzogiorno, scrive il 20 giugno 2015 Antonio Carnevale, giornalista di Panorama. Matera è una formidabile metafora del sud. Sarà capitale della cultura europea nel 2019, ma provate a raggiungerla: è difficile in auto, faticoso in treno, impossibile in aereo. Matera città aperta e città chiusa, dunque. È aperta sul mondo, con le eccellenze che gli stranieri stanno finalmente scoprendo. Ed è però staccata dal resto dell’Italia, così come tutto il meridione è rimasto storicamente. Per questo, nella tappa a Matera del tour di Panorama d’Italia, abbiamo organizzato l’evento “Attenti al sud”, una tavola rotonda per riportare l’attenzione su luci e ombre del nostro mezzogiorno. Pino Aprile, Mimmo Gangemi, Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro: sono stati loro ad animare l’incontro, quattro testimoni d’eccezione, scrittori e conoscitori di un territorio sempre più raccontato eppure non abbastanza conosciuto nelle sue ferite e potenzialità. “Tutto il mondo è Matera” ha detto Pino Aprile, giornalista di lungo corso e scrittore (suo il best seller Terroni), grande conoscitore della Puglia, sua terra, come di tutto il sud d’Italia. “Matera era considerata la vergogna d’Italia, come disse De Gasperi, per un motivo preciso: era colpevole della sua distanza dalle città industriali” ha detto. “In un passato recente dovevamo vergognarci della nostra povertà. Ma col tempo abbiamo scoperto che in quella povertà c’era una ricchezza, la ricchezza della diversità. Oggi, con Internet, quella diversità e quella bellezza si possono mettere a frutto. La nostra vergogna è diventata il nostro orgoglio. Le nuove generazioni hanno imparato che da lì può nascere una nuova economia”. Maurizio De Giovanni, scrittore napoletano, ha messo l’accento sulle potenzialità del suo territorio. Giallista di successo, inventore delle fortunate serie del commissario Ricciardi (è in uscita fine giugno il nuovo Anime di Vetro) nonché dei Bastardi di Pizzofalcone (presto una fiction per la Rai), De Giovanni mette Napoli in tutti i suoi libri. E pensando alla sua città, ha descritto il florilegio di recentissimi successi culturali che si sono imposti da Napoli al resto del mondo nell’ambito dell’editoria, del teatro e del cinema. De Giovanni ha dimostrato che “solo il recupero di un’identità culturale, attraverso le voci degli artisti, delle università e delle istituzioni, potrà portare una nuova vita, anche economica, a tutto il territorio”. Ma ha anche messo in guardia da un pericolo, un problema d’identità della città di Napoli come di tutto il meridione. “Noi sappiamo di essere il sud?” si è domandato. “Troppo spesso il meridione acquisisce l’identità che gli è attribuita dagli sguardi esterni, e colpevolmente si sottrae alla grande responsabilità di amministrare la propria bellezza”. Di Calabria ha parlato invece Mimmo Gangemi, nato a Santa Cristina d’Aspromonte, ingegnere, scrittore di numerosi romanzi come Il giudice Meschino, per citare uno dei suoi gialli, o Un acre odore di aglio, per dire invece di uno dei suoi titoli più intensi. “La Calabria è la meno raccontata delle regioni italiane” ha detto. E ha mostrato come i media propongano un’idea stereotipata e pigra di questa terra. “In Calabria c’è sì la ‘ndrangheta, ma gli uomini dei clan sono soltanto i tasselli di una realtà più complessa, di una compagine sociale e umana che compone un mosaico sfaccettato e tuttavia trascurato dall’attenzione nazionale. Penso a certi errori giudiziari di cui non si dà conto sui giornali, o a certe notizie che ingigantiscono i fatti, o ancora ai pregiudizi difficili da smantellare”. Gangemi ha rappresentato un quadro inedito della Calabria quando ha mostrato come i calabresi siano ormai stretti fra due fuochi: “minacciati dal cancro della criminalità e, allo stesso tempo, ammalati di una sconfortante e crescente sfiducia nei confronti della giustizia”. Sul modo di trasmettere l’immagine del sud, e di un certo dilagante “savianesimo”, ha parlato infine Raffaele Nigro, giornalista e scrittore, lucano di nascita e pugliese d’adozione. Autore del romanzo I fuochi del Basento (premio supercampiello nel 1987 e best seller da un milione di copie), Nigro ha scritto oltre cento libri dove il sud e la Lucania hanno sempre un posto privilegiato, sia quando si tratta di romanzi (Il custode del museo delle cere fra i suoi più recenti) sia quando si racconta di brigantaggio, banditismo o di poesia. Nell’incontro di Matera, ha tratteggiato un affascinante ritratto della Puglia come “luogo di saggistica” in relazione alla Lucania intesa come “luogo di poesia”. E ha mostrato come la questione meridionale sia oggi soprattutto legata a una questione di immagine culturale, letteraria e mediatica. I quattro scrittori di “Attenti al sud” hanno insomma offerto la prospettiva di un meridione suscettibile d’infiniti sguardi inediti. E hanno dimostrato come tutto il sud possa ambire allo stesso destino della città dei Sassi, ovvero alla sorte di un territorio che per lungo tempo è stato trascurato e incompreso, ma che grazie agli sforzi degli intellettuali (Pasolini, per dirne uno) è stato riportato all’attenzione dell’Italia e del mondo. Quattro le parole d'ordine con cui si è chiuso l'incontro: "bellezza, racconto, responsabilità e consapevolezza", estrema sintesi di una via maestra per il riscatto del sud, che si tenga lontano però da "vittimismo" e "retorica".
I mille volti del Sud Italia per Maurizio De Giovanni. Lo scrittore a Caserta per Panorama d'Italia presenta il libro "Attenti al sud", una girandola di riflessioni sul Meridione bistrattato, scrive il 9 novembre 2017 Antonio Carnevale su Panorama. Maurizio de Giovanni a Caserta. Nona tappa del tour Panorama d’Italia. L’occasione è la presentazione di “Attenti al sud”, il volume edito da Piemme che raccoglie il suo contributo al fianco di quelli di suoi illustri colleghi scrittori: Pino Aprile, Mimmo Gangemi, Raffaele Nigro. Tutti profondi conoscitori del Mezzogiorno d’Italia, ovvero un territorio sempre più raccontato, eppure non abbastanza conosciuto nelle sue ferite e potenzialità. “Attenti al sud è un titolo che contiene diversi significati” ha esordito lo scrittore napoletano. “Significa: state attenti ai problemi del sud, e vuol dire anche state attenti perché il sud potrebbe scoppiarvi in mano, mostrando i suoi aspetti virtuosi e inediti. C’è però un terzo senso, ancora più importante, ed è un invito a stare “attenti al sud” nel senso letterale, a prestare cioè più attenzione a questa terra, con tutte le sue luci e con tutte le sue ombre”. Ha colpito dritto al cuore, de Giovanni. “Attenti al sud”, infatti, non ha l’ambizione di essere una raccolta si saggi su un aspetto particolare del Meridione, bensì vuole essere una girandola di riflessioni, anche centrifughe, capaci però di comporre un affresco quanto più vario e sfaccettato dei mille vizi e delle mille virtù di una parte d’Italia sempre più bistrattata, rimossa, sconosciuta, patologicamente proposta nel prisma “dello stereotipo tra clientele e degrado, oppure, all’opposto, tra nostalgia e folklore”. “Io non sarei così deciso nello scorporare il buono dal cattivo” ha spiegato de Giovanni. “Perché il buono diventa poco credibile quando è scremato da ciò che invece non funziona”.
L'identità del Sud. La chiacchierata prosegue tra chiari e scuri. Con al centro un tema fondamentale della questione meridionale: il modo (fuorviante) in cui il sud viene rappresentato. “Che tipo di narrazione stiamo consegnando al resto del paese?” si domanda lo scrittore. “Temo che il nostro sia innanzitutto un problema di identità” spiega. “Mi domando se noi meridionali, in fondo, siamo consapevoli di essere sud. Me lo domando perché mi accorgo che l’identità ce l’abbiamo, ma è vista con gli occhi degli altri. È raccontata per esempio da quegli editorialisti che magari a Napoli non vivono più da 30 anni ma ancora scrivono articoli dal titolo “Povera la mia Napoli”, “Che fine ha fatto la mia Napoli”. L’identità ce la facciamo creare artificialmente, ci è affibbiata da chi pontifica da fuori ma non frequenta il territorio. E dall’interno, noi, un’identità, invece, non riusciamo a trovarla”.
Contro la politica disfattista. Ecco allora la denuncia contro quei politici che definiscono un “cancro politico-sociale” quel territorio che per 50 chilometri quadrati insiste su Napoli, Caserta e Salerno e che però al suo interno contiene importanti poli industriali e culturali. “Soltanto un idiota può pensare di giudicare una terra da un solo punto di vista”. Strali contro la cultura del pregiudizio. “Napoli vista da Posillipo non è certo la stessa che si vede da Portici”. Mentre è chiara la consapevolezza di una regione in cui la camorra non è l’origine dei mali, bensì “un effetto di quel sistema antico e malato che tiene isolato un territorio dalle tante ricchezze”.
La bellezza chiusa ai cittadini. Non mancano le ombre di cui denunciarsi responsabili. Un vero “dramma” è quello della “bellezza” puntualizza lo scrittore. “Questa immensa bellezza che abbiamo intorno ci accusa costantemente” denuncia. “Abbiamo l’80 per cento delle chiese chiuse, perché non c’è personale che le tenga in piedi e che vi consenta l’entrata. Quando i napoletani passano davanti, girano la faccia, abbassano la testa, perché quella chiesa chiusa è per loro un’accusa. Quella bellezza sta lì a ribadire ciò che potevamo avere e che invece non abbiamo”. Di chi è la colpa? “Solo nostra” ammette. “Ma in questa costante fuga, quella stessa bellezza ci insegue” prosegue. “Non possiamo liberarci di lei così facilmente. Doverci fare carico di questa bellezza, dover portare la sua croce è allora la nostra maledizione. Perché solo quando capiremo che a questa condanna si deve fare fronte, quando impareremo che dobbiamo guardare in faccia le nostre capacità, soltanto allora potremo cambiare finalmente rotta”. Si snocciolano numeri. Dati oggettivi di un’arretratezza che ha origine nelle scelte della politica di ieri e di oggi. Si continua per luci e ombre. “Le contraddizioni abbondano” dice lo scrittore. “Tuttavia non dobbiamo rinunciare a testimoniare con forza l’enorme presenza culturale in ogni ambito della creatività” insiste. “I pregiudizi saranno presto smontati” confida ottimista. E le “tante eccellenze del territorio non potranno rimanere nascoste ancora per molto: esploderanno ben presto, grazie anche ai social network, un nuovo potente alleato nella lotta contro il discredito”. È un invito ai politici, alla capacità comunicativa degli amministratori locali? “No, a tutti i cittadini” sottolinea de Giovanni. “Dobbiamo essere tutti militanti”. Ma che cosa significa nel concreto? “Che il meridionale sappia di essere meridionale e se lo ricordi sempre; e che si assuma la responsabilità della propria identità, nel bene e nel male. Perché nel bene non avremmo né vergogna né paura della bellezza. E nel male fronteggeremmo il problema sapendo, finalmente, combatterlo”. Luci e ombre da guardare sempre nello stesso quadro, insomma. Il modo migliore per stare davvero Attenti al sud, e all’Italia intera.
M COME MAFIA DEI TRADITORI.
Cria il traditore, scrive Antonino Beninati su Carabinieri. Dai tesori caduti vittima della furia iconoclasta del fondamentalismo a un affresco “parlante”. Quello che, dalle pareti di una chiesa salentina, racconta una storia di straordinaria attualità: la vicenda di un foreign fighter di cinquecento anni fa. È tristemente nota la figura dei foreign fighters, uomini e donne che, dopo un processo di radicalizzazione religiosa, lasciano il proprio Paese per raggiungerne un altro nel quale, opportunamente addestrati, parteciperanno ad atti di guerra o di terrorismo che non hanno nulla a che vedere con la loro storia, la loro cultura. Individui capaci di usare l’arma del terrore anche per colpire il proprio stesso Paese, come è successo di recente a Parigi. Non si tratta, però, di un fenomeno inedito. Anche il nostro Paese, nei secoli scorsi, ha avuto dei casi di foreign fighters. Una preziosa testimonianza storica ci viene fornita in proposito dall’affresco che decora la parete sopra l’ingresso laterale della chiesa di Sant’Antonio (XII secolo), a San Pancrazio Salentino, villaggio appartenuto alla Terra d’Otranto e dall’anno 1927 comune della provincia brindisina. Quasi come una moderna illustrazione a fumetti, le scene dell’anonimo dipinto narrano del tradimento di Cria, un foreign fighter di epoca rinascimentale proveniente dal vicino comune di Avetrana, in provincia di Taranto. Il traditore, cosi viene definito nell’opera, abbracciata la fede mussulmana, si arruolò nelle milizie turche. Le cronache scritte da Girolamo Marciano di Leverano (Descrizione, origini, e successi della provincia d’Otranto) raccontano che «...San Pancrazio... soffrì le ultime sue rovine nell’anno 1547 da corsari turchi, i quali accostatisi con cinque galeotte nella marina della provincia, e presa terra in un porticello detto della Calimera (Torre Colimena), presero il castello di Veterana (Avetrana), la notte del 1° gennaio, ch’era il capo dell’anno, e sbarcarono da circa cento Turchi guidati da un certo rinnegato del detto castello chiamato Chria (Cria), il quale li menava per prendere Vetrana sua patria; ove essendo arrivati, ed inteso il suono di un taburretto, con cui facevansi mattinate, dubitando che non fosse la guardia di qualche presidio militare, passò avanti e li portò a saccheggiare questa piccola terricciuola di S. Pancrazio, avendola colta d’improvviso, e portatene tutte le genti che vi erano alla marina sopra de’ vascelli, parte ne furono allora riscattati, e parte menati in Turchia e venduti per ischiavi». Inspiegabilmente, però, Cria cadde in mano ai superstiti sanpancraziesi. Il traditore venne legato nudo ad una colonna e finito con il lancio di pietre e frecce. Oltre che per la raffigurazione dei galeoni battenti bandiera turca e per quella dei corsari lanciati al trotto, l’affresco colpisce per la presenza di alcuni dettagli di eccezionale attualità: braccia e gambe penzolanti da alberi di ulivo; corpi decapitati. Mutilazioni che richiamano in modo sinistro le efferate azioni delle odierne milizie dell’Isis. Le iscrizioni presenti sull’affresco, venuto alla luce durante i lavori di restauro della chiesa di Sant’Antonio nel 1983, datano l’episodio storico al1° gennaio 1547 e mostrano quanto sentita fosse, già allora, la questione dei foreign fighters nelle piccole realtà locali. Perché essere accusato di tradimento, in un’epoca in cui esso veniva punito con la pena capitale, poteva macchiare d’infamia un’intera comunità.
Illustri traditori del meridione, Crispi: l’eroe garibaldino, scrive Luigi Maganuco il 25 agosto 2018 su "Il Quotidiano di Gela. Gela. Abbiamo raccontato degli uomini del risorgimento Italiano, e con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto ch nessuno appartiene alla categoria degli onesti ma chi più chi meno si sono macchiati di crimini spaventosi, però nella vita hanno raggiunto posti di responsabilità invidiabili. Tra questi, visto che le nostre città sono pieni di questi uomini illustri, vogliamo ricordare il siciliano Francesco Crispi. Nasce a Ribera, provincia di Agrigento, di etnia Albanese nel 1818, non brillante avvocato a Napoli, fu prima carbonaro e mazziniano, complice di Orsini nell’attentato a Napoleone III. Al momento opportuno, trasformatosi in massone, divenne l’eminenza grigia, l’arruolatore e l’organizzatore della logica Garibaldina. Crispi si avvale delle sue originali e giovanili conoscenze mafiose, quando il 10 aprile del 1860 sbarcò segretamente a Messina, assieme a Rosolino Pilo e Giovanni Corrao per preparare quel disordine popolare che, provocando la repressione Borbonica, avrebbe giustificato la spedizione dei mille, ormai pronta. L’altro aspetto della missione segreta era contattare ed accordarsi con i capi dei picciotti di Carini, Terrasini, Montelepre, S. Cipirello, Piana degli Albanesi, Partinico e Trapani. Fu così che Crispi, che lo stesso Garibaldi diceva che “…arruolava tutti, in ispecia gli avanzi di galera…”, preparò gran parte del successo della spedizione dei mille. Una volta divenuto Primo Ministro del re Umberto I, soffocherà, usando un esercito che spara ed uccide, i Fasci Siciliani, facendo centinaia di morti e feriti tra i suoi conterranei: Crispi era stato un ex rivoluzionario, ex carbonaro, ex mazziniano, ex democratico, ex siciliano ma grande uomo di Stato per noi servili adulatori della malavita organizzata (da risorgimento o rivolgimento di Aurelio Vento). Nel 1887 diviene Presidente del Consiglio Italiano, ma nel tentativo di trasformare l’Italia in potenza coloniale, incappa nella disfatta africana di Adua, che provocò migliaia di morti in Abissinia e il fallimento provvisorio dell’avventura coloniale dell’Italia in Africa. Fu accusato di bigamia perché sessantenne sposò la chiacchierata giovane siracusana Lina Barbagallo, allora sposato con Rosa Monimasson, che fu l’unica donna vestita da uomo a seguirlo tra le camicie rosse garibaldine. Così, l’armata Garibaldina dei mille al porto di partenza da Quarto presso Genova assorbiva tra le sue file di piccoli borghesi spiantati e indebitati di Bergamo, una Legione Britannica, migliaia di picciotti arruolati dall’instancabile Francesco Crispi, con il permesso ottenuto dai capizona mafiosi, conosciuti e frequentati durante la sua gioventù vissuta in Agrigento. Secondo l’autore, Aurelio Vento, che cita uno scritto ironico di Massimo D’Azeglio “…quando s’è vista un’armata sbrindellata di 60.000 uomini conquistare un regno di sei milioni con la perdita di solo otto uomini e diciotto storpiati, bisogna pensare che sotto ci sia qualcosa di non ordinario…”. Il dubbio è perfettamente legittimo perché il tradimento operato dai nostri grandi uomini è eclatante e le documentazioni venute alla luce in questi ultimi anni dimostrano chiaramente come i generali e alti comandanti borbonici, si sono venduti per trenta denari ai nostri salvatori. Questi, con l’oro rubato al banco di Napoli e al banco di Sicilia, oggi venerati e ricordati nei nostri centri abitati con strade e piazze a loro dedicate per non dimenticare, hanno corrotto parte degli ufficiali borbonici. Tratteremo questo argomento e proviamo a ricordare l’onorario pagato per tradire. Un esempio eclatante è la storia del gen. Salvatore Landi, che aveva ottenuto direttamente da Garibaldi, un pagherò di 14.000 ducati, purchè nella battaglia del 15 maggio 1860, suonasse la ritirata delle forze borboniche, per permettere ai Garibaldini di dilagare e sconfiggere l’armata borbonica. L’esito della vittoria mise in crisi il grande scrittore Cesare Abba, al seguito come reporter di guerra, che aveva inventato la famosa frase indirizzata a Nino Bixio “qui si fa l’Italia o si muore”. Ma l’anno successivo il generale si presenta al Banco di Napoli per incassare il pagherò, si accorge che era falso e valeva solo 14 ducati. Aveva tradito per 13 danari e né morì di pena. Altro grande traditore fu il gen. Ferdinando Lanza che tenne bloccati i suoi 24.000 uomini al palazzo Reale per permettere ai Garibaldini di entrare a Palermo già ingrossati dei 2.000 picciotti forniti da Francesco Crispi e arruolati nel territorio (noi gelesi abbiamo dedicato una arteria importante della nostra città per i suoi meriti) Il gen. Lanza si affrettò a firmare l’armistizio di resa alle ridicole forze garibaldine, sulla nave dell’ammiraglio inglese Mundy, fermo sulla rada con una piccola flotta militare. Il gen. Lanza così potè partecipare al furto compiuto da Garibaldi al Banco di Sicilia e incassare 600.000 ducati d’oro, per spese di guerra. La ricevuta, debitamente firmata fu consegnata a Ippolito Nievo, intendente delle finanze Garibaldine. Anche questo poeta merita una arteria importante nelle nostre città meridionali. Il 20 luglio 1860 Garibaldi arriva a Milazzo e qui il capitano Amilcare Anquissola, della corvetta “la veloce”, si consegna, senza combattere, all’ammiraglio sabaudo Persano, così la flotta militare borbonica composta da 100 vascelli 796 cannoni, si consegnò alle forze Savoiarde nel porto di Napoli. La conquista fu completata quando il criminale gen. Enrico Cialdini, il 13 gennaio 1861, rade al suolo la città di Gaeta con 160.000 cannonate. Tutti gli scrittori apologetici hanno voluto mettere in evidenza la grande armata dell’eroe dei due mondi che conquista il Regno delle Due Sicilie per la sua bravura di combattente e grande stratega militare, come l’ammiraglio Carlo Pellion di Persan ex comandante borbonico, tradisce e diventa Ammiraglio del regno Sabaudo che il 20 luglio 1866, nel corso della III guerra di indipendenza, viene sconfitto pesantemente a Lissa da pochi vascelli di legno della flotta Austriaca. Atro grande traditore il gen. Pinelli che in una nota poteva cinicamente permettersi di bandire (come asserisce lo scrittore Aurelio Vento): “sua eccellenza il Ministro della guerra si rallegra con voi del vostro slancio e delle eroiche vostre gesta. Ufficiali e soldati! Voi molto operaste ma nulla è fatto quando qualcosa rimane a fare. Ancora ladroni si annidano tra i monti, correte e snidateli e siate inesorabili come il destino. Contro tali nemici la pietà è delitto! Noi li annienteremo e purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava”. Altra nota degna di rilievo, riguarda i fatti di Casalduni e Pontelandolfo, dove i soldati nordisti e sabaudi fecero stragi, saccheggi e stupri senza alcun processo e uccisero quattrocento persone per quaranta soldati nordisti. La stessa identica proporzione l’applicarono nel 1944 i soldati nazisti uccidendo trecento civili per trenta militari nazisti uccisi in via Rasella a Roma. E’ da mettere in evidenza l’onestà dei nazisti che non distrussero il quartiere di via Rasella a Roma, come fecero i piemontesi che saccheggiarono due centri di circa ottomila abitanti. Secondo i pennivendoli ufficiali, il massacro delle fosse Ardeatine non fu compiuto per vendetta dell’attentato di via Rasella ma per volontà del regime nazista. Così i partigiani che compirono l’attentato poterono continuare ad uccidere. A che serve ricordare questi epistemi storici? A chi servono? Sicuramente a nessuno legato ai colonizzatori nordisti o ai fanatici attuali al servizio della massoneria dominante. Hanno una enorme importanza per i meridionali onesti che tengono alla dignità e alla loro storia di uomini liberi e pensanti.
I FALSARI DELLA STORIA. 4 NOVEMBRE DIMENTICATO.
I falsari della Storia. Il nostro spirito nazionale forgiato in trincea. Sarà per questo che si fa di tutto per mascherare la ricorrenza da spot pacifista, scrive Marcello Veneziani il 3 Novembre 2018 su "Libero Quotidiano". Dopo un anno di commemorazioni masochiste per auto-mortificarci, arrivò finalmente il giorno in cui siamo costretti a ricordarci della Vittoria e del suo centenario. Eccolo, il 4 novembre, anzi il IV novembre, la giornata della Patria. Ma avrete già sentito come viene trasformato quell'anniversario nel Racconto Ufficiale fatto da presidenti, ministri, media e professori: la Vittoria sparisce, la Nazione pure, alla Patria solo un timido sbuffo di cipria e dei caduti se ne parla come povere vittime del nazionalismo e dei loro capi. Il resto sarà tutta una celebrazione della pace, dell'Europa, dell'umanità col sottinteso che eroi e vittime di guerra sono caduti invano, per una sanguinosa illusione. La memoria della Grande Guerra viene esattamente rovesciata: diventa la celebrazione dell'Europa e la mortificazione delle nazioni identificate nei nazionalismi. Ma la verità storica dice esattamente il contrario: la prima guerra mondiale fu il funerale dell'Europa e il trionfo dell'Italia, pur mutilato. Da quel conflitto l'Europa uscì infatti sfasciata e indebolita, non fu più il centro del mondo, perse gli Imperi Centrali che ne erano la spina dorsale, il mondo cominciò a dividersi tra l'Ovest americano e l'Est comunista, schiacciando l'Europa nel mezzo o relegandola a periferia. Nacque da quel conflitto il comunismo e poi la reazione ad esso, nacque la frustrazione tedesca che portò al nazismo, nacque il fascismo. Con la seconda guerra mondiale, il tramonto dell'Europa avviato dalla prima raggiunse il suo epilogo. Gli occhi dell'ideologia pacifista non vogliono vedere la realtà tragica e gloriosa di quell'evento. Invece, sul piano nazionale, la Prima Guerra mondiale consacrò l'Italia, per la prima volta uscita vincitrice da un conflitto, al rango di nazione e patria comune. Il Risorgimento era stato un'impresa di pochi, voluta da pochi, rispetto a una popolazione contadina, cattolica, soprattutto meridionale, in buona parte non partecipe se non refrattaria al processo unitario. Fu la Prima Guerra Mondiale a sancire nel sangue e nel dolore la comune appartenenza all'Italia. Quando dicono che la Prima Guerra Mondiale fu per noi la conquista di Trento e di Trieste, si rimpicciolisce – con tutto il rispetto per le terre irredente – la portata e il significato del Conflitto. No, in quella occasione per la prima volta, un popolo intero si sentì nazione, si scoprì patria. La leva obbligatoria, l'educazione nazionale seppure a tappe forzate, il sentimento di appartenenza tramite i propri ragazzi al fronte, portarono per la prima volta a sentirsi veramente italiani le genti del nord insieme alle genti del sud; i borghesi e i proletari, gli intellettuali e i contadini. Sarebbe ipocrita negare che molti di loro furono riluttanti e la prima guerra mondiale fu voluta anch'essa – come il Risorgimento – da una minoranza. Forse la Grande Guerra ebbe meno consenso popolare della seconda guerra mondiale, che almeno inizialmente godette di fervore e adesione degli italiani. Ma l'effetto che produsse la Vittoria fu il rafforzarsi del legame nazionale. La sua consacrazione avvenne con la proclamazione della Vittoria, il ritorno dei combattenti e reduci, il ricordo dei caduti, la salma del Milite Ignoto. E la consacrazione dell'Altare della Patria a lui, al Soldato italiano senza nome. Fu in quel passaggio, da Monumento funebre al Re Vittorio Emanuele II ad Altare per il Milite Ignoto, il vero passaggio da un Regno a una Nazione, un Popolo. Perciò quando si parla di IV novembre si deve ricordare insieme al sacrificio di tanti soldati, al dolore delle loro famiglie, anche l'orgoglio di dirsi italiani, pagato col sangue; la fierezza di un sentimento di appartenenza nazionale. Dove finisce invece nella retorica ufficiale l'amor patrio? Sparisce, per far posto alla parola umanità che almeno in questo caso è fuori luogo, è storicamente falsa e bugiarda, comunque fuori posto. Ma non solo. Si prosegue nell'autoflagellazione. Abbiamo visto nei giorni scorsi nei tg di Stato, che il ministro/la ministra della difesa ha ricordato in una speciale cerimonia apposita non i 650 mila caduti italiani ma qualche centinaio di caduti ebrei italiani nella prima guerra mondiale. Per poi dire: loro erano caduti per l'Italia e l'Italia poi li ripagò con le leggi razziali. Insomma tutti i discorsi servono per portare sempre là, alla nostra Autoflagellazione quotidiana. Senza considerare che gli ebrei si consideravano ed erano considerati italiani a pieno titolo, che gli ebrei – per esempio – a Trieste, furono ferventi patrioti e anche nazionalisti; e molti di loro diventarono pure fascisti. E comunque non si possono ricordare in modo speciale solo alcune centinaia di caduti di fronte a centinaia di migliaia di caduti... Ma questo è funzionale per far slittare l'amor patrio nell'antifascismo. Pura propaganda ideologica, pura distorsione. E se si parla dei soldati della prima guerra mondiale la preferenza va verso i disertori non verso gli eroi, verso chi fu ucciso perché non voleva combattere (proposito umano che merita pietà, non ammirazione) e non verso chi ha dato volontariamente la sua vita alla patria. Siamo rimasti eredi di Caporetto più che di Vittorio Veneto, siamo fermi a Cadorna, non siamo arrivati a Diaz. Per questo è necessario ricordare che il IV novembre fu il battesimo di una nazione antica in epoca moderna, fu la conversione di un'identità plurale in una patria comune, di un sentimento unitario e di una lingua gloriosa e plurisecolare in nazione. L'Italia disegnata dalla geografia finalmente combaciò con l'Italia disegnata dalla storia. Un grande evento di fondazione. Per questo dobbiamo onorare senza se e senza ma i caduti, la Vittoria e la nascita di un popolo che si scoprì nazione.
Chi calpesta la Vittoria umilia solo i ragazzi del '99. Per questo, trovo che parlare di inutile strage, nel giorno in cui si ricorda la vittoria, sia offensivo verso chi andò al fronte per fare il proprio dovere e magari non fu fortunato come Alberto ma perse la vita, scrive Alessandro Gnocchi, Lunedì 05/11/2018, su "Il Giornale". Ieri si festeggiava il centenario della vittoria italiana nella prima guerra mondiale. Si festeggiava nel senso che giornali e politici le hanno fatto la festa, smontandola pezzo per pezzo. Fu un'inutile strage, come sostenne Papa Benedetto XV in una storica lettera ai belligeranti. Non unì il popolo dalle Alpi alla Sicilia, come spesso si argomenta. Nord e Sud rimasero due mondi diversi. Il comportamento dei generali verso la truppa riottosa fu inqualificabile, tra fucilazioni sommarie e fuoco amico verso chi arretrava. Pose le premesse per il fascismo: il mito della vittoria mutilata e lo scontento dei reduci crearono l'atmosfera carica di violenza che Benito sfrutterà a suo vantaggio. Dimostrò, con la seconda guerra mondiale, che l'Europa unita è la strada maestra per un futuro pacifico. Ogni opinione porta con sé una parte (minore o maggiore) di verità. Forse l'Italia avrebbe potuto raggiungere i suoi obiettivi con un po' di buona diplomazia, scrive qualcuno. Quella stessa diplomazia fu però umiliata nel dopoguerra, nella conferenza di pace a Parigi dove la città di Fiume, che chiedeva di essere italiana, fu annessa al Regno dei serbi, croati e sloveni alla faccia dell'autodeterminazione dei popoli tanto sbandierata dagli Stati Uniti. Al netto di queste legittime discussioni, siamo sicuri di avere reso onore a chi impugnò il fucile? A mio avviso, no. Chiedo scusa se passo alla prima persona. Voglio raccontare una storia. Il protagonista è mio nonno, Alberto Gnocchi, nato a Pavia nel 1899. Quando l'Italia era allo stremo, la classe del '99 fu arruolata. Alberto era un liceale di buona famiglia. Per questo, l'esercito pensò bene di farne un ufficiale. Dopo un brevissimo corso d'addestramento a Orvieto, si trovò in prima linea sul fronte francese (ancora oggi il meno studiato). Era un diciottenne che doveva ordinare a uomini maturi, con famiglia, di uscire dalla trincea e gettarsi in combattimento tra le raffiche di mitragliatrice del nemico. Era una responsabilità tragica. Per guadagnare il rispetto dei commilitoni, si lanciava con loro, tra i primi. Fu gravemente intossicato dai gas nemici. Finì nella lista dei dispersi. Dopo avere atteso ulteriori notizie, che non arrivavano, la famiglia pianse Alberto come morto. In realtà era in ospedale, ad Aosta, privo di coscienza. Quando la riprese, dopo un periodo di convalescenza, tornò a Pavia in licenza, tra le lacrime di commozione dei genitori. Era come vedere un figlio resuscitato. Alla fine della guerra rimase in divisa per altri tre anni, a Chiavari. Interrogato su quel periodo, rideva sornione aggiungendo sottovoce che erano stati tre anni da incorniciare: si era divertito. Era un giovane ufficiale in una sbarazzina località di mare... Si congedò con il grado di tenente colonnello. Riprese gli studi e diventò avvocato. Alberto non era certo un nazionalista né un interventista. Era piuttosto un cattolico di ferro (e in subordine un monarchico). Guardava alla Chiesa più che allo Stato. Non parlava volentieri della guerra, doveva avere vissuto orrori inenarrabili. Però riteneva di avere fatto il suo dovere. Prima di morire, si fece fare una fotografia, tuttora nel mio salotto, in cui indossava i gradi e le onorificenze guadagnate sul campo di battaglia. Volle essere ricordato così, anche se era stato molte altre cose oltre a un soldato. Per questo, trovo che parlare di inutile strage, nel giorno in cui si ricorda la vittoria, sia offensivo verso chi andò al fronte per fare il proprio dovere e magari non fu fortunato come Alberto ma perse la vita.
Caporetto, sconfitta che va restituita. Un anno dopo Caporetto, alla vigilia di Vittorio Veneto, Benito Mussolini pubblicava questo articolo sul Popolo d'Italia, scrive Benito Mussolini il 24 ottobre 1918 (pubblicato da "Il Giornale" il 20/08/2016. Un anno dopo Caporetto, alla vigilia di Vittorio Veneto, Benito Mussolini pubblicava questo articolo sul Popolo d'Italia. "Un anno è passato, dodici mesi ricchi di eventi come dodici secoli ma noi cittadini italiani non sappiamo ancora come fu. Su la rotta oscura di Caporetto la Commissione di inchiesta non ha gettato alcun fascio né grande né piccolo di luce. Era da prevedersi. Le inchieste in Italia sono fatte perché c'è l'abitudine di farle. È un mezzo per mettere «in tacere» le cose specialmente ingrate. Le inchieste italiane non scoprono ma affogano le responsabilità. Ebbene non ce ne importa. L'on. Orlando può sciogliere quella Commissione di valentuomini. Tanto non ci farà sapere più di quanto si sappia. Sistema tristissimo degno della vecchia Italia che non ha avuto ancora il coraggio di pubblicare i bollettini nemici e la lista delle nostre perdite. Non sembri un paradosso ma io affermo che ai fini della Nazione non si è «sfruttato» abbastanza Caporetto. Una sciagura può essere utile come un colpo insperato di fortuna. À quelque chose malheur est bon opinava il vecchio fabulista francese. Ma perché Caporetto desse tutti i frutti che poteva dare bisognava scolpirne le linee nel cuore e nella coscienza degli Italiani. Non frasi ma cifre. Non attenuazioni del disastro ma piuttosto amplificazioni. Non anonimia vaga delle responsabilità ma individuazione con nome cognome e al caso plotone d'esecuzione. Chi di noi non ha sentito cadere e morire qualche cosa nel profondo del cuore durante la settimana che va dal 24 ottobre al 1º novembre? Diciamo oggi che non fummo sorpresi. Nelle retrovie e all'interno dominava l'ottimismo degli incoscienti nutriti di frasi. Ma chi era stato lassù, chi aveva vissuto lassù - soldato fra i soldati - immedesimato compenetrato in quel mondo - aveva notato da tempo le fenditure nella compagine. Era un lento processo di erosione. Qualche cosa si sfaldava. I soldati! Chi se ne ricordava più? Erano o sembravano assai lontani oltre un fiume che, sino alla vigilia della guerra, era perfettamente ignoto alla maggioranza degli Italiani. La Nazione invece di un contegno severo di guerra si esibiva ai ritornanti dalle trincee specie nelle città in una veste di urtante frivolezza. Curioso! Si pretendeva di conservare l'andamento della vita normale per una metà della Nazione mentre l'altra metà era condannata ad una anormalità terribile nella vita e nella morte. Stati d'animo di negazione si erano formati nelle masse profonde. Quando a precipitare la crisi giunsero gli episodi della nostra politica interna dell'agosto. Alle soglie dell'inverno dal Vaticano e dal Parlamento partirono voci di sfiducia, consigli di sedizione e di resa. Quelli che nelle due capitali di guerra e di pace - Udine e Roma - avrebbero dovuto avvertire i sintomi della crisi ignoravano o fingevano di ignorare. L'Italia era affidata a un vecchio che non aveva - ahimè! - la stoffa di Clemenceau. La situazione verso la metà d'ottobre era questa: la Nazione era estranea all'Esercito; l'Esercito stava per rendersi estraneo alla Nazione. La disfatta di Caporetto è la disfatta della Nazione. La rivincita di Caporetto è la rivincita della Nazione. Ed ecco da qualche tempo le voci che incitano all'oblio. Caporetto è un ricordo noioso e molesto. Tutti gli eserciti hanno avuto Caporetto. Dopo Caporetto c'è il Piave. Dimentichiamo. No. Non bisogna dimenticare. Bisogna vivere di questo ricordo. Come i romiti della Trappa che si ricordano vicendevolmente l'ineluttabilità della morte così gli Italiani dovrebbero nelle ore grigie del dubbio e anche in quelle della sorte lieta ricordarsi di Caporetto. Non consoliamoci col pensiero di quanto può essere capitato ad altri eserciti. È una consolazione da femminette superficiali. I popoli forti sanno guardare in faccia al loro proprio destino. Roma repubblicana non nascose a se stessa quella grande Caporetto che fu la battaglia di Canne. La utilizzò per tendere sino al possibile l'arco delle energie. Il bruciore rovente di una percossa può stimolare - muscoli e nervi - alla rivincita. C'è stata la nostra rivincita? Non ancora. Non siamo ancora tornati là dov'eravamo. Ed eravamo andati molto innanzi oltre il fiume sui monti verso Trieste, verso Trento. Dalle quote sabbiose del Carso si vedeva nei mattini chiari spazzati dalla bora Trieste biancheggiante fra monte e mare nel suo arco di case. Noi soldati finivamo per amare le nostre «quote». Dietro le «doline» brulicavano o stavano nell'immobilità trogloditica della trincea gli uomini mentre una vita tragica e primitiva uguagliava i giorni e le notti senza data e senza fine. Visioni indimenticabili! Ecco il Podgora spelato, il Sabotino lugubre, il San Michele bianco di ossa. Gorizia bella nella pianura verde e luminosa e i cimiteri continui lungo l'Isonzo. Poi il Sei Busi e il bastione pauroso di Seltz. L'altipiano di Doberdò. Il Vallone. Quota 144 col suo cimitero tormentato. Io chiedo a coloro che ci sono stati e che evocando i nomi del deserto di pietra devono sentire la mia stessa emozione: «Non vi pare che la parte più intima di noi stessi sia rimasta oltre Isonzo?» Sì perché là sono rimasti i nostri. L'immagine di quei luoghi è così netta nel mio spirito che io saprei riconoscere le pietre ad una ad una. Dormono là i soldati dei reggimenti magnifici che puntavano su Trieste. Due anni di battaglie, due anni di vittorie e di gloria! Quando pareva che si dovesse intraprendere l'ultima tappa ecco annullato in poche ore tutto ciò ch'era costato infinito sangue, infinito sacrificio. Eravamo alle porte di Trieste gli austriaci giunsero alle porte di Venezia... Non sono passati. Non passeranno più. Ma sono ancora sul Piave. Caporetto è vendicato soltanto a metà. Bisogna compiere l'ultimo sforzo. Difendersi non basta. Non si può attendere la pace sul Piave. Chi può ci dia i mezzi per osare. Per attaccare. Per ripagare gli austriaci. Per restituir loro Caporetto ma in proporzioni ancora più rovinose. La parola d'ordine di questo primo anniversario eccola: restituire Caporetto al nemico! Un anno fa Carlo e Guglielmo s'illusero di mettere fuori di combattimento l'Italia. Non ci riuscirono malgrado il colpo tremendo. L'Italia è in piedi ed ha il coraggio di ricordare, di notomizzare la sua disfatta mentre si accinge a saldare i conti con l'Austria-Ungheria. Date in questo momento, date presto una Caporetto agli Absburgo. Noi ci siamo ripresi perché siamo un popolo che ha un passato ed avrà un avvenire; ma con una quarta Caporetto la vecchia monarchia senza popolo non si rialzerà più. Fiamme nere. Fiamme rosse a voi! Cinque anni! Cinque anni di guerra mondiale! Ma ecco la Pace come noi la volemmo: vittoriosa. Ecco la Pace come noi la vorremmo: giusta. Ecco la pace che reca in una mano l'olivo e nell'altra l'edera repubblicana. La Germania che aveva dichiarato la guerra al genere umano è percossa a morte. È in ginocchio. La costruzione bismarckiana è tutta una rovina. Dov'è il Kaiser? Forse su una delle più deserte strade dell'Olanda. Dove sono gli altri re e principi del vivaio tedesco? Scomparsi. Fuggiti. Non dall'interno ma dall'esterno è venuta e verrà la salute del popolo tedesco. Coi cannoni e con le baionette dei liberi popoli quello che si riteneva il popolo eletto si contenterà d'ora innanzi di essere uguale se non inferiore agli altri. Ecco oltre alle rivendicazioni nazionali l'obiettivo più alto della guerra. Bisogna essere degni della pace come siamo stati degni della guerra e della vittoria. Bisogna pur nella gioia, pur nel grido irrefrenabile e umano della contentezza avere senso supremamente religioso di questa ora. È l'ora in cui il destino batte col suo martello d'oro alle porte del silenzio e chiama i nostri caduti alla seconda vita della immortalità. È l'ora in cui la Coscienza addita i più aspri doveri e segna le vette luminose verso le quali bisogna andare portando nel cuore l'odio necessario per nutrire il più grande amore. È la pace! In alto i cuori! Con dignità, con disciplina, con fede fermissima nei destini della Patria e del Mondo. 24 ottobre 1918".
IL CAOS ITALIANO.
Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto, il libro di Paolo Mieli.
Dettagli. Storie grandi e piccole, vicine o lontanissime, per riflettere sul nostro presente. Per provare a capire l'origine del male italiano. “Quella degli ultimi vent’anni è già storia. E sono accadute cose con cui è sgradevole e imbarazzante fare i conti.” "In guerra con il passato", uscito per Rizzoli nel 2016, ha raggiunto le 30.000 copie.
Descrizione del libro. L’Italia è un Paese pieno di contraddizioni e di problemi, ma anche di bellezza, di talento e di verità. Paolo Mieli con Il caos italiano cerca di fare chiarezza sulla condizione nostrana e lo fa con il consueto piglio giornalistico e storico dove mette a fuoco ogni situazione da quella politica a quella economica sino a giungere a quella sociale. Ad ogni livello c’è una certa confusione che non permette di vedere le situazioni con chiarezza e quindi di affrontarle con raziocinio. Bisogna quindi fare conto sulla memoria, osservare il passato per considerare il presente. Non vuole Mieli rivolgersi al passato in cerca di una legittimazione delle scelte di oggi, ma cerca di individuare in tempi lontani, a volte non troppo, contraddizioni che ci aiutino a modificare o a mettere a registro quel che pensiamo adesso. Paolo Mieli ricostruisce così storie grandi e piccole e le paragona con quelle contemporanee, mostrando al lettore che il caos non ci porta mai troppo lontano. Dal ricordo collettivo a quello individuale, Il caos italiano si rivolge poi al futuro, cercando una strada che non sia fatta solo di speranza o di sogno, ma di certezze reali e che possano trovare un riscontro nella quotidianità.
Paolo Mieli è giornalista, saggista ed esperto di storia; nasce da una famiglia di origini ebraiche, il padre è Renato Mieli, importante giornalista e fondatore dell'ANSA. Già dall'età di 18 anni inizia a lavorare per i quotidiani cominciando presso «L'espresso», dove lavorerà per circa un ventennio. Milita parallelamente in movimenti politici sessantottini che lo influenzeranno in campo giornalistico. Negli anni Settanta frequenta la facoltà di Storia moderna e presto inizia a lavorare per «Repubblica» fino a quando, negli anni Novanta, approda alla «Stampa», di cui diviene anche direttore. Dal 1992 al 1997 e dal 2004 al 2009 dirige il «Corriere della Sera». Dal 2007 Mieli diventa direttore editoriale del gruppo RCS e, dopo la scomparsa di Indro Montanelli, si occupa della rubrica giornaliera "Lettere al Corriere", dove dialoga con i lettori su temi prevalentemente storici. Nel 2008 Mieli lascia la direzione della testata per assumere l'incarico di presidente di RCS Libri. Da alcuni anni tiene regolarmente un seminario sulla "Storia dell'Italia Repubblicana" presso la facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell'Università degli Studi di Milano. È membro del comitato scientifico della Fondazione Italia USA e della Fondazione SUM, legata all'Istituto Italiano di Scienze Umane. In ambito televisivo è presente nelle trasmissioni storiche di Rai 3 curando la presentazione di alcune puntate di La grande storia e gli editoriali di Correva l'anno. Tra i suoi libri editi da Rizzoli: Le storie, la storia (1999), Storia e politica (2001), La goccia cinese (2002), I conti con la storia (2013), L'arma della memoria (2015).
ALLE RADICI DEL NOSTRO DISSESTO. Mai come oggi la politica italiana sembra in preda a una paralisi. Da anni i partiti sono impegnati in una continua campagna elettorale, con l’unico scopo di minare la legittimità degli avversari e allo stesso tempo lasciare aperte le porte a tutte le alleanze possibili. Alleanze da stringere nel nome di un’eterna emergenza: economica, politica o sociale. Questa incapacità di educarsi all’alternanza, di comprendere che “è normale stare lungo una stagione parlamentare ai banchi del governo e nella successiva su quelli dell’opposizione”, sembra ai più una degenerazione della buona politica, il frutto avvelenato degli ultimi decenni, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Ma potrebbe non essere così. Forse esiste un male originario della politica italiana. Paolo Mieli ripercorre la vita del nostro Paese attraverso una serie di storie – le convulse vicende politiche dei primi anni del Regno; la Grande Guerra; il fascismo; politici del dopoguerra come De Gasperi, La Malfa o Nenni; vicende oscure quali il golpe del generale De Lorenzo o il dirottamento dell’Achille Lauro; cronache giudiziarie come quelle del caso Montesi o dell’assassinio del giudice Caccia – che contribuiscono a disegnare un ritratto dell’Italia e della sua politica molto spesso diverso dalla storia ufficiale. E mostrano come l’incapacità di dar vita a meccanismi che creino un’alternanza tra gli schieramenti parlamentari costituisca la nostra anomalia di fondo.
Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto: Paolo Mieli ripercorre la vita del nostro Paese attraverso una serie di storie – le convulse vicende politiche dei primi anni del Regno; la Grande Guerra; il fascismo; politici del dopoguerra come De Gasperi, La Malfa o Nenni; vicende oscure quali il golpe del generale De Lorenzo o il dirottamento dell’Achille Lauro; cronache giudiziarie come quelle del caso Montesi o dell’assassinio del giudice Caccia – che contribuiscono a disegnare un ritratto dell’Italia e della sua politica molto spesso diverso dalla storia ufficiale. E mostrano come l’incapacità di dar vita a meccanismi che creino un’alternanza tra gli schieramenti parlamentari costituisca la nostra anomalia di fondo. Mai come oggi la politica italiana sembra in preda a una paralisi. Da anni i partiti sono impegnati in una continua campagna elettorale, con l’unico scopo di minare la legittimità degli avversari e allo stesso tempo lasciare aperte le porte a tutte le alleanze possibili. Alleanze da stringere nel nome di un’eterna emergenza: economica, politica o sociale. Questa incapacità di educarsi all’alternanza, di comprendere che “è normale stare lungo una stagione parlamentare ai banchi del governo e nella successiva su quelli dell’opposizione”, sembra ai più una degenerazione della buona politica, il frutto avvelenato degli ultimi decenni, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica.
«Il caos italiano» (Rizzoli, pagine 352, euro 20). Ma potrebbe non essere così. Forse esiste un male originario della politica italiana. Paolo Mieli denuncia in un libro tutti gli errori delle élite d’Italia. Un volume, in uscita per Rizzoli, che privilegia le interpretazioni storiografiche più innovative: l’autore mette sotto esame le classi dirigenti dello Stato unitario, scrive Paolo Macry il 3 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". L’Italia cominciò male, scrive Paolo Mieli nel suo ultimo libro Il caos italiano. Alle origini del nostro dissesto (Rizzoli). Ma non tanto perché, ad appena tre mesi dalla proclamazione del regno, fosse morto improvvisamente Cavour. O perché nel giro di un paio d’anni caddero uno dopo l’altro ben tre presidenti del Consiglio: Bettino Ricasoli per contrasti con il sovrano, Urbano Rattazzi in seguito ai fatti di Aspromonte e Luigi Carlo Farini a causa di una grave malattia mentale. Il nocciolo del problema fu l’affermarsi di una discutibile prassi politico-istituzionale che si sarebbe radicata a tal punto da segnare la storia successiva del Paese. E da indurre Mieli a un titolo così forte.
Lo si vide già nel 1876, con la cosiddetta «rivoluzione parlamentare». Dopo che il governo della Destra di Marco Minghetti era stato messo in minoranza dal Parlamento, il re decise di affidare l’incarico per il nuovo esecutivo non a un altro esponente della stessa area, ma al leader della Sinistra Agostino Depretis: il quale cercò e trovò in aula la sua maggioranza. Sei anni dopo, in vista delle elezioni, Depretis stipulò una serie di accordi con Minghetti, dando vita a un asse tra la Sinistra e importanti pezzi della Destra. E vinse le elezioni. Nato per escludere dal gioco politico le forze ritenute antisistema (socialisti, radicali, cattolici intransigenti), emergeva un modello di governo centrista che era il frutto di accordi e mediazioni parlamentari tra gruppi o singoli deputati. E il voto popolare? Veniva dopo, a maggioranza già fatta. E, di regola, nella storia italiana, gli elettori finivano per premiare l’esecutivo in carica. Il bipartitismo alla Westminster era molto lontano. Appesantita dal suo corollario di trasformismi e cambi di casacca, la convergenza al centro dei partiti (e il taglio delle «estreme») fece sì che non esistessero i numeri per l’alternanza. Divenne l’unica strada percorribile. Per sperimentare l’alternanza, l’Italia dovrà attendere la stagione del bipolarismo centrodestra-centrosinistra, inaugurata da Silvio Berlusconi. Ma nel frattempo, se non il caos, le criticità politiche del Paese avevano fatto molta strada.
Passando in rassegna una mole di storia e storiografia dell’Italia contemporanea, Paolo Mieli conferma il suo profilo anfibio. A metà fra presente e passato. La prospettiva storica e la consuetudine con tagli cronologici lunghi gli danno chiavi di lettura dell’attualità non comuni tra gli osservatori politici. Viceversa, l’esperienza pluridecennale di osservatore politico arricchisce i suoi libri di storia di un understanding inusuale tra gli accademici: una singolare capacità di entrare nelle pieghe degli avvenimenti, una certa inconfondibile saggezza. Il puzzle del passato, peraltro, non è mai attualizzazione corriva, nè mai un plot fine a se stesso (sebbene ci siano capitoli che si leggono come un romanzo). Le molte storie compongono comunque una storia unica, una specifica lettura della vicenda italiana. E naturalmente, data la biografia dell’autore, a farla da padrona è la politica: un ventaglio di successi, errori, strategie, tatticismi e, soprattutto, una questione di scelte. Cioè di uomini: da Quintino Sella a Mario Scelba, da Sidney Sonnino a Bettino Craxi. Non c’è nulla di deterministico, nelle pagine di questo libro. E nulla di acquiescente ai riti della correctness. Di una vasta letteratura, Mieli privilegia le opere e le interpretazioni che gli appaiono più innovative. Quelle che altri inchioderebbero allo stigma del revisionismo. Ed ecco perciò le molte pagine dedicate al dibattito (tuttora aperto) sul Risorgimento, sulla singolarità di un’unificazione realizzata in feroce contrasto con la Chiesa nazionale, sul carattere estremamente minoritario delle élite in un Paese di analfabeti, sulla repressione del brigantaggio meridionale, e via dicendo. A loro volta, le vicende del Risorgimento e poi dell’età liberale portano Mieli al nodo del fascismo, agli interrogativi sulla sua origine, alle responsabilità individuali. E anche qui non ci vuole molto a scorgere la mano dell’autore. Il quale sceglie di soffermarsi non tanto sull’improvvido estremismo di piazza dei socialisti o sull’incapacità dei partiti democratici di stabilizzare il quadro politico all’indomani del 1919, ma sulla risposta che al fascismo danno i liberali. Di Benedetto Croce, in particolare, Mieli ricorda la benevolenza verso il movimento di Mussolini, l’appoggio al suo governo, il disco verde alla legge Acerbo, il voto di fiducia concesso nel luglio 1924, cioè dopo il delitto Matteotti. Una clamorosa incongruenza con la teoria e i valori liberali che viene spiegata ricordando quanto profondamente quelle élite avvertissero l’urgenza di ristabilire l’autorità dello Stato, allontanando lo spettro della guerra civile. Ma anche con quanta perplessità giudicassero, se non il parlamentarismo tout court, di certo le performance del Parlamento del dopoguerra.
Giudizi troppo severi? C’è in tutto il libro di Mieli una diffidenza più o meno esplicita nei confronti delle élite colte e delle loro scelte politiche. Di volta in volta, quei piccoli gruppi gli sembrano accecati dall’antigiolittismo, come gli uomini di Giustizia e Libertà. Incapaci di scorgere i primi passi di una dittatura, come Gaetano Salvemini o Luigi Einaudi. Nostalgici di mitologiche rivoluzioni tradite, come gli innumerevoli seguaci di destra e di sinistra di Alfredo Oriani. Teorizzatori di un’ambigua «democrazia sostanziale», come Giuseppe Dossetti. Altre volte, costituiscono temibilissime lobby della cultura, come i comunisti della «cellula Einaudi», per dirla con il sarcasmo di Palmiro Togliatti. Degli intellettuali del Pci, Mieli ricorda l’incrollabile disponibilità a seguire il partito anche nei meandri meno gloriosi: sull’invasione dell’Ungheria, la Primavera di Praga, il caso Sinjavskij-Daniel’, eccetera. Talvolta scavalcando lo stesso Pci. Come quando, in occasione della crisi di Cuba del 1962, si schierano dalla parte di Castro e contro Kennedy. «Nazismo atomico», così Carlo Levi definirà la reazione di Kennedy ai missili sovietici.
Esistono eccezioni a un simile quadro? Sì, naturalmente. Fa eccezione, per esempio, Ugo La Malfa, «antifascista per davvero», figlio politico di Giovanni Amendola e Silvio Trentin, ostile all’occupazione clientelare del mercato da parte dei partiti, tenacemente critico di fronte al crescere della spesa pubblica. E, per questo, accusato di essere un ragioniere. «Ragioniere con i fiocchi», commenta Mieli. Ma anche un altro cameo spicca tra le pagine disincantate del caos italiano. Riguarda Marco Pannella, il leader di un partito piccolo che riuscì tuttavia a esercitare un’enorme influenza sull’opinione pubblica e sulle stesse dinamiche politico-parlamentari. Capace di prendere l’onda del Sessantotto, abilissimo nell’uso dei media, Pannella auspicò, in tempi non sospetti e in splendida solitudine, proprio quel modello conflittuale che tutti avevano sempre considerato come una iattura per il Paese e che invece avrebbe potuto cambiare faccia all’Italia delle mediazioni e del consociativismo. Fu un profeta disarmato? Non proprio. Dopotutto, se Romano Prodi è diventato un eroe (della sinistra) per aver sconfitto Berlusconi, Pannella sconfisse la Balena Bianca.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.
Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.
Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.
1. Premessa. La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.
2. La prima falla. Gli organi costituzionali. Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.
3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.
4. La terza falla: la Corte costituzionale. Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:
1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);
2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!
A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.
5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione. Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.
6. Il cosiddetto diritto al lavoro. Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto.
Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità.
Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere.
Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto.
Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.
7. L’effettivo stato di cose. Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello Stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo:
L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo.
8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:
- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;
- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;
- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;
- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”; brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille.
- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.
- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.
- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.
9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato. In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.
UNA COSTITUZIONE CATTO-COMUNISTA.
Le tre anime dell’Italia da cui nacque la Costituzione, scrive il 25 settembre 2016 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". Mentre la Commissione dei 75, il collegio di esponenti dell’Assemblea costituente incaricato di redigere la Costituzione, discuteva sulle possibili composizioni del Senato, sul “Corriere della sera” si svolgeva un dibattito parallelo tra i rappresentanti dei partiti. Uno degli articoli cruciali, pubblicato come fondo del “Nuovo Corriere della sera” del 17 gennaio 1947 fu quello di Tomaso Perassi, eletto delle liste del Partito repubblicano, ma soprattutto docente di diritto internazionale all’università di Roma e segretario della Commissione dei 75. Assieme a un altro giurista di formazione liberale, Meuccio Ruini, presidente della Commissione, Perassi era in quel momento uno dei personaggi chiave della Costituente. Nell’articolo intitolato “Come sarà il Senato”, il professore che sarebbe entrato a far parte nel 1955 della prima Corte costituzionale, spiegava in poche parole che era stata scartata l’ipotesi di fare del Senato una camera in cui fossero rappresentate le diverse professioni e categorie sociali. Il ricordo della corporazioni fasciste era troppo recente, sicché si era stabilito di optare per una semplice rappresentanza su base regionale. Con un terzo dei senatori nominati dalle assemblee delle singole regioni e il resto dai consiglieri dei Comuni (ipotesi troppo macchinosa e quindi scartata) o meglio a suffragio universale. L’idea era che si volesse dare pari dignità alle due Camere, sicché alla fine si optò per una rappresentanza elettiva a suffragio universale in circoscrizioni regionali. L’unica differenza del Senato rispetto alla Camera sarebbe stata l’età per essere eletti (40 anni) e per votare (25) e la composizione (315 senatori contro 630 deputati). Come ha osservato Carlo Ghisalberti nella sua “Storia costituzionale dell’Italia” (Laterza), la Carta fondamentale della Repubblica italiana risente fortemente del suo tempo: dopo un ventennio di dittatura fascista e il ricordo della prepotenza di certi esecutivi anche in età liberale, la priorità era il garantismo delle istituzioni, magari a scapito dell’efficienza. Ne è venuta fuori una Costituzione che nell’equilibrio dei poteri, tra presidente della Repubblica, governo, presidente del Consiglio e parlamento, attribuisce le maggiori prerogative a quest’ultimo.
Una Costituzione figlia del suo tempo e forse proprio per questo una grande Costituzione. Il 2 giugno 1946, quando gli italiani furono chiamati a scegliere tra Monarchia e Repubblica (vinse la Repubblica con oltre il 54 per cento dei suffragi) votarono contemporaneamente anche per eleggere i membri dell’Assemblea costituente. Un’assemblea che, alleggerita della scelta istituzionale e anche della funzione legislativa, temporaneamente attribuita al governo, potè dedicarsi nei 18 mesi successivi alla stesura e all’approvazione della Carta fondamentale dello Stato. I tre maggiori partiti che si affermarono alle elezioni della Costituente del 1946 erano del tutto estranei alla tradizione liberale del Risorgimento. Lo era la Democrazia cristiana, con i suoi 207 deputati e il 35 per cento dei suffragi, il Partito socialista (allora Psiup) con 115 deputati (20,7 per cento) e il Pci con 104 deputati e il 18,9 per cento dei voti. Tuttavia i partiti maggioritari, cattolico e marxisti, non soffocarono le istanze dei partiti di ispirazione liberale, in particolare il gruppo dell’Unione democratica nazionale, con 41 rappresentanti (6,8 per cento), il Pri (23 deputati, 4,4 per cento) e il PdA (7 deputati, 1,5 per cento).
Così la nostra Costituzione repubblicana è un compromesso tra queste tre anime (cattolica, marxista e liberale). Già nell’articolo 1, attribuito a una trovata di Amintore Fanfani, che riuscì a trasformare in “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro” la frase di netta impronta marxista che voleva il nostro Paese “repubblica dei lavoratori”, è visibile il compromesso fra le due anime maggioritarie della Costituente. Ma se si guardano i vari articoli, in alcuni emerge l’impronta cattolica, in altri quella socialcomunista, in altri ancora quella liberale e garantista. Il riconoscimento dei Patti lateranensi, stipulati nel febbraio 1929 tra il Vaticano e lo Stato fascista, venne sancito dall’articolo 7 approvato nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1947 durante una clamorosa votazione che aveva visto schierarsi a favore della Dc e del Vaticano il Partito comunista di Palmiro Togliatti. L’accettazione dei Patti lateranensi da parte dei Pci, maturata anche grazie agli uffizi di monsignor Giuseppe De Luca che fece da tramite diretto tra il Vaticano e Togliatti, venne giudicata di importanza pari alla “svolta di Salerno”, con cui nel 1944 il Pci riconobbe il governo Badoglio. Tuttavia fu un successo del partito cattolico, che impose la sua impronta, come ben riportato anche negli articoli de “Il nuovo Corriere della sera” del 18, 27 e 29 aprile, anche sulle disposizioni riguardanti la famiglia, definita “società naturale fondata sul matrimonio” e in quelle sulla scuola, con la salvaguardia degli istituti di impostazione cattolica. Durante le votazioni degli articoli riguardanti la famiglia, per l’assenza di molti deputati democristiani, i cattolici non riuscirono a inserire il concetto di “indissolubilità” del matrimonio. Una vittoria dei partiti laici che nel 1970 avrebbe favorito l’ter per l’introduzione del divorzio. “Chiara espressione delle esigenze e delle idealità del movimento operaio – ha scritto Ghisalberti – sono, invece, quelle affermazioni di principio e quelle disposizioni che tendono a dare al testo un contenuto sociale avanzato…. La carta italiana del 1948…, imitando le costituzioni europee più recenti” affermava l’intervento dello Stato per la promozioni delle classi più deboli: dal diritto al lavoro alle molte disposizioni tese a superare l’individualismo ottocentesco. L’impronta liberale, infine, si vide soprattutto nell’attenzione alle garanzie e agli equilibri riguardanti i poteri dello Stato, negli articoli sulla libertà di stampa o in quelli sull’indipendenza della magistratura.
La commissione dei 75 lavorò sino al primo febbraio 1947, poi la parola passò all’assemblea. La Costituente, che si era insediata il 25 giugno 1946 e che il 28 aveva eletto Enrico De Nicola capo provvisorio dello Stato, ebbe due proroghe: la prima al 21 giugno 1947, la seconda al 31 dicembre. La Costituzione fu approvata il 22 dicembre 1947, promulgata il successivo 27 dicembre ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Una copia venne affissa in ogni Comune d’Italia. Come ognuno può vedere la nostra Costituzione non ha preamboli. Giorgio La Pira avrebbe voluto in poche righe un riferimento a Dio, sull’esempio della Costituzione americana, ma l’assemblea bocciò la sua proposta. “Il nuovo Corriere della sera del 25 dicembre” a pagina 3 salutò la fine dei lavori dell’assemblea costituente con un articoletto in cui si riportava i versi dal sapore goliardico dell’onorevole Paolo De Michelis: “Si è alla fine – finalmente – del lavoro costituente – con dolore di Colitto che non stette un giorno zitto – e dei vari Condorelli, dei Codacci Pisanelli – e di alcun che addirittura – una piccola pretura – vuole far del Parlamento per suo vano ciarlamento”. Dino Messina
“Fondata sul lavoro”. Il compromesso alla base della nostra Costituzione, scrive il 19 settembre 2017 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". Dei 139 articoli che compongono la Costituzione repubblicana, entrata in vigore il primo gennaio 1948, quasi settant’anni fa, il più controverso è il primo. Intorno all’articolo 1 nei mesi di accesa discussione della prima sottocommissione della Commissione dei 75, incaricata di redigere il testo da presentare all’assemblea costituente, si misurarono le migliori menti politiche e alcuni valenti giuristi dell’epoca. La discussione continuò in sede plenaria fino a giungere alla sintesi che ancora oggi divide e lascia insoddisfatta una parte della cultura politica italiana. Il testo, che ognuno di noi conosce a memoria, è il seguente: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Un testo di una chiarezza e di una concisione esemplari in cui si trovò il compromesso fra le tre culture politiche: la marxista, la cattolica e la liberale. In realtà il compromesso lasciò pienamente (o quasi) soddisfatti comunisti e democristiani, mentre i liberali fecero buon viso a cattiva sorte. Una insoddisfazione la cui eco arriva sino ai giorni nostri, anche sulle colonne del nostro giornale, per esempio negli interventi di Angelo Panebianco e Sergio Romano. In risposta a un lettore che chiedeva lumi, Romano scrisse il 24 ottobre 2012 che nella scelta ideologica dietro l’articolo 1 c’era “più continuità che rottura”. Se la Repubblica era fondata sul lavoro in fondo anche il fascismo all’origine si proponeva come un patto tra produttori. In realtà, sosteneva Romano, “le Costituzioni sono tanto più utili quanto più si concentrano sulle istituzioni, sui loro compiti e sul loro funzionamento. Oggi per di più quell’articolo è diventato involontariamente ironico. Il lavoro continua a essere la migliore misura della dignità di una persona, ma esiste una parte importante della classe politica del Paese che al lavoro preferisce il vitalizio, la sinecura, la poltrona, la tangente, il malaffare, lo scambio di favori e quella pioggia di benefici che molti eletti, per esempio, hanno distribuito a se stessi. Non giova alla credibilità di una Costituzione, ormai invecchiata, cominciare con parole che suscitano nel lettore un amaro sorriso”. Angelo Panebianco in un intervento del 22 marzo 2011 aveva messo l’accento oltre che sul termine lavoro anche sulla parola democrazia. Democrazia e libertà non sono termini equiparabili, la liberaldemocrazia è diversa dalla democrazia socialista, argomentava in sostanza il politologo, rimpiangendo come un atto mancato quello di non aver sostituito il termine libertà al posto del lavoro. A ricondurre nei termini storici e teorici la questione dell’articolo 1, che sarà affrontata il 27 settembre alle 17 anche nell’incontro milanese a Palazzo Marino da Sabino Cassese, Simona Colarizi e Luciano Fontana, c’è un saggio di Nadia Urbinati appena edito da Carocci. Il volume, “Art.1 Costituzione italiana” (pagine 144, euro 13), fa parte di una serie dedicata ai dodici principi fondamentali che introducono la nostra Carta fondamentale. La costruzione dell’articolo 1, cui collaborarono tra gli altri il socialista Lelio Basso, il democristiano Giuseppe Dossetti, il liberale Roberto Lucifero, partì da una proposta del leader comunista Palmiro Togliatti, che voleva fortemente la dizione “Repubblica dei lavoratori”, un chiaro riferimento alle repubbliche socialiste. Dopo gli interventi di Giorgio Amendola, Nilde Iotti, Ruggero Grieco; Renzo Iaconi, Aldo Moro, fu Amintore Fanfani a trovare la sintesi del testo che oggi conosciamo. A esprimere la propria soddisfazione per il compromesso raggiunto furono lo stesso Togliatti e il cattolicissimo Giorgio La Pira, il quale sino all’ultimo giorno della discussione si battè senza successo per inserire un preambolo che certificasse l’ispirazione cristiana della Costituzione. Non meno qualificato e composito era il gruppo degli scontenti, che comprendeva anche esponenti della sinistra. Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione, ironizzò nella seduta del 4 marzo 1947 sull’espressione “fondata sul lavoro”: “Coloro che vivono senza lavorare o vivono alle spalle degli altri saranno ammessi come soggetti politici?”. Chi condusse la più dura (e inutile) battaglia contro l’articolo 1 fu il liberale Roberto Lucifero, che si espresse così sempre nella seduta del 4 marzo: “Di fronte alla Costituzione i cittadini sono cittadini; i lavoratori sono lavoratori in quello che riguarda questa loro particolare attività nella vita sociale, che deve essere tutelata, difesa, protetta…; ma però quando vanno a votare anche i lavoratori vanno a esercitare una funzione di cittadini, non di lavoratori”. Echi di questa polemica sono giunti, come detto, sino ai nostri giorni, per esempio nelle posizioni del Gruppo Milano fondato dal politologo Gianfranco Miglio. Secondo Nadia Urbinati invece dall’espressione “fondata sul lavoro” “emergono un universalismo e un principio di inclusione e di accoglienza le cui potenzialità sono enormi e non sufficientemente sottolineate e apprezzate”. Un articolo, dunque, proiettato nel futuro e ancora oggi fertile. Non un reperto un po’ vetusto, non da riformare ma da tollerare, come ebbe a scrivere Giovanni Sartori. Dino Messina
Articolo 7, lo scandalo dei Patti lateranensi in Costituzione, scrive il 28 settembre 2017 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". L’accoglimento dei Patti lateranensi nella nostra Costituzione fu la pietra dello scandalo non soltanto negli ambienti della sinistra ma anche nel fronte moderato. Con l’approvazione dell’articolo 5 (futuro articolo 7) con 350 voti a favore e 139 contrari nella seduta della Costituente la notte fra il 25 e il 26 marzo 1947, il Vaticano riportò una clamorosa vittoria e vennero poste le basi di quel compromesso fra cattolici e comunisti la cui eco si riverbera sino ai nostri giorni. Il tema della libertà religiosa e dei rapporti con la Santa Sede si era imposto all’attenzione dei Costituenti già dal novembre 1946. Trascurata negli anni della Resistenza, a parte l’opuscolo di Artuto Carlo Jemolo del 1943, “Per la pace religiosa in Italia”, la questione si era fatta incandescente nei primi mesi del 1947. Papa Pio XII seguiva con grande attenzione la discussione e aveva chiesto a padre Giacomo Martegani, il gesuita direttore della “Civiltà cattolica”, di elaborare tre ipotesi di Costituzione: una desiderabile, che prevedeva oltre al riconoscimento del cattolicesimo quale religione di Stato anche un’ipoteca sulla confessione di futuri Capi di Stato, i quali non avrebbero potuto fare dichiarazioni di agnosticismo; una accettabile; e una non accettabile. Naturalmente il testo del think-tank gesuitico rimase a lungo segreto, mentre si svolgeva quasi alla luce del sole il via-vai tra i vari rappresentanti dei partiti e dei maggiorenti politici e il Vaticano. Il leader comunista Palmiro Togliatti, soprattutto nei giorni precedenti la votazione, aveva trovato il mediatore di fiducia in don Giuseppe De Luca, che riferiva a monsignor Giovanni Battista Montini. Giuseppe Dossetti, uno dei “professorini” cattolici che tanta parta ebbe nella redazione della Costituzione e che alla fine riuscì a imporre l’inserimento nella Carta fondamentale dell’articolo 7, per dialogare con la segreteria di Stato si affidava a monsignor Angelo Dell’Acqua. C’era, insomma, un via vai continuo tra le due sponde del Tevere. Un traffico dovuto anche alla crescente rilevanza diplomatica che il Vaticano aveva assunto in quella fase storica che vedeva l’Italia, sconfitta in guerra e isolata, debolissima al tavolo delle trattative di pace. Mentre la Santa Sede tesseva soprattutto con gli Stati Uniti relazioni favorevoli all’Italia. Vale la pena ricordare che anche all’interno della Democrazia cristiana non c’era accordo. Alcide De Gasperi e Mario Scelba, il cui cattolicesimo non faceva velo al loro fermo antifascismo, non credevano per esempio che inserire i Patti lateranensi in Costituzione fosse la soluzione migliore. Era troppo per chi come De Gasperi aveva subito due volte la galera e nel ventennio si era dovuto accontentare di un anonimo posto di bibliotecario in Vaticano, vedere riconosciuto in Costituzione uno dei successi e degli atti firmati personalmente da Benito Mussolini. Alla fine il leader della Dc si adeguò alla scelta della Prima commissione dei 75, dopo che erano abortite anche le proposte di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, e di Palmiro Togliatti. Quest’ultimo aveva proposto la seguente formula: “I rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati in termini concordatari”, mentre De Nicola aveva fatto un passo ulteriore: “I rapporti tra Stato e Chiesa continueranno a essere regolati in termini concordatari”. Nessuna delle due formule piacquero alla segreteria di Stato vaticana, invece favorevole alla formula proposta da Dossetti approvata in quella fatidica notte del 25 marzo, all’1,30: “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Cosicché sino al 1984, quando Bettino Craxi promosse la revisione del Concordato, abbiamo avuto una Costituzione che aveva una enorme contraddizione al suo interno: all’articolo 3 diceva che i cittadini sono uguali davanti alla legge a prescindere dal credo religioso, mentre all’articolo 7, con il rimando al Patti lateranensi, riconosceva il cattolicesimo quale religione di Stato. Una contraddizione evidenziata subito il 20 marzo dal fine giurista Piero Calamandrei, relatore tecnico sulla questione assieme a Giuseppe Dossetti. “Si introducono di soppiatto – disse Calamandrei – norme che sono in urto con altri articoli della Costituzione stessa”. Il riferimento era anche all’articolo 8, che al primo comma recita: “Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”. Da una dichiarazione di Giancarlo Pajetta in quella stessa seduta (“la formula di Cavour, libera Chiesa in libero Stato, non è superata”) sembrava che anche i comunisti fossero contrari alla formula proposta da Dossetti, invece il 25 marzo, tra la costernazione di molti, Palmiro Togliatti dichiarò che in nome della pace religiosa avrebbe votato come De Gasperi. Il capo comunista non voleva lasciare ai democristiani la palma di difensori della pace religiosa. Togliatti, da quel grande stratega che era, aveva in mente il rapporto con le masse cattoliche. Il socialista Pietro Nenni, che come tutti i suoi votò contro, come del resto gli azionisti, i demolaburisti, i repubblicani, parte dei liberali, il giorno dopo annotò con arguzia e lucidità nel suo diario: “E’ cinismo applicato alla politica. Non è il cinismo degli scettici ma di chi ha un obiettivo. E’ la svolta di Salerno che continua, applicata questa volta alla Chiesta e ai cattolici”. Anche tra i comunisti ci fu chi, come il latinista Concetto Marchesi e Teresa Noce, disobbedì agli ordini del capo e votò contro. La cultura laica uscì sconfitta sull’articolo 7. E ciò è testimoniato anche dalle dichiarazioni di alcune grandi personalità del mondo prefascista, come quella resa da Francesco Saverio Nitti, che in nome dei vantaggi politici dell’accordo, dichiarò: “Io, contrario, voterò a favore”. Il Partito liberale aveva lasciato libertà di coscienza ai propri deputati, ma Benedetto Croce, portabandiera e più alto rappresentante del pensiero liberale italiano, coraggioso estensore nel 1925 del Manifesto degli intellettuali antifascisti, tenne a chiarire la sua posizione in una lettera al “Corriere della sera” del 29 marzo. Il filosofo, che aveva potuto partecipare alla votazione per un malessere fisico, volle ricordare agli italiani la sua posizione. Il suo credo laico non aveva mai tentennato, come invece accadde a Nitti. Scrisse Croce: “Io parlai alla Costituente nel modo più chiaro contro l’inserzione dei Patti lateranensi in Costituzione, che stimo una mostruosità giuridica”. Dino Messina
«Pubblica o privata»: il diritto di proprietà nella Costituzione. Nell’articolo 42 c’è un punto di sintesi tra le tre principali tendenze ideologiche che permeavano l’intero ordito costituzionale: il marxismo, il solidarismo cattolico e il liberalismo europeo-continentale. La terza puntata della serie che ripercorre la storia degli articoli più controversi della Carta in vigore dal primo gennaio 1948, scrive l'1 ottobre 2017 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". «La Costituzione italiana», disse Piero Calamandrei nel famoso discorso agli studenti milanesi del 1955, «è figlia della Resistenza». Un’affermazione che risulta tanto più vera quando si analizza il tema della proprietà privata, il quale non compare, come ci si potrebbe aspettare da una Costituzione liberale classica, tra i principi fondamentali, ma viene ampiamente trattato nel Titolo III, dedicato ai diritti economici della prima parte.
La lotta contro i privilegi. Prima di prendere in considerazione gli articoli che definiscono la proprietà privata (non soltanto il 42, ma anche il 41, il 43 e il 44) bisogna accennare al clima politico-sociale dell’immediato dopoguerra in Italia. A guerra finita, nelle regioni industriali del Nord c’era stata l’esperienza dei consigli di gestione, con il congelamento della proprietà di alcune grandi imprese, tra cui lo stesso «Corriere della sera». Una stagione breve, conclusasi nei primi mesi del 1946, che tuttavia aveva lasciato un forte segno nel dibattito ideologico. Ne troviamo traccia nei congressi dei partiti e anche nel dibattito alla Costituente nel 1946-’47. Se era prevedibile che il campione di realismo e capo dei comunisti Palmiro Togliatti al congresso economico che il suo partito tenne nel 1945 tuonasse «non contro il capitalismo», ma «contro forme di rapina e speculazione». E se era nell’ordine delle cose che il socialista Angelo Saraceno promettesse «lotta a oltranza contro ogni privilegio e una conseguente politica di nazionalizzazione dei centri produttivi nei quali si annidano privilegi e monopoli», non ci si aspetterebbe accenti simili da esponenti della Democrazia cristiana (sfiora l’icona blu per leggere l’Extra degli Extra dello Scaffale di Storia curata da Dino Messina).
La Dc contro egoismi e plutocrazieI liberali e la lotta al monopolio. C’è un motivo se il suo leader Alcide De Gasperi, campione di moderazione, definì la Dc un partito di centro che guarda a sinistra. E questo motivo lo si può trovare nella dichiarazione di Guido Gonella a un congresso di partito («Combattiamo gli egoismi e le plutocrazie») o nelle dichiarazioni alla Costituente di Piero Malvestiti sull’articolo 42: «Il divario tra politica ed economia è assurdo: … il sistema economico deve creare le condizioni di possibilità di esercizio della libertà politica; … le prerogative individuali sono illusorie per chi non è in grado di risolvere il problema del pane quotidiano…. La Dc si rifiuta nel modo più pieno e più impegnativo di essere l’estremo baluardo del privilegio economico». Nella Dc, in campo economico, coesistevano posizioni moderate e di radicale apertura sociale come questa appena citata. A completare il quadro c’era la variegata famiglia liberale, la quale andava dal citato Piero Calamandrei, giurista militante nel Partito d’Azione (nella foto sotto), che in campo sociale condivideva molte posizioni delle sinistre marxiste, e la pattuglia dei liberali duri e puri, rappresentata al meglio da Luigi Einaudi, il quale tuttavia aveva tra gli obiettivi politici la lotta al monopolio. Fatte queste premesse, si può citare ora l’articolo 41, che al primo comma recita: «L’iniziativa economica è libera», per aggiungere subito al secondo: «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Al terzo: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Fu perdente la battaglia di Einaudi di fermare l’articolo 41 all’enunciazione del primo comma, poiché riteneva l’intervento dello Stato e il dirigismo eccessivo una intrusione dannosa.
Gli emendamenti della sinistra. Se Einaudi non ebbe partita vinta, furono bloccati due emendamenti di sinistra: il primo di Mario Montagnana e Giancarlo Pajetta diceva: «Lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività produttiva». Il secondo vide contrapposti Giuseppe Dossetti a Lelio Basso, il quale aveva proposto questo emendamento: «Spetta ai pubblici poteri stabilire piani economici nazionali e locali per coordinare le attività attinenti gli investimenti alla produzione, allo scambio e alla distribuzione di beni e servizi». Dopo accese discussioni nella sottocommissione dei 75 e in seduta plenaria, il cuore del compromesso sulla proprietà privata venne trovato nell’articolo 42: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà può essere, nei casi preveduti dalla legge e, salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità».
«Non tutti proletari ma tutti proprietari». L’articolo 42 non è mai stato digerito dai liberali duri e puri come il politico e accademico Antonio Martino, che così lo ha commentato: «L’intero articolo è dedicato a sottolineare che il legislatore costituente certifica la proprietà privata come evitabile fastidio. Nell’elenco dei proprietari del primo comma i privati vengono per ultimi, lo Stato per primo; al secondo comma si pone la proprietà pubblica prima di quella privata; al terzo comma si chiarisce che questo fastidioso residuo del passato viene rapportato solo se accessibile a tutti e tale da svolgere una non meglio precisata “funzione sociale”…». Assieme all’articolo 7, questo riguardante la proprietà è il punto più stonato della nostra Costituzione secondo il pensiero liberale. Tuttavia, se si guardano ai rapporti di forza nell’Assemblea costituente gli enunciati appaiono conseguenti: dei 556 parlamentari, 207 erano democristiani, 115 socialisti, 104 comunisti, i liberali avevano 41 rappresentanti, il Partito d’Azione 7, i repubblicani 2. La componente liberale, di destra e di sinistra, era davvero minoritaria, anche se molto attiva. A loro si deve l’articolo 43 che limita i monopoli, mentre la parte dell’articolo 44 che prevede un aiuto alla piccola e media proprietà rispecchia l’ideologia della Dc riassunta nello slogan «non tutti proletari ma tutti proprietari».
La follia marxista di Orlando: la proprietà non è più un tabù. Il Guardasigilli: codice antimafia ok, tocca i ricchi, scrive Laura Cesaretti, Lunedì 02/10/2017, su "Il Giornale". Il cosiddetto «codice antimafia» è buono, anzi ottimo, perché rompe il «tabù della proprietà privata» e «mette in discussione la ricchezza». E chi lo critica non è un garantista, ma un classista «cultore della proprietà privata». No, a parlare non è un esponente del Partito Marxista-Leninista d'Italia (non è uno scherzo, esiste davvero) ma un dirigente del Pd nonché membro autorevole del governo Gentiloni: Andrea Orlando. Che venerdì, dal palco della convention della sua corrente a Rimini, ha lanciato la piattaforma ideologica di una sorta di neo-comunismo giudiziario, di cui il codice antimafia sarebbe il primo manifesto. Se un provvedimento viene bocciato con parole pesantissime da giuristi di vaglia, costituzionalisti di ogni sponda, magistrati famosi e avvocati di peso, politici di ogni parte e imprenditori, e viene difeso solo da Rosy Bindi e Pietro Grasso, un dubbio - anche piccolino - dovrebbe venirti. Soprattutto se fai di mestiere il ministro della Giustizia. Invece no, ad Orlando di dubbi non ne sono venuti. Anzi: il ministro ha difeso a spada tratta il provvedimento varato dal Parlamento, e proprio nei suoi aspetti più devastanti e contestati, a cominciare dalla possibilità di sequestrare tutti i beni a chi sia semplicemente indagato - non condannato e neppure rinviato a giudizio - per comportamenti corruttivi (e si sa come vanno a finire, dopo lustri, la maggior parte dei processi in questo campo: nel nulla). E lo ha fatto, appunto, con un approccio tutto ideologico di fiero - ancorché un filo datato - stampo anticapitalista. «Il vero punto che ha fatto saltare sulla sedia tanti critici - ha esordito - non riguarda il garantismo, ma la proprietà privata». Diritto che - ancorché tutelato dalla Costituzione - evidentemente non convince il ministro. «Ora sui sequestri (dei beni ai presunti corrotti ndr) tutti dicono questo mette in discussione la certezza della proprietà». Allarme insensato, secondo Orlando: «Io penso, forse anche per il mio retaggio ideologico, che la certezza della proprietà possa essere messa in discussione, quando la proprietà è di dubbia provenienza». Se a un pm viene un dubbio sulla «provenienza» della tua casa o del tuo conto corrente, è dunque legittimo che ti venga (cautelarmente, ovvio) sottratta. E Orlando va all'attacco dei tanti che sono insorti proprio contro questa pericolosissima innovazione giuridica: «Io credo che la vera reazione su questo punto non è sulla tutela delle garanzie, ma sul tabù della proprietà privata. Perché secondo loro la proprietà privata, se è diventata in qualche modo presentabile, nessuno si deve permettere di metterla in discussione. Questa è una logica che appartiene alle classi dirigenti di questo paese, che non hanno interesse a vedere da dove arrivano i soldi ma solo al fatto che i soldi girino». La ricchezza, aggiunge, «va giustamente messa in discussione se sproporzionata, e a maggior ragione se di provenienza dubbia». Quindi, taglia corto Orlando, chi critica la legge «non è garantista, ma cultore della sacralità della proprietà privata». E il codice antimafia è il nuovo Libretto Rosso, affidato ai pm per ripristinare la giustizia sociale.
La Sinistra è morta. Suicida, scrive Nino Spirlì, Giovedì 28 settembre 2017, su "Il Giornale. Accade. Accade quando perdi di credibilità. Quando le tue denunce da farsa, pronunciate a voce stentorea e ferma, risultano essere delle fanfaronate da saltimbanco. Quando il tuo elisir di lunga vita, alle analisi, risulta essere meno che piscio di gallo. Accade quando dai del fascista, pensando di offendere, e poi ti comporti da nazista, sapendo di esserlo. Accade quando per costruire una verità di carta, pensi di poter nascondere con un ditino la montagna della verità di granito. Accade quando vai a casa del dio della comunicazione e pensi di metterlo nel sacco con grottesche scivolate sulla parete di specchio (magari anche oliata), raccontando di te e dei tuoi improbabili successi. Accade quando tenti di riempirti le tasche di danaro giustificandoti come farebbe il bambinello con la bocca sporca di Nutella davanti allo sportello del frigo. Accade quando sei massomafioso. Accade quando, in campagna elettorale, ti porti appresso gli sgherri delle peggiori ‘ndrine e ti riempi la bocca di antimafia e legalità. Accade quando cerchi di privatizzare a tuo guadagno l’acqua pubblica; quando ti ingrassi con l’accoglienza dei clandestini; quando ti organizzi per farti appaltare la raccolta della monnezza; quando amministri la cosa pubblica come fosse roba tua. Accade quando ti senti più tutelato degli altri davanti alla Legge, se la legge è rappresentata da qualche amichetto tuo. Accade quando ti senti superiore a Dio e ai Santi e pensi di governarne anche le processioni con inchini e carnevalate. Accade. Sì, accade…Ecco, la sinistra Sinistra, quella italiana, quella che all’anagrafe risulta essere figlia della defunta demoNcrazia cristiana e di qualche figlio spurio dell’incenerito PCI, è morta così. Con le mani in pasta. Ovunque. La gente non le crede più e si sparpaglia. Si allontana dal paese dei balocchi, da lucignolo e pinocchio e cerca lidi più sicuri. Magari non immacolati, ma certamente meno prostituiti. Di questo decesso, ne avremo conferma nelle prossime tornate elettorali. Intanto, recitiamo un requiem, mentre, inascoltata, lei ulula il proprio De Profundis…fra me e me.
IL PAESE DELLE BANANE ED IL REFERENDUM DA PRESA PER IL CULO.
Rieccoci: siamo il Paese delle Banane, scrive Carlo Fusi il 17 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". I leader politici invece di confrontarsi sulle ricette per portare l’Italia fuori dai guai, si accapigliano in una campagna elettorale da pifferai. Berlusconi promette ai pensionati dentiere e cinema gratis; Renzi ripropone l’eterno self-portrait: il premier sono io; Di Maio chiede l’intervento dell’Ocse per le elezioni in Sicilia. La campagna elettorale è appena cominciata e si ripropone l’immagine dell’Italia Paese delle Banane. I leader politici invece di ricette per tirare fuori il Paese si dilettano nei panni di magici Pifferai. Al via la campagna elettorale: riecco il Paese delle banane. Nel week end appena trascorso, dal punto di vista dei fatti politici sono accadute le seguenti cose: l’assicurazione fornita da Matteo Renzi che il candidato premier del Pd e del centrosinistra comunque articolato sarà lui punto e basta; l’avvertimento da parte di Silvio Berlusconi – tra un omaggio e l’altro all’uso del bidet – che o il centrodestra avrà la maggioranza alle elezioni oppure lui si ritirerà «perché vorrebbe dire che gli italiani non sanno giudicare» ; l’invettiva ( con annessa bestemmia sul blog, poi rimossa) di Beppe Grillo contro «i due imbroglioni» che hanno fatto la riforma elettorale: appunto Matteo e Silvio, peraltro mai citati per nome. Mentre Salvini, invece citato, «fa più schifo di entrambi». Potrebbe anche bastare. Ma è impossibile non sottolineare il recente nominato “capo politico” dei Cinquestelle, Luigi Di Maio, che invoca osservatori Osce nelle elezioni siciliane per timori di brogli. Ce n’è abbastanza per riprovare la consueta e sconsolante certezza di una campagna elettorale che è appena cominciata (?) e inesorabilmente ripropone l’immagine del- l’Italia come Repubblica delle Banane. Per capirci. Il Parlamento è alle prese con una riforma elettorale a metà del guado che dovrebbe aiutare la governabilità e che al contrario in tanti assicurano lascerà intatto il rischio ingovernabilità. Il governo ha dato via libera alla legge di Stabilità usando però la formula “salvo intese”. Vuol dire che il testo ufficiale del provvedimento non c’è e arriverà solo in un secondo momento: quando saranno state trovate le coperture economiche che tuttora mancano, insomma. Ciò nonostante, il titolare dell’Economia assicura che le risorse «sono poche ma ben indirizzate». Nel frattempo la Ue, riservatamente ma con forza, insiste a chiedere misure serie e credibili per diminuire il mostruoso debito pubblico: lo stesso che il ministro Padoan, ormai da anni, assicura che scenderà. Testardo, è in crescita continua e al momento ha toccato la quota record di oltre 2.260 miliardi di euro. Esaminando le cifre della manovra contenute nella Nota di aggiustamento al Def, l’Ufficio parlamentare di bilancio giudica «poco prudenziali» le stime di palazzo Chigi e Mef per il 2019 e 2020. Significa che, una volta chiuse le urne politiche del prossimo marzo, all’incertezza politica si sommerà la bomba ad orologeria economica che si sta allestendo. Problemi? Niente affatto: niente «lacrime e sangue» taglia corto il premier Gentiloni; e chi vivrà, vedrà. Si potrebbe proseguire, ma il quadro è sufficientemente chiaro. Per chi ama i paradossi: chiaro di riflessi oscuri. In sostanza il Paese è seduto su un vulcano e la coesione sociale si frantuma; lo sanno tutti, lo dicono tutti. Pur tuttavia i leader politici invece di accapigliarsi, ovvio, ma sulle ricette per portare fuori gli italiani dai guai nei quali si trovano, tranquillamente disputano a colpi di inattendibilità. Berlusconi ripropone sé stesso nel rifacimento del “ghe pensi mi” e promette sconti sui cinema e teatri agli anziani; pensioni minime a mille euro, dentiere e protesi gratis naturalmente senza specificare dove troverà le risorse. Renzi ha già spiegato nel suo libro Avanti che intende mettere il veto se la Ue non allargherà i cordoni della borsa. Tralasciando che quei cordoni sono già larghi: vedi flessibilità fin qui concessa ma che l’abolizione del Fiscal compact farebbe saltare con un aggravio di una trentina di miliardi di nuove tasse. Grillo non propone niente: i vaffa li ha spesi tutti, ora tocca a Di Maio. L’ex comico si limita a favorire l’abbraccio tra due signore notoriamente in dissenso: il sindaco di Roma Virginia Raggi e la candidata pentastellata alla regione Lazio, Roberta Lombardi. Il presente e il futuro dell’offerta politica grillina: c’è chi sente brividi correre per la schiena. Abbiamo parlato di inizio di campagna elettorale ma sappiamo bene che da noi quel periodo è ultra dilatato e dura un’intera legislatura. Adesso è forse arrivato il momento di fare uno stop. Di aggiustare il tiro. Di mettere la mordacchia alla demagogia. In Europa (vedi risultati elettorali austriaci) e nel mondo soffiano preoccupanti venti di insofferenza alimentati da paure che saranno pure irrazionali ma che attecchiscono su settori crescenti di opinione pubblica. Rilanciarli preparerebbe il peggio. Come pure seguire i tanti pifferai che indicano il paese di Bengodi, la terra di creduloni descritta da Boccaccio, dove c’era «una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli». Un incubo.
Così Grillo e Bossi hanno anticipato l'Europa di oggi. In Francia, Spagna e Germania le vecchie famiglie politiche vanno in crisi. È già accaduto. Con Lega e M5S.Il territorio senza politica di Bossi, scrive Marco Damilano l'11 ottobre 2017 su "L'Espresso". Secessionismo addio, ha intonato il capo leghista Matteo Salvini all’indomani del referendum catalano. Quando il 22 ottobre si voterà in Lombardia e Veneto «per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori e particolari forme di autonomia», come si legge nel quesito, il referendum avverrà «nel quadro dell’unità nazionale» e ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione. Due notazioni che servono a rendere costituzionale un voto puramente consultivo. Così, nell’ottobre della rivoluzione di Barcellona, la Lega costruisce la richiesta ai cittadini lombardi e veneti di più autonomia nel modo più moderato, senza strappi costituzionali, senza lo “sbrego” della Carta che tanti anni fa invocava il politologo Gianfranco Miglio. Da tempo, in effetti, la Lega non parla più di Padania, autodeterminazione dei popoli, secessione, macro-regioni, devolution alla scozzese e modello catalano, che negli anni Novanta suonava come versione soft dell’autonomismo hard. Forse perché quella bandiera è in mano al fondatore - oggi nemico di Salvini - Umberto Bossi, l’uomo della marcia del Po. Forse perché il nuovo vento separatista sorprende la Lega al momento di compiere il passaggio opposto, da Lega nord a Lega Italia, da partito del settentrione a movimento nazionale. Da partito che vorrebbe il Nord con la parte forte dell’Europa a formazione che vuole l’Italia fuori dall’euro. O forse perché, e non ce ne siamo neppure accorti, in Italia lo sbrego è già avvenuto. Da tempo. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, i “trenta gloriosi”, i trent’anni in cui le società europee sono cresciute a ritmi da capogiro (industrializzazione, piena occupazione, Stato sociale, benessere diffuso), era lo Stato nazionale a costituire lo spazio delle politiche pubbliche che favorivano e accompagnavano il miracolo economico. Mentre la mediazione tra le istituzioni centrali e la società in cambiamento era svolta da una rete di soggetti, i mitici corpi intermedi: sindacati, associazioni di categoria, cooperative. E, più di tutti, i partiti. Toccava a loro, i grandi partiti nazionali di massa, mettere in collegamento i cittadini con lo Stato, portare le masse nel cuore delle istituzioni, come si diceva all’epoca. Succedeva così in tutta Europa, nell’Inghilterra laburista e nella Germania della socialdemocrazia e del modello renano cattolico e democristiano, l’economia sociale di mercato. E così, ancor di più, nell’Italia della Repubblica dei partiti. Dove la giovane unità nazionale (solo nel 2011 sono stati celebrati i 150 anni dello Stato unitario), lo sviluppo del sistema industriale e delle infrastrutture produttive garantito dai grandi enti pubblici, l’Iri e l’Eni, la pedagogia civica delle masse affidata alla scuola dell’obbligo e alla televisione di Stato (la Rai), avevano consegnato al sistema dei partiti che tutto questo controllava in modo diretto il potere e il ruolo di rappresentare lo Stato presso i cittadini. Diffusi, onnipresenti, capillari. Una sezione in ogni comune, con i suoi organi direttivi, i partiti erano il vero ufficio di collegamento sul territorio tra lo Stato centrale e le periferie, tra Roma e la base. «La sezione Dc di Casalserugo ha aperto un ufficio di assistenza in via Umberto I n. 7, tutti i giorni, escluso il sabato, dalle 18 alle 19.30. Tutti i cittadini possono usufruire di questo servizio», avvisava un volantino della Dc che in Veneto negli anni Settanta superava stabilmente il 50 per cento dei voti. Chiedete e vi sarà dato. Invasivi, soffocanti. Banche, istituti di credito, casse rurali, concessionarie, autostrade e acquedotti, enti di bonifica. Cura del collegio, lettere di raccomandazione, clientele. Tutto era controllato in modo ferreo dai partiti. Il consenso era la moneta di scambio rispetto alla capacità di soluzione dei problemi. Ma anche la dimostrazione che i partiti di massa, non solo quelli governativi egemonizzati dall’eterna Democrazia cristiana, sapevano ascoltare le istanze dei cittadini, anche quelli più lontani dai centri del potere, e riportarli verso su, nel cuore dello Stato centrale, fino a Roma. Anche nel resto d’Europa funzionava così. I deputati di collegio inglesi. I notabili francesi che continuavano a essere sindaci dei loro piccoli comuni anche quando arrivavano agli incarichi ministeriali. Le classi dirigenti dei Länder tedeschi che salivano fino al vertice del sistema federale. E, sempre, in ogni caso, i partiti con le loro strutture elefantiache a far da camera di compensazione, a evitare che gli interessi particolari disgregassero il corpaccione statale anziché assicurarne il funzionamento. Erano i partiti la mano visibile dell’assistenza e dell’intervento pubblico, alternativa alla mano invisibile del mercato. È stato così nei gloriosi trent’anni. E nel resto d’Europa il sistema dei grandi partiti nazionali è sembrato reggere ancora a lungo anche dopo la recessione degli anni Settanta e la caduta del muro di Berlino. Oggi è in crisi ovunque. L’ultimo paese in cui è venuto giù, una settimana fa, è stata la Germania dei partiti-Stato, delle grandi fondazioni che costituiscono il motore di Cdu-Csu e di Spd. All’epoca della prima Grosse Koalition, nel 1966 con il cancelliere democristiano Kurt Kiesinger, i due partiti avevano raccolto il 90 per cento dei voti e sommavano nel Bundestag 447 seggi su 496, nel 2005 il 70 per cento e 448 su 614, nel 2013 il 66 per cento e 504 seggi su 631, dal voto del 24 settembre escono entrambi al minimo storico e insieme fanno appena il 53 per cento dei voti. In Francia, alle presidenziali di maggio, i socialisti sono usciti quasi azzerati e i repubblicani eredi del gollismo fuori dal ballottaggio, al loro posto brilla la stella di Emmanuel Macron, un senza partito. La Spagna, fino a due anni fa considerato il sistema politico più stabile d’Europa, quattro premier in quarant’anni di democrazia in alternanza tra destra e sinistra (Felipe González, José Maria Aznar, José Luis Zapatero, Mariano Rajoy), la formula perfetta, è alle prese al centro con la fragilità dei partiti (due elezioni politiche in sei mesi tra il 2015 e il 2016, un governo di minoranza) e nelle regioni con la rivoluzione territoriale della Catalogna, dove governa una strana coalizione centro destra-estrema sinistra tenuta insieme dalla bandiera dell’indipendenza, che potrebbe riaccendere altri separatismi, a partire dai paesi baschi su cui lo scrittore Fernando Aramburu ha scritto il suo capolavoro “Patria” (appena pubblicato da Guanda). La crisi degli Stati-nazione, l’impossibilità degli Stati di rispondere alle richieste di società divenute più ricche ma anche più esigenti e a rischio impoverimento, coincide in tutta Europa con la crisi dei partiti nazionali. Sostituiti da due nuove creature che l’Italia ha anticipato da decenni e poi esportato. Il territorio senza politica. E l’anti-politica senza territorio. Il territorio senza politica è stato anticipato dalla Lega Nord di Bossi che si chiama così dal 1989, anno non casuale, ed è ormai il più antico partito italiano. Alle elezioni europee dell’89 aveva conquistato in Lombardia l’8,9 per cento dei voti. L’anno dopo, alle regionali del 1990, aveva raggiunto il 18,6 per cento, con oltre un milione e 183mila voti, secondo partito della regione più ricca d’Italia dopo la Dc: vent’anni dopo, nel 2010, con la Lega partito cardine del governo e alla conquista delle regioni del Nord i voti assoluti saranno meno, un milione e 117mila. È il territorio che si organizza senza ideologie politiche, senza identità di destra e di sinistra, «una forza trasversale e interclassista», la definisce all’epoca il sociologo Giancarlo Rovati, tenuta insieme dal protagonismo del Nord e dalla rivolta contro Roma ladrona: fiscale, sociale, politica. La Lega è di destra quando parla di immigrati e di sinistra quando si atteggia a erede della Resistenza contro la «porcilaia fascista» alleata con Silvio Berlusconi. La Lega è il territorio pronto ad allearsi con chiunque per difendere gli interessi del Nord: è questa la sua politica. È poi arrivata, più di recente, l’anti-politica senza territorio. Il boom elettorale del Movimento 5 Stelle nel 2013 è il trionfo di una formazione eterea, di organizzazione virtuale, che nelle elezioni politiche del 25 febbraio raccoglie un quarto dei voti e arriva primo in cinquanta province e in undici regioni, da Trapani e Ragusa alla Lombardia forza-leghista o nelle Marche governate dal Pd. Un «partito senza territorio», l’ha definito Ilvo Diamanti, senza radici e senza culture politiche alle spalle, nato sull’onda della rivolta, il vaffa contro la politica tradizionale. In entrambi i casi, Lega e M5S, nel 1992-93 e nel 2013, a uscire sconfitti sono stati i partiti nazionali, organizzati sul territorio sulla base di identità politiche riconoscibili (il cattolicesimo democratico, il socialismo, il comunismo, la cultura laica liberale o repubblicana, la destra post-fascista), sostituiti da partiti come Forza Italia o Alleanza nazionale che mettevano il riferimento alla nazione o alla patria nel nome all’inizio degli anni Novanta, proprio quando il ruolo dello Stato-nazione si andava perdendo. E dunque c’è da chiedersi, ancora una volta, se l’Italia non abbia anticipato di anni i fenomeni che ora sconvolgono il panorama politico europeo: i partiti delle piccole patrie regionali, come quelli catalani, le formazioni senza passato alle spalle tenute insieme sulla rivolta contro il sistema come l’Afd in Germania. Mentre la sinistra di origine socialista e socialdemocratica, nata alla fine dell’Ottocento sulla spinta internazionalista e diventata nella seconda metà del Novecento il motore della nuova Europa fino a governare negli anni Novanta quindici paesi su 17 nell’Unione europea, risulta la famiglia politica più in crisi, perché la più legata allo spazio delle politiche pubbliche nazionali. Sempre più angusto e ridotto, destinato a essere spazzato via dalla doppia rivolta, dei territori e dell’anti-politica. Tentati da una santa alleanza contro l’Europa. Per questo, in Italia, il governo M5S-Lega, Di Maio-Salvini, che per ora è pura fantapolitica, potrebbe ritrovarsi tra qualche mese come l’ennesimo prodotto del laboratorio italiano destinato a fare scuola nel resto dell’Europa, con la storia e la geografia impazzite.
Secessione è una parola per ricchi. Il caso catalano rilancia i sogni separatisti delle regioni più floride del Vecchio Continente. Che vogliono staccarsi dallo Stato. Non dall’Europa, scrive il 2 ottobre 2015 Gigi Riva su “L’Espresso”. L'unico precedente giuridico a cui si può fare riferimento è l’arbitrato della Commissione Badinter, dal nome dell’allora presidente della Corte Costituzionale francese. La Comunità economica europea (non era ancora Unione europea) chiese, nel 1991, a un gruppo di esperti un parere non vincolante sulla secessione delle Repubbliche jugoslave. Oltre a una Costituzione che prevedesse la tutela dei diritti delle minoranze, la Commissione raccomandò il ricorso a un referendum. In Croazia e Slovenia si era già tenuto. In Bosnia Erzegovina no. Le autorità di Sarajevo lo promossero, vinse il sì, la Bosnia fu riconosciuta internazionalmente. E scoppiò la guerra. Benché quel vecchio arbitrato spostasse nei fatti il criterio sino ad allora accettato dell’inviolabilità delle frontiere verso il principio dell’autodeterminazione dei popoli, il paragone con la Catalogna di oggi, dal punto di vista legale, è indicativo ma zoppo. La Jugoslavia era una Federazione, la Spagna un Regno diviso in 17 comunità autonome. Madrid sostiene che un referendum indipendentista è anticostituzionale, Barcellona il contrario. Ma il “latinorum” da Azzeccagarbugli è un buon esercizio di scuola per studenti di diritto. La prassi delle separazioni dimostra quanto, davanti all’inerzia della Storia, valgano poco i principi giuridici, spesso siano anzi spudoratamente calpestati. O usati come foglia di fico per legittimare a posteriori una prova di forza. Non è stato forse il caso della Crimea tornata sotto Putin? Ai margini dell’Unione europea i confini si sono cambiati nel sangue. Balcani, Ucraina. Solo la Cecoslovacchia è l’esempio di un cammino ordinato e condiviso. Dentro l’Unione si assiste a un paradosso in realtà tale sono in apparenza. La presenza della forza centripeta di Bruxelles, un’entità sovranazionale, stimola per opposto una forza centrifuga, il riemergere dei localismi, in opposizione a un potere statale centrale vissuto con fastidio e come un raddoppio di delega. I più visionari tra i padri fondatori avevano del resto immaginato, alla fine di un percorso maturo, l’Europa delle regioni come alternativa all’Europa degli Stati: le radici lunghe di troppe diversità avrebbero finito col vincere su costruzioni ideali però arbitrarie al punto da scadere in mere espressioni geografiche. La guerra fredda aveva sconsigliato avventurismi perché aveva creato identità nell’opposizione al modello “altro”. Negli anni immediatamente successivi alla caduta del muro di Berlino, quando si credeva di andare verso un “nuovo ordine” e verso la pace perpetua kantiana, erano riemerse istanze poi temporaneamente congelate dalla crisi economica che ha ribaltato l’agenda nel nome della comune emergenza. Ci si era illusi che la vague secessionista fosse passata. Era stata solo messa tra parentesi. La Catalogna rischia adesso di essere esempio per rivendicazioni in sonno. Un indipendentismo dei ricchi stanchi di “mantenere aree più povere”, è il minimo comune denominatore nel Vecchio Continente (già fu lo slogan programmatico di Slovenia e Croazia). È il caso dei catalani come dei fiamminghi in Belgio, degli scozzesi che però devono rifare i conti sui proventi del petrolio ora che il prezzo del greggio è in picchiata. Della stessa Lega Nord, riconvertita in “nazionale” ma col retropensiero separatista che resiste nella base e non è stato abbandonato dal vertice se Matteo Salvini, pur temendo di toccare un tema troppo delicato, invoca i «piccoli passi» per ottenere pragmaticamente «ciò che è possibile». La Catalogna fa da battistrada ed era logico attenderselo da una regione che già nel 1992, all’epoca delle sue Olimpiadi, era riuscita ad ottenere che il suo idioma fosse considerato lingua ufficiale dei Giochi accanto a francese, inglese e castigliano (spagnolo): non era mai successo. Influì sul privilegio il fatto che il catalano Juan Antonio Samaranch fosse presidente del Comitato olimpico internazionale. La lingua, la maggiore ricchezza rispetto al resto della Spagna, una vena anarchico-repubblicana che mal si sposa col re di Madrid sono gli ingredienti peraltro insufficienti per il passo estremo. Ci vuole, al minimo, un referendum dall’esito incerto che spaccherà, facile pronostico, la comunità. L’Unione ha da preoccuparsi da un lato. Dall’altro può vedere il bicchiere mezzo pieno. Perché la stragrande maggioranza della gente che a Barcellona vuole il divorzio dalla capitale, per nessuna ragione lascerebbe Bruxelles e la garanzia di far parte di un consesso più largo. I secessionisti ricchi di euro e di Europa hanno bisogno.
Il referendum lombardo non è solo inutile, è anche ingiusto, scrive Stefano Colombo l'11 ottobre 2017. Operazione di facciata per scaldare i cuori dell’elettorato leghista tradizionale, il referendum potrebbe essere una cattiva idea sotto tutti i punti di vista. Sono passati ormai quattro mesi da quel 29 maggio in cui Roberto Maroni ha annunciato che il 22 ottobre si sarebbe tenuto un referendum sull’autonomia lombarda. Il governatore leghista stava architettando la consultazione da più di due anni – il consiglio regionale lombardo aveva già dato il via libera nel febbraio del 2015 – ma ha dato l’annuncio ufficiale soltanto questa primavera, in una giornata esoterica: la Festa della Lombardia, una ricorrenza istituita da lui stesso per ricordare la Battaglia di Legnano. Questo il quesito a cui saranno chiamati a rispondere i cittadini: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”
Un quesito piuttosto fumoso, che non indica di preciso cosa si intenda con “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” — e che risulta buffo e culinario quando prende in considerazione “la sua specialità.” Ma non è un problema, perché questo referendum in realtà non intende ottenere davvero qualcosa: è stato pensato per scaldare i cuori leghisti e fare un po’ di propaganda per il governatore al termine del suo mandato. Il governo aveva già dato disponibilità a trattare con la regione per venire incontro ad alcune delle richieste del Palazzo Lombardia, rendendo inutile il referendum. In realtà, essendo puramente consultivo e non vincolante, sarebbe stato inutile anche se il governo avesse ignorato le lamentele di Maroni— ma la propaganda viene prima di tutto. Com’è noto infatti l’autonomismo è sempre stato uno dei cavalli di battaglia della Lega Nord — il motivo stesso per cui la Lega è nata, forse. Specie nei primi tempi, la parola secesiùn era stampata nel programma e soprattutto nei cuori dei militanti. Col passare del tempo però — con il consolidarsi dell’amicizia con Berlusconi, l’istituzionalizzazione del movimento e l’ingresso al governo — le spinte indipendentiste si sono annacquate in rivendicazioni più blande: la richiesta di maggiore autonomia per le istituzioni locali, la devolution, la macroregione, eccetera. Negli ultimi tre anni, il segretario Salvini ha cercato di tenere insieme l’identità nordista col tentativo di fondare un partito populista di destra a base nazionale — mandando su tutte le furie il fondatore Bossi. Salvini, ovviamente, è entusiasta del referendum. Sa bene che non può scontentare la propria base polentona: nonostante le velleità nazionaliste infatti il suo partito è ancora radicato quasi esclusivamente al Nord, dove governa due regioni importantissime — Lombardia e Veneto. Tra lui e Maroni non scorre buonissimo sangue, ma senza dubbio la Lega arriverà al doppio referendum entusiasta e unita: lo stesso giorno, infatti, si terrà un referendum analogo in Veneto. Alcune fonti informate sulle dinamiche leghiste ci hanno riferito che i piani alti della Lega hanno paura che la partecipazione al referendum si riveli un flop, nonostante il chiacchiericcio pubblico diffuso intorno ad esso dopo i risultati esplosivi del referendum catalano. Ma questo referendum, se non si è leghisti, ha senso? Nessun esponente di spicco della politica lombarda si era espresso contro l’idea di una maggior autonomia della propria regione. Le critiche arrivate dall’opposizione, soprattutto quella del PD, che in Consiglio regionale è la principale formazione di minoranza, si concentrano tutte sul fatto che il referendum sarà un salasso non necessario per le casse lombarde. La consultazione infatti verrà a costare complessivamente 48 milioni di euro — di cui addirittura 23 per l’acquisto dei tablet su cui si voterà e 3 milioni per la propaganda di dubbio gusto promossa dalla Regione stessa, particolarmente martellante soprattutto nel capoluogo.
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è esposto fino a dichiarare quanto segue: “Io consiglierò di votare positivamente. Questo non è un tema che appartiene alla Lega ma un po’ a tutti, e su cui il governo ha dato chiare aperture: a mio parere è un tema giusto. Ma il referendum è assolutamente inutile.” Altri personaggi di spicco come Maurizio Martina, il nuovo migliore amico di Renzi che proviene dalla bergamasca, o il segretario regionale del PD Alessandro Alfieri, hanno tutti mosso critiche su questa linea. Addirittura, a fine giugno si era costituito un comitato per il sì tra i sindaci dei capoluoghi lombardi controllati dal PD: Varese, Bergamo, Milano, Brescia, Mantova, Cremona e Sondrio — unico assente il sindaco PD di Pavia Depaoli. In particolare il sì è sostenuto dal primo cittadino bergamasco Giorgio Gori, probabile candidato di centrosinistra alle prossime consultazioni regionali. Quello che fa gola agli amministratori locali di ogni colore e dimensione – in modo magari comprensibile, dal loro punto di vista – è la possibilità che il governo conceda alla Regione Lombardia di tenere per sé una percentuale maggiore delle tasse versate allo stato dai propri cittadini. Oggi il residuo fiscale lombardo ammonta a 53 milioni di euro, e tutti sperano di poterlo ridurre per dare un po’ di respiro, ad esempio, alle casse dei comuni. Noi siamo già indipendenti, ma per rimanere tali abbiamo bisogno del vostro aiuto: sta per finire la campagna crowdfunding su Produzioni dal basso, se ti piace il nostro lavoro prendi in considerazione l’idea di donarci 5 euro. È il momento però di far notare anche che più competenze non significa necessariamente più soldi. Facciamo un esempio assurdo: ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, lo stato centrale decide di trasferire alla regione la gestione dell’istruzione pubblica. I soldi che verranno girati dallo stato alla regione per gestire la sua nuova competenza – perché in ogni caso i soldi delle tasse passeranno da Roma che provvederà a farli ritornare sul territorio – saranno la stessa quantità di quanto era lo stato a gestire direttamente la materia. In altre parole: l’unica differenza potrebbe essere che sulla busta paga degli insegnanti ci sia solo un cambio di mittente, non di cifre.
Nonostante sia quantomeno discutibile che al PD convenga appoggiare anche solo in modo ambiguo una mozione così caratterizzante dei suoi principali avversari regionali, il punto di vista degli amministratori locali può essere anche comprensibile. Però, pur essendo le cariche pubbliche più numerose e vicine ai cittadini rispetto a quelle statali, gli amministratori locali non hanno necessariamente ragione. Siamo sicuri che l’aumento di potere delle istituzioni locali, in particolare delle regioni, sia anche a livello concettuale una buona cosa? Negli ultimi venticinque anni il discorso politico italiano ha visto crescere una vena di ostilità verso lo stato centrale, visto come un vampiro gestito da politici incapaci e parassiti. Questo non vuol dire, però, che dare più poteri alle regioni sia necessariamente una buona soluzione al malgoverno centrale. In particolare, in Lombardia e altrove, alcuni tra i maggiori scandali politici degli ultimi anni hanno coinvolto figure – anche di spicco – della politica locale e regionale. Un esempio lampante è il caso dell’ex Presidente della Regione Roberto Formigoni, più volte incriminato per intrallazzi vari, soprattutto nel settore della sanità: che a sentire il centrodestra è il fiore all’occhiello dell’amministrazione regionale, la testimonianza che il decentramento funziona. Forse non è proprio così. Solo un anno e mezzo fa è stato arrestato Mario Mantovani, vicepresidente della Regione e braccio destro di Maroni, con una lunga serie di accuse di corruzione.
Anche nel probabile caso in cui – tramite referendum o trattative dirette col governo – il governatore riuscisse ad ottenere una maggiore autonomia in qualche campo come l’istruzione, i trasporti o la sanità, c’è da chiedersi come verrebbero gestiti questo potere e queste risorse. Cosa ci si può aspettare da questa amministrazione regionale? Un finanziamento per un nuovo telefono omofobo? Qualche scritta sul Pirellone inneggiante alla famiglia tradizionale più di una volta ogni due mesi? Inoltre, anche se la nostra regione fosse governata dalla giunta più virtuosa possibile, è discutibile che fomentare e incentivare i piccoli campanilismi sia una buona idea. Quando si fa parte di una comunità è giusto versare il proprio contributo perché venga redistribuito. Anzi, soprattutto se si fa parte dello stato italiano, che è uno dei paesi con la più drammatica disparità di sviluppo economico e sociale al suo interno. Basta guardare questa cartina per rendersi conto che la questione meridionale, centocinquant’anni dopo la supposta unità d’Italia, è ancora il nostro problema numero uno di questo paese — nonostante non sia nemmeno tra i primi dieci argomenti più discussi dai nostri politici. Anziché consentire ai più ricchi di tenersi più soldi, si potrebbero usare le famose risorse che le amministrazioni locali vorrebbero per sé in un programma serio di investimenti pubblici per la crescita, non assistenzialista, del mezzogiorno. Il divario Nord-Sud è già enorme, allargarlo non è una buona idea.
Votare Sì al referendum lombardo per non pagare più dazio a Roma, scrive il 4 Ottobre 2017 Luigi Amicone su "Tempi". Una Italian California che non ci vede più nessuno in Europa. Faremo ripartire il lavoro da Trapani a Gorizia, valorizzando le risorse in loco. Questa mattina, 4 ottobre di san Francesco patrono dell’Italia, mi sento molto buono perché sono quasi arrivato all’età della ragione (ho sfondato i 60) e perciò non voglio litigare con quella pierina della Meloni che sfrutta il referendum all’hashish della Catalogna per picconare quello di Lombardia. Altro mondo il 22 ottobre autonomista lombardo dal primo ottobre bolscevico di Barcellona. Per altro, data storica al servizio di una vera Italia unita. Un sogno? Sì. Ma bellissimo quando andremo a comandare noi. E che detto molto in soldoni si sintetizza in questo: il sogno del taglio della mano morta di Roma. Padrino senza un Marlon Brando che ci taglieggia e digerisce nel nulla le risorse da sud a nord. Ma se ci mettiamo d’accordo noi, regioni del nord e del sud, bypassando l’artiglio parassitario dei palazzi del dazio romano, vedrete che ci rifacciamo un Paese federalista e solidale. Una Italian California che non ci vede più nessuno in Europa. Faremo ripartire il lavoro da Trapani a Gorizia, valorizzando le risorse in loco. E a quelli che prendono lo stipendio e le pensioni dorate per controllare i controllori del controllo di chi lavora e paga le tasse per farci il buco miliardario di tutti gli enti locali e statali romani tenuti nella famosa “legalità” dello status quo dell’unità ottocentesca trombona e magna magna del sudore e sangue del popolo, da paparazzi trasformisti e polverose Corti e azzeccagarbugli di Stato. Ma non voglio farmi subito querelare per “attentato” all’Unità dello Stato. Che L’Unità è già fallita da un pezzo. E lo Stato, il nostro Stato colabrodo, è ormai l’ultimo rifugio delle canaglie. Dunque, dicevo, siccome è il mio compleanno e scocca nel giorno del poverello d’Assisi che ci ha resi orgogliosi di essere italiani, per prima cosa dirò che il quotidiano romano Repubblica ci faccia il santo piacere di smetterla con questo ricicciamento della (falsa) notizia dell’“evasione fiscale” record in Italia. Che è la notizia che ha fondato il governo Monti, che la Merkel ha fortemente voluto e su cui la Ue (lato Nord Europa) scommette ancora per spazzolare i risparmiatori italiani e indurre una finanziaria da prelievo forzoso nei conti correnti (già lo fece Amato su spintarella di Soros, l’amichetto di D’Alema, e non mi pare una grande idea, vedi Ungheria che ha capito tutto). Per altro a Repubblica, la romana doc, bisogna dire questo: siete per il fisco? Ok, incominciate a far pagare al vostro padrone quel tot di centinaia di milioni di elusione fiscale che gli hanno sentenziato (e sono 26 anni che mette di mezzo avvocati per non pagare). E poi mettetevi il cuore in pace: sappiamo che il vostro Carlo De Benedetti, oltre a essere stato la tessera numero 1 del Pd è stato lo spavaldo, “moderno imprenditore”, che spiegò tranquillo al Financial Times, a proposito delle Olivetti di Prima Repubblica, chissà perché, adottate in ogni piega di ufficio statale, dalle poste ai ministeri: «Ho pagato le tangenti, lo rifarei, questo era il sistema». Già quando il sistema “era”, c’era chi aveva il privilegio di tangentare (gli altri: “in galera!”). Quando il sistema è, beh, 26 anni di avvocati per non pagare. Dalla panetteria Repubblica, cari cittadini, eccovi qui sfornate di giornata brioches di indignazione per tutti! Dopo di che, eccovi la notizia vera, suffragata dai dati regionali e statali, che ho pubblicato qui, su Tempi del 25 aprile 2015 e che ripropongo per rinfrescare la memoria alle pierine Meloni e per darvi buone ragioni, cittadini del nord e del sud, per andare il 22 ottobre a votare “sì”. E in un bellissimo giorno che verrà, a comandare bypassando il taccagno e sperperatore dazio di Roma.
Tratto da Tempi, 25 aprile 2015 – Domanda da terza elementare: quante sono le regioni italiane? Le regioni italiane sono 20. Bravo Pierino. E sapresti dirmi quali di queste venti regioni sono a “statuto speciale”, cioè sono regioni a cui la Costituzione italiana ha concesso, tra l’altro, il privilegio di trattenere sul proprio territorio chi il 60, chi il 70, chi il 90, chi il 100 per cento delle tasse pagate dai cittadini? Ma certo che lo so signora maestra! Le regioni a statuto speciale sono cinque: il Friuli Venezia Giulia, che trattiene il 60 per cento dei tributi; la Sardegna, che si tiene il 70; la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige, il 90; la Sicilia, il 100 per cento. Molto bene, Pierino. Adesso vai a casa e studia i fatti. Perché al di là di quello che sta scritto nella Costituzione, in realtà le regioni a statuto speciale sono 19, mentre una, e una soltanto, è a statuto ordinario. La Lombardia. Il bancomat dello Stato centrale. Dopo di che capirai perché i grandi corpi dello Stato (procure), i grandi giornali statalisti (Repubblica) e i grandi partiti centralisti (Pd), sono ancora a mordere questa regione “ordinaria”, nel tentativo di radere definitivamente al suolo (come hanno fatto con Formigoni, non parliamo di Berlusconi e, più recentemente, con il politicamente lombardo Lupi) un modello di buon governo di cui si è voluto in ogni modo impedire l’affermazione a livello nazionale.
Quanti default mascherati. Ricapitoliamo. Il tema è: quanto pagano i cittadini per mantenere servizi e amministrazione pubblica (almeno) decenti? Quali sono le regioni che spendono meno e meglio le tasse dei cittadini? La settimana scorsa abbiamo illustrato i dati in cui emerge la distanza siderale che c’è tra il governo lombardo e tutti gli altri nell’uso dei soldi dei contribuenti. Dal costo pro capite del personale pubblico (19,8 euro in Lombardia, record nazionale di spesa minima, 177 euro in Molise, record di spesa massima; media nazionale: 43,9) alle spese per la sanità che rappresentano l’80 per cento del budget delle regioni (il costante pareggio di bilancio della Lombardia contro le decine di miliardi di buco accumulati dalle regioni del Sud con conseguenti piani di rientro, malasanità, pesanti ticket, disagi per l’utenza; l’arrancare anche delle regioni del Centro-Nord, i disavanzi di quelle a statuto speciale). Dalle aliquote fiscali Irpef e Irap (mediamente superiori ovunque alle aliquote lombarde) alla situazione del trasporto pubblico locale (dove ancora una volta la Lombardia si segnala per essere largamente al di sopra del livello minimo di efficienza, mentre da Roma in giù il servizio dei trasporti locali è allo sbando, tecnicamente “in default” se non fosse sussidiato dallo Stato). Da ultimo avevamo visto che mentre la Lombardia paga regolarmente i propri fornitori e perciò non chiede un cent allo Stato, la sola regione Lazio, per non fallire come pubblica amministrazione e, soprattutto, per non far fallire i suoi creditori, si è “mangiata” tra il 2013 e il 2014 una cifra pari a sei volte il presunto “tesoretto” del governo Renzi, incassando dallo Stato, cioè dalla collettività, oltre 9 miliardi in “anticipazioni finanziare” cosiddette. Che in realtà sono “mutui”, visto che il Lazio e le altre regioni che ne hanno usufruito (Campania e Piemonte su tutte) devono restituire questi soldi “anticipati” dallo Stato in 30 anni (ma allo Stato non è stato fatto divieto dalla Costituzione, articolo 119, di fare debito per la spesa corrente?).
La madre di tutte le sperequazioni. Come mai la Lombardia è l’unica regione italiana che non gode di uno “statuto speciale”? Osserva la tabella dei dati nazionali, Pierino. Non ti sembra che, eccetto la Lombardia, siano ormai “speciali” tutte le regioni italiane, in via di principio (costituzionale) o di fatto (per politiche di governo dello Stato)? Vediamo. La Lombardia ha il più alto residuo fiscale nazionale. Sfiora i 54 miliardi di euro l’anno. Significa che un buon 32 per cento del suo saldo positivo tra entrate e spese (comprese quelle per il buono scuola, per la difesa della vita nascente, per il sostegno alle famiglie e parecchi altri provvedimenti sociali assenti in quasi tutto il panorama regionale del Paese) la Lombardia lo devolve interamente allo Stato. In “solidarietà” alle regioni meno abbienti e in perequazione al gettito delle regioni più piccole. Ora, proprio tenendo presente questa percentuale di residuo fiscale, al di là delle cifre in valore assoluto versate a Roma (che dipendono ovviamente da quantità della popolazione e distribuzione di ricchezza e povertà nei vari territori), salta immediatamente agli occhi l’iniquità e l’ingiustizia pazzesca che lo Stato centrale esercita nei confronti della Lombardia. Essa, infatti, è la regione italiana che in percentuale trattiene il minore gettito (entrate). Solo il 68 per cento. Viceversa, in tutte le altre regioni succede il contrario. Succede che, benché 9 delle altre regioni italiane presentino residui fiscali in valore assoluto molto più bassi di quelli della Lombardia e le rimanenti altre 10, concentrate al Sud, addirittura residui negativi, tutte e 19 trattengono e spendono per sé percentuali altissime del gettito locale, e sono quindi divenute di fatto tutte regioni a statuto speciale. C’entrano niente, nel caso esaminato, le opinioni politiche. Le generalizzazioni demagogiche dei giornaloni contro la “casta” dei politici. Il vittimismo sulle regioni “povere”. Le furbastre ondate di indignazione orchestrate contro questo o quel “ladro” dal circuito mediatico-giudiziario. Qui – come per i dati esposti settimana scorsa e sintetizzati sopra – c’entra un sistema. Qui c’entra uno Stato centralista che fa dell’iniquità, della sperequazione e, quindi, dello sperpero delle risorse un sistema ben oliato e superlegalizzato. Approfondiamo. Dopo la Lombardia, la seconda regione più “spremuta” dallo Stato è il Veneto. Però siamo già 6 punti percentuali sopra la Lombardia, cioè al 74 per cento delle entrate trattenute, spese sul proprio territorio. Un “privilegio” superiore a quanto la Costituzione assegnerebbe alla Sardegna. Piccolo particolare: la Sardegna trattiene e spende in regione non il 70 e neanche il 100 per cento delle entrate. Bensì, il 100 più un rabbocco di un altro 26 per cento prelevato in solidarietà dalla cassa comune dei contribuenti italiani. Ma questo non è niente. Piemonte, Toscana, Marche, Umbria, Lazio e Liguria, a cui lo Stato concede di trattenere e spendere, nell’ordine, andiamo per difetto, l’83 per cento delle entrate, l’84, l’87, il 90, fino a picchi del 92 (Lazio) e 95 per cento (Liguria), sembrano regioni quasi più “speciali” del Trentino Alto Adige (96 per cento). Di sicuro, più “speciali” delle amministrazioni pubbliche trentine e altoatesine sono l’Abruzzo (105 per cento), la Basilicata (106), la Campania (107), il Molise (109) e la Puglia (109). Significa che a tutte queste amministrazioni regionali non soltanto lo Stato concede il privilegio di trattenere e spendere in loco l’intera posta fiscale, ma siccome spendono più di quello che incassano, lo Stato mette a disposizione di queste regioni un bancomat (dicesi “trasferimenti”) per prelevare altri soldi dalla cassa comune di tutti i contribuenti italiani (e specialmente lombardi).
Traduzione per i contribuenti. Domanda: lo Stato concede tale privilegio a queste regioni perché esse erogano servizi particolari, più “speciali”, di quelli erogati dal Trentino Alto Adige? Se così fosse, si capirebbe perché non è affatto la Sicilia la regione più “speciale” d’Italia (120 per cento), ma è la Calabria. Regione a “statuto speciale” per eccellenza, visto che incassa e trattiene e spende quasi il 128 per cento, tra entrate e rabbocchi statali. Tradotta in soldini pagati dalle comunità regionali dei contribuenti, la morale è la seguente. Come ci ricordano gli Uffici Studi della Cgia di Mestre sulla base dei dati Unioncamere e dei conti pubblici territoriali (Cpt), la Lombardia, pur gestendo mediamente bene le tasse dei suoi cittadini, pur mantenendo servizi mediamente superiori alla media nazionale, subisce da parte dello Stato centrale i maggiori tagli e prelievi di risorse. Tradotto in euro pro capite, ci ricorda la Cgia, significa che con residui fiscali annui pari a 53,9 miliardi di euro in Lombardia, «ogni cittadino lombardo (neonati e ultracentenari compresi) dà in solidarietà al resto del Paese oltre 5.500 euro all’anno». E tutte le altre regioni? Per lo più spendono. E soprattutto spandono. Tanto paga Pantalone lombardo.
Referendum autonomia, Vittorio Feltri l'Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano": non diamo i nostri soldi a quelli che li spendono male. Il referendum che si voterà in ottobre circa l’autonomia delle regioni Veneto e Lombardia non viene pubblicizzato a dovere poiché infastidisce il potere centrale e il Mezzogiorno. I quali temono di perdere la tetta da cui succhiare risorse. È noto che il Nord produca più del Sud e mandi a Roma la quasi totalità dei proventi fiscali locali, che poi servono ad alimentare le casse dello Stato, incline a sprecare capitali a scopi elettoralistici. La novità consiste nel fatto che i lombardi e i veneti ne hanno piene le scatole di versare denaro a chi non è in grado di utilizzarlo convenientemente. Lavorare per gli altri che non lavorano affatto non è piacevole. Ecco perché i governatori Maroni e Zaia si sono impegnati legittimamente in questo plebiscito consultivo: si tratta di accertare se gli abitanti delle zone ad alta densità industriale vogliono o no amministrarsi in proprio, trattenendo sul territorio una quantità maggiore, rispetto ad oggi, dei loro quattrini sudati. Dove sia lo scandalo della iniziativa non sappiamo. La contrarietà da taluni manifestata a questo sano progetto si spiega soltanto col desiderio di negare a Milano e a Venezia il diritto di amministrare i loro beni in favore dei propri cittadini. Durante una trasmissione televisiva imperniata sul tema dell’autonomia, il direttore del Messaggero di Roma, Virman Cusenza, si è espresso contro il referendum senza una ragione plausibile. Egli infatti è siciliano, e di ciò almeno noi non abbiamo colpa, quindi di una regione che della autonomia ha fatto pessimo uso. Ebbene con quale faccia egli vieta alla Lombardia di avere le stesse facoltà gestionali di cui gode (inutilmente, per cronica inettitudine) la Sicilia? La quale, se fa schifo, non è responsabilità dei lombardi bensì dei concittadini di Cusenza. In Italia le regioni autonome sono cinque. Perché non averne sei o sette? Sul punto il direttore del Messaggero, come tutti i meridionali, tace o tergiversa. In silenzio stanno anche i giornaloni nazionali e le tivù più importanti. Gli addetti alla informazione sono quasi tutti terroni e terrorizzati alla idea che Lombardia e Veneto cessino di versare palanche sotto il Po. La questione è molto semplice. Ciascuno è obbligato a vivere del suo, come si diceva una volta. Nessuno impedisce al Mezzogiorno di creare imprese, posti di lavoro e ricchezza. Le popolazioni meridionali utilizzino i finanziamenti statali per realizzare infrastrutture, cioè le basi per incrementare l’economia. Non si illudano di campare in eterno alle spalle degli odiati nordici, che sono stanchi di essere sfruttati quali bancomat. Il mese prossimo lombardi e veneti pertanto voteranno sì al referendum per essere padroni del loro portafogli. Non c’è nulla di ideologico né di razzistico nella ricerca della autonomia, solo l’esigenza di essere uguali alla Sicilia e di dimostrare ad essa che tale autonomia si può sfruttare per crescere e non per sprofondare in un mare di debiti palermitani. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16.03.2017. Da oltre mezzo secolo ascolto discorsi e leggo articoli che auspicano la crescita del Mezzogiorno. I politici meridionali in particolare predicano in continuazione che è necessario investire al Sud per migliorare le condizioni generali del Paese. Belle parole, ma soltanto parole. Fatti concreti se ne sono visti pochi, se si escludono vari foraggiamenti a pioggia distribuiti nelle regioni più disastrate dello Stivale, denaro non utilizzato poi per creare infrastrutture, bensì per arricchire mafie e oligarchie. Cosicché il divario tra il ricco Nord e il resto della penisola non è mai stato colmato. E oggi siamo ancora qui a blaterare sul modo per aiutare i terroni (senza offesa) a essere un po' meno terroni. I soliti pistolotti vacui, la solita retorica inconcludente. Risultato, la spaccatura tra le due Italie è sempre più profonda. Quando si dice che la politica è incapace di fare progetti e di realizzarli ci si attiene al realismo più crudo. Oltretutto, le cose non migliorano neanche per forza di inerzia, ma peggiorano. Per risollevare la Calabria e la Sicilia, prima Berlusconi e dopo Renzi si erano messi in testa di costruire il ponte sullo stretto di Messina. Una idea del cavolo ma comunque un'idea. Ovviamente abortita per motivi che è inutile elencare tutti, basta citarne uno: mancavano i soldi.
Ci domandiamo come immaginassero, sia Silvio sia Matteo, di trovare il grano necessario per legare col cemento l'isola alla penisola. Mistero. Sorvoliamo sulle velleità infantili dei due ex premier e veniamo alla più stringente attualità. I deficienti che amministrano la nostra vituperata nazione, per dare una mano ai fratelli calabresi hanno deciso di chiudere l'Aeroporto di Reggio. Perché non rende alle compagnie che gestiscono i voli, che pertanto si rifiutano di seguitare a decollare e ad atterrare nel suddetto scalo. Da giugno in poi i reggini che desidereranno venire a Milano e poi tornare nella loro città saranno costretti a usare mezzi diversi dal jet: il treno (non quello ad alta velocità che laggiù non c'è), l'automobile o la carrozza di San Francesco, cioè i sandali. Vi rendete conto, cari lettori, che avanti di questo passo il Mezzogiorno precipiterà a livelli africani?
Vi pare una mossa intelligente sopprimere l'aeroporto nel capoluogo di una regione che non dispone di altre infrastrutture, visto che l'autostrada è un sentiero accidentato e la ferrovia è ottocentesca? Dato che il ponte tra Scilla e Cariddi non si può erigere, per compensare il buco togliamo anche l'aerostazione e che i reggini vadano a fare in culo, loro, la 'Ndrangheta e la 'nduja. Il ragionamento cretino prosegue. La Calabria ha una sola risorsa importante, il turismo, e noi ci attrezziamo per ucciderlo abbattendo gli aerei perché costano di più di quanto ricavano. Ecco come i nostri meridionalisti del piffero intendono incrementare l'economia del Sud. Non sanno poveri idioti che i trasporti sono un servizio oneroso, questo è pacifico, ma indispensabile per creare giri di affari e quindi ricchezza. Hanno condannato a morte la regione e ne piangono la salma. Sono scemi o delinquenti? Entrambe le cose. Ai calabresi tocca soltanto l'incombenza di ospitare e assistere profughi portatori di miseria, malattie e problemi sociali. E ci stupiamo che essi preferiscano la mafia allo Stato.
"Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Feltri, lo schiaffo a (certi) napoletani, scrive il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti.
Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiú sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Vittorio Feltri
Il dopo referendum sarà il vero problema. Secondo il giurista Mario Speroni, nel caso in cui prevalga il sì molto dipenderà da chi vincerà le prossime elezioni, scrive Michele Mancino su "Varesenews.it" il 12 ottobre 2017. Il prossimo 22 ottobre si terrà, in Lombardia ed in Veneto, un referendum, al fine di ottenere una maggiore autonomia, da parte dello stato italiano. Il quesito iniziale, che era il seguente “Volete voi che la Regione Lombardia, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’art.116, 3° comma, della costituzione?” – e quindi piuttosto generico – è stato ora modificato con il decreto del presidente Maroni n.683 del 28/5/17, che indice il referendum per il 22 ottobre prossimo, utilizzando, per la prima volta, il voto elettronico. Esso suona così: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”. Lo stesso presidente Maroni – al meeting di CL di Rimini del 22 agosto– ha poi dichiarato: «Se vinco presenterò richiesta per ottenere lo statuto speciale in Lombardia. Voglio le stesse condizioni della Sicilia», creando un po’ di confusione, perché la maggiore autonomia, prevista dal referendum del 22 ottobre, non è quella cui fanno riferimento le regioni a statuto speciale – come appunto la Sicilia – che sono indicate dall’art.116 della costituzione italiana. Se la Lombardia dovesse aggiungersi ad esse, sarebbe necessaria una revisione costituzionale, il che prevederebbe lunghissime procedure e quasi certamente un referendum nazionale. Perché gli elettori delle regioni favorite dall’attuale sistema – cioè la grande maggioranza del paese – dovrebbero votare contro il loro interesse? Cerchiamo di essere seri. – Torniamo ora al nuovo quesito referendario. Esso ora chiarisce che le materie di cui si chiede l’attribuzione alla regione sono tutte quelle previste dal 3° comma dell’art.116 della costituzione italiana, nessuna esclusa. Si tratta, quindi, di ben 23 materie, di cui alcune di grande importanza, come l’ “istruzione” – sia nei suoi profili istituzionali, che in quelli contenutistici – l’ “ambiente ed i beni culturali”; i rapporti internazionali – sia con gli stati esteri, che con l’UE e le altre organizzazioni internazionali; il commercio con l’estero; l’ordinamento delle professioni; la ricerca scientifica; la tutela della salute; l’alimentazione; il governo del territorio; gli aeroporti e le grandi reti di trasporto; le comunicazioni; l’energia; le banche ed il credito fondiario regionali. Se tutte queste materie venissero interamente trasferite dalle competenze dello stato a quelle della regione Lombardia, questa diverrebbe un vero e proprio “stato confederato” con la repubblica italiana. Ma – attenzione – l‘art.116 della costituzione italiana non dice così: esso si limita a riferirsi solo “ad ulteriori forme” – oltre a quelle già esistenti – “di autonomia”, negli ambiti suddetti, da conferire alle regioni a statuto ordinario, non al trasferimento delle materie sopra nominate nella loro interezza. E qui la regione Lombardia avrebbe dovuto prima studiare quali competenze effettivamente chiedere, ma questo non è stato fatto, finora. Di conseguenza il cittadino elettore non saprà, votando sì, che cosa effettivamente la regione vorrà acquisire dallo stato. Ciò nonostante – da convinto federalista – auspico che il referendum passi ed il fatto che il PD abbia dato il suo – non so quanto sincero – appoggio, non mi fa dubitare che succederà. Più il governante è vicino – anche fisicamente – al governato, meglio viene gestito il potere – come già rilevava, nel 1944, Luigi Einaudi, esule in Svizzera ed avendo presente l’ordinamento della Confederazione, nel suo articolo “Via il prefetto”, cioè via il centralismo, apparso sul supplemento della “Gazzetta Ticinese”, del 17 luglio 1944, intitolato “L’Italia e il secondo risorgimento”. Il problema è il dopo: passato il referendum, dovranno iniziare le trattative con il governo. Molto dipende da chi vincerà le prossime elezioni. Ma anche una volta raggiunta un’intesa – come prevista dall’art.116, 3° c., della costituzione italiana – la relativa legge dovrà essere approvata dalle due camere “a maggioranza assoluta dei componenti”. Ritengo che ciò sia quasi impossibile, almeno che la regione Lombardia non si accontenti di poco. Dopo tutto, Lombardia e Veneto mantengono, con le imposte statali lì prelevate, gran parte del resto d’Italia, così come ha ben dimostrato il sociologo ed economista torinese Luca Ricolfi – allora vicino al PD – nel suo libro “Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale”, dove dimostra – dati alla mano – come oltre 50 miliardi di euro, ogni anno, se ne vanno ingiustificatamente dalle regioni settentrionali.
Il referendum truffa della Lega a spese degli italiani, scrive il 9/10/2017 Luigi Pandolfi, Giornalista e politologo, su "L'Huffingtonpost.it. C'è poco da fare: nonostante la svolta "italica" di Salvini, il vizio di giocare con i cittadini del Nord la Lega non lo perde mai. È nel suo Dna. L'ultima trovata (in Veneto, a dire il vero, c'avevano già provato qualche anno fa) è il referendum "consultivo" in programma per il prossimo 22 ottobre. Una roba da ridere, se non fosse che costerà milioni e milioni di euro all'erario. In un articolo apparso sul Tempo alcuni giorni fa a firma di Dario Martini, si parlava di un costo complessivo – tra le due regioni - pari a 64 milioni di euro, di cui ben 22 sarebbero serviti per comprare 24 mila tablet per il voto elettronico in Lombardia (916 euro a pezzo). Soldi spesi inutilmente, per chiedere ai cittadini della Lombardia e del Veneto se sono d'accordo acché le loro regioni negozino con il governo centrale una maggiore autonomia su alcune materie di legislazione concorrente e su altre di esclusiva competenza statale (giudici di pace, istruzione, ambiente). Un'opzione prevista dalla Costituzione, che non prevede, tuttavia, alcun referendum, ma, semplicemente, l' "iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali", e, infine, una legge che le Camere dovranno approvare a maggioranza assoluta dei componenti. Ma che significa "materie di legislazione concorrente"? Che già oggi, per queste materie, "spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato". Ergo: su tutta una serie di materie, dalla sicurezza sul lavoro all'energia, dal governo del territorio ai porti (e agli aeroporti), passando per le casse di risparmio, la protezione civile e la valorizzazione dei beni culturali, già oggi le regioni decidono e legiferano, sebbene nel rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento. A rendere maggiormente irritante questa farsa sono i quesiti proposti agli elettori, nei quali non c'è nessun accenno alla materie su cui queste regioni chiederebbero l'autonomia. In Veneto, addirittura, gli elettori saranno chiamati a esprimersi sul seguente quesito: "Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite forme e condizioni particolari di autonomia?". Più o meno come chiedere a un bambino se vuole bene a mamma e papà. Nessuna meraviglia, beninteso: nel 2012 il governatore Zaia, per farsi dire che un referendum sull'indipendenza del Veneto era inammissibile (ai sensi dell'art. 5 della Costituzione), si rivolse all'Avvocatura regionale, che, manco a farlo apposta (sic!), pronunciò un secco no. È il federalismo fiscale? Le magiche risorse che dovrebbero rimanere sul territorio? Macché, tra tutte le "chiamate" dell'articolo 117 il fisco non c'è. Autonomia sì, ma con i soldi di Roma. Non va dimenticato, peraltro, che, nel 2015, la Corte costituzionale aveva già censurato la norma contenuta nella legge n.15/2014 della Regione Veneto (quella relativa al referendum consultivo per l'autonomia), laddove si prospettava che la Regione mantenesse "almeno l'ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale", con la motivazione che la "distrazione di una cospicua percentuale dalla finanza pubblica generale" avrebbe alterato gli equilibri della stessa e i "legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica". Capitolo chiuso. Sul piano formale, quindi, questo referendum è una farsa. Sul piano politico, come è stato riconosciuto da più parti, esso costituisce un mezzo attraverso il quale la Lega nazionalista cerca di rinsaldare il suo rapporto col Nord, recuperando, a pochi mesi dalle elezioni politiche (e a spese dei cittadini), il vecchio argomento dell'autonomia, su cui ha campato per oltre un ventennio. Com'è accaduto in passato – c'è stato un periodo in cui bisognava per forza dirsi "federalisti" -, anche questa volta, la legittimazione arriva dagli "avversari". Sindaci, amministratori, dirigenti locali del Pd che si affannano a dichiararsi per il Sì. Un sostegno ufficiale al referendum arriva, invece, dal Movimento 5 Stelle, che, in questo caso, pensa pure (e dichiara) che i soldi pubblici siano spesi bene ("I soldi spesi per interpellare i cittadini non sono mai uno spreco"). Piccoli e meschini calcoli di bottega, ipocrisia a gogò. Al fondo, problemi atavici di un Paese che, a furia di soffiare sul fuoco degli egoismi, complici stagnazione e disagio sociale, rischia la bancarotta (fraudolenta).
Referendum autonomie. Riscrivere il patto nazionale che ci tiene uniti, trasformando l’Italia in uno Stato federale, scrive il 23 Ottobre 2017 Mario Castellano su "Faro di Roma". Questa mattina, un collega giornalista straniero, pur essendo ottimo conoscitore dell’Italia, esprimeva il suo stupore per il risultato del referendum in Veneto. Abbiamo dovuto spiegargli che la Repubblica di Venezia durò più tempo dell’Impero Romano: esattamente dal 697, quando i profughi da Aquileia, distrutta dalle invasioni barbariche, trovarono riparo sull’isola di Rialto, nell’insalubre laguna, ed elessero il loro primo Doge, Paolo Lucio Anafesto, fino al 1797, quando – con l’arrivo del Generale Bonaparte – i rivoluzionari francesi trasformarono il vecchio regime oligarchico in una Repubblica democratica; la quale ebbe vita effimera, fino al tradimento consumato pochi mesi dopo da Napoleone a Campoformio. Ippolito Niervo ricorda quella pagina di storia, che aveva sentito raccontare da uno dei presenti, nelle “Confessioni di un Italiano”: il “Maggior Consiglio”, composto da tutti i figli maschi delle famiglie nobiliari, votò per la nuova Costituzione, ma ciò fu il risultato di un colpo di mano perpetrato dal settore democratico – molto minoritario nell’assemblea – che comunque deliberò in assenza del numero legale. Si dice anche che Manin, l’ultimo Doge, svenne nel momento di lasciare la sua carica. La bandiera con il Leone di San Marco, ammainata nelle colonie veneziane della Dalmazia, era letteralmente intrisa di lacrime, ed il testo della loro estrema dichiarazione di fedeltà alla Serenissima, redatto in lingua regionale, veniva imparato a memoria nelle terre chiamate in seguito “irredente”. Dall’altra parte, i fautori dell’Unità – durante il Risorgimento – citavano come prova della decrepitezza dei vecchi Stati regionali, e quindi della necessità di superarli, il fatto che le uniche unità militari a difendere l’indipendenza fossero quelle composte dai mercenari “schiavoni”, cioè sloveni: i soldati veneti, cioè “italiani” – non mossero un dito. Se la fine della Repubblica fu ingloriosa, era stata gloriosa la sua storia, durata esattamente millecento anni. Di quella vicenda rimane testimonianza nella vitalità delle lingua regionale, l’unica ancora parlata correntemente nell’Italia Settentrionale: quello che impropriamente chiamiamo “dialetto” fu sempre impiegato nei documenti ufficiali, mentre tutti gli altri “Antichi Stati” avevano adottato da tempo l’italiano; l’ultimo era stato il Piemonte, sotto Emanuele Filiberto, nel sedicesimo secolo. Perduta l’Indipendenza, il Veneto godette di una condizione privilegiata nell’ambito dell’Impero Austriaco, che mantenne l’italiano come lingua ufficiale ella sua Marina Militare anche dopo il 1866, in omaggio alla sola Trieste. La Regione di Venezia diede il maggiore apporto all’emigrazione, verso l’estero come verso il resto d’Italia – proporzionalmente più dello stesso Meridione – ma solo dopo l’annessione al Regno sabaudo. Il flusso degli Italiani verso l’estero cominciò in tutte le Regioni a partire da quel momento: la prima a scontarlo fu la Liguria, inglobata nel Piemonte fin dal Congresso di Vienna. In conclusione, possiamo dire che la Repubblica di Venezia fu il più radicato e solido tra gli Stati regionali italiani: la storia narrata dal Manzoni nei “Promessi Sposi”, in cui si compara la prosperità della Bergamasca – “Terra di San Marco”, come proclamò il Cardinale Roncalli nell’assumere la carica di Patriarca di Venezia – con la miseria e la corruzione di Milano, sottoposta al dominio spagnolo, intendeva significare quanto fosse importante e benefica l’Indipendenza anche senza l’Unità. Nel 1848, “l’anno dei portenti”, a Venezia non venne proclamata l’annessione al Piemonte, bensì la restaurazione della Serenissima Repubblica, sotto la guida di due personaggi tra loro agli antipodi, ed anche in pessimi rapporti personali: l’israelita Daniele Manin ed il cattolico integralista Nicolò Tommaseo; segno questo che la rivendicazione dell’Indipendenza – in chiave regionale – era, come si direbbe oggi – “trasversale”. La resistenza dei Veneti alla restaurazione austriaca fu tra i momenti più gloriosi del Risorgimento, caratterizzata da una grande partecipazione popolare: resistettero all’invasore le fortezze di Osoppo e di Marghera, i cui difensori vennero tutti uccisi, e la stessa Venezia; “Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca”, cantò nell’occasione il Poeta Fusinato. E’ quindi comprensibile, dati simili precedenti, che i Veneti chiedano più competenze per la loro Regione. Fin qui le loro ragioni storiche.
Sul piano economico, si ha un bel dire che l’autonomia fiscale non basta di per sé ad assicurare il benessere, citando l’esempio negativo della Sicilia: i Veneti hanno sotto gli occhi l’esempio virtuoso non solo del Sud Tirolo tedesco, ma anche del Trentino di espressione italiana, con cui anzi condividono la stessa lingua regionale. In queste due Provincie, erette in Regione a Statuto Speciale ma anche reciprocamente autonome, il principio per cui l’intero introito tributario deve essere gestito e speso “in loco” ha assicurato un tale livello di benessere che Bolzano preferisce stare dov’è, e cioè né con Roma, né con Vienna. Rimangono le ragioni politiche, che risultano da una miscela tra quelle di radice storica ed identitaria e le altre, di ordine finanziario contingente. Che la Lega abbia basato le sue campagne elettorali su di una costante sostanzialmente razzista, prima contro i Meridionali e poi contro gli immigrati stranieri, è un fatto incontrovertibile.
Il razzismo non può mai essere condiviso, e deve al contrario essere sempre combattuto. Rimane però da vedere se questo atteggiamento può essere superato abolendo la coabitazione forzata tra genti diverse, che acuisce – anziché attenuare – la loro reciproca avversione. Oggi nemmeno si ricorda, in Italia, il contrasto risorgimentale con l’Austria. Non soltanto perché è venuto meno il contenzioso bilaterale, che anzi – risolta nel 1918 la questione detta degli “irredenti” – si era rovesciato, con la richiesta di una adeguata tutela per i cittadini italiani di lingua tedesca abitanti al di qua del Brennero, ma soprattutto perché l’Impero Austriaco, quel “carcere dei popoli” contro cui predicava Giuseppe Mazzini, si è dissolto, lasciando nei suoi antichi sudditi un ricordo perfino nostalgico. Lenin, che aveva studiato il problema delle nazionalità nell’Impero Russo, affermò una grande verità quando disse: “Un popolo che opprime un altro popolo non può essere libero”; in effetti, anche i Russi – e non solo le genti a loro sottomesse – soffrivano a causa dell’autocrazia. L’affermazione di Lenin può essere però letta in un senso più ampio: la Francia e gli Stati Uniti uscirono, sia pure con molte ferite morali, dalla guerra di Algeria e dalla guerra del Vietnam proprio perché le democrazie possono cadere negli errori (e quali errori!), ma sono anche in grado di correggerli senza rinnegare sé stesse.
L’unione Sovietica crollò invece sotto il peso della sua guerra coloniale in Afghanistan e dell’oppressione che imponeva ai popoli del suo impero esterno ed interno; il regime comunista venne condannato dalla sua stessa sclerosi, che lo rendeva incapace di riformarsi. Quella che si è aperta ieri per la Spagna, oggi per l’Italia, domani – forse – per il Belgio e per altre democrazie dell’Europa Occidentale è una prova che mette in discussione la stessa natura democratica di questi Stati: i loro popoli – per usare l’espressione di Lenin – non sono oppressi da un potere, bensì da un problema.
Non si può certo dire che la Spagna opprima la Catalogna, che l’Italia opprima il Veneto, o che il Belgio opprima le Fiandre: l’identità di queste Regioni può esprimersi liberamente, né si riscontra quella sudditanza economica che caratterizzava i territori sotto regime coloniale, condannati alla monocoltura e ad altre forme di sfruttamento in base agli interessi della Madrepatria. Se la Catalogna, il Veneto e le Fiandre soffrissero una simile ingiustizia, i loro abitanti sarebbero più poveri degli (altri?) Spagnoli, Italiani e Belgi: essi godono viceversa di un maggiore benessere. Chi potrebbe in realtà lamentare il permanere di una situazione semicoloniale sono – per motivi storici, politici ed economici – gli abitanti del Meridione d’Italia. I quali – prima o poi – trarranno le conseguenze del trattamento subito. Quel giorno, l’indipendentismo leghista sarà ricordato come la farsa che – nel caso specifico – precede la tragedia, anziché seguirla. Come però si dice in francese, “chaque jour sa peine”, ed oggi siamo di fronte al problema posto dal Veneto di Zaia. Quando in Italia esisteva una classe dirigente degna del nome, dovemmo affrontare una ribellione separatista armata nel Sud Tirolo. Fu subito chiaro che la repressione dei reati non bastava per risolvere il problema, consistente nel diritto di alcuni cittadini italiani di vedere riconosciuta e tutelata la loro specificità culturale, come d’altronde esige la Costituzione della Repubblica. Ne uscimmo applicando il metodo negoziale su due distinti piani: quello internazionale con la Potenza protettrice dei cittadini sud tirolesi di lingua tedesca, cioè l’Austria, e quello interno con i rappresentanti di tale popolazione. La soluzione trovata allora ha fatto sì che questa minoranza fosse classificata dal Consiglio d’Europa come la seconda meglio trattata del Continente, dopo quella di lingua svedese delle Isole Aaland, appartenenti alla Finlandia.
Anche la Gran Bretagna ha evitato che la Scozia se ne distaccasse, in primo luogo accettando il principio dell’autodeterminazione mediante la celebrazione di un referendum concordato; e in secondo luogo concedendo più autonomia in cambio della rinunzia alla secessione. Merito del pragmatismo anglosassone, ma anche del fatto che a Londra – evidentemente – esiste ancora una classe dirigente. Se l’avessimo anche noi, Roma dovrebbe in primo luogo prendere atto del fatto che i Veneti hanno esercitato – in forma pienamente legale e legittima anche dal punto di vista del Diritto interno – il loro diritto all’autodeterminazione: per fortuna non rivendicando l’Indipendenza, bensì soltanto un ampliamento dell’autonomia. Questo non obbliga naturalmente gli organi della Repubblica a concedere loro tutto quanto reclamano: tanto più che bisognerebbe per prima cosa stabilire con precisione quali maggiori competenze vengono richieste per la Regione. La Repubblica è però tenuta – se non vuole vulnerare il Diritto Internazionale, ed aprire per giunta un contenzioso interno foriero in prospettiva dei peggiori sviluppi – ad aprire un negoziato.
Anche i bambini dell’asilo sanno che Zaia è un secessionista dichiarato, dal momento che il suo Partito reclama il distacco dall’Italia, non si sa bene di quali territori: mai si è chiarito, infatti, quali sarebbero i confini della “Padania”. Tuttavia, Roma in tanto si troverà dalla parte della ragione in quanto aprirà un negoziato, concedendo tutto quanto è ragionevole e motivando il rifiuto di ciò che risulta viceversa incompatibile con il principio dell’Unità nazionale: un principio che Zaia afferma, sia pure ipocritamente, di non voler mettere in discussione.
Si dice che accontentare le rivendicazioni del Veneto vorrebbe dire smembrare lo Stato italiano. Questo, però, non è vero: si presenta anzi l’occasione storica – che al contempo la è migliore, ma anche l’ultima – per riscrivere il patto nazionale che ci tiene uniti, trasformando l’Italia in uno Stato federale. E’ l’occasione migliore in quanto possiamo ancora far valere nei confronti dei secessionisti le ragioni di chi – essenzialmente i Meridionali – ha pagato e paga tuttora il prezzo più pesante alla causa unitaria. Siamo però dinnanzi all’ultima occasione perché Zaia, posto di fronte al rifiuto, o peggio alla manifesta incapacità da parte del Governo nazionale di aprire un vero negoziato – nel quale le reciproche concessioni sono inevitabili – dapprima innalzerà demagogicamente le sue pretese, e poi dirà ai Veneti che Roma non vuole trattare, che lo Stato italiano li prende in giro.
In quel momento, sarà tardi per salvare l’Unità d’Italia. Ricordiamoci che la crisi catalana è precipitata quando il Partito di Rajoy ha fatto cassare dal Tribunale Costituzionale gli articoli del nuovo Statuto della Generalità che riconoscevano l’esistenza di più Nazioni nell’ambito dello Stato spagnolo, mentre invece occorreva procedere speditamente verso una riforma che lo trasformasse in una federazione. Gentiloni e Renzi corrono ora il rischio di fare una figura ancora peggiore, perché non è questa la rivendicazione dei Veneti, che si accontenterebbero in fondo di qualche soldo e di qualche competenza in più.
Lincoln tentò di impedire la secessione, e la conseguente guerra civile, proponendo ai Sudisti di stabilire le condizioni alle quali sarebbero stati disposti a rimanere nell’Unione. A questo punto, risultò che i Confederati volevano comunque dissolverla, e fu dunque chiaro chi aveva ragione. La statura politica di Rajoy e di Gentiloni non è paragonabile a quella di Lincoln, ma purtroppo neanche a quella dimostrata a suo tempo da Adolfo Suarez e da Giulio Andreotti. E’ vero che Zaia ricorda più i “fire eaters” del Sud che Jefferson Davis, ma non è a lui che dobbiamo chiedere conto della preservazione dell’Unità nazionale. Questa causa si serve dimostrando di essere fermi sui principi e pragmatici nell’azione politica, non già schiavi della retorica ed incapaci di scelte concrete.
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
Referendum leghista sull'autonomia, una pistola puntata contro il Sud! Scrive Natale Cuccurese il 22 agosto 2017. Lombardia e Veneto celebreranno il 22 ottobre prossimo due referendum consultivi per chiedere maggiore autonomia regionale. Li hanno indetti a braccetto due presidenti di Regione leghisti, Roberto Maroni e Luca Zaia, con il sostegno di tutto il centrodestra, ma anche il voto decisivo del Movimento 5 Stelle, che sostiene l’iniziativa anche in un recentissimo post di Grillo. L'idea è quella di sfruttare l'articolo 116 della Costituzione per spingere il Governo a trattare la cessione di maggiori materie di competenza alle due Regioni. Nell’ultimo periodo anche parecchi sindaci lombardi del PD si sono aggiunti ai sostenitori dell’iniziativa, così come negli ultimi giorni il Presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini, escludendo però il passaggio referendario. Interessante rimarcare come prima in Veneto, poi in Lombardia si è saldata un'alleanza necessaria con il M5s per far passare i due provvedimenti nei rispettivi Consigli regionali, dov'era necessaria una maggioranza dei due terzi. I leghisti hanno tenuto i quesiti nel cassetto fino a un tempo per loro propizio. L'anno pre-elettorale del 2017. Una farsa, secondo alcuni dirigenti Dem, come il citato Bonaccini, che si sono invece poi ritrovati a rincorrere Maroni e Zaia una volta annunciata la data della consultazione per il 22 ottobre, anche perché essere contro la richiesta di maggior autonomia fiscale, che è nel Dna di molti cittadini ed imprenditori, potrebbe far pagare al Pd un prezzo alto in vista delle prossime elezioni politiche, forse ancora più alto di quello delle ultime Comunali. Un piano ben strutturato e di lungo periodo quello leghista, che parte da lontano con il “frutto avvelenato” della riforma del titolo V della Costituzione nel 2001. Nella forma, i due quesiti referendari sono però formulati in maniera diversa.
Essenziale, quello del Veneto: "Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?".
Più circostanziato, il quesito che gli elettori lombardi troveranno sulla loro scheda elettronica: "Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?".
E se il testo del referendum veneto si limita al virgolettato sopra riportato, quello lombardo, pur ripetendo la stessa identica frase, la inserisce in un contesto che rende il testo più cauto ed elaborato ma in fin dei conti ancor meno chiaro. Insomma, autonomisti nei proclami ma prudenti nella forma, forse per paura di risvegliare l’elettorato di sinistra (o la Corte costituzionale). Il quesito mescola due questioni, come recentemente analizzato dall’economista Gianfranco Viesti sulla rivista “Il Mulino”. La prima è l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia alle regioni. All’articolo 116 della Costituzione si prevede che con legge dello Stato possano essere attribuite alle regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», rispetto alla vasta lista delle materie a legislazione concorrente (terzo comma dell’articolo 117), e all’organizzazione della giustizia di pace, alle norme generali sull’istruzione e alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. D’altra parte l’articolo 116 prevede già che le regioni possano prendere l’iniziativa per richiedere maggiori dosi di autonomia, sentiti gli enti locali, senza alcun bisogno di referendum e dei relativi costi (dai 20 ai 50 Milioni di € secondo alcune stime). Strada questa che sembra voglia percorrere il Presidente Bonaccini per l’Emilia-Romagna.
L’iniziativa non precisa le materie sui cui si vuole maggiore autonomia, non nasce dall’individuazione di specifici temi su cui si ritiene sarebbe più opportuna una competenza regionale, ma il vero obiettivo sono le risorse finanziarie che si vogliono trattenere, detto che se si volesse trattenerle tutte si dovrebbe chiaramente parlare di secessione. La maggiore autonomia, infatti, è “a beneficio esclusivo del grande popolo lombardo che si vedrebbe così sgravato, grazie all’autonomia fiscale, di ampie porzioni di fiscalità regionale e godrebbe di uno spettro maggiore di servizi e di un’assistenza rafforzata”. Ma non finisce qui: perché il presidente della Regione Lombardia Maroni è impegnato a convocare un tavolo, dopo lo svolgimento del referendum, composto da tutte quelle regioni che vantano un credito annuale nei confronti dello Stato centrale, per costituire un “Fronte del residuo fiscale”, “applicando il sacrosanto principio, ormai non più trascurabile, che le risorse rimangano nei territori che le hanno generate”. Se vinceranno i Sì, (come probabile, chi mai non vorrebbe più autonomia fiscale in Italia?!) alle due Regioni non saranno attribuite di diritto maggiori forme di autonomia. La trattativa che potrebbe seguire i due referendum, come detto, sarebbe già possibile ora proprio sulla base dell'articolo 116 della Costituzione: è quello che inizialmente il centrosinistra aveva ricordato a Maroni e Zaia, i quali però hanno sostenuto di non essere mai stati ascoltati dai Governi in carica (evidentemente compresi quelli del centrodestra che li hanno visti anche ministri). La norma infatti stabilisce che la singola Regione interessata, sentiti gli enti locali, può chiedere di avere maggiori materie di competenza fra quelle elencate nel successivo articolo 117 in materia di organizzazione della giustizia di pace, ambiente, istruzione, oltre che fra quelle attualmente concorrenti con lo Stato, per un totale di 26 materie, come per esempio il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Una volta firmata, l'intesa fra Stato e Regione deve essere ratificata con una legge, che per essere approvata deve ottenere il voto della maggioranza assoluta dei componenti (non bastano i presenti) delle due Camere. Un iter non scontato e lungo. Il punto da cui nasce la necessità per i leghisti dell’iniziativa è in quel piccolo inciso all’interno del quesito: «con le relative risorse». Il vero obiettivo è quindi ottenere maggiori risorse pubbliche rispetto alla situazione attuale e alle Regioni “non virtuose” ed il referendum serve solo come arma di pressione sul Parlamento, nel caso questa richiesta fosse sostenuta da un forte mandato popolare (necessario un dato superiore almeno ai 5 milioni di cittadini nella sola Lombardia, a detta dei promotori). Così come avvenne in UK nel caso della Brexit.
Si dice: per trattenere sul suolo regionale una maggiore quota delle tasse pagate dai cittadini. Ma le regole della tassazione e dell’allocazione della spesa nel nostro paese sono stabilite dai grandi principi costituzionali: ad esempio, la progressività della tassazione e l’istruzione obbligatoria e gratuita. Il «residuo fiscale» è semplicemente l’esito, in Italia come in tutti gli altri paesi civili, dell’applicazione delle norme costituzionali in presenza di differenze territoriali nei redditi, utile quindi per il principio di solidarietà redistributiva. Il tentativo del referendum, dietro le richieste di maggiore autonomia, è quindi semplicemente quello di ottenere dallo Stato l’allocazione, in via preventiva, di maggiori risorse, ovviamente sottraendole a tutti gli altri cittadini italiani. È una evidente scelta politica che si colloca nella tradizione egoistica leghista. Tratteniamo per noi più soldi, gli altri, in primis i meridionali, prima spremuti e poi fatti passare, grazie anche alla compiacenza dei media, per spreconi, si arrangino. Una deriva assai pericolosa, con una destra rampante, troppo spesso appiattita sui diktat leghisti, che dopo le elezioni politiche potrebbe trovarsi al governo del Paese e da lì sostenere l’iniziativa con degli effetti del tutto imprevedibili, visto che mira a scardinare gli assetti costituzionali su cui è basato il nostro Paese e a imporre l’egoismo territoriale dei più ricchi. In altre parole le Regioni “povere”, dovranno arrangiarsi con quel poco che passerà il convento romano (a cui sempre bisognerà obbligatoriamente rivolgersi dato il residuo negativo) e cioè ancora meno di oggi visto che verranno a mancare risorse, mentre le Regioni “ricche" potranno mantenere poteri, trattenere risorse e gestirsi autonomamente. Utile rimarcare come le Regioni del Sud non solo siano state messe in condizioni di squilibrio anche grazie alle politiche nazionali che da sempre privilegiano il Nord, ma siano in difficoltà a raggiungere l’utile anche per motivi tecnici. Basta ricordare ad esempio il caso emblematico dello spostamento della sede legale di Alenia, qualche anno fa, dalla Campania alla Lombardia. Spostare una sede legale comporta significative conseguenze fiscali, a cominciare dall’Iva, che è tassa pagata dal consumatore finale direttamente allo Stato ma che successivamente viene girata per circa il 40% – 45% del suo valore alla Regione del produttore. E' un caso fra i tanti che seguono le acquisizioni di aziende del Sud da parte di imprenditori con sede legale a Nord, per non parlare poi di chi produce ed inquina nel Mezzogiorno per arricchire Regioni del Nord, come visto sopra, grazie anche al solito ricatto occupazionale "o salute o lavoro" (Ilva, Basilicata...). Inoltre il Sud, terra di consumatori è penalizzato verso il nord, terra di produttori. Basta guardare le statistiche per vedere che nel solo 2008, nel confronto tra la Lombardia e la Campania, i produttori residenti in Lombardia hanno venduto beni in Campania che hanno sommato un’IVA di circa 20-25 miliardi di euro. Al contrario i produttori residenti in Campania hanno venduto in Lombardia beni che hanno sommato un’IVA di circa 2 miliardi di euro. La differenze tra queste due cifre è andata allo Stato centrale e successivamente è stata trasferita per il 40-45% alla Regione di residenza dei produttori. Come a dire: nel 2008 i campani hanno finanziato in contanti e per circa 10-12 miliardi di euro la regione Lombardia. E questo è solo un anno fra tanti, riferito ad una sola Regione del Sud, la Campania...In altre parole si vedrà sancita una differenziazione di opportunità fra territori nella stessa nazione, alla faccia della proclamata uguaglianza costituzionale che, seppur da sempre solo sulla carta, al momento ci permette ancora di rivendicare legittimamente uguali diritti e uguali servizi. E’ un piano che parte da lontano e che si interseca perfettamente in decenni di politiche pubbliche che hanno incremento uno scarto nel Paese fra Sud e Centro-Nord, come nel caso della disparità di investimenti spesa in opere pubbliche (come da tabella SVIMEZ) che si acuisce a partire dai primi anni novanta, cioè dalle prime affermazioni elettorali della lega nord, riducendosi sempre più fino ad arrivare agli attuali minimi storici. Al nord invece l'intervento è rimasto inalterato o è aumentato. Scarto di investimenti che ora forse permetterà appunto di concorrere a togliere legalmente diritti ad alcuni per dare privilegi ad altri. A questi mancati investimenti statali al Sud si sono poi ultimamente sommate le politiche di austerità europea, che non a caso hanno impoverito tutti i Mezzogiorno d’Europa (come da tabella Eurostat in allegato e come argomentato nel corso della conferenza stampa alla Camera del 27 Luglio scorso insieme a Pippo Civati).
A questo quadro desolante si aggiunga che il governo sottrae da anni al Sud una notevole quota dei fondi di coesione, destinandoli poi al nord, fondi destinati originariamente alla costruzione di infrastrutture nel Sud. Occorrerebbe a questo punto, come da Rapporto SVIMEZ 2010, la creazione di una Macroregione Sud raggiungendo fra le Regioni del Sud tutte le intese necessarie, ai sensi dell'articolo 117, ottavo comma, della Costituzione, per l'esercizio unitario, anche attraverso l'istituzione di organi comuni, delle funzioni di propria competenza. Seguita dal centralizzare la gestione dei Fondi, ritornando ad un piano del Mezzogiorno e ad una Agenzia destinata a dirigere e a gestire progetti strategici: acque, rifiuti, difesa del suolo, infrastrutture strategiche ecc. In Calabria è in preparazione un referendum in tal senso, proposto dallo stesso centrodestra, anche in funzione evidente di non perdere consensi al Sud, ma a questo punto è una proposta giocata solo in difesa e tutta da definirsi nei tempi (comunque giudicata impossibile dall' On Gianluca Pini della Lega Nord, in una intervista sul QN Nazionale del 22 Agosto in riferimento all'ottenimento dell'autonomia basandosi sull'applicazione dei relativi articoli della Costituzione). D’altra parte la proposta della Macroregione, proprio basata sulla proposta Svimez era, in tempi non sospetti e giocando in attacco (anticipando cioè la propaganda leghista), fra i punti di programma che il Partito del Sud ha concretamente proposto a Michele Emiliano in occasione delle ultime elezioni regionali pugliesi 2015 e che Emiliano ha accettato inserendoli nel suo programma di governo regionale. Detto applicare il riparto che ovviamente serve, come visto, un accordo fra tutte le Regioni e detto che una collaborazione fra diverse Regioni del Sud si è andato a concretizzare pochi mesi dopo l'elezione, soprattutto in occasione del referendum di aprile 2016 contro le trivelle. In definitiva il Sud può uscire da questa stagione referendaria leghista con le ossa rotte, non solo definitivamente indicato al pubblico ludibrio, soprattutto dai media, quale cicala responsabile del proprio stato, ma soprattutto definitivamente marginalizzato, per non dire segregato. Da rimarcare che inefficienze di sistema, politici e politiche inefficienti al Sud ci sono e sono da combattere, non si afferma il contrario, ma ci sono in egual misura anche al Centro-Nord, dove tanti scandali finanziari e non solo si susseguono da decenni. Ad esempio quello recentissimo delle banche, le cui conseguenze e i cui costi sono però ripartiti anche sui contribuenti del Sud, mentre per il Banco di Napoli a suo tempo si agì in modo differente, o meglio consegnando, per problematiche molto inferiori, l’ultima grande Banca del Sud nelle mani del San Paolo di Torino. In poche parole nessuna preclusione verso l'idea di autonomia, anzi ben venga per tutti, ma partendo da pari opportunità. Oggi invece "il gioco" a cui ci vogliono far partecipare è truccato alla radice e va combattuto. C'è chi in questi ultimi decenni ha goduto di tutte le opportunità, pagate da tutti, ed ora si vuole sfilare col "bottino". Per prevenire ogni forma di egoismo territoriale, basterebbe semplicemente applicare il riparto del versamento dell’IVA in base alla sede territoriale della singola unità produttiva in cui la vendita è stata effettuata e non più in base alla sede legale dell’azienda produttrice, anche vincolando tutti i soldi così ottenuti in spesa in opere pubbliche per il Mezzogiorno tramite il governo nazionale. Nei fatti invece il ventennio leghista si concluderebbe così con un “delitto perfetto” contro il Sud. Inutile sottolineare cosa questo comporterebbe per il nostro futuro, con il Sud che già attualmente vede la metà della popolazione in povertà relativa e con una disoccupazione oltre il 30% (quella giovanile oltre il 50%) si possono facilmente prevedere scenari catastrofici, anche per la stessa tenuta democratica del Paese, se non ci si opporrà subito nelle opportune sedi a questa pericolosa deriva. Un referendum consultivo contro il quale è opportuno esprimersi in modo chiaro, anche sotto forma di invito all’astensione, da parte di chi ha a cuore le sorti del Sud e da parte di tutta la sinistra, visto che mira anche nei fatti a formalizzare la creazione di cittadini con opportunità e servizi di serie A e di serie B, il che è semplicemente inaccettabile!
Referendum autonomista: anche nel Salento c’è chi esulta, scrive Marcello Greco il 23 ottobre 2017 su "Tag Press". Andrea Caroppo, Consigliere di “Sud In Testa – Salvini Premier”, parla di risultato straordinario del Referendum: “Cittadini rifiutano decisioni prese lontano ma autonomia impossibile con amministratori inconcludenti”. Fino a qualche anno fa, quando nel sud Italia qualcuno votava Lega Nord c’era incredulità. Perché una persona del sud dovrebbe votare un partito nordista fondato proprio sull’antimeridionalismo e sulla volontà di secessione delle regioni del nord dal resto dell’Italia? Poi dopo qualche anno, un giovane rampollo della Lega Nord, nella corrente dei Comunisti Padani, un politico in carriera dal 1993, prima da Consigliere comunale a Milano, poi da Europarlamentare, di nome Matteo Salvini, riesce a far perdere la memoria a molti meridionali, grazie al suo trasformismo.
Il Salvini del primo ventennio è un padano convinto, indossa le magliette con la scritta “Prima il Nord”, non si sente italiano e non ha una buona considerazione dei meridionali. Alla festa padana di Pontida nel 2009 intonò con altri militanti leghisti un coro razzista contro i napoletani: “Che puzza, scappano anche i cani, sono arrivati i napoletani”. Successivamente (nel 2013) minimizzò scusandosi, sostenendo che si trattò di semplici cori da stadio. Quindi solo un mucchio di parole senza senso, da non prendere sul serio. Come il resto dei suoi discorsi, probabilmente. Nello stesso anno aveva anche proposto di istituire sui mezzi pubblici posti o vagoni riservati ai milanesi. Anche queste parole senza senso, probabilmente. Ma anche le parole hanno un peso, soprattutto per un leader politico. Non si è mai sentito italiano, come ha avuto modo di dichiarare: “Il tricolore non mi rappresenta, non la sento come la mia bandiera, a casa mia ho solo la bandiera della Lombardia e quella di Milano […] e è solo la Nazionale di calcio, per cui non tifo”. Quando era ancora pro-euro dichiarò che “i meridionali l’euro non se lo meritano, la Lombardia e il Nord l’euro se lo possono permettere. Io a Milano – disse – lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia e ha bisogno di un’altra moneta”. Nel febbraio 2014 ha dichiarato di aver cambiato idea sui meridionali: “Probabilmente il Sud lo conoscevo poco, ho fatto e abbiamo fatto degli errori”. Vent’anni di pubblici insulti (quelli suoi) per poi ammettere che fossero il frutto di una scarsa conoscenza dei meridionali (in altre parole, pregiudizi). Forse sono tante le cose che conosce poco, magari cambierà idea anche sugli immigrati stranieri, ammettendo fra qualche anno di aver avuto qualche pregiudizio.
La trasformazione salviniana. La trasformazione di Salvini è cominciata nel 2013, con l’elezione a segretario della Lega Nord, intuendo che poteva aspirare ad essere un leader nazionale, contando anche sui voti dei meridionali. Il nemico allora non è più il meridionale, ma l’euro e l’immigrato, il musulmano. Sceglie di seguire la linea dell’estrema destra e smette di essere comunista. Ma il nordismo e la voglia di indipendenza delle regioni del nord sono stati solo tolti dai riflettori, tant’è che è lui stesso a promuovere nel 2014 il referendum in Lombardia per chiedere l’indipendenza della Regione dalla Repubblica Italiana. Nello stesso anno, per presentarsi al sud e al centro celando ogni riferimento alla politica settentrionalista, fonda “Noi con Salvini”, che altro non è che un volto diverso della Lega Nord. Passa il tempo, qualcuno non dimentica, altri lo fanno e il consenso intorno al nuovo Salvini crescono. Nascono i comitati locali e il leghismo viene sdoganato anche al sud.
Non deve sorprendere quindi se c’è chi nel Salento esulta per il risultato del referendum autonomista in Veneto e Lombardia. Ma è stato veramente un successo? Si è votato in sole due regioni e mentre in Veneto ha votato il 57,2% degli elettori, in Lombardia solo il 40% ha deciso di votare.
“I meridionali? Altro che cultura, hanno esportato solo mafia e pidocchi”, scrive il 9 dicembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". In occasione delle elezioni europee dello scorso maggio Matteo Salvini e la sua Lega Nord hanno trovato il conquistato qualche decina di migliaia di voti al Sud: 43.180 nella circoscrizione meridionale, equivalente allo 0,75% dei voti; 15.235 voti in Campania, lo 0,66% del totale. Numeri piccoli, ma da non trascurare a causa dell’astensionismo e della capacità dei leghisti di far leva sugli istinti bassi delle persone, sull’intolleranza, sull’ignoranza, fattori che potrebbero determinare un aumento dei consensi per Salvini, specialmente se costui sarà messo a capo di una coalizione di “destra” sostenuta, tra gli altri, da Silvio Berlusconi, il quale ha già fatto sapere che intende elevare il segretario della Lega al rango di goleador. Grazie al potere mediatico di Berlusconi, prima che politico ed economico, ci dobbiamo insomma aspettare una rilevante presenza di Matteo Salvini in Televisione e sui giornali, dove avrà l’occasione di riferire le proprie sciocchezze atte a raggirare i poveri cristi che, pur avendo la memoria corta e capendo poco dei fatti della politica, intendono esercitare lo stesso il proprio diritto di voto: la Lega Nord incrementerà il proprio consenso al Sud, e troppo se non stiamo attenti e non creiamo un’alternativa a questi individui che da 154 anni stanno succhiando il sangue del Mezzogiorno. Non dobbiamo dimenticare i decenni di razzismo praticati dal Nord a discapito del Sud, non dobbiamo dimenticare che ci hanno chiamato e continuano a chiamarci scimmie, marocchini (in senso dispregiativo), terroni, colerosi, mafiosi, pidocchiosi, ladri, assassini, scansafatiche e tutto il resto. Milioni di persone hanno abbandonato la propria casa, la moglie e i figli per andare a produrre al Nord, il quale ha guadagnato con il lavoro degli emigrati del Sud, che vivevano peggio delle bestie in stanze piccolissime e affollate, tenuti alla larga dai signori “perbene” come fossero appestati. “Non si affitta ai meridionali”, questa è l’accoglienza dei nostri fratelli italiani. Su questi sentimenti la Lega Nord ha edificato la propria forza, per poi vedere un crollo dei consensi dopo due decenni in cui non ha fatto niente a parte rubare, e lo dimostrano gli scandali che hanno coinvolto gli uomini di punta del partito del Nord, compreso il fondatore Umberto Bossi che usava i soldi pubblici per pagare il proprio lusso. Nel video seguente potete ascoltare la registrazione di qualche telefonata degli ascoltatori all’emittente Radio Padania Libera, dove emergono il razzismo e il ribrezzo verso i “terroni”, ignoranti e nullafacenti, che hanno rubato il lavoro e esportato solamente la mafia e i pidocchi. Questa è la Lega Nord, votatela.
Quanto costano i referendum in Lombardia e Veneto. Si parla di diversi milioni di euro: la Lombardia spenderà più di tre volte i soldi del Veneto, a causa dell'acquisto di 24mila tablet, scrive sabato 21 ottobre 2017 "Il Post". Il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si terrà un referendum consultivo sull’autonomia delle due regioni. Il referendum è stato promosso dalla maggioranza di centrodestra che governa sia in Veneto che in Lombardia, e in particolare dalla Lega Nord, di cui fanno parte i presidenti delle due regioni. La Lega ha difeso il referendum spiegando che in caso di vittoria dei Sì avrà sufficiente credibilità politica per chiedere allo stato una più ampia autonomia delle due regioni. I critici del referendum hanno fatto notare che una simile richiesta poteva essere avanzata senza alcun voto – come previsto dall’articolo 116 della Costituzione e come infatti ha scelto di fare la regione Emilia-Romagna – e hanno accusato la Lega di spendere fondi pubblici per un’iniziativa politica. Ma quanto costano esattamente i due referendum? La Lombardia spenderà molto più del Veneto, quasi 50 milioni di euro contro 14. I costi sono superiori a causa dell’acquisto di 24mila tablet che verranno usati per le procedure di voto e che dopo il referendum verranno donati alle scuole. Solo per l’acquisto dei tablet e dei software relativi, la Lombardia ha speso 23 milioni. Altri 24 serviranno per pagare gli scrutatori e garantire il resto delle operazioni, mentre altri 1,6 milioni di euro sono stati spesi per la campagna elettorale. Per avere un termine di paragone: 50 milioni di euro è più o meno quello che spenderà la Regione fra 2017 e 2019 per finanziare le tariffe agevolate del trasporto pubblico. Il presidente lombardo Roberto Maroni ha definito le polemiche sui costi del referendum «infondate», e ha aggiunto che considera l’acquisto dei tablet «un investimento»: «non sono schede che il giorno dopo vengono bruciate e buttate al macero. Sono strumenti che rimarranno in dotazione alle scuole».
In Veneto invece si voterà come al solito, con carta e penna. In Lombardia non sarà necessario raggiungere il quorum per considerare valido il referendum. In Veneto la legge regionale prevede invece che per considerare valido il risultato debba esprimersi almeno il 50 per cento più uno dei votanti. I seggi resteranno aperti dalle 7 alle 23.
Come è andato il referendum in Lombardia e Veneto? Le 5 cose da sapere. A poche ore dalla conclusione della domenica referendaria nelle due regioni, un primo bilancio dati alla mano, scrive il 23 ottobre 2017 "L'Agi".
Entrambi i referendum (sia quello in Lombardia che quello in Veneto) sono risultati validi. Come prevedibile, i “Sì” sono risultati nettamente maggioritari (oltre il 95% in Lombardia, ben il 98% in Veneto). Trattandosi di referendum consultivi, non avranno effetti legali diretti e immediati. Ma il segnale politico c’è, ed è forte, e “autorizza” i governi delle due regioni ad avviare una trattativa con il governo dello stato centrale per ottenere una maggiore autonomia in una serie di ambiti di competenza.
Il ruolo dell’affluenza. L’affluenza era la variabile più interessante di questi referendum. In Veneto lo era in modo particolare, perché per essere valido il referendum doveva recarsi al voto più del 50% + 1 degli aventi diritto. In Lombardia, invece, non era previsto quorum – e questo a causa delle differenti legislazioni regionali in materia di referendum consultivi. Alla fine in Veneto si è abbondantemente superata la soglia richiesta (con oltre il 57% circa di affluenza) mentre in Lombardia il dato è stato più basso, ma comunque non irrilevante, soprattutto per un referendum (perdipiù consultivo). Il dato politico è rilevante: soprattutto in Veneto, dove oltre il 56% degli aventi diritto è andato a votare e ha votato “Sì”. Per il governatore della regione Zaia si tratta di una incontestabile vittoria politica.
Mappe e caratteristiche dell’affluenza. La mappa dell’affluenza in Lombardia (relativa al dato delle ore 19, poiché mentre scriviamo non è ancora stato diffuso quello definitivo delle ore 23) mostra come ci sia stata un’affluenza nettamente maggiore nelle province (in particolare quella bergamasca) che nelle grandi città: a Milano la partecipazione è stata nettamente inferiore al dato regionale, così come a Brescia e a Mantova. Situazione simile in Veneto. La differenza tra comuni capoluogo e resto della provincia è evidente anche in Veneto: enormi le differenze di affluenza tra città come Padova, Verona, Venezia e Vicenza e quella (media) registrata nei comuni delle rispettive province. Più omogeneo il dato nel caso di Belluno e Rovigo.
Com’è andato il voto elettronico. In Lombardia c’era un’importante novità: si è per la prima volta sperimentato il voto elettronico, votato esclusivamente su dei tablet e abbandonando il tradizionale sistema di scheda cartacea. Il sistema non ha causato particolari problemi agli elettori (anche i più anziani si sono dimostrati in grado di utilizzare correttamente i supporti tecnologici) ma la raccolta dei dati ha presentato diversi problemi. In particolare, per diverse ore non sono stati disponibili i dati sull’affluenza né quelli finali relativi allo scrutinio. Inizialmente era stato messo online dalla regione Lombardia un sito apposito per il computo delle affluenze e dei risultati, ma quest’ultimo non si è rivelato all’altezza ed è stato reso irraggiungibile per gran parte del tempo. Una sperimentazione interessante, ma certamente da rivedere nei suoi effetti pratici.
Chi ha votato di più? Un grafico ci dice molto della natura politica di questa consultazione, perlomeno per ciò che riguarda il Veneto. Emerge una correlazione molto significativa tra la partecipazione al voto (e quindi il favore verso la richiesta di autonomia, viste le percentuali di “Sì”) e percentuali di voto al “No” in occasione del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre 2016. In altre parole, maggiore fu la percentuale di “No” alla riforma costituzionale, maggiore è stata questa volta l’affluenza. In effetti questa correlazione non dovrebbe stupire, visto che nella riforma bocciata l’anno scorso veniva rivista in senso centralista la ripartizione di competenze tra stato e regioni.
Referendum autonomia, scoppia la "rivolta" degli scrutinatori: "Bloccati nelle scuole". "Con il vecchio sistema in mezz'ora ce la saremmo cavata", scrive il 23 ottobre 2017 “Il Giorno”. Referendum Lombardia, a Milano scoppia la "rivolta" degli scrutinatori. "Siamo bloccati all'interno delle scuole", "siamo qui a caso": è questa la protesta di diversi scrutatori che oggi hanno lavorato nei seggi dove si è usato per la prima volta il voto elettronico. Dopo la fine di tutte le operazioni, è necessario attendere di ricevere la conferma che la lettura delle penne usb, che contengono i dati di voto dei singoli tablet, è andata a buon fine. In caso contrario i digital assistants devono ricavarli direttamente dalle memorie interne delle voting machine. "Non possiamo uscire e si prospetta che dovremo restare qui fino alle quattro o cinque del mattino" hanno spiegato da una scuola nella zona di Turro a Milano, convinti che "con il vecchio sistema in mezz'ora ce la saremmo cavata". A due ore e mezza dalla chiusura delle urne, i presidente e gli scrutatori sono bloccati all'interno delle sezioni "senza fare nulla". In una scuola di San Siro a Milano, i presidenti hanno minacciato di andarsene chiudendo i verbali con gli agenti della polizia locale che prospettano loro una denuncia se chiuderanno senza autorizzazione.
Referendum, stravince il Sì. Zaia: «Con questo voto esistono solo i veneti, vogliamo i 9/10 delle tasse», scrive “Il Mattino" Domenica 22 Ottobre 2017. Il referendum in Veneto ha raggiunto il quorum. Alle ore 23, con i seggi chiusi, l'affluenza è stata registrata al 57.2%. Il dato più alto a Vicenza (62.7%) e il più basso a Rovigo (49.9%). Il 98.1% (2.272.970 elettori) ha votato Sì, chiedendo per il Veneto maggior autonomia dallo Stato centrale. Raggiante naturalmente il governatore Luca Zaia, che fino all'ultimo ha spronato i veneti ad andare a votare con un post su Facebook e con un messaggio vocale diventato virale su WhatsApp. «Ho convocato la giunta regionale per domani mattina per il progetto di legge sull'autonomia - ha dichiarato subito dopo aver saputo i primi risultati ufficiali -. Sarà il nostro contratto da presentare al governo. Penso che con questa elezione si dimostri che non esiste il partito dell'autonomia, esistono i veneti che si esprimono a favore di questo concetto. Noi chiediamo tutte le 23 materie, e i nove decimi delle tasse». «Vincono i veneti, il senso civico dei veneti del "paroni a casa nostra" - ha aggiunto il governatore - Nell'alveo della Costituzione si possono fare le riforme. Il Veneto c'è, i veneti hanno risposto all'appello. Vince la voglia di dire che siamo padroni a casa nostra».
La polemica si è subito innescata tra Roma e il Veneto: da una parte Gianclaudio Bressa, sottosegretario per gli Affari regionali, che ha specificato che di autonomia si parlerà ma non per quanto riguarda il fisco, dall'altra Maurizio Martina, ministro dell'Agricoltura e vicesegretario del Pd, in un'intervista a Repubblica: «Zaia e Maroni potranno avviare lo stesso percorso di confronto aperto dal presidente emiliano Bonaccini», ma «le materie fiscali - e anche altre, come la sicurezza - non sono e non possono essere materia di trattativa né con il Veneto, né con la Lombardia e neanche con l'Emilia Romagna. Non lo dico io: lo dice la Costituzione, con gli articoli 116 e 117 che indicano chiaramente gli ambiti su cui ci può essere una diversa distribuzione delle competenze». Ed ecco che nella mattina dopo la festa per la vittoria del "Sì" arriva la risposta del presidente della Regione Veneto Luca Zaia, intervenendo ai microfoni di RTL 102.5: «Io ero rimasto al punto, e lo dico anche da ex ministro, che Martina si occupa dell'agricoltura e penso che il nostro interlocutore sia il Presidente del Consiglio. Non c'è alcuna volontà di cercare la rissa ma sentirci dire che con una chiamata del popolo come questa la trattativa deve essere come quella dell'Emilia-Romagna che ha chiesto solo cinque materie e a tutt'oggi non ha firmato nulla di valido giuridicamente vuol dire disconoscere il popolo veneto. Se questa è la scelta del Governo ne prendiamo atto, ma me lo dica ufficialmente il Presidente del Consiglio». Il Presidente del Veneto ha elencato poi le prossime mosse: «oggi approviamo la piattaforma negoziale, per cui vuol dire che tratteremo su questa base direttamente con questo Governo. Il problema è che le cose vanno fatte bene, con tutta un procedura chiara e sancita dalla legge - ha chiarito - per questo ho detto che l'Emilia-Romagna non ha firmato un'intesa come prevede la legge ma una dichiarazione di intenti, così è titolata perché tale è, perciò non è vero che l'Emilia-Romagna ha fatto la trattativa». Quindi a lei il "modello" Emilia-Romagna non va bene? «Noi tifiamo per l'Emilia-Romagna affinché porti a casa tutte le competenze scritte in Costituzione, non 5 ma 23, tifiamo per loro - ha concluso -. Per quanto riguarda la richiesta è una richiesta di 23 materie e 9/10 delle tasse, esattamente quello che la Costituzione prevede». «È una bella giornata perché i veneti hanno dato una bella espressione di civiltà, di democrazia e di partecipazione: oltre due milioni e mezzo di cittadini che vanno a votare è un bel segnale», ha concluso Zaia. È Belluno con il 2,6 dei votanti la provincia che ha percentualmente mostrato il maggior numero di no al quesito referendario sull'autonomia in Veneto. Sono stati 109.533 a votare il referendum per la Provincia di Belluno, pari al 52.25% degli elettori (non conteggiando gli Aire - residenti all'estero la percentuale sale al 66.24%). Il 98.67% ha votato Sì. Al contrario, i più convinti per il sì sono stati gli abitanti delle province di Vicenza e Verona, dove il consenso ha toccato il 98,3%. Interessante il dato sull'affluenza nell'arco della giornata, che dimostra come l'affluenza sia stata particolarmente alta nelle ore serali: complessivamente alle 12 era del 21,1%, alle 19 del 50,1% e alla chiusura dei seggi alle 23 del 57,2%, peraltro in una giornata in larga parte dominata, soprattutto al pomeriggio, da forti piogge. Già alle 19 parte delle province venete aveva superato il quorum: si attestava alle 52,1% a Padova, al 51,7% a Treviso, al 55,9% a Vicenza. Sotto al quorum alle 19 erano ancora Belluno al 45%, Rovigo al 41,9%, Venezia al 47,1%, Verona al 47,2%. Nonostante l'ora tarda i veneti hanno continuato ad andare a votare e così alle 23 il quorum provinciale è stato superato a Belluno con il 51%, sfiorato a Rovigo con il 49,9%, superato a Venezia con il 53,7% e a Verona con il 55%. A quel punto le altre province erano già bel al di sopra del 'tettò del 50% più 1: Padova che ha chiuso alle 23 con il 59,7%, Treviso con il 58,1 e Vicenza con il 62,7%.
Tutto quello che non ha funzionato al referendum, oltre ai tablet, scrivono Alessandro Massone e Stefano Colombo il 23 ottobre 2017 su "The Sub Marine". Mentre scriviamo quest’articolo, non sono ancora stati diffusi i risultati ufficiali dell’affluenza e delle percentuali del referendum per l’autonomia lombardo. Un ritardo clamoroso, se si pensa che i risultati sarebbero dovuti arrivare ieri sera verso le undici e che il costosissimo sistema di voto elettronico era una delle novità più rilevanti della consultazione elettorale e, secondo quanto ha dichiarato Maroni ieri sera, il principale motivo per cui il Movimento 5 Stelle ha appoggiato la consultazione. È difficile analizzare il voto di ieri senza arrivare alla conclusione che Roberto Maroni sarà costretto a dimettersi. Questo ovviamente non succederà, perché viviamo nell’epoca della completa de-responsabilizzazione della politica, e non ci sarà nessuna conseguenza ad aver sprecato risorse e martellato una regione intera di propaganda per un referendum che chiaramente non era sentito come necessario dalla cittadinanza. Il risultato — che commentiamo seppure appunto ancora nebuloso — indica una partecipazione da record–al–contrario, in particolare a Milano. Questo dato mina persino la diffusa critica che il referendum fosse riassumibile nelle volontà autonomiste di una regione ricca rispetto ad un paese mediamente più povero. Non è bastato nemmeno il sostegno quasi unanime delle principali figure politiche lombarde, compresi molti amministratori di centrosinistra che si sono schierati dalla parte del referendum, a convincere la gente ad andare alle urne — ops, ai tablet. Il confronto in termini di affluenza tra Milano e il resto della Lombardia — e rispetto al Veneto — rivela un altro dato: che si sia trattato di un voto largamente mosso da un ampio analfabetismo politico, nutrito di propaganda spesso completamente scollegata dalla realtà, che ha potuto attecchire soprattutto per colpa della mancanza di qualsiasi tipo di opposizione ai messaggi sotto-testuali progressivamente sempre più deliranti della campagna per il Sì. Almeno il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, avrà sperato da qualche parte nel suo cervello elettorale di poter salire sul tanko del vincitore in vista dell’esame prossime elezioni regionali, che si avvicinano sempre più. Invece si ritroverà a salire sul carro della vergogna, almeno davanti alla maggior parte della popolazione lombarda. Il costo esorbitante dei tablet — sostanzialmente l’unica critica mossa dal centro democratico lombardo e dallo stesso Gori — è un utile segnale se letto nel contesto dell’analfabetismo politico: visto che non è in nessun modo un dovere della popolazione essere informata riguardo alla politica e ai suoi codici, il contenuto della politica sta sostanzialmente perdendo importanza di fronte ad un pubblico sempre più influenzabile dalla propaganda. È difficile pensare che questo referendum sarebbe stato possibile anche solo dieci anni fa. Ed è proprio il suo completo vuoto ideologico e tecnico che tenterà i suoi tanti sostenitori, storici e ultimi arrivati di svicolare dalla sconfitta in nuove piroette comunicative. Gori e il suo partito infatti avrebbero potuto impersonare la fazione del buonsenso e spiegare ai cittadini perché questo referendum era, in sostanza, una presa in giro sotto un punto di vista sia economico che politico. Invece ha scelto di essere d’accordo con il referendum dichiarando di andare a votare sì però gli stavano sulle balle tutti i soldi spesi da Maroni quindi uffa il referendum l’avrebbe fatto diverso però insomma alla fine non per fare un favore a Maroni eh però votiamo sì.
Una posizione non chiara. E difficilmente sfruttabile alle prossime elezioni. Cosa sapevano gli elettori che si sono recati alle urne per votare Sì? Erano coscienti delle conseguenze economiche e politiche del proprio voto? Il voto in Veneto e in pianura padana evidenzia un elettorato disagiato, che vota per la proposta che fa stare meglio, senza preoccupazione delle conseguenze. È facile legare le conseguenze politiche — in Veneto ci saranno, in Lombardia no — al risultato del voto, ma si tratta soprattutto di un risultato forzoso, costruito su anni di propaganda e comunicazione politica, anche dal basso, che prometteva molto di più del trattenere qualche euro in più dalle casse dello Stato. Ma se è facile giungere alle conclusioni che Maroni debba dimettersi, idealmente oggi, magari domani se il suo tablet ci mette un po’ a caricarsi, viceversa questa dovrebbe essere occasione generale per un utile esame di coscienza per non solo i politici leghisti, noti per non averne affatto, ma per la classe politica italiana. All’indomani di una campagna elettorale che si preannuncia nucleare, è impossibile non leggere questa campagna referendaria come una sorta di anteprima dei livelli di bassezza a cui assisteremo nei prossimi mesi. Così, mentre non è lecito aspettarsi un vero programma elettorale e propaganda elettorale dalla Lega — o forse da tutto il centrodestra italiano — che non si è mai sforzato in questo senso, è impossibile non riguardare alle dichiarazioni di pancia delle scorse settimane di tanti sindaci e attivisti democratici e chiedersi, ragionevolmente, se loro saranno capaci di produrre un programma elettorale organico: finora, l’hanno sempre fatto. Oggi, è più difficile crederci, e getta ombre profonde sulla credibilità di tutto il Partito democratico alle politiche. Con tatticismo fantozziano, il partito ha deciso di abbracciare una battaglia tradizionalmente nemmeno propria del centrodestra ma della destra vera — ritenendo di non potersi esimere dal coro autonomista. Così, per quanto incredibile possa sembrare, anche a causa di questo atteggiamento fumoso del PD, il vincitore morale di questa manifestazione, o almeno la parte politica che ne trarrà i vantaggi più cospicui, è il centrodestra.
Il Pd, che avrebbe dovuto contrastare in tutti i modi questo voto ha piegato tutti i propri valori scommettendo che questa volta dovesse “dire qualcosa di destra.” Ed è riuscito a perdere anche questa volta, anche insieme alla peggior destra che poteva scegliersi.
Tutti i partiti erano per il sì al referendum.
Referendum. Grillo: “Chi parla di truffa o soldi buttati via fa a pugni con un dato numerico”, scrive il 24 ottobre 2017 "La Prima Pagina". Beppe Grillo ringrazia chi “ha votato e capito questi referendum storici: è la loro vittoria, non della Lega e dei partiti”. E’ quanto scrive il leader del M5S sul suo blog. Il commento arriva dopo il voto in Lombardia e Veneto che ha registrato il successo di partecipazione.
Grillo sostiene che “chi parla di truffa o soldi buttati via fa a pugni con un dato numerico: 5,5 milioni di italiani hanno detto sì all’autonomia”. Il comici genovese rimarca che “l’affluenza è stata alta nonostante la strumentalizzazione della Lega”, “che si è comportata vergognosamente”. “Noi raccogliamo la sfida lanciata da veneti e lombardi”, conclude.
Gli elettori M5S hanno votato come i leghisti al referendum in Veneto. L'analisi dell'Istituto Cattaneo: la promozione dell'autonomia del Veneto è stata percepita come uno strumento da utilizzare contro il "sistema" a cui il M5s si oppone, scrive "Next Quotidiano" martedì 24 ottobre 2017. Secondo un’analisi del voto, effettuata dall’Istituto Cattaneo su tre città – Padova, Treviso e Venezia – in comparazione con le politiche del 2013, anche gli elettori del M5S hanno votato in massa per il sì al referendum per l’autonomia. «A ogni votazione secondo il Cattaneo – “il partito di Grillo” identifica un chiaro obiettivo politico. La promozione dell’autonomia del Veneto è stata, evidentemente, percepita come uno strumento da utilizzare contro il “sistema”». Un dato certamente interessante è quello che mostra in tutte e tre le città considerate gli elettori del M5s unanimemente favorevoli al Sì. Come hanno votato gli elettori dei principali partiti al referendum per l’autonomia (Corriere della Sera, 24 ottobre 2017). In questo caso, la promozione dell’autonomia del Veneto è stata, evidentemente, percepita come uno strumento da utilizzare contro il “sistema” a cui il M5s si oppone. Gli elettori che nel 2013 scelsero il Pd invece si dividono. A prevalere è la scelta del non-voto, a cui aderisce una quota compresa fra il 57% di Venezia e il 66% di Padova. Vi è però anche una fetta rilevante pari a un terzo che, in linea con l’indicazione di alcuni esponenti di questo partito, ha scelto di recarsi alle urne e votare Sì. Vi è infine un 3% che sulla scheda ha votato No. Il risultato della consultazione lombarda è sicuramente meno importante, in termini numerici, rispetto a quello veneto, ma indica comunque la presenza di un terzo dell’elettorato lombardo favorevole alla richiesta di maggiore autonomia nei confronti dello Stato centrale”, prosegue l’Istituto Cattaneo che, in merito ai flussi, osserva: “la partecipazione alle urne è più elevata nelle province del nord-est, in particolare nei territori di Bergamo, Brescia e Sondrio (zone, per inciso, di maggior radicamento della Lega nord). Invece, l’affluenza si affievolisce spostandoci verso sud, con riferimento soprattutto alle province di Mantova, Cremona e Pavia”. “Rispetto al Veneto, dove l’alta partecipazione ha avuto un carattere fortemente trasversale, nel caso della Lombardia l’affluenza sembra essersi maggiormente caratterizzata, almeno a livello geografico, dal traino – non esclusivo ma significativo – della Lega nord”, conclude.
Vi racconto i balletti del Pd di Renzi sui referendum in Lombardia e Veneto, scrive Giuliano Cazzola su "Formiche" il 24 ottobre 2017. Ma il Pd ha una propria linea o continua ad imitare quella degli altri partiti e movimenti? A volte si infila sotto il tavolo dei populisti (ad esempio, con il disegno di legge Richetti sui vitalizi e con la mozione su Bankitalia) nella speranza che gli resti qualche osso da spolpare. In altri casi, come nel referendum lombardo-veneto di domenica, una parte importante di quel partito (le strutture delle regioni in cui si è votato) si è accodata alla Lega Nord e alle altre forze di centrodestra, capovolgendo completamente l’impostazione centralistica contenuta nella legge Boschi di revisione della Carta costituzionale. È vero che alcuni esponenti dem hanno criticato – tardivamente – quella (inutile?) esibizione muscolare. Ma, in politica, quando si vota in un referendum, chi è contrario lo dimostra attraverso la campagna elettorale. Non si limita a stare alla finestra e ad accorgersi, il giorno dopo, di quanto è accaduto. Del resto, a parte le procedure, non mi pare ci sia una differenza sostanziale tra il governatore “rosso” e quelli “verdi”.
Il PD e il Referendum sull’autonomia della Regione Lombardia, scrive Maurizio Montanari su "PD Monza" l'11 Ottobre 2017. Andando all'incontro sul referendum pensavo ai miei conoscenti sicuri sulla posizione da tenere: “Ci si astiene! il PD è sempre stato contrario a questo referendum! Perché Gori e alcuni Sindaci ora sono per il Sì?”. Immaginavo di non trovare i miei conoscenti all'incontro e questo articoletto è stato scritto pensando al loro. Parto da una di quelle “chicche” che arricchiscono questi incontri. Nel 2007 la richiesta di maggiore autonomia venne approvata da tutto il Consiglio regionale lombardo, compresi DS e Margherita. Venne quindi dato mandato a Formigoni di trattare con il governo di allora guidato da Romano Prodi. Caduto Prodi, Formigoni venne convocato ad Arcore dal neo primo ministro Berlusconi. Indovinate chi trovò con Berlusconi? Gli allora ministri Roberto Maroni e Luca Zaia (sì proprio loro!). In quell’incontro Formigoni si sentì dire che la richiesta di autonomia lombarda doveva essere lasciata cadere! Certo che le persone vengono proprio prese in giro da una certa politica che vorrebbe essere popolare e populista…. La “chicca” è stata raccontata da Formigoni in una recente intervista ed è stata riportata da Enrico Brambilla. Veniamo ai contenuti veri e propri dell'incontro. Le posizioni dei due relatori: Enrico Brambilla a favore del non voto e Roberto Invernizzi per il Sì. Ma, entrambi, favorevoli ad una richiesta di maggiore autonomia nell'ambito di quello che viene chiamato “federalismo differenziato”. Ed entrambi concordi sull’inutilità di questo referendum che costerà circa 50 Milioni di euro, tanto quanto la Regione spende per tutti i piani di zona socio-sanitari. Il consiglio della Regione Emilia Romagna ha approvato, col voto contrario della Lega Nord!!!, una richiesta di maggiore autonomia su alcune materie (tutela del lavoro, istruzione, commercio con l’estero, rigenerazione urbana, tutela della salute e dell’ambiente, governance locale; qui il link per chi volesse approfondire), evitando lo spreco referendario. Spreco che, ricordo io, in Lombardia è passato con l'approvazione del Movimento 5 Stelle. Certo i grillini sono “animali strani”: si indignano per i biglietti gratuiti dati negli stadi ai consiglieri comunali (costo per la comunità qualche centinaio di euro) e minimizzano una spesa inutile di 50 Milioni di euro. Spesa inutile? Sì inutile! Anche il prevalere del Sì non comporterà alcuna conseguenza a breve termine. Per di più allo scadere della legislatura e quindi con la necessità di aspettare la formazione del nuovo governo per intavolare qualsiasi trattativa. Altre informazioni emerse riguardano i messaggi scorretti contenuti nel sito istituzionale della Regione Lombardia. Prima di tutto la promessa di trattenere in Regione almeno la metà del residuo fiscale per un importo pari a 27 Miliardi di euro. Enrico ha spiegato che il residuo fiscale consiste nella differenza tra le tasse raccolte in Regione e i servizi ricevuti dallo Stato e ha valutato la cifra di 27 Miliardi assolutamente spropositata. A questo proposito l'ottenimento di una maggiore autonomia comporta non il trasferimento di più soldi ma quello di nuove competenze. Infine Maroni sta dicendo che chiederà più autonomia su tutte le 23 materie possibili. Anche su questo Enrico si è detto scettico: che senso avrebbe portare a livello regionale le decisioni sulle grandi reti di trasporto e di navigazione? Per finire le mie conclusioni dopo l’incontro: al referendum non andrò a votare dovremo, come PD, riprendere la discussione sulla forma e sui contenuti di una maggiore autonomia. Per esempio riusciremo a proporre alle prossime elezioni regionali un modello di sanità diverso da quello costruito da Formigoni e Maroni? Costoso e che sta indebolendo la Sanità pubblica a favore di quella privata.
Referendum autonomia, Maroni: "Grazie ai sindaci Pd per il sì". Referendum autonomia, Maroni "tira le orecchie" ai Cinque Stelle e ringrazia i sindaci del Pd schieratisi a favore del sì. Intanto Galli attacca Martina, scrive Lunedì, 9 ottobre 2017, "Affari Italiani". "Se vince il sì, con qualsiasi percentuale, andrò a Roma per iniziare le trattative. Se vince il no, fine delle trasmissioni e non si parlerà più di autonomia": così il governatore lombardo Roberto Maroni. Che ha anche rivolto un pensiero ai sindaci del Pd favorevoli alla consultazione: Voglio ringraziare tutti gli amministratori in particolare i sindaci del Pd" che si sono impegnati per il 'si'' al referendum per l'autonomia della Lombardia. I sindaci dem lombardi, ha sostenuto Maroni, hanno dimostrato di saper "anteporre l'interesse dei cittadini agli ordini di partito". "Io l'ho fatto per Ema, ho dato la disponibiltà" del Pirellone, "avendo la Lega contro", ha ricordato. Maroni non ha voluto dare previsioni sull'affluenza e su quale sarà il limite entro il quale considerare il referendum un successo o un flop. Diversamente dal Veneto, in Lombardia non c'è il quorum, ha ricordato, "a me interessa capire se vince il sì o vince il no". "Più saranno i sì più potere negoziale io avrò" nella trattativa col governo, ha garantito, ribadendo che se l'affluenza sarà alta chiederà un accordo per "tutte le competenze" per cui può negoziare più autonomia. E sulle scelte in casa Pd è intervenuto anche Stefano Bruno Galli, a capo del gruppo consiliare "Maroni Presidente - Lombardia In Testa" al Consiglio regionale lombardo e relatore del referendum per l'autonomia della Lombardia: ""La crepa che attraversa il Pd sul tema dell'autonomia non potrebbe ricevere rappresentazione più surreale che nella città di Bergamo. Da una parte Giorgio Gori, sindaco e promesso sfidante (e le primarie?) di Roberto Maroni, ha capito da tempo che se non si fosse schierato per il sì al referendum per l'autonomia della Lombardia non avrebbe avuto senso nemmeno scendere in campo per le Regionali del 2018. Dall'altra parte, Maurizio Martina, ministro bergamasco e campione di preferenze quando venne eletto consigliere regionale nel 2013, detesta il referendum al punto da vederne solo i costi organizzativi. Un ministro della Repubblica, un lombardo, che davanti all'oggettivo fallimento dell'istituto del regionalismo differenziato, ossia al fallimento che dura da 16 anni di ogni trattativa tra Stato e regioni ex art. 116 terzo comma, non è in grado di guardare oltre ai costi della democrazia, lascia senza parole. Anche perchè Martina è ministro dell'Agricoltura e la Lombardia è la prima regione agricola del Paese. Senso della realtà, visione prospettica, fiuto per il futuro: zero. Ogni considerazione sacrificata sull'altare di un brevissimo calcolo politico". Maroni oggi ha presentato ai sindaci e ai responsabili degli uffici elettorali lombardi il sistema di voto elettronico, introdotto per la prima volta in Italia: "Sarà semplicissimo - ha detto -, basta un tocco per scegliere tra sì, no o scheda bianca", ha spiegato il governatore lombardo Roberto Maroni, simulando il voto davanti alle telecamere. Le voting machine, ha continuato, chiederanno una conferma del voto e poi un beep segnalerà la conclusione dell'operazione. "A chiusura del seggio la macchina stamperà immediatamente la scheda con il dato del seggio", ha proseguito, "non ci sarà spoglio, nè rischio di brogli, conosceremo immediatamente il risultato del referendum". Nel frattempo il governatore Regionale Roberto Maroni fa il punto sulla campagna verso il 22 ottobre. E tira le orecchie ai Cinque Stelle: "Si stanno impegnando tutti. Non tanto i 5 stelle". Il voto favorevole dei 5 stelle in Consiglio regionale lombardo fu determinante per il via libera alla consultazione. Maroni ha anticipato che sentirà Silvio Berlusconi nei prossimi giorni e lo inviterà a "venire sabato mattina" all'incontro sul referendum organizzato dal coordinamento regionale di Forza Italia a Milano. "Io ci sarò. Lo sentirò, so che è molto impegnato ma magari un'oretta libera la trova", ha continuato Maroni. "La Lega ha organizzato la chiusura a Bergamo", ha ricordato il governatore lombardo. "Grazie al M5S la sperimentazione sul voto elettronico per il referendum del 22 ottobre è una realtà e rappresenta una grande vittoria per la democrazia, per i cittadini e per la Lombardia. Per l'immediato futuro la possibilità che i cittadini si esprimano con il voto elettronico va ampliata fino alla realizzazione della democrazia diretta; un obiettivo che terrorizza tutti i partiti che hanno dimostrato ampiamente di essere allergici alle urne". Così Andrea Fiasconaro, capogruppo del M5S in Consiglio regionale lombardo. "Continuano poi le mistificazioni di Maroni sul referendum e dopo le balle sui miliardi di euro arrivano quelle sul M5S. Se dal 22 ottobre si farà qualche passo in avanti in Lombardia sull'autonomia è solo grazie al M5S che, oltre a proporre il quesito e a portare a casa il voto elettronico, sta facendo un lavoro capillare sui territori per smontare le fake news indipendentiste della Lega", ha concluso. Per il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il referendum per l'autonomia dalla Lombardia del prossimo 22 ottobre "si poteva evitare perchè è un referendum non deliberativo e si poteva avviare un tavolo di contatto con il Governo". "Pero', posto che ci sarà - ha detto Sala ai microfoni di Rtl 102.5 -, io andrò a votare sì e da parte mia cercherò di spiegare perchè, non è che si può votare sì perchè rimarranno più tasse lombarde ai lombardi, non è vero, ma una maggior autonomia funzionale, quella è auspicabile". "Se la devo dire tutta - ha osservato il sindaco di Milano - penso che questo Paese se vorra' andare avanti con 8000 Comuni, 93 province, 14 città metropolitane, 20 regioni, non va da nessuna parte". Il comitato bergamasco per il 'si' al referendum per l'autonomia della Lombardia ha organizzato per venerdì 20 una cena di chiusura della campagna elettorale cui hanno finora confermato la loro partecipazione, per la Lega, Matteo Salvini e Roberto Maroni, e, per Forza Italia, Giovanni Toti e Mariastella Gelmini. Alla cena - 25 euro alla Fiera di Bergamo - è stato invitato anche Silvio Berlusconi, che invece non è dato presente, sabato mattina, all'evento, sempre sul referendum, organizzato a Milano dal coordinamento lombardo di FI. Nel capoluogo orobico attese circa 2000 persone, tra imprenditori e rappresentano della società civile.
Referendum autonomia, il Pd: "I costi stanno lievitando, siamo già a 55 milioni". La Lega: "E' il costo della democrazia", scrive Martedì 10 Ottobre 2017 "Leggo". A conti fatti il referendum per l’autonomia del 22 ottobre costerà «più di 55 milioni di euro». Lo denuncia il Pd in Regione che sulla spesa per la consultazione già aveva sollevato critiche. Ma ora, secondo il capogruppo Enrico Brambilla, i numeri stanno anche lievitando. «Ormai siamo a un costo di oltre 55 milioni di euro, si tratta di uno spreco di risorse. La democrazia ha un costo, lo sappiamo, ma lo spreco va correlato all’inutilità della consultazione», ha attaccato ieri. Tra le voci principali elencate dal Pd «i 22 milioni per il voto elettronico e l’acquisto delle voting machine, i 24,5 milioni di euro per la gestione della consultazione, con anche i rimborsi ai Comuni, tre milioni per la comunicazione e cinque per l’invio di lettere ai cittadini». Numeri che secondo l’opposizione pesano soprattutto se confrontati con quelli per le politiche per i cittadini. «La Regione Lombardia per i piani sociali dei 1500 Comuni, per esempio – ha detto Brambilla - quest’anno ha stanziato 48 milioni di euro, mentre per il referendum siamo oltre i 55». La replica è arrivata dal capogruppo della Lega Massimiliano Romeo. «Si tratta - ha sostenuto - di costi della democrazia, e quelli del Pd sono «pretesti per attaccare la consultazione». Sul voto i democratici lasciano in ogni caso libertà di scelta, anche se, è la posizione del partito, la consultazione si poteva evitare, aprendo direttamente la trattativa con lo Stato per ottenere maggiori competenze. Ieri sul referendum iri è intervenuto anche l’ex presidente della Regione Roberto Formigoni, mostrando più di una perplessità. «Voterò sì, anche se sono amareggiato e deluso perché l’autonomia è una cosa seria che viene affrontata in modo banale». E ha aggiunto: «Invece il quesito è molto vago, è come chiedere se vuoi bene alla mamma, tutti rispondono sì». E poi: «Se Maroni avesse voluto poteva comunque chiedere di aprire la trattativa in qualsiasi momento».
I preti schierati per il "Sì" benedicono il referendum. Parrocchie venete e giornali diocesani invitano i fedeli al voto: "Sarebbe d'accordo pure don Sturzo, ne parlava", scrive Stefano Filippi, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale". Il parroco è anonimo, la chiesa pure (è in provincia di Treviso), ma l'assessore regionale veneto Giampaolo Bottacin, leghista, garantisce che è tutto vero: ne fa fede la foto scattata con il telefonino e pubblicata sulla sua bacheca Facebook. È un avviso parrocchiale che invita a votare domenica. «Partecipare al Referendum (la maiuscola è nell'originale, ndr) in massa è un segnale importante che viene mandato alla dirigenza del Paese», esorta il prete. Che poi cita Platone: «Una delle punizioni che ti aspettano per non avere partecipato alla vita politica è di essere poi governato da esseri incapaci». E chiude con un grave monito: «Per un cristiano, poi, è dovere morale assumersi le proprie responsabilità e non far parte della massa degli impotenti e dei vili e che scarica sempre la colpa sugli altri». Impotenti e vigliacchi: il parroco («un prete autonomista come ce ne sono tanti», scherza Bottacin) non va per il sottile. Più argomentata è la posizione della Chiesa veneta, ma il senso è quello: croce sul Sì. «Il referendum è nella legalità e nella legalità va tutto bene», ha detto monsignor Corrado Pizziolo, vescovo di Vittorio Veneto (Treviso). Domenica scorsa vari settimanali diocesani hanno aperto il giornale con titoli sul referendum. Verona Fedele ha pubblicato i pareri di quattro politici locali (lista Zaia, Pd, Cinque stelle, Forza Italia): favorevoli 3 su 4. Guglielmo Frezza, direttore della Difesa del popolo (Padova) e Lauro Paoletto, numero uno della Voce dei Berici (Vicenza) hanno scritto così: «Il referendum c'è. Si poteva certo avviare la procedura per richiedere maggiore autonomia anche senza. Ci si sarebbe riusciti? Forse. Ma con i se, i ma e i forse non si va lontano. Oggi il referendum c'è e vale pena interrogarsi su come fare in modo che sia un'occasione per crescere come comunità, veneta e italiana». L'appoggio non è smaccato ma in Veneto il referendum prevede il quorum del 50 per cento più 1; perciò ogni invito a prendere sul serio il quesito autonomista rappresenta di fatto un endorsement al Sì. Del resto, così ha spiegato Paoletto al Corriere Veneto: «Federalismo e autonomia fanno parte della dottrina evangelica, ne parlava già don Luigi Sturzo. Ora il problema è quale autonomia coniughi solidarietà ed efficienza. Se il Sì avrà ben riconoscibile il marchio del Veneto, sullo sfondo della bandiera italiana, potrà essere davvero fattibile e condivisibile». Autonomia solidale è la parola d'ordine degli ambienti ecclesiastici davanti al referendum. Nelle curie venete si ricorda che vent'anni fa i vescovi del Nordest scrissero all'allora premier Massimo D'Alema una lettera intitolata «Il federalismo dei campanili» avallando le istanze anti centraliste e che la Chiesa stessa, pur essendo una monarchia assoluta, di fatto ha una struttura «federalista» con le diocesi e le Conferenze episcopali: le questioni locali affrontate in autonomia in un contesto unitario. Non si schiera il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia. Dopo aver dichiarato, a proposito della Catalogna, che «l'autonomia è la grande sfida che le democrazie di oggi, in questo periodo, si trovano innanzi», ha fatto sapere che non intendeva prendere nessuna posizione su temi politici, né intervenire «a gamba tesa su competizioni elettorali in atto, a cominciare dai referendum». Invece il nuovo arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, non si è fatto problemi a sollecitare gli elettori a partecipare a «consultazioni importanti per le istituzioni politiche e amministrative» che costituiscono «un'occasione per riflettere, confrontarsi, esprimersi sugli aspetti istituzionali della società civile».
Referendum, Berlusconi: "Soddisfatto, non è contro lʼunità nazionale". "Se Veneto e Lombardia crescono ne guadagna il Paese intero", scrive il 23 ottobre 2017 TGcom 24. Silvio Berlusconi si dice "soddisfatto per il risultato dei referendum della Lombardia e del Veneto, che abbiamo sostenuto con convinzione e con impegno attivo". Secondo il leader di Forza Italia, "era giusto consentire ai cittadini di esprimersi, ed ora è necessario che da questo voto nasca un processo di riforma federalista, che avvicini le scelte di governo alla gente. Non è un risultato che va contro l'unità nazionale, che per noi è sacra". "L'unità nazionale è sacra", dice Berlusconi che aggiunge: "Sono convinto che se Lombardia e Veneto potranno crescere più velocemente, tutto il paese ne guadagnerà". Per il leader di Forza Italia, in una nota. "Il principio di sussidiarietà, quello secondo il quale il pubblico non deve fare ciò che può fare il privato, e nel pubblico le decisioni vanno prese al livello più vicino possibile ai cittadini, è da sempre al centro dei nostri programmi. Gli elettori del Veneto e della Lombardia hanno dimostrato di condividerlo - prosegue Berlusconi -. Ora comincia una fase nuova: credo che toccherà a noi, quando torneremo alla guida del paese dopo le elezioni, dare compiuta attuazione a una riforma che potrà riguardare tutte le regioni italiane".
Autonomia Veneto, Berlusconi: "Sì convinto, non è contro unità", scrive il 13 ottobre 2017 "TgCom24". Il referendum "non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna". "Se il Veneto deve tornare ad essere una delle locomotive d'Italia, ha bisogno di istituzioni che siano in grado di supportare e non ostacolare il lavoro dei veneti. Per questo voteremo 'sì' con grande convinzione al referendum di domenica 22". Lo ha detto il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, precisando che il referendum per l'autonomia "non è contro l'unità nazionale, anzi: un Veneto più libero e avanzato è un vantaggio per l'Italia intera". "Non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna - prosegue Berlusconi -. Quello Veneto è un referendum per affermare il principio di sussidiarietà, che è nel nostro programma fin dal 1994.
Berlusconi e le uscite razziste, scrive l'11 ottobre 2016 "Lettera 43". «Una che va con un negro mi fa schifo», disse B riferito a Fico e Balotelli. Ma non è stato un caso isolato. «Che poi, te lo dico, a me una che va con un negro mi fa schifo». No, non è l'ennesimo video rubato di Donald Trump. Arcore, Villa San Martino. Silvio Berlusconi sta parlando amabilmente nel suo salotto con Marysthelle Polanco e altre due ragazze della relazione tra Roberta Fico e Mario Balotelli. «Raffaella Fico…Raffaella…», dice la showgirl domenicana al Cav che le risponde, ignorando di essere ripreso: «A me una che va con un negro mi fa schifo».
«PAPI, ANCHE IO SONO NEGRA». Polanco a quel punto fa notare al gentile e generoso ospite che in fondo anche lei proprio caucasica non è. «Papi, ma io sono negra!». «No tesoro», risponde lui sorridendo, «lascia stare, tu sei abbronzata». Con Polanco quel giorno ad Arcore c'erano anche altre due ragazze accorse per chiedere all'ex premier un posticino in televisione. Come la Fico, oppure come «quella di Sipario» o come Emilio Fede. «Devi chiamare e dire: lui non fa più il direttore, lo faccio io il direttore del Tg4», scherza Polanco che per inciso era l'olgettina che durante i dopocena eleganti raccontò di essersi travestita anche da Ilda Boccassini.
L'INCHIESTA RUBY TER. Il video di 27 minuti, il cui contenuto è stato reso pubblico da Giustiziami, è stato depositato agli avvocati dalla Procura di Milano e proviene dalla rogatoria Svizzera condotta nell’ambito dell’inchiesta Ruby ter. «Abbronzato, bello e giovane» per il Cav era pure Barack Obama. Una dichiarazione del 2008 che fece scoppiare una bufera. Non è stato però l'unico scivolone a sfondo razzista di Berlusconi.
OSSESSIONE BALOTELLI. Il 21 febbraio scorso, festeggiando a Milanello i suoi 30 anni di Milan, era tornato su Balotelli «che è italiano, ma ha preso un po' troppo sole». Quella del calciatore bresciano pare essere una ossessione di famiglia visto che a febbraio 2013 a cadere in fallo era stato pure Paolo. «E adesso», chiuse un suo intervento durante la campagna elettorale il fratello dell'ex premier, «andiamo a vedere come se la cava il negretto di famiglia, la testa calda». Il meglio di sé B. però lo diede nel giugno 2009.
«MILANO? UNA CITTÀ AFRICANA». «Non posso accettare che quando circoliamo nelle nostre città ci sembra di essere, e mi è capitato nel centro di Milano, in una città africana e non in una città europea per il numero di stranieri che ci sono». Città africana nella quale però una giovane marocchina fermata in questura venne fatta rimettere in libertà su pressione di B perché «nipote di Mubarak». Karima El Mahroug forse non era al 100% africana, ma solo abbronzata.
II Mattino del 15 aprile 1995. Ieri sera l'onorevole Berlusconi a "Tempo reale" ha indirettamente offeso napoletani e meridionali usando l'aggettivo borbonico in senso spregiativo incorrendo in uno dei più squallidi luoghi comuni che si perpetuano da tanto tempo. Rispondendo ad un articolo comparso sulla Voce molti mesi fa su questo giornale avevo dimostrato l'infondatezza del "facite ammuina", un falso decreto che facendo bella mostra di sé in tanti uffici e in tante case settentrionali e non, mortifica i meridionali facendoli passare per quello che non sono stati, e noto con amarezza che per ridare alla nostra gente la dignità che gli spetta non basteranno cent'anni. Il lavoro scientifico di denigrazione e di cancellazione della memoria operato per più di un secolo è proprio difficile da smontare. Quando sostengo che noi meridionali veniamo alla luce con delle tare genetiche e siamo quindi un po' mafiosi, un po' camorristi, un po' furbetti, un po' ladruncoli, un po' lazzari non lo dico per piangermi addosso, lo dico solo perché sono i fatti che lo dimostrano. Le pubblicità con i napoletani della Findus o quella della pizza surgelata, oggetto di polemiche in questi giorni ne sono la dimostrazione. Ieri davanti a milioni di italiani Berlusconi ha usato l'aggettivo borbonico per ricordare per l'ennesima volta quel falso regolamento di marina che campeggia forse anche nei suoi uffici. Quel "facite ammuina" inventato per denigrare i napoletani, per farli passare sempre e comunque per fannulloni e imbroglioni continua a dilettare la gente soprattutto quella che ci vuole male. E' lo stesso andazzo che fa sì che un manuale Mondadori per le scuole medie riporti come immagine di Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie un piccolo e "folkloristico vicolo dei quartieri spagnoli". Berlusconi faccia ricercare i regolamenti della marina napoletana, che fu la terza d'Europa e vedrà che di quel decreto non v'è traccia e se pensa seriamente di operare in favore di quel Sud di cui tutti si riempiono la bocca senza poi far niente o pensando di sradicare ancora una volta i suoi abitanti per farli emigrare di nuovo, magari con una ventina di milioni per incoraggiamento, vedi vicenda dei portalettere, trovi modo di fare ammenda e di rettificare. Se non lo farà saranno i meridionali e i napoletani a regolarsi di conseguenza.
Berlusconi, il ritorno: dal “bidet per scopatori africani” all’apprezzamento per moglie e figlia di Trump, scrive Gisella Ruccia il 15 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Gag, barzellette, freddure, ode per gli animali “esseri senzienti”, battute pruriginose assortite. Silvio Berlusconi non smentisce il suo tradizionale repertorio nel lungo “one man show” tenuto a Ischia per presentare i punti del programma di Forza Italia. Lo spauracchio principale del Cavaliere è il M5S, movimento “pericoloso, incapace e pauperista”, che, a suo dire, ha un frontman chiamato Luigi Di Maio, con un deus ex machina che è nientepopodimeno che il magistrato Piercamillo Davigo: “So che ci sono stati tre incontri tra Grillo, Casaleggio e Davigo che ora smentisce. Guardate chi è Davigo: è un concentrato di odio, invidia e rabbia. I suoi collaboratori dicono che non l’hanno mai visto sorridere nemmeno una volta. Non so perché abbia dei brutti denti oppure perché non ne sia proprio capace”. Via libera quindi agli strali contro i giustizialisti pentastellati, occasione per annunciare la riforma della giustizia secondo Silvio: cambiamento assoluto delle intercettazioni, non appellabilità delle sentenze di assoluzione, pm con stessi diritti degli avvocati della difesa, carcere prima del processo solo a chi commette atti di violenza, per tutti gli altri varrà invece la cauzione, secondo il modello americano. “C’è qualcuno di voi che ancora si fida di dire al telefono alla propria mogliettina un complimento birichino?”, chiede Berlusconi al pubblico. Poi un tributo a Donald Trump: “Che pena vedere i candidati alle presidenziali che gli americani hanno messo in campo. C’è un’incredibile crisi di leadership a livello internazionale. Ora c’è questo signor Trump, di cui ammiro la moglie e la figlia”. Immancabile il ricordo di Gheddafi: “Sono andato nei centri di accoglienza e non ho visto bidet. Ho cercato di dire che erano necessari e ho pensato: ‘Voglio insegnare a questi scopatori africani che anche i preliminari sono importanti’. Vedo che la signora Carfagna in prima fila si è scandalizzata, e questo va bene”. Infine, una battuta sul Paradiso: “Dio mi ha chiamato e mi ha detto: la tua idea di trasformare il Paradiso in società per azioni e quotarla, mi è piaciuta moltissimo. C’è solo una cosa che non capisco: perché dovrei fare il vicepresidente?”
Saviano: «I piemontesi non facevano il bidet». Lo scrittore risponde ad Amandola. Scrive "Lettera 43" il 22 ottobre 2012. Il tweet di Roberto Saviano dopo la dichiarazione del giornalista del Tgr Piemonte, Giampiero Amandola. La frase infelice che il giornalista della Rai, Giampiero Amandola durante il Tgr Piemonte ha espresso nei confronti dei napoletani («Puzzano») ha sconvolto anche il giornalista e scrittore campano Roberto Saviano. Su twitter, lunedì 22 ottobre, ha espresso il suo disappunto: «Quando i piemontesi videro il bidet nella Reggia di Caserta lo definirono oggetto sconosciuto a forma di chitarra». Amandola intanto è stato sospeso. La decisione è stata presa dalla Rai che ha definito il comportamento del giornalista «inqualificabile». Il mister dei partenopei Walter Mazzarri era entrato a gamba tesa: «Spero che chi ha sbagliato paghi. Se la giustizia permette che si sentano i cori che ho sentito io (i cori razzisti cantati allo Juventus Stadium, ndr), è una vergogna. Gli organi competenti facciano quel che si deve. Vale per tutti, che lo facciamo noi o i tifosi Juve. Spero paghino». «VOI LI DISTINGUETE DALLA PUZZA?». A scatenare la furibonda reazione dei napoletani è stato un momento del servizio del Tg regionale piemontese trasmesso sabato 20. «I napoletani sono ovunque, come i cinesi», ha detto un tifoso bianconero. Amandola ha rincarato la dose: «E voi li distinguete dalla puzza, a quanto pare...».
Certo, però, che al piemontese Gramellini la puntualizzazione non è andata giù.
Fogne e bidet, scrive il 23/10/2012 Massimo Gramellini su “La Stampa”. Quando si scriverà il libro più lungo del mondo - l’enciclopedia della stupidità umana - due righe verranno dedicate al servizio trasmesso l’altra sera dal Tg3 Piemonte. Il giornalista inviato a Juve-Napoli per uno di quei famigerati pezzi che si definiscono «di colore» chiede a un tifoso juventino se sia in grado di distinguere i napoletani dai cinesi in base alla puzza. Nella scenetta tutto è grottesco: l’intento ironico incomprensibile e persino il fatto che a discettare razzisticamente sui «terroni» sia un ragazzo dal vistoso accento meridionale. Un tempo il siparietto penoso non avrebbe oltrepassato le valli piemontesi, ma ormai la potenza della Rete amplifica le fesserie. Così la puzza dei napoletani (un po’ meno quella dei cinesi) è diventata argomento di discussione nazionale, riaprendo le solite ferite freschissime che risalgono al Risorgimento. Anche Saviano si è sentito punto sul vivo e ha pensato bene di inzupparci la penna in modo spiritoso: «Quando i piemontesi videro il bidet nella reggia di Caserta lo definirono “oggetto sconosciuto a forma di chitarra”». Vero: in Piemonte all’epoca non avevano i bidet. Però avevano le fogne. Mentre i rimpianti Borbone, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma. Ora, che agli eredi diretti di Franceschiello dispiaccia di non potersi più pulire le terga nel bidet in esclusiva, posso capirlo. Ma che i pronipoti di quelli che venivano tenuti nella melma vivano l’arrivo dei piemontesi come una degradazione, mi pare esagerato. Vedete un po’ dove ci ha portati quel servizio razzista. Comunque, a scanso di equivoci, per lo scudetto io tifo Napoli.
Son razzisti anche se comunisti…Scrive Stefano Di Michele per "il Foglio" il 22 ottobre 2012. Prima l'uovo o la gallina? Oppure: prima il bidet o la fogna? Non bastassero le primarie ad aprire epocali questioni a sinistra - sotto le palme alle Cayman o alla pompa a Bettola? - ora è il momento della disputa: ha da considerarsi segno di maggiore civiltà l'oggetto che consente agevolmente di detergere le terga o la destinazione finale, diciamo così, della produzione fuoriuscita dalle stesse? Tra molte dispute che in zona sfiorano temerariamente il sanitario - intese quali questioni che richiedono conforto e spiegazioni di appositi luminari, adesso si è passati più prosaicamente allo scontro intorno ai sanitari - intesi quali manufatti che richiedono innanzi tutto il conforto di capaci idraulici. E' una questione esplosa tutta all'interno del faziano programma "Che tempo che fa" - con un'impennata che a questo punto necessita non solo di meteorologiche previsioni sull'anticiclone, ma anche di condominiali valutazioni sui tubi di scarico. E' come rivedere in campo Sua Maestà borbonica e Sua Eccellenza il conte di Cavour - nella fattispecie, Roberto Saviano (dal Regno delle Due Sicilie) e Massimo Gramellini (dal Regno di Sardegna). Tutto è cominciato con quel giornalista della Rai piemontese che ha avuto la bella pensata di chiedere ai tifosi juventini, in attesa della squadra dei napoletani, se dalla puzza avrebbero riconosciuto i medesimi. A parte la battuta godibile (per non allontanarsi dalla metafora) come una merda di cavallo sotto i piedi, la questione del puzzare più a nord o più a sud ha richiesto l'intervento dei due più avvertiti intellettuali del cenacolo regolato e adunato da don Fazio: appunto Saviano e dunque Gramellini - "i gioielli preferiti", ironizza il Corriere del Mezzogiorno.
Il primo ha espresso subito il suo disappunto igienico-borbonico-antirisorgimentale con un tweet, rievocando lo stupore dei piemontesi quando nella Reggia di Caserta si trovarono davanti l'innovativo bidet, e ignorando sia la forma sia la praticità del manufatto, con gaddiano trasporto lo definirono "oggetto sconosciuto a forma di chitarra" - il che, peraltro, non pochi dubbi accende tanto sullo stato igienico sottostante dei militi nordici, quanto sulla loro personale arguzia.
Gramellini (cavouriano: si desume dal collo delle camicie, oltre che dal ritratto del Conte che spicca sopra il suo letto), non volendo essere da meno, ha immediatamente fatto conoscere il proprio fervido disappunto igienico- savoiardo-risorgimentale sulla prima pagina della Stampa, concedendo l'onore del bidet al napoletano, ma rivendicando ai piemontesi quello non meno fondamentale delle fogne, "mentre i rimpianti Borboni, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma". Polemica di sostanza e sapori (per non dire odori) forti. Urge in trasmissione rapida convocazione di filosofi e storici a consueta transumanza faziana - oltre alla cara Littizzetto, che dibattendo così spesso tanto del "Walter" quanto della "Jolanda" (nello specifico: Quello e Quella) né sul bidet né sulle fogne dovrebbe mostrarsi impreparata. E all'uovo e alla gallina, pertanto, si torna: si può avere il bidet senza fogne? e se c'hai le fogne ma non il bidet, con le fogne che ci fai? C'è materia per un'intera prima serata su RaiTre, così da consentire alle due colonne portanti della trasmissione di poter pubblicamente e una volta per tutte chiarire la vexata quaestio. E invece del solito raffinatissimo gruppo musicale, al centro dello studio una riproduzione della famosa fontana, da ognuno inteso "pisciatoio", di Duchamp: così che nei pressi, sia Cavour sia Franceschiello possano finalmente liberarsi (di ogni dubbio storico).
Bidet. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il suo nome deriva dal francese bidet, termine che indica anche il pony. L'omonimia è dovuta alla somiglianza della posizione che si assume durante l'utilizzo del bidet con quella della cavalcata del pony. La parola deriva dalla radice celtica bid, col significato di piccolo, e bidein, piccola creatura.
Il bidet inizia a comparire negli arredamenti francesi tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo, ma non si conosce ovviamente né la data certa né il nome del suo inventore. La prima testimonianza certa risale al 1710, anno in cui tale Christophe Des Rosiers, lo installò presso l'abitazione della famiglia reale francese. In realtà i bidet, immediatamente dopo l'introduzione, furono poco utilizzati in Francia; a Versailles ne esistevano in circa cento stanze, ma furono dismessi tutti in una decina di anni. I pochi esemplari usati finirono nelle case d'appuntamenti. Nella seconda metà del Settecento la Regina di Napoli Maria Carolina d'Asburgo-Lorena volle un bidet nel suo bagno personale alla Reggia di Caserta, ignorandone l'etichetta di "strumento di lavoro da meretricio". Secondo l'anedottica l'inizio della diffusione di questo sanitario in Italia coinciderebbe con questo evento e, sempre secondo una leggenda priva di riscontri, dopo l'unità d'Italia, nella Reggia di Caserta i funzionari chiamati a redigere l'inventario dei beni si sarebbero trovati di fronte al bidet che non conoscevano e l'avrebbero catalogato come "oggetto per uso sconosciuto a forma di chitarra". In realtà il bidet si è diffuso in Italia in tempi relativamente recenti dopo il secondo dopoguerra. Tanto i gabinetti comuni delle case operaie dei grandi centri urbani, quanto le latrine contadine ne erano generalmente privi. Ancora negli anni '60 del Novecento non era raro che soprattutto i nuovi immigrati nelle grandi città del nord usassero il bidet come lavatoio per i panni o "pulisci piedi".
Dal 1900, durante l'età vittoriana, con la diffusione delle tubature all'interno delle case private, il bidet divenne un oggetto utilizzato non più in camera da letto, ma nel bagno, insieme al water, che sostituiva il pitale tenuto in camera.
Nel 1960 invece ci fu l'introduzione sul mercato di un sanitario risultante dall'unione del water con il bidet, particolarmente utile in piccoli ambienti in cui i due sanitari non troverebbero posto; esso è a volte detto "bidet elettronico", ma in Italia non ha incontrato favore e non si è diffuso.
I bidet non sono presenti in tutti i paesi europei: sono comuni solo in Grecia, Spagna, e soprattutto in Italia e in Portogallo, paesi nei quali l'installazione di un bidet fu resa obbligatoria nel 1975. Secondo un sondaggio francese del 1995, è l'Italia il paese in cui il bidet è utilizzato più di frequente (97%), seguito dal Portogallo al secondo posto (92%) e dalla Francia al terzo (42%); in Germania il suo uso è raro (6%) e in Gran Bretagna rarissimo (3%). In America Latina i bidet si trovano in Brasile, Paraguay e Cile, e soprattutto in Argentina e Uruguay, dove sono installati nel 90% delle case private; sono abbastanza comuni anche in Medio Oriente. In Giappone, pur essendo pressoché assenti, sono però sostituiti nella funzione da un sanitario che unisce le funzioni del water e quella del bidet, detto washlet, presente nel 60% delle case private e non raro negli alberghi. In Francia, Paese d'origine del bidet, a partire dagli anni settanta, per ragioni di economia e di spazio, sono raramente installati bidet nei nuovi appartamenti (dal 95% di presenza nei bagni nel 1970, la percentuale è scesa al 42% nel 1993) e una grande quantità di persone ha eliminato il bidet dalla propria casa. Un fenomeno analogo si sta riscontrando in Spagna, dove è sempre più frequente la mancanza del bidet nelle nuove abitazioni e nelle vecchie case ristrutturate, per un uso diverso dello spazio, sebbene gli appartamenti di lusso e con almeno due stanze da bagno continuino a esserne equipaggiati. I residenti di paesi in cui il bidet domestico è raro (come gli Stati Uniti d'America e il Regno Unito, ad esempio) spesso non hanno alcuna idea di come usarlo quando ne trovano uno all'estero. Gli statunitensi hanno visto per la prima volta il bidet nei bordelli francesi durante la seconda guerra mondiale e ancora collegano questo sanitario all'idea che le prostitute lo usassero per lavarsi i genitali in seguito ai rapporti sessuali. I pregiudizi sono comuni tra gli abitanti di questi paesi, che a volte considerano il bidet un oggetto strano e anche sporco; ciò fa parte dei tabù legati all'igiene personale.
Quando al nord ancora mangiavano con le mani...
Dopo il bidet un altro primato meridionale: la forchetta, scrive il 20 ottobre 2014 Angelo Calemme. Lo sapevate che la forchetta con cui quotidianamente tutto il mondo attorciglia gli spaghetti è un’invenzione napoletana? In stretta controtendenza con lo “SputtaNapoli” e le menzognere letture risorgimentali e filosabaude della storia d’Italia diffondiamo questa notizia curiosa che in questi giorni grande clamore e consensi sembra suscitare sul web e, soprattutto, sui social network: la forchetta a 4 rebbi è un’invenzione duosiciliana e, più precisamente, napoletana. La forchetta ha origini antiche e, in base agli ultimi studi storici e archeologici, si presume sia una specificità della civiltà antica, mediterranea e romana. La forchetta venne sin da subito concepita come uno strumento da affiancare ai ditali d’argento con i quali i delicati polpastrelli delle famiglie patrizie greche e romane preferivano non ustionarsi durante i banchetti. Con la scomparsa della civiltà romana d’Occidente la forchetta sopravvisse solo nell’Impero romano d’Oriente e reintrodotta in Europa a partire dal 1003 dai veneziani, in seguito al matrimonio tra Maria Argyropoulaina, nipote di Costantino VIII, e Giovanni Orseolo, figlio del Doge Pietro II Orseolo. In seguito al boicottaggio della Chiesa che la definì un “demoniaco oggetto” essa ebbe una diffusione travagliata per circa 767 anni fino a quando il Regno di Ferdinando IV di Borbone e la regina Maria Carolina, nella persona del gran ciambellano Gennaro Spadaccini, non la secolarizzò, e ridisegnò, con 4 punte, ribattezzandola con il nome di modello broccia o napolitania.
Quest’ultima è la forchetta che tutto l’Occidente in particolare e la ristorazione in generale utilizza quotidianamente e che, solitamente, viene associata alla degustazione degli spaghetti al sugo di pomodoro.
Peccato Gramellini…anche le fogne in Italia sono nate prima al sud.
Fognatura. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Per fognatura (più formalmente sistema di drenaggio urbano o impianto di fognatura, volgarmente chiavica) si intende il complesso di canalizzazioni, generalmente sotterranee, per raccogliere e smaltire lontano da insediamenti civili e/o produttivi le acque superficiali (meteoriche, di lavaggio, ecc.) e quelle reflue provenienti dalle attività umane in generale. Le canalizzazioni, in generale, funzionano a pelo libero; in tratti particolari, in funzione dell'altimetria dell'abitato da servire, il loro funzionamento può essere in pressione (condotte prementi in partenza da stazioni di pompaggio, attraversamenti, sifoni, ecc.). Le prime testimonianze storiche di fognature risalgono ad un periodo compreso tra il 2500 e il 2000 a.C. circa e sono state trovate a Mohenjo-daro, nell'attuale Pakistan. Dai resti si è potuta ricostruire la fisionomia della città che, sotto il livello stradale, presentava una vasta rete di canali in mattoni in grado di convogliare le acque reflue provenienti dalle abitazioni. Anche la città di Ninive, capitale del regno assiro tra l'VIII e il VI secolo a.C. era fornita di una rete fognaria. Le fognature antiche più efficienti furono però quelle di Roma. La prima cloaca romana di cui si abbia notizia risale al VII secolo a.C. e fu progettata per bonificare gli acquitrini che occupavano le vallate alla base dei colli dell'Urbe, e far defluire verso il Tevere i liquami del Foro Romano, di Campo Marzio e del Foro Boario. La realizzazione più importante fu però la cloaca massima, la cui costruzione fu avviata nel VI secolo a.C. sotto il leggendario re di Roma di origine etrusca Tarquinio Prisco. Con la cloaca massima (inizialmente era un canale a cielo aperto ma successivamente fu coperto per consentire l'espansione del centro cittadino), di cui si possono vedere alcuni tratti e lo sbocco presso i resti del Ponte Rotto, i romani ci hanno tramandato uno dei più importanti esempi di ingegneria idraulico-sanitaria. Con la caduta dell'impero, non vennero più costruite nuove fogne e spesso quelle esistenti furono abbandonate. Solo molto più tardi, nel XVII secolo, si sentì nuovamente l'esigenza di costruire fognature a seguito della forte urbanizzazione di città come Parigi e, dal XIX secolo, Londra.
DIECI COSE CHE NON SAI SULLE FOGNE Cosa c'è da sapere sulle fogne? Tante cose, almeno 10. Eccole! Scrive "Focusjunior.it".
1. Fogna, chiavica, cloaca sono tutti nomi che indicano la stessa cosa: un sistema di canalizzazioni per raccogliere e smaltire le acque di scarico. La più antica che si conosca è stata ritrovata fra i resti di Mohenjo-Daro, una città della Valle dell’Indo, nell’attuale Pakistan, e risale al 2500 a. C.
2. Roma può vantare la rete di scarico più efficiente dell’antichità. L’asse portante era la Cloaca Maxima, un canale di scolo sotterraneo che, nel punto di maggiore ampiezza, era alto 3,3 metri e largo 4 metri e mezzo!
3. Le fogne più famose dell’età moderna sono quelle di Parigi. I cunicoli descritti nei Miserabili di Victor Hugo sono una vera città sotto la città: a ogni strada in superficie corrisponde la sua galleria sotterranea, con tanto di segnaletica, per un totale di 2.300 chilometri di percorso.
4. Nell'Ottocento a Londra c'erano solo 24 km di fognature: il grosso dei rifiuti organici finiva nei pozzi neri, che nessuno svuotava. Nel 1858 il fetore era così forte che non si poteva uscire di casa senza un fazzoletto sul naso: ancora oggi è ricordato come l'anno della Grande Puzza.
5. Non era solo questione di odori: la mancanza di igiene era una continua fonte di malattie. Dopo l’episodio della Grande Puzza (v. punto 4), a Londra si iniziarono i lavori per 2.000 km di tunnel fognari che in pochi anni misero fine alle epidemie di colera, prima frequentissime.
6. Mai sentito parlare di coccodrilli nelle fogne di New York? È ovviamente una leggenda metropolitana, ma con un fondo di verità. Nel 1935, sotto la 123a strada fu realmente avvistato (e catturato) un alligatore di 2 m, forse fuggito dal carico di una nave ormeggiata al porto.
7. Spesso nelle fogne finisce anche l’olio usato, che oltre a essere inquinante rischia di provocare danni anche seri. Nel 2013 i tecnici chiamati a ispezionare le fogne di Londra per un’ostruzione, trovarono un enorme grumo di grasso di 15 tonnellate. Per rimuoverlo ci sono voluti 3 giorni di lavoro.
8. Nelle fogne c’è anche chi ci abita. Nel 2013 la polizia di Bucarest ha fatto sgomberare un canale fognario divenuto la dimora di 35 ragazzi. Purtroppo non è una storia nuova: da tempo la sorte dei ragazzi di strada romeni è stata denunciata dal clown francese Miloud, che dal ’92 li coinvolge nei suoi spettacoli.
9. Mai sentito parlare del Musée des Egouts? È il museo delle fogne di Parigi, visitato ogni anno da circa 100 mila persone. Si entra (ovviamente) da un tombino, al 93 di quai d’Orsay, e si percorrono circa 500 metri nel sottosuolo, alla scoperta della storia e del funzionamento della rete fognaria.
10. “Oggi mi sento una cacca”. Al museo della Scienza e della tecnica di Tokyo si è tenuta un’interessante mostra sulle toilette dove, calandosi con uno scivolo in un enorme water, si poteva provare l’ebbrezza di un viaggio virtuale nelle fogne. Obbligatorio, però, indossare un casco protettivo... a forma di escremento!
Le fogne borboniche e la melma… di Venezia, scrive il 24 ottobre 2012 Angelo Forgione. Riflessivo sul bidet e colto da un impeto d’orgoglio piemontese, Massimo Gramellini nega che nella Napoli borbonica esistesse una rete fognaria e dice che dappertutto fosse melma. Lo scrittore si è infilato in un vicolo cieco dal quale è uscito scrivendo su Facebook di voler approfondire la lettura della storia dei Borbone ma non rettificando le sue inesattezze sul giornale dove le aveva scritte. Nella foto tratta da una relazione del Centro Speleologico Meridionale si può notare una fogna borbonica in disuso. Certo, la rete fognaria era statica, proprio perché antica; divenne sempre più inadeguata con l’espansione demografica e urbana, non vi è alcun dubbio, e si arrivò al punto di dover mettere mano al sottosuolo di Napoli all’epoca del “Risanamento”, ma accadde 34 anni dopo l’unità d’Italia, non 5 e nemmeno 10. Del resto, come dimostrano i tecnici del Comune di Napoli in una relazione sugli “interventi di razionalizzazione del sistema fognario cittadino” di qualche anno fa, “il mutato assetto degli insediamenti sul territorio richiedeva interventi urgenti sulla rete fognaria cittadina, in parte risalente ad epoca borbonica”. D’altronde, quando due settimane fa Napoli si allagò per il primo temporale autunnale, tutti i quotidiani si affrettarono a scrivere che “Napoli è dotata di un impianto fognario che risale all’epoca dei Borbone…”. La melma a Napoli? Wolfgang Goethe raccontò nel Viaggio in Italia del 1787 la pulizia delle strade della città dovuta anche ad un formidabile riciclaggio degli alimenti in eccesso che si attuava tra la città e le campagne tutt’intorno, un’operosità che faceva persino in modo che, nonostante girassero numerose carrozze per le strade della città, lo sterco dei cavalli fosse praticamente inesistente. Lo descrisse così: “E con quanta cura raccattano lo sterco di cavalli e di muli! A malincuore abbandonano le strade quando si fa buio, e i ricchi che a mezzanotte escono dall’Opera certo non pensano che già prima dello spuntar dell’alba qualcuno si metterà a inseguire diligentemente le tracce dei loro cavalli”. A Napoli, in pratica, si faceva una specie di “compost” ante litteram. Una pulizia che lo scrittore tedesco (tedesco!) reputò superiore agli altri posti visitati: Trento, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Ferrara, Bologna, Firenze, Perugia, Roma, e poi le città siciliane. E vide pure la melma, si, proprio quella buttata da Gramellini su Napoli, ma non a Napoli bensì a Venezia, che trovò sporchissima. Per la precisione la definì “melma corrosiva” lungo le strade. Inutile far notare che il viaggio in Italia del grande letterato tedesco non passò per Torino. Piuttosto bisognerebbe domandarsi perchè la città pulita del Sette-Ottocento sia divenuta sporca nel Novecento.
Referendum per l’autonomia: pensavamo di essercene liberati, invece ritorna la fiera delle identità, scrive Francescomaria Tedesco il 23 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Pensavamo di esserci liberati della farsa in costume delle identità, di esserci finalmente tolti la zavorra del particolarismo linguistico, culturale e perfino etnico. Lo pensavamo dopo le vicende giudiziarie della Lega Nord, ma anche dopo la svolta “nazionale” di Salvinie di quel partito che aveva smesso di gridare “prima il Nord” (certo, ahimè Salvini si è messo a gridare “prima gli italiani”, non è che sia meglio…). Ma soprattutto pensavamo di esserci liberati di quei bislacchi progetti dopo decenni di studi in cui la linguistica, l’antropologia, l’etnologia, ci avevano detto e ripetuto che le identità sono porose, osmotiche, comunicanti, che le lingue sono vive, e che rintracciare e isolare i singoli “contributi” alla costruzione delle culture è un’opera non solo e non tanto pericolosa (poiché, come dice il poeta, i frutti puri impazziscono), ma inutile. Avevamo letto le Comunità immaginate di Anderson e ci eravamo fatti un’idea sul ruolo del capitalismo-a-stampa nella costruzione delle identità, avevamo compulsato il celeberrimo volume curato da Hobsbawm e Ranger sull’Invenzione della tradizione, che iniziava proprio così: “Le ‘tradizioni’ che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”. Eravamo anche riusciti a elaborare il fatto che l’invenzione delle identità e delle tradizioni aveva avuto una funzione “ideologica”, e che dunque esse non necessariamente andavano scartate come fanfole e carnevalate. In fondo anche l’identità nazionale è un’invenzione, ci eravamo convinti a ragione. E avevamo però detto, come ha scritto Alain Touraine, che “è perché ci opponiamo risolutamente agli Stati comunitari che rimaniamo attaccati agli Stati nazionali. Poiché in essi delle popolazioni e culture differenti si mischiano per costituire una civiltà”.
Lo Stato nazionale come comunità di diritto e non di destino, in cui non siamo consanguinei per via di una madre comune, ma fratelli posticci, affratellati da un patto (che si chiama Costituzione). Certo, si dirà: questo progetto è nato male, traballante, violento, tranchant, e oggi più che mai è fragile, stretto tra le spinte esterne, la tensione omologante delle istituzioni sovranazionali e internazionali, e le spinte interne. E non è un caso che la rimessa in discussione di quel progetto avvenga nel momento della gravissimacrisi economica di questo decennio, poiché essa spinge verso la rivendicazione del “nostro” suolo, della “nostra” lingua, della “nostra” cultura e – perché no? – dei “nostri” soldi. Così, quello che non era riuscito alla Lega è riuscito alla crisi: rimettere di nuovo in discussione le nostre acquisizioni, minare l’idea della creolizzazione delle culture, rilanciare il progetto di una cristallizzazione e musealizzazione (e ri-politicizzazione) delle identità e delle lingue attraverso fantasiose grammatiche e discutibili alberi genealogici. Con l’esito che dalla critica dello Stato nazionale promanino, attraverso un paradossale avvitamento, progetti di creazione di piccoli Stati nazionali che procedano attraverso gli stessi schemi di quelli: nazione, lingua, cultura, perfino etnia (o addirittura “razza”). Gli stessi schemi, ma senza l’apparato critico che ne è seguito, senza la rielaborazione che ha permesso di mettere all’opera la fictio e passare dall’identità nazionale alla comunità di diritto attraverso la finzione giuridica della cittadinanza. E se oggi dallo Stato nazionale siamo potuti approdare allo Stato tout court, le piccole patrie propongono il ritorno a piccoli staterelli nazionali, comunità di destino. Ma lo Stato nazionale è una fratria inventata, ed è tramite essa che possiamo costruire il vivere insieme. Questo non vuol dire dismettere ogni rivendicazione di autonomia, ma smontare il dispositivo che le sottende quasi tutte. Perché ad oggi non si vedono all’opera rivendicazioni autonomiste o indipendentiste che usino il lessico della comunità di diritto, che segnalino l’esigenza di comunità interconnesse a livello europeo con altre comunità, municipalità, esperimenti di autogoverno. Comunità aperte agli altri, all’integrazione. Ciò a cui si assiste è la recrudescenza delle classiche rivendicazioni nazionali in scala ridotta. E certo, i lombardi e i veneti rivendicano i loro soldi (che poi occorrerebbe capire come calcolare il residuo fiscale, cosa da far tremare le vene e i polsi), ma gratta gratta al fondo c’è l’idea di un tufo profondo, un’identità particolaristica, un “noi” 2.0.
Referendum Lombardia Veneto, a ribellarsi dovrebbero essere le persone del Sud, scrive Alessandro Cannavale il 22 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Oggi, in Italia, una parte di una parte del Paese chiede di tenere per sé più risorse perché in questa fase storica il suo reddito pro capite è più alto e, per mantenere standard di servizi più alti per i propri cittadini, decide bene di spendere circa 70 milioni di euro per un referendum dall’orizzonte quanto meno fumoso. Sempre positivo il ricorso alle urne, ma il fine non giustifica i mezzi, in alcuni casi, dato che le Regioni hanno ben altri strumenti, senz’altro più economici, per invocare più autonomia. È il caso del referendum Lombardo-Veneto, basato sull’idea che troppo alto sarebbe il residuo fiscale delle regioni coinvolte: intorno ai 50 miliardi. In realtà, secondo Paolo Balduzzi, l’ammontare vero di quel residuo, sarebbe circa la metà. Mi pare sempre più frequente il ricorso all’immagine comoda e rassicurante dello steccato, a livello globale. Da Donald Trump, che sostiene: “A Nation Without Borders Is Not A Nation” ai referendum autonomisti, fino alla Brexit. Ovunque, la paura dell’uomo occidentale lo sta portando a erigere muri di protezione: contro i migranti, contro il nemico. Aggiungerei, contro i meridionali. Eppure, in Italia vige ancora una Costituzione. Questa Costituzione sostiene all’art. 117 lett.m che occorre provvedere alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Parole che rischiano di rimanere una dichiarazione formale e vuota, se tutti i cittadini italiani non vedono riconosciuti eguali diritti: la Costituzione rischia sempre più di esser violata nella sostanza e tutto ciò che conduce verso una simile aberrazione è in conflitto con quel dettato, violandone i principi fondamentali. L’esperienza quotidiana insegna, purtroppo, che in molte regioni (meridionali) il livello dei servizi offerti ai cittadini è sempre più basso. Trasporti, sanità, asili, scuola, università. Le migliaia di studenti che emigrano nelle università del Nord e l’emorragia di capitale umano hanno fatto sì che in dieci anni il Sud abbia perso 3,3 miliardi di euro di investimento in capitale umano e 2,5 miliardi di tasse, che emigrano verso le università del Nord. Infatti, il Sud ha perso 716 mila persone, in questi anni, di cui circa 198 mila laureati, solo negli ultimi anni. Queste ingenti somme il residuo fiscale, evidentemente, non le conta. Come il quotidiano acquisto di prodotti e servizi. E che dire della spesa drammatica dei migranti della sanità che, per avere cure migliori, si trasferiscono quotidianamente al Nord con un triste indotto collegato? Chi solletichi le paure e gli egoismi della gente, sa perfettamente che un Pil più alto oggi è il frutto di spese sostenute da tutto il Paese per arricchire aree più sviluppate e farne “locomotori” che avrebbero dovuto trainare tutto il paese. E invece non trainano nulla a quanto pare. Bisognerebbe metter mano alla gravissima discrepanza tra trasferimenti alle Regioni e livelli dei servizi, mettere a nudo l’inettitudine di chi i fondi trasferiti non riesce a metterli a frutto, invece di aggiungere confusione demagogica. Un bell’articolo di Francesco Sabatino su Lettera43 ricorda che “il divario tra Sud e Nord nelle risorse pubbliche va ben oltre il residuo fiscale, anche tenendo conto che i centro settentrionali possono contare sul supporto di un sistema semipubblico come quello delle fondazioni (patrimonio totale di 40 miliardi quasi interamente collocato sopra Roma) o che gli incentivi a fondo perduto sono stati sostituiti da strumenti legati all’acquisto di macchinari e servizi (la nuova Sabatini o i superammortamenti di Industria 4.0) che premiano soprattutto le aree più produttive”. Si fa sempre così, in Italia: anziché metter mano ai problemi si elucubra e si divide nel segno della demagogia. Dove vanno a finire i soldi trasferiti? Perché non si chiarisce questo punto? Perché non si mette il cittadino nelle condizioni di sapere la ragione di questi buchi e di queste disfunzioni? Dovrebbe esser la gente del Sud a ribellarsi, di fronte a tanto spreco di risorse. Infine, le interdipendenze dell’economia globale rendono ridicolo ogni sussulto neonazionalista. Il concetto di confine è superato e scandaloso e rischia di mettere in discussione il più nobile progetto europeo che, pur con gravi defaillance, è riuscito ad avvicinare le popolazioni del nostro continente come mai nella storia. Non confondiamo l’oro con le patacche. Ringrazio Natale Cuccurese per le gradevoli conversazioni sul Sud.
Referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto, le scomode verità da non dire, scrive Lavoce.info il 14 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il 22 ottobre si tengono in Lombardia e Veneto due referendum per “ottenere maggiore autonomia”. Circolano molte inesattezze sui cosiddetti residui fiscali e sulle materie su cui si chiede la competenza. Forse un negoziato avrebbe prodotto più risultati. Di Paolo Balduzzi (Fonte: lavoce.info).
La questione dei residui. Si avvicina la data del referendum sull’autonomia in Veneto e Lombardia. L’obiettivo dei proponenti, dando per scontata una vittoria del “sì”, è quello di ottenere una partecipazione al voto molto elevata. Nel tentativo di suscitare tanto l’interesse di chi è favorevole quanto lo sdegno di chi è contrario, si assiste perciò all’ennesima campagna elettorale farcita di esagerazioni e inesattezze. L’inesattezza maggiore ruota interno ai cosiddetti residui fiscali. Si tratta della differenza tra entrate e spese della pubblica amministrazione riferite a ogni singola regione. Il calcolo dei residui è molto critico, soprattutto per la componente di spesa regionalizzata. Come considerare infatti la spesa per la difesa nazionale, concentrata prevalentemente nelle sole regioni di confine? O la spesa per tutti gli organi costituzionali, localizzata esclusivamente nel Lazio? È evidente che quelle spese devono essere ricollocate anche rispetto alle altre regioni, utilizzando un criterio discrezionale (per esempio, la dimensione demografica). Sull’entità dei residui esistono dunque stime molto diverse. Per esempio, Eupolis Lombardia ha pubblicato uno studio in cui confronta le proprie stime (47 miliardi di euro come media nel triennio 2009-2011 per la Lombardia) con quelle di altre ricerche, alcune più ottimistiche e altre meno. Curiosamente, Eupolis viene citata dai proponenti come fonte di un’altra cifra (57 miliardi) la cui precisa origine, tuttavia, rimane ignota. In entrambi i casi si tratta di numeri abbastanza irrealistici: contributi di maggiore rigore scientifico li hanno stimati in circa 30 miliardi. Ma fossero pure47 o 57 miliardi, il punto è che i residui vengono originati per differenza. È ovvio che se lo Stato concederà autonomia a una regione su una quota, a seconda della dimensione delle competenze trasferite, smetterà di spenderli esso stesso sotto forma di spesa regionalizzata: il residuo fiscale rimarrà dunque identico.
Anche sulle materie trasferite si sono sentite molte inesattezze. Innanzitutto, le regioni possono chiedere di ottenere competenza esclusiva in tutte le materie a competenza concorrente (art. 117 terzo comma, Costituzione). Possono anche chiedere competenza esclusiva su alcune materie che la Costituzione attribuisce in maniera esclusiva allo Stato: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Quantitativamente, la più rilevante tra tutte è sicuramente l’istruzione, escludendo la sanità che già però occupa in media l’80 per cento dei bilanci regionali.
Cosa farà il governo? Cosa succederà poi il giorno successivo alla chiusura delle urne? Innanzitutto, la regione avvierà l’iter necessario e previsto dall’articolo 116, vale a dire aprirà ufficialmente il procedimento di richiesta e sentirà gli enti locali. In seguito, avvierà la trattativa con lo Stato (il governo). Ora, se la regione avesse a disposizione un criterio tecnico per sostenere la propria richiesta (ad esempio, l’equilibrio di spese e entrate, come era previsto dall’articolo 116 della riforma costituzionale bocciata nel 2016), il governo avrebbe poche armi a disposizione per dire di no o per non procedere (come avvenuto in tutti i tentativi precedenti). Sulla base del semplice risultato di un referendum, invece, il governo avrà certamente più libertà e discrezionalità nel temporeggiare e nell’argomentare contro la sua valenza politica. Infatti, c’è un pericolo sottovalutato dai proponenti del referendum: che il governo decida di non dare alcun credito alla consultazione per mandare un segnale alle altre regioni. In altri termini, se domani il governo concede maggiore autonomia a Lombardia e Veneto sulla base di un referendum, è lecito aspettarsi che dopodomani anche le altre regioni a statuto ordinario organizzino un’analoga consultazione. Ma è difficile credere che il governo sia disposto a concedere maggiore autonomia a tutte le regioni italiane. Come scoraggiare quindi referendum di questo tipo? Dando poco peso a quelli già svolti. Ciò non vuol dire che Veneto e Lombardia non otterranno nulla: ma quello che otterranno, se lo otterranno, arriverà sulla base di criteri tecnici e non politici. L’articolo 116 contiene un richiamo ai principi dell’articolo 119. Tra questi, vi è anche quello organizzativo di garantire l’equilibrio tra entrate e spese a seguito della concessione di maggiore autonomia. Certo, è una cosa ben diversa dal criterio selettivo che è rimasto escluso dall’articolo 116; è comunque con molta probabilità l’unico che sarà fatto valere. Ci si sarebbe potuti arrivare direttamente per via negoziale (come sta cercando di fare la regione Emilia-Romagna), senza il rischio di un flop referendario che – quello sì, invece – metterà la parola fine alle velleità di (maggiore) autonomia delle regioni per i prossimi dieci o venti anni. Con buona pace di chi sostiene un referendum a soli fini meramente ed egoisticamente elettorali.
Se già son razzisti tra loro…
Referendum, la rivincita del «Leon» e i malumori veneti nei decenni di Lega a dominio lombardo. Da anni e anni i leghisti veneti soffrivano verso gli amici lombardi di una sorta di sudditanza venuta meno, probabilmente, solo ieri, scrive Gian Antonio Stella il 23 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Né con Roma, né con Milano!», diceva uno striscione alla «Festa dei Veneti» indetta una decina di anni fa dalla associazione «Raixe Venete», cioè radici venete, nata «co l’intento de tegner viva la identità…». Va da sé che l’altra sera, davanti alla schiacciante superiorità percentuale dei veneti sui lombardi al referendum per l’autonomia, non c’è leghista da Peschiera a Bibione che non abbia fatto l’occhiolino al vicino: «Tò!». Per carità, Roberto Maroni si è precipitato a precisare subito che «non c’era nessuna gara con Luca Zaia». E il governatore veneto è andato più in là dicendo che non si è trattato d’una vittoria del «Leon che magna el teròn» e meno ancora del Carroccio: «Questa elezione dimostra che non esiste il “partito dell’autonomia”, esistono i veneti che si esprimono a favore di questo concetto». Scelta che fa dire a Bepi Covre, a lungo parlamentare leghista poi espulso («solo dai trevisani») che «il giovanotto è cresciuto. Molto. Ha imparato a muoversi con intelligenza. Per questo deve restare qua. Guai se dovesse ascoltare certe sirene romane. Col referendum abbiamo fatto lo zaino con la borraccia, i panini, la corda e tutto quel che serve per scalare la montagna. La scalata, però, deve ancora iniziare. E sarà durissima».
«In difesa della lingua, dei costumi e delle tradizioni veneta». Certo è che da anni e anni i leghisti veneti soffrivano verso gli amici lombardi di una sorta di sudditanza venuta meno, probabilmente, solo ieri. Sudditanza sfociata non di rado in malumori sotterranei e aperte contestazioni. Basti ricordare l’«era berlusconiana» della legislatura trionfalmente iniziata nel 2001. Lombardo era il segretario del partito e ministro per le riforme Umberto Bossi (come il suo successore Roberto Calderoli), lombardo il ministro della giustizia Roberto Castelli, lombardo il ministro del lavoro Roberto Maroni, lombardo il capogruppo alla Camera Andrea Gibelli, lombardo il primo e il terzo dei capigruppi al Senato Castelli e Pirovano, lombardi tre su quattro degli europarlamentari a Bruxelles, lombardo il direttore del quotidiano la Padania, lombardo il direttore di Radio Padania Libera e via così. Per non dire dei segretari: il «quasi a vita» Umberto Bossi, Roberto Maroni e Matteo Salvini. Tutti e tre, ovvio, lombardi. Senza che mai sia stata manco ipotizzata una candidatura padovana, veronese o trevisana. Era scontato: il potere era lì, tra Milano e Varese. Eppure i primi a tirar su la testa autonomista erano stati i veneti. Racconterà mistico Franco Rocchetta: «La prima volta che dissi che volevo fondare la Liga fu il 18 agosto 1968, nella chiesa di Santa Maria di Danzica». Conosceva il polacco? «Neanche una parola». E allora? «Come cominciai a parlare le parole presero a sgorgarmi naturalmente...». Polacchi a parte, i pionieri veneti decisero di dar vita nel lontano dicembre ’79 a un partito che si trattenesse «in difesa della lingua, dei costumi, delle tradizioni venete». Fondato ufficialmente l’anno dopo, in uno studio notarile di Padova.
Lo strappo di Comencini. Primi a metter su la Liga Veneta, primi ad eleggere nel 1983 un deputato e un senatore presto espulsi da Rocchetta («il padre della madre di tutte le leghe») e dalla moglie Marilena Marin, primi a raccogliere nell’87 quasi 300.000 voti mancando il quorum per un soffio, primi ad allearsi con Umberto Bossi e la Lega Lombarda nata nel frattempo per fondare nell’89, dal notaio, la Lega Nord. Dalla quale sarebbero stati poi espulsi lasciando agli archivi parole infuocate: «Riconosco le mie colpe: pensare con la mia testa ed esser coerente coi miei ideali legittimati dal voto popolare in quel Veneto che si ostina a non essere colonia politica dei pretoriani della “Legaboss”». Di più: «Bossi è ormai come Hitler nel bunker con Erminio Boso al posto di Eva Braun. Certo, Erminio non ha la stessa femminilità ma ama il Capo con la stessa “vis amandi”». Arsenico. Fatto sta che per anni e anni la «Liga» è rimasta fedele al Senatùr, avendone in cambio la parata annuale veneziana in riva degli Schiavoni, lo spostamento del sedicente Parlamento della Padania nella villa vicentina «La Favorita» a Sarego e poco più. Inquieta ma fedele. Nonostante certe battute bossiane di rivendicazione della primogenitura: «L’effetto Lega è ormai uscito definitivamente dalla Lombardia entrando in Piemonte, in Liguria e in Emilia Romagna, con un solo anello debole: il Veneto». Fedele ma inquieta, tanto da spingere nel ’98 allo strappo l’allora segretario veneto Fabrizio Comencini: «Avevamo votato con Giancarlo Galan una risoluzione per l’autonomia del Veneto. Fu letta come una rivolta venetista. Uscì sulla Padania un articolo firmato “Il Capitano” che diceva peste e corna, sostenendo che io non avevo capito che era una manovra di Berlusconi per rompere la Lega». Fu espulso insieme con quattro parlamentari e sette consiglieri regionali.
«Più Liga e meno Lega». Un malessere carsico, quello «lighista». Un malessere che per tanto tempo ogni tanto si inabissava e tornava a galla. Come quando una dozzina di anni fa saltò la mosca al naso perfino a Giancarlo Gentilini, l’ex sindaco-sceriffo di Treviso, che finì per sbottare contro i «lumbard» dopo l’ennesima «prepotenza» rovesciando su di loro l’accusa più rovente: «La Lega veneta è sempre forte, forse troppo, e può darsi che questa forza e questo consenso popolare abbiano messo sul chi va là qualche esponente romano della Lega Nord». Peggio: «C’è sempre qualcuno, in questo ambiente, che è pronto a piantarti un coltello nella schiena non appena volti le spalle. E io penso che qualche responsabile della Lega a Roma abbia azionato il coltello». «Più Liga e meno Lega», sarebbe diventato lo slogan di tanti venetisti insofferenti. E questo, come gli riconoscono anche gli avversari, è forse il vero miracolo compiuto da Luca Zaia forzando sul referendum. Essere riuscito a tenere insieme, al voto di domenica, senza sventolare troppo la bandiera del partito, tante anime diverse. I fedelissimi e gli scontenti, i tiepidi e gli entusiasti e perfino un po’ di espulsi che comunque sono riusciti a ritrovarsi. Oltre a tantissimi che, come dicono i numeri, non sono mai stati leghisti e magari mai lo saranno. Gli sarebbe andata bene, dirà lui, anche se l’affluenza fosse stata altrettanto massiccia in Lombardia. Il distacco sui lombardi, però, non è solo «lo sfizio» supplementare. C’è di più. Molto di più...
Lombardia e Veneto ci guadagnano di più con il sì al referendum? I vincitori rilanciano l’idea di trattenere più soldi delle tasse, ma più autonomia significa meno spesa dello Stato. La somma resterebbe la stessa, scrive Luca Zorloni il 23 ottobre 2017 su "Wired". Le urne dei referendum sull’autonomia indetti da Lombardia e Veneto si sono chiuse senza sorprese, almeno sotto il profilo politico. La vittoria del sì con percentuali bulgare era nell’aria. Le due regioni sono a guida leghista e di quell’ala della Lega che ancora sostiene le politiche secessioniste e federaliste che hanno ispirato la fondazione del movimento. C’è stata una convergenza di altri partiti sul sì, come il Pd. E più in generale nelle province di Lombardia e Veneto l’argomentazione del “Nord vessato da Roma per coprire le spese degli altri” ha gioco facile. Lo stesso quesito è risultato a molti osservatori quasi scontato nella risposta. Tuttavia l’esito della consultazione, costata 14 milioni di euro in Veneto e 50 milioni in Lombardia, di cui circa la metà è servita a comprare i tablet per votare, che non hanno funzionato a dovere, avrà riflessi diretti sulle tasche dei contribuenti delle due regioni? È probabile che gli elettori restino delusi.
Le campagne per il sì sono state incardinate sul principio del residuo fiscale: a veneti e lombardi lo Stato centrale restituisce meno di ciò che versano. L’autonomia, nei loro piani, dovrebbe servire a trattenere più tasse. “È ovvio che se lo stato concederà autonomia a una regione su una quota, a seconda della dimensione delle competenze trasferite, smetterà di spenderli esso stesso sotto forma di spesa regionalizzata: il residuo fiscale rimarrà dunque identico”, è la conclusione a cui giunge su lavoce.info l’accademico Paolo Balduzzi. Balduzzi è docente all’università Cattolica di Milano ed è stato nella commissione per la revisione della spesa pubblica, guidata da Carlo Cottarelli. Contesta i numeri sui residui fiscali della Lombardia, stimati dall’istituto statistico regionale Eupolis per il 2009-2012 in 47 miliardi di euro, diventati poi 57 miliardi “la cui precisa origine, tuttavia, rimane ignota”. “In entrambi i casi si tratta di numeri abbastanza irrealistici: contributi di maggiore rigore scientifico li hanno stimati in circa 30 miliardi”, aggiunge. Lo stesso studio di Eupolis evidenzia che le altre regioni con un alto residuo fiscale sono, nell’ordine, Emilia Romagna, Lazio e Veneto, che oscillano tra i 13 miliardi e gli 11 miliardi.
In un’analisi comparata delle entrate fiscali e delle spese delle Regioni la Banca d’Italia, gli autori, Alessandra Staderini ed Emilio Vadalà, osservano che “i residui fiscali finiscono spesso, impropriamente, per essere presi come indicatori del finanziamento da parte del Nord delle inefficienze e degli sprechi che caratterizzano le finanze pubbliche nel Mezzogiorno”. Ma, spiegano, “dalla nostra analisi è emerso come il problema delle finanze pubbliche del Mezzogiorno non vada ricercato nell’esistenza di residui positivi, perché, come si è mostrato, a parità di dimensioni dell’operatore pubblico e dato il divario di sviluppo economico tra le due macro aree del paese, essi non possono cambiare di segno e non possono comunque scendere sotto una soglia minima”. Al contrario, aggiungono, “il problema delle finanze pubbliche meridionali risiede nella qualità dei servizi ricevuti dai cittadini, nel fatto cioè che essa sia in media nettamente inferiore al Sud, nonostante un livello di spesa pro capite analogo”.
I due referendum, quindi, difficilmente potranno confermare le promesse dei governatori di Lombardia e Veneto, Roberto Maroni e Luca Zaia, di trattenere più soldi nelle loro casse. Con questo mandato, più forte per Zaia perché ha posto un quorum del 50%+1 e l’ha superato, i due politici potranno negoziare spazi di manovra nelle materie che il titolo V della Costituzione assegna alla legislazione “concorrente” di Stato e Regioni. Temi come il commercio con l’estero, il lavoro, l’istruzione e la formazione professionale, la ricerca scientifica, le infrastrutture di trasporto e di comunicazione, energia e previdenza, casse di risparmio ed enti di credito fondiario. Le Regioni potranno chiedere di gestire con maggiore autonomia settori che influenzano la vita economica dei loro territori, che le possono rendere più competitivi all’estero e creare maggiore ricchezza per le famiglie. Nel 2015 la Lombardia ha generato un pil di 357.200 milioni di euro, pari a 36.600 euro a testa, e il Veneto di 151.634 milioni di euro, di 31.600 euro pro capite. La somma è quasi un terzo del prodotto interno lordo italiano e il valore pro capite è più elevato dei 27.800 euro della media nazionale. Il governo ha tutto l’interesse a sminare una campagna politica che potrebbe generare reazioni a catena e quindi a concedere qualche risultato per appagare il fronte del sì senza sollevare una corsa all’autonomia delle altre regioni. Sarà un lavoro di lima. Ma il residuo fiscale resterà fuori dai giochi. I primi a non guadagnarci sarebbero gli stessi lombardi e veneti.
Referendum sull'autonomia, i numeri del divario Nord-Sud. Rispetto alle tasse pagate, nelle due Regioni non tornano complessivamente 8.400 euro per cittadino. Dal crollo degli investimenti nel Mezzogiorno alla fuga di braccia e cervelli: la situazione ai raggi X, scrive Francesco Pacifico il 21 ottobre 2017 su "Lettera 43". Prima della crisi ogni cittadino della Lombardia, rispetto alle tasse pagate, si vedeva restituire quasi 6 mila euro in meno rispetto a quanto aveva versato. Il Veneto ha visto scendere da quasi 3 mila euro a poco meno di 2.400 la differenza. Contemporaneamente la Campania, che storicamente ottiene in trasferimenti più di quanto versa in tributi, ha perso quasi 1.000 euro procapite, la Sicilia 375. Sulla Voce.info gli economisti Paolo Di Caro e Maria Teresa Monteduro hanno chiarito quanto valgono i residui fiscali nelle Regioni che sono andate al referendum. Non a caso il cavallo di battaglia dei governatori Roberto Maroni e Luca Zaia, che in nome della perequazione e con questo voto chiedono una non meglio specificata autonomia, che potrebbe tradursi in minori trasferimenti verso il centro, mantenendo più risorse sul proprio territorio. Eppure questo dato rischia di creare confusione, perché il divario tra Sud e Nord nelle risorse pubbliche va ben oltre il residuo fiscale, anche tenendo conto che i centri settentrionali possono contare sul supporto di un sistema semipubblico come quello delle fondazioni (patrimonio totale di 40 miliardi quasi interamente collocato sopra Roma) o che gli incentivi a fondo perduto sono stati sostituiti da strumenti legati all’acquisto di macchinari e servizi (la nuova Sabatini o i superammortamenti di Industria 4.0) che premiano soprattutto le aree più produttive.
CROLLO DEGLI INVESTIMENTI AL SUD. Tra il 2015 e il 2016 il Sud è cresciuto più del Nord perché la spesa per investimenti (+2%) ha guardato soprattutto in direzione della parte più debole del Paese. Un’eccezione, perché non sempre le cose sono andate così. Soltanto nel 2014 la spesa pubblica in percentuale del Pil in conto capitale era calata nel Mezzogiorno del 2,1% contro lo 0,8 del Centro-Nord, con un effetto depressivo sia sui servizi sia sui consumi. Non a caso lo Svimez ha fatto notare che soltanto negli anni della crisi, «a livello settoriale, c'è stato un crollo epocale al Sud degli investimenti dell'industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2014 addirittura del 59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-17,1%)».
CERVELLI E BRACCIA IN FUGA. Prima del riequilibrio avuto con i nuovi parametri di valutazione della ricerca, l’università meridionale si è vista tagliare le risorse di un valore superiore al 15%. In base alla qualità dei servizi offerti e alle altissime aliquote legate al dissesto dei conti della sanità, i cittadini meridionali finiscono per spendere di più proprio attraverso strumenti di rientro come i ticket. Ed è anche per questo che nel Mezzogiorno, come avverte la stessa Svimez, circa 10 abitanti su 100 vivono in povertà assoluta, contro i sei del Centro Nord. Senza contare che negli ultimi cinque anni sono emigrati dall’area più debole del Paese 1,7 milioni di persone a fronte di 1 milione di rientri: la perdita secca è stata di 716 unità, il 72,4% under 34 e 198 mila i laureati. Cervelli e braccia che per lo più stanno arricchendo il Nord con il loro lavoro e le loro competenze.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…
Dal Piemonte alla Basilicata, tutti vogliono l'autonomia: "Inizia l'era del neoregionalismo". Dopo il voto in Lombardia e Veneto, sono moltissime le regioni a volersi accodare. Al nord come al sud. Salvini: «Proporremo referendum ovunque». Ma c'è anche chi non ci sta. Il governatore della Toscana Rossi: «È solo un tentativo di mascherare i veri problemi», scrive Federico Marconi il 23 ottobre 2017 su “L’Espresso”. Adesso tutti vogliono l’autonomia. L’esito del referendum in Lombardia e Veneto, che si aggiunge al protocollo d’intesa firmato dal governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonacini con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, ha aperto il dibattito in moltissime regioni italiane. Poco dopo la chiusura delle urne, Roberto Maroni aveva annunciato «l’inizio di una nuova stagione del neoregionalismo». E le reazioni del giorno dopo gli danno ragione. Dalla Puglia alla Toscana, dal Piemonte alla Basilicata, non c’è regione che non voglia ridiscutere con il governo le competenze attribuite dalla Costituzione. «Proporremo a tutte le regioni che lo chiederanno un referendum per l’autonomia» gongola il segretario della Lega Matteo Salvini: a leggere le dichiarazioni di giornata, non saranno pochi i consigli regionali che si tireranno indietro.
La Liguria è in trepidazione: vuole essere tra le prime regioni a seguire Veneto, Lombardia e Emilia. «Siamo pronti sia a celebrare un referendum, sia a trattare a livello parlamentare. C’è voglia di autonomia, di valorizzare le autonomie locali, di maggiori poteri a sindaci e regioni» afferma il governatore ligure Giovanni Toti. Che chiede una riforma ampia degli statuti regionali: «Il governo dovrebbe aprire un dibattito serio e vero con la Conferenza delle Regioni e tutti i governatori, e le forze parlamentari dovrebbero iniziare a scrivere una riforma costituzionale che parta proprio da quella richiesta di maggiore autonomia e maggiori poteri che arriva dai veneti e dai lombardi».
In Piemonte scaldano i motori. «Preso ci sarà un referendum anche qui» afferma il segretario regionale della Lega, Riccardo Molinari. «Abbiamo già una legge pronta, depositata dal Gruppo della Lega in Consiglio regionale, abbiamo costituito un Comitato apolitico che sta lavorando per informare i cittadini sui benefici dell'autonomia» continua Molinari «basta solo la volontà del presidente Chiamparino per partire. Chiediamo, quindi, al presidente di far approvare la nostra proposta di legge in modo da dare voce nel più breve tempo possibile ai cittadini piemontesi oppure di proporne una propria, che se andrà nella direzione di una consultazione popolare in tempi certi avrà il nostro appoggio».
In Campania, il governatore De Luca sembra più cauto. Non parla di referendum, ma si inserisce nella linea di chi chiede riforme. «Se la sfida è quella dell'efficienza, del rigore, della gestione corretta delle risorse, io sono davanti ai nostri amici lombardi e veneti» afferma De Luca. «Per quanto mi riguarda va bene anche un ragionamento sul riparto delle risorse, a condizione però che non si faccia il gioco delle tre carte» continua l’ex sindaco di Salerno «vi sono ambiti nei quali il Sud è fortemente penalizzato, a cominciare da quello della sanità». Porta l’esempio della regione Campania che «viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi e ai nostri concittadini perchè considerata la regione più giovane Italia. Questo è un assurdo».
Sempre al Sud, un altro governatore Dem vuole aprire il dibattito su una maggiore autonomia. Ma non attraverso una chiamata alle urne dei cittadini. «Non ho i soldi per fare un referendum. Faremo una cosa più tranquilla, faremo un grande forum regionale nel quale tutti coloro che vorranno discutere di questa ipotesi della autonomia diranno la loro» ha affermato il presidente della Puglia Michele Emiliano. «Noi abbiamo una legge sulla partecipazione molto evoluta ma anche molto economica» continua «spenderemo poche decine di migliaia di euro».
Anche in Basilicata c’è bisogno «di un nuovo patto democratico, di una rinnovata democrazia lucana che parta dall'attuazione dello Statuto, approvato dopo anni di attesa, sino ad un contesto normativo che contempli la nuova legge elettorale, un nuovo assetto delle funzioni dei diversi livelli istituzionali accompagnato da risorse come il fondo unico per gli enti locali». Lo ha affermato il consigliere regionale Piero Lacorazza, per cui la vera sfida non è non è «invocare un'indipendenza o un'autonomia pasticciata poiché le piccole patrie non sono la risposta per ridurre i rischi e far crescere le opportunità della globalizzazione».
«Proporremo il referendum anche in Lazio» ha dichiarato il segretario della Lega Salvini. Ma il governatore Zingaretti frena: «Noi, come tutte le regioni, abbiamo bisogno dell'Italia: servono efficienza e coesione, più che l'autonomia. Lo stato federale deve essere l'Europa». E anche in Toscana il presidente della regione non si è fatto prendere dalla febbre autonomista. «Si alimentano divisioni tra gli italiani che danneggeranno la già fragile architettura istituzionale del Paese» ha dichiarato il governatore Enrico Rossi. «Per la destra del Nord conta solo l'autonomia, la rivendicazione della “piccola patria” regionale e l'illusione che si pagheranno meno tasse. Le vere questioni non valgono» continua Rossi «i tagli alla sanità e alla scuola, i salari e le pensioni basse, la precarietà del lavoro, la lotta agli sprechi e all'evasione fiscale, le diseguaglianze sociali. Solo una sinistra politica e sociale può fermare questa deriva».
La “Grande Lucania”, tra autonomia e secessione, scrive Luigi Iannone il 18 ottobre 2017. Quando si parla di “Grande Lucania”, si rispolvera una storia poco conosciuta al di fuori dell’area in questione, ma secolare e complessa, che sostiene le aspirazioni di autonomiae le velleità di secessione portate avanti dalla passione e dall’azione dei cittadini di un territorio peculiare, omogeneo dal punto di vista culturale e geografico, ma diviso a livello amministrativo tra l’attuale provincia di Salerno e la regione Basilicata. Questi attuali confini geografici della Basilicata risultano solo in maniera approssimativa corrispondere a quella che era “Grande Lucania”, un’entità precisamente identificabile attraverso un lungo percorso storico. Nel corso dei secoli quel territorio fu teatro di scontro e, al tempo stesso, di preziosissimo incontro di civiltà diverse che contribuirono a forgiarne l’identità. Ogni presenza ha lasciato tracce del proprio passaggio, dando vita ad un composto mosaico di arte, cultura e tradizioni.
Ad abitare per primi la Lucania furono gli Enotri (detti anche Itali) e gli Joni, stanziati gli uni sulle coste tirreniche, gli altri su quelle opposte. Dalla fine del VIII secolo a.C. in poi si avviò in Italia la colonizzazione greca, che segnò profondamente il territorio. Intorno alla fine del V secolo i Lucani, popolazione di stirpe osco-sannitica, provenienti dall’Italia centrale e guidati dal mitico Lucus, avanzarono dalle montagne alle zone costiere. Poi, con ondate successive, muovendosi dal Tirreno presero il controllo della parte interna della Basilicata. Si spinsero attraverso le pianure del fiume Sele, all’interno di quella regione che fu poi detta Cilento. Nasceva così, nel corso del IV secolo, la “La Grande Lucania”. La conquista e la conseguente amministrazione romana preserva grosso modo l’unità del territorio così costituito per numerosi secoli. Mantenutasi pressoché indipendente nonostante conflitti, invasioni e dominazioni anche durante i tumultuosi secoli del tramonto della civiltà antica e dell’epoca medievale, la divisione comincia solo a partire dal basso Medioevo, quando dapprima i Normanni (che si sostituirono ai Longobardi nella dominazione del Mezzogiorno), e poi definitivamente gli Angioini, spezzarono l’unità dell’antica regione lucana, dividendola sommariamente tra territori ionici e tirrenici, per varie ragioni di equilibrio politico-dinastico. Tutte le successive dominazioni, dagli imperi dell’età moderna fino all’unità d’Italia, conserveranno distrattamente questa scissione, e inoltre non riterranno necessario attribuire ad entrambi i territori di quella regione autonomia amministrativa, di cui invece altre realtà godono e hanno goduto, né valorizzeranno in nessun modo la caratteristica identità lucana e lo sviluppo della regione.
Anche l’amministrazione del Regno dei Savoia e poi della Repubblica Italiana si iscriveranno nel solco dei numerosi predecessori, per altro nel contesto di un deterioramento significativo della situazione economica. La monarchia e i governi dall’Ottocento al 1945 dimostreranno scarsa attenzione, quando non aperta ostilità, verso l’autonomia e le istanze locali, soprattutto durante il fascismo. Inoltre la politica socio-economica del regno nei confronti della regione lucana e del meridione in generale, che meriterebbero una trattazione vasta ed approfondita, sono stati notoriamente caratterizzati più da ombre che da luci. Il riconoscimento delle autonomie locali e la promozione di un costruttivo decentramento territoriale presente nella Costituzione repubblicana del 1948, a cui seguì l’istituzione delle Regioni completata compiutamente negli anni successivi, non muta significativamente la situazione, innanzitutto a livello territoriale: ancora oggi la ex “Grande Lucania” si divide tra Campania e Basilicata.
Forse proprio questi secoli di mortificazione, insieme economica e culturale, di una comunità accomunata da un territorio ben determinato da storia e tradizioni uniche, hanno comportato nell’area del Cilento e del Vallo di Diano, oggi in provincia di Salerno, la nascita di un movimento che a più riprese ha preteso il riconoscimento morale ed amministrativo di una antichissima specificità territoriale, declinabile attraverso una forte autonomia, o realizzato compiutamente tramite il ricongiungimento con la controparte lucana in Basilicata, che alcuni sentono come irrinunciabile. Alcuni, ma quanti? E soprattutto, come? Cerchiamo di rispondere a questi interrogativi ripercorrendo la storia recente del progetto “Grande Lucania”. Il movimento, basato come detto soprattutto su una comune memoria storica e culturale, nasce da un sentimento spontaneo diffusissimo presso comunità locali, che ha covato a lungo sotto la pelle del territorio ma che mai si è tradotto in concreta e rilevante azione politica fino al XXI secolo. È con il costituirsi, a partire dal 2005, di numerosi comitati civici in diversi comuni dell’area che il progetto “Grande Lucania” prende definitivamente forma e sostanza, promosso dall’omonima associazione, coadiuvata da fondazioni culturali e non, ed animata da importanti personalità locali e da numerosi cittadini. L’associazione e i comitati si danno l’obiettivo di applicare l’articolo 32 della Costituzione per la celebrazione di una discussione pubblica e di referendum popolare, che, in caso di esito positivo, comporterebbe l’agognata secessione e il passaggio alla regione Basilicata dei territori lucani in Campania con il suffragio e la partecipazione dei cittadini. Il referendum avrebbe in realtà valore consultivo, ma il Governo sarebbe obbligato, sentiti i Consigli Regionali interessati, a recepirne gli esiti e ad applicarli mediante un processo legislativo rinforzato. Tuttavia le amministrazioni comunali che hanno deliberato a favore del quesito referendario da sottoporre ai cittadini per separare il proprio Comune dalla Campania sono state relativamente esigue, non più di una ventina (come riportato dal quotidiano online Onda news), laddove invece i promotori erano ben più ambiziosi: intervistato da La Gazzetta del Mezzogiorno, uno degli ideologi del progetto, il procuratore Raffaele De Dominicis, era infatti arrivato a dichiarare: «Il nostro obiettivo è di coinvolgere almeno un’ottantina di paesi della zona per poi presentare ufficialmente la richiesta di un referendum». Lo stesso De Dominicis, ancora speranzoso, riconosceva nel 2011 che «le adesioni ci sono, ma quelle già acquisite non bastano a giustificare un referendum. Spero che altri decideranno di seguirci.» Questo non è ad oggi avvenuto, e forse conseguentemente, ma per ragioni in verità imprecisate e attinenti alle dinamiche politiche locali e nazionali, il processo ha conosciuto un pesante rallentamento, fino praticamente ad arenarsi quasi del tutto ormai da diversi anni, caratterizzati tra l’altro dalla volontà dei vari governi di ridurre il numero gli enti locali e di tagliare i fondi destinati al territorio. Solo sporadici, negli ultimi anni, sono stati i tentativi di riportare in auge la “questione lucana”, mai coronati da considerevoli successi. Ma quella che può sembrare la sconfitta su tutti i fronti di un localismo ritenuto da più parti come esasperato e non più attuale, non è in realtà classificabile come tale: la presenza e il gradimento dei temi posti dall’iniziativa sul territorio è ancora forte, appoggiata da numerosi sindaci, ed espressione di una volontà, più culturale che politica, che batte ancora nei cuori delle popolazioni del Cilento e del Vallo di Diano. Questa volontà di autodeterminarsi e di rappresentarsi come realtà territoriale e culturale specifica non è sopita, e non potrà esserlo.
Molto spesso proprio istanze simili, e il caso lucano non fa certo eccezione, incubano ed esprimono disagi e difficoltà di intere popolazioni che vogliono contare di più in termini di democrazia e di valorizzazione e distribuzione di risorse, che semplicemente desiderano una maggiore autonomia e riconoscimento. Quel riconoscimento, prima morale, e poi amministrativo ed economico, delle proprie caratteristiche e peculiarità a cui si faceva riferimento qualche riga più in alto, imprescindibile tanto per la tenuta democratica quanto per l’unità territoriale di un moderno paese europeo. Elementi di strettissima attualità in un continente sempre più attraversato da forti aspirazioni indipendentiste, non sempre serene e plurali come quelle lucane, che rischia di implodere e precipitare verso il caos e una conflittualità sociale e territoriale pericolosissima. Come i recenti fatti catalani hanno dimostrato, per scongiurare simili rischi è necessario promuovere l’autonomia e costruire rapporti armonici e rispettosi con le comunità locali, e non prevaricarne i diritti fondamentali. La Grande Lucania non è la Catalogna, non vuole e forse non può esserlo, ma la questione di fondo trascende i singoli casi, e suggerisce l’urgente promozione di una nuova logica nell’amministrazione del territorio, che non abbia paura di sostenere le autonomie per affermare l’unità. Luigi Iannone
FRANCESCO SAVERIO NITTI, LE ORIGINI DEL DIVARIO NORD-SUD ED IL MILLANTATO CREDITO.
Il Sud ha dato tanto al Nord. E Nitti lo spiega bene, scrive Giuseppe Galasso l'1 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Fra le richieste fondamentali dei referendum di Veneto e Lombardia è quella di una redistribuzione del prodotto fiscale, che porti a una decisa riduzione dei relativi trasferimenti dall’una all’altra parte del paese. Si pensa, come si sa, da parte dei promotori del referendum, a un Mezzogiorno parassita che — si dice — produce 10 e consuma 15 a spese delle regioni che produrrebbero 20 e consumerebbero di meno. Lasciamo stare la fondatezza (dubbia) di questa tesi. Lasciamo stare tutte le sue implicazioni polemiche e politiche. Lasciamo stare pure la questione della possibilità che la ripartizione delle entrate fiscali fra le varie parti di un paese possa mai avvenire o sia mai avvenuta sulla sola base della provenienza regionale del gettito fiscale. Prendiamoci, piuttosto, la libertà di qualche indugio sui precedenti storici italiani in questo campo. Gioverà, a tale scopo, uno dei libri che in questa materia hanno avuto maggiore importanza nella storia politica e culturale dell’Italia unita, ossia il Nord e Sud di Francesco Saverio Nitti, edito a Torino nel 1900. Erano, per l’autore, le «prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese pubbliche dello Stato in Italia». Era anche l’autore più abilitato a parlarne, avendo pubblicato a Napoli nello stesso anno Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97, del quale il volume torinese offre una redazione più discorsiva.
I risultati della ricerca di Nitti erano più che interessanti. Il Sud — egli affermava — «ha dato dal 1860 assai più d’ogni altra parte d’Italia in rapporto alla sua ricchezza; paga quanto non potrebbe pagare; lo Stato ha speso per essa, per ogni cosa, assai meno, e vi sono alcune provincie in cui è assenteista per lo meno quanto i proprietari delle terre». Tutto ciò era dimostrato con grande abbondanza di cifre e di calcoli, che provavano come «per cause molteplici (unioni di debiti, vendita dei beni pubblici, privilegi a società commerciali, emissioni di rendita) la ricchezza del Mezzogiorno, che poteva essere il nucleo della sua trasformazione economica, fosse trasmigrata subito al Nord». Poi «le imposte gravi e la concentrazione delle spese dello Stato fuori dell’Italia meridionale avevano continuato l’opera di male». Nitti valutava perciò che, in conseguenza di questi fattori, ossia della politica dello Stato, non meno di 4 o 5 miliardi delle lire del tempo dell’unità si fossero trasferiti via, via dal Sud al Nord. Il beneficio che il Sud ne aveva ricavato era stato, invece, sempre assai più esiguo del contributo fornito allo sviluppo dell’Italia, che era tutta molto cresciuta nel 1900 rispetto al 1860, ma al Sud decisamente molto di meno che al Nord.
Quella di Nitti non era, né voleva essere una recriminazione antiunitaria o, meno che mai, l’espressione di nostalgie borbonizzanti. Al contrario. Il suo senso dell’Italia e dell’italianità era fortissimo, e per lui la sperequazione fra le due Italie non rispondeva a nessun piano o calcolo predeterminato. Era stata la conseguenza delle necessità di condizioni oggettive del nuovo Stato formato nel 1860. Ad esempio, le minacce di guerra erano tutte sui confini settentrionali, ed era naturale che lì si concentrasse la spesa militare (fortificazioni, comunicazioni, presidii etc.), che era allora una molto grande parte del bilancio statale. Con la necessità, anche l’ignoranza vi aveva contribuito. Si riteneva il Sud un paese ricchissimo, senza percepire le molte sue ragioni di svantaggio, se non altro, geografico e naturale. Né Nitti mancava di riconoscere che ci si trovava in una condizione infelice «soprattutto per colpa stessa dei meridionali». Trovava, però, insopportabile che il Nord fosse stato così pronto a dimenticare un passato e lo stesso presente ad esso così vantaggiosi, e trattasse il Sud come un incomodo parassita. Per parte sua Nitti reclamava soltanto una più equa ripartizione sia del peso fiscale che della spesa pubblica, e non solo per ciò che il Sud aveva dato al paese in termini molto concreti di miliardi di imposte e di posposizione dei suoi interessi a quelli nazionali. Riteneva, infatti, altrettanto a ragione, che di un diverso Sud il Nord si sarebbe avvantaggiato anche più di quanto non si fosse già avvantaggiato per il proprio sviluppo, tenendolo, alla fine, in così poco conto.
Divario Nord-Sud: tutto iniziò con l’Unità d’Italia. L’incapacità genetica non c’entra, scrive Alessandro Cannavale il 25 marzo 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Ancora una volta, gli scritti dei grandi meridionalisti del passato trovano un riscontro perfettamente congruente in studi e ricerche attualissimi. Francesco Saverio Nitti, politico lucano e grande esperto di finanze, ne “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897” sostenne che l’Italia del Regno delle Due Sicilie portava in dote “minori debiti e più grande ricchezza pubblica”, fino a ricordare che nel primo periodo si ebbe un notevole “esodo di ricchezza dal Sud al Nord”. Dunque, al contrario di quanto – purtroppo – si continua a leggere e dire a sproposito circa l’incapacità – persino genetica – delle genti del Sud di produrre sviluppo e progresso, lo scenario senza veli e pregiudizi è ben diverso: gli Stati preunitari versavano in condizioni tra loro affini, se non congruenti. La grande soluzione di continuità che innescò la creazione e l’accrescimento del divario tra Nord e Sud del paese furono proprio il processo di unificazione risorgimentale e, soprattutto, le successive politiche in materia di industrializzazione e infrastrutturazione.
In “La finanza italiana e l’Italia meridionale”, ancora Nitti: “Nei venti anni che seguirono l’unità, le più grandi fortune furono fatte quasi esclusivamente dagli imprenditori di opere di Stato: e fra essi non vi erano quasi meridionali, come un documento parlamentare, presentato dall’on Saracco, dimostra a evidenza. La situazione della Valle Padana ha reso più facile la formazione delle industrie, cui la politica finanziaria dello Stato, in una prima fase, e in una seconda le tariffe doganali, hanno preparato l’ambiente; di quasi tutte le industrie di cui lo Stato italiano negli ultimi trenta anni ha voluto assumere la protezione, nessuna quasi è meridionale: dalla siderurgia allo zucchero, dalle industrie navali alle industrie tessili, ecc., tutto è nelle mani degli stessi gruppi capitalistici”. E questa è, come si suol dire, storia nota. Cosa oltremodo interessante è scoprire come recenti ricerche condotte dai ricercatori Vittorio Daniele (UniCz) e Paolo Malanima (Cnr)abbiano portato nuovi riscontri scientifici a quanto sosteneva Nitti. Un loro articolo molto interessante del 2013, riporta una indagine accurata inerente la nascita e l’evoluzione delle disparità regionali nel nostro paese. Il divario economico tra Nord e Sud come noi lo conosciamo nacque solo alla fine dell’Ottocento. Nel 1861 tutto il paese unificato presentava prevalentemente una economia preindustriale (64% di lavoratori in campo agricolo, la restante parte suddivisa tra industria e servizi). I due scienziati riportano una assenza di differenze significative nello sviluppo industriale, per tutto il primo decennio successivo all’unificazione. Il grafico che riporto, (con il consenso degli autori), mostra chiaramente come il numero dei lavoratori impiegati nell’industria fosse sopra la media nazionale in Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Già nel grafico che fotografa la situazione del 1911 si assiste alla formazione del “triangolo industriale” in Nord-Ovest.
Nel 1891, solo il 19% dei lavoratori era impiegato nell’industria (21% al Nord e 16% al Sud). Dunque, il divario industriale era ancora esiguo su base territoriale. Vi erano regioni più e meno industrializzate in tutte le zone del Paese. Nell’articolo viene specificato che la prima grande ondata di emigrazione coinvolse oltre 5 milioni di cittadini italiani provenienti prevalentemente da Veneto, Venezia Giulia e Piemonte, (“relatively underdeveloped areas of the North”). Dopo il 1900, prevalse il numero di emigranti provenienti dal Sud. La concentrazione di industrie nel Nord del Paese si accentuò nel periodo tra le due Guerre. I dati relativi al reddito pro capite sono congruenti con quelli inerenti l’occupazione nell’industria. L’immagine di sopra mostra come, rispetto alla media nazionale, il Gdp (cioè Pil) su base regionale era distribuito in modo diverso da come avremmo potuto immaginare: al Sud solo la Calabria e la Basilicata presentavano un Pil pro capite inferiore alla media nazionale, nel 1891. L’ultima immagine che ho tratto dal lavoro di Daniele del 2013, mostra in modo palese come la situazione sia drammaticamente peggiorata in termini di polarizzazione “geografica”, nel corso dei decenni. A 150 anni dall’unificazione, lo scenario è quello che si legge, senza bisogno di commenti, nel grafico sottostante.
Francesco Saverio Nitti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Non vi è quasi avvenimento che interessi l'anima nazionale, o l'avvenire del paese, in cui non si ripeta che manca l'uomo. L'uomo è in noi stessi, può esser dato dallo sforzo di tutti, dalla coscienza di tutti: e noi lo attendiamo invece come una forza operante all'infuori di noi». Francesco Saverio Vincenzo de Paola Nitti (Melfi, 19 luglio 1868 – Roma, 20 febbraio 1953) è stato un economista, politico, saggista e antifascista italiano. Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia, più volte ministro. Fu il primo Presidente del Consiglio proveniente dal Partito Radicale Italiano e il primo nato dopo l'unità d'Italia. La sua attività di economista fu apprezzata a livello internazionale e diverse sue opere furono distribuite anche all'estero. Tra i massimi esponenti del Meridionalismo, approfondì le cause dell'arretratezza del sud a seguito dell'unificazione nazionale, elaborò diverse proposte per affrontare la questione meridionale e analizzò le ragioni del brigantaggio nel sud Italia. Durante il fascismo, a causa di violente persecuzioni da parte degli squadristi fu costretto all'esilio all'estero, da dove sostenne e finanziò attività antifasciste. Nato a Melfi da Vincenzo e Filomena Coraggio, suo padre fu professore di matematica nella "Scuola di agronomia e agrimensura" di Melfi, ispettore dei Monti Frumentari e commissario prefettizio, mentre sua madre fu una contadina. I suoi ascendenti, di ideali laico-patriottici, parteciparono attivamente a rivoluzioni di stampo liberale. Suo padre, convinto repubblicano di tendenze socialiste, fu un volontario garibaldino, milite della Guardia Nazionale, membro della Giovine Italia e della Falange Sacra di Giuseppe Mazzini e affiliato all'Associazione Emancipatrice Italiana di Giuseppe Garibaldi. Due zii paterni furono condannati a morte durante l'insurrezione antiborbonica a Napoli nel 1848, ma riuscirono a salvarsi con la fuga e l'esilio. Il nonno paterno Francesco Saverio, medico con un passato da carbonaro, fu ucciso dalle bande di Carmine Crocco durante l'assedio di Venosa, il 10 aprile 1861. La vita della famiglia non fu mai serena, a causa di deboli condizioni economiche, peggiorate dal carattere ribelle e tutt'altro che acquiescente del padre, il quale era spesso protagonista di risse che finivano in guai giudiziari. All'età di sei anni, Nitti si trasferì ad Ariano Irpino per frequentare le scuole elementari e nell'autunno del 1877 entrò nel Convitto Nazionale "Salvator Rosa" di Potenza ove continuò gli studi fino al ginnasio. Nel 1882, Nitti si trasferì a Napoli per concludere il liceo e intraprendere gli studi universitari. Durante la sua permanenza a Napoli ebbe modo di conoscere Giustino Fortunato, anch'egli originario della Basilicata, che sarà una grande influenza per la formazione culturale e politica del giovane Nitti. Nel 1888, ancora studente universitario, divenne redattore del "Corriere di Napoli" e corrispondente della "Gazzetta Piemontese". Nello stesso anno pubblicò il saggio L'emigrazione italiana e i suoi avversari, che Nitti volle dedicare al suo mentore Fortunato. Nel 1890 conseguì la laurea in giurisprudenza con una tesi sul "Socialismo cattolico" e collaborò per i giornali La Scuola Positiva e Il Mattino. Insieme a Benedetto Croce e ad altri intellettuali napoletani fondò la Società dei Nove Musi. Nel 1894 divenne direttore della rivista La Riforma Sociale. Nel 1899 ricevette l'incarico di professore di scienza delle finanze e diritto finanziario presso l'Università di Napoli e praticò l'insegnamento anche alla Scuola superiore di agricoltura di Portici. In questo periodo, Nitti si dedicherà strenuamente al tema meridionalista ma anche all'economia italiana e ai destini delle democrazie in Europa.
Nitti affrontò diversi temi per risolvere l'emergenza economica del sud, come lo sviluppo industriale di Napoli e la valorizzazione delle risorse naturali presenti nel territorio meridionale, con particolare riferimento alla sua terra di origine, la Basilicata, e inoltre propose molte leggi speciali per il progresso del mezzogiorno. Proprio su questa materia elaborò un programma organico e innovativo di solidarietà sociale e di interventi per l'espansione delle forze produttive. Nei suoi saggi Nord e Sud (1900) e il successivo L'Italia all'alba del secolo XX (1901), Nitti espose la sua tesi sulle origini del dislivello economico e sociale tra settentrione e meridione italiano e criticò il procedimento in cui avvenne l'unità nazionale, che per lui non produsse benefici in maniera equa in tutto il paese e lo sviluppo dell'Italia settentrionale fu dovuto in grande misura ai sacrifici del Mezzogiorno. Fu molto polemico con i governi del suo tempo che, oltre a stanziare fondi di sviluppo maggiormente nelle zone settentrionali, istituirono un regime doganale che favoriva Liguria, Piemonte e Lombardia, accentuando così il divario tra le due parti e mantenendo il sud, a sue parole, come un «feudo politico». Attraverso le sue ricerche, osservò una grande disparità a livello fiscale tra nord e sud, notando che città meridionali come Potenza, Bari, Campobasso avevano una pressione tributaria superiore a città settentrionali come Udine, Alessandria e Arezzo. Nitti, tuttavia, non lesinò critiche anche alla classe politica del meridione stesso, accusandola di mediocrità e disonestà. La scienza delle finanze (1903) fu tra le sue opere di economia più rappresentative ed ebbe una distribuzione a livello mondiale. Fu tradotta in diverse lingue (russo, francese, giapponese, spagnolo e portoghese) e adottata in diverse università, in Italia (fin quando il fascismo lo rese possibile), Russia, Europa centrale e Sudamerica. Con La conquista della forza (1905), Nitti cercò una soluzione per sopperire allo sfruttamento di risorse minerarie come ferro e carbone (di cui l'Italia è carente), puntando sulle potenzialità delle risorse idriche, criticandone la scarsa attenzione della classe politica nei confronti dell'acqua e proponendo una nazionalizzazione del settore idroelettrico.
Attività di deputato e ministro. Nitti esordì in politica nel 1904, con l'elezione a deputato nel Collegio di Muro Lucano. Il suo inizio si rivelò tutt'altro che facile a causa degli strascichi polemici della sua attività meridionalista, i quali resero complesso il suo rapporto con gli altri deputati della Camera e dove il suo primo intervento fu denigrato dal ministro Francesco Tedesco. In questo periodo, Giovanni Giolitti si avvale della sua consulenza tecnica per elaborare la legge sullo sviluppo di Napoli, ispirata al suo saggio Napoli e la questione meridionale (1903). Il progetto nittiano verrà solo realizzato in parte, con la nascita dell'Ente Volturno per la produzione di energia elettrica e di uno stabilimento Ilva a Bagnoli per la produzione dell'acciaio. Assieme ad Antonio Cefaly e Giovanni Raineri, partecipò alla stesura dell'inchiesta sulla Basilicata e la Calabria, interrogando direttamente il ceto popolare per poter migliorare la sua ricerca. Nitti criticò la Legge speciale sulla Basilicata (1904), poiché riteneva superfluo il piano di lavori pubblici, considerando la formazione del commercio dei prodotti agricoli e la diffusione dell'istruzione come alternativa migliore per lo sviluppo regionale. Nel 1911 fu nominato da Giolitti Ministro dell'agricoltura, industria e commercio del suo quarto governo, divenendo così il primo meridionalista a ricoprire incarichi ministeriali. Nell'aprile dello stesso anno, Nitti presentò alla Camera il progetto di legge sulla monopolizzazione delle assicurazioni sulla vita, che produsse forti dissensi da parte delle grandi compagnie private e di economisti di pensiero liberista come Luigi Einaudi. La proposta divenne comunque legge nel 1912 e portò alla nascita dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA), conosciuto oggi come INA Assitalia. Nel 1914 elaborò il progetto per la sistemazione idraulica della fiumara di Muro Lucano, che permise la distribuzione di energia elettrica per far funzionare nuovi opifici e industrie. Grazie al suo impegno l'opera fu ribattezzata con il nome di "Lago Nitti". A lui si deve anche la nascita dell'Istituto Zootecnico a Bella, a tutt'oggi punto di riferimento per studi e ricerche universitarie a carattere nazionale e internazionale. Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, fu ministro del Tesoro del governo Orlando, dedicandosi ai problemi della guerra e della ripresa economica. Uno dei suoi atti come capo del dicastero del Tesoro fu, con la collaborazione di Armando Diaz, la creazione di una polizza gratuita d'assicurazione di 500 lire per i soldati e di 1.000 per i graduati. Con il termine del conflitto, seguì le vicende del trattato di pace intravedendo le conseguenze drammatiche per il futuro dell'Europa provocate dall'eccessiva chiusura dei paesi vincitori (compresa l'Italia) in difesa degli interessi nazionali. Sotto il governo Orlando, Nitti istituì nel 1917 l'"Istituto Nazionale per i Cambi con l'estero", al fine di arginare la speculazione dei cambi e quindi l'aggravamento della situazione finanziaria del Paese. Nello stesso anno, con la collaborazione di Alberto Beneduce, fondò l'Opera Nazionale Combattenti, con il compito di elargire assistenza economica e morale ai combattenti e attuare programmi di bonifica delle terre incolte.
Presidenza del consiglio. In veste di Presidente del Consiglio, fra il 1919-1920, Nitti si oppose in particolare ad atteggiamenti punitivi nei confronti della Germania e alla politica delle riparazioni imposte a quel paese dal Trattato di Versailles. Il 10 settembre 1919, sottoscrisse il Trattato di Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci (quindi il confine del Brennero), ma non quelli orientali. Le potenze alleate, infatti, avevano rinviato all'Italia e al neo-costituito regno dei Serbi, Croati e Sloveni (che nel 1929 avrebbe assunto il nome di Jugoslavia) la congiunta definizione dei propri confini. Il governo Nitti si trovò davanti a questioni molto delicate come la crisi economica postbellica e l'occupazione di Fiume da parte di Gabriele D'Annunzio. Sul piano più strettamente politico Nitti si impegnò in quell'opera di cancellazione ed eliminazione delle vecchie clientele giolittiane che contrastavano con le sue convinzioni spiccatamente democratiche, sostituendo il vecchio sistema elettorale uninominale con il sistema proporzionale, richiesto con entusiasmo dai gruppi popolari e socialisti. Per risollevare l'economia, il primo ministro attuò una politica che prevedeva misure per favorire le esportazioni, processi di riconversione delle industrie da belliche a pacifiche, e misure fiscali rigide per i ceti più alti. Al fine di andare incontro ai bisogni degli ex-combattenti (nel frattempo inquadratisi nell'Associazione nazionale combattenti), venne promulgata la prima legge per le pensioni ai mutilati e agli invalidi di guerra, legge che fu ritenuta fra le migliori d'Europa, ad opera del Ministro per l'Assistenza Militare e Pensioni di Guerra Ugo Da Como; infine varò, il 2 settembre 1919, il decreto legge n. 1633 noto anche come Decreto Visocchi, dal nome dell'allora Ministro dell'Agricoltura, teso a favorire la concessione di proprietà di terra ai contadini reduci dalla prima guerra mondiale. Tuttavia le scelte adottate dal suo governo non sortirono grandi effetti e i problemi economici e sociali, ancora persistenti, sfociarono in violenti scontri politici e sindacali (il cosiddetto Biennio Rosso). La presidenza di Nitti si trovò sempre più in bilico quando il 12 settembre 1919, una forza volontaria irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, guidata dal poeta Gabriele d'Annunzio, occupò militarmente la città di Fiume chiedendo l'annessione all'Italia. D'Annunzio detestava Nitti e lo accusava di non tutelare gli interessi dello Stato, tanto che il poeta lo soprannominò con l'epiteto di "Cagoja" (chiocciola in dialetto giuliano), nomignolo in origine affibbiato ad un rivoltoso triestino che, una volta arrestato, divenne noto al tempo per essere una persona sottomessa. Le tensioni con il poeta e le aspre rivolte sociali indebolirono sempre più la sua legislatura. Il 2 ottobre 1919, istituì la Regia Guardia per la Pubblica Sicurezza, corpo di polizia destinato a mitigare le agitazioni e i tumulti popolari e che sostituì il Corpo delle Guardie di Città. Le elezioni politiche decretarono la vittoria dei socialisti e Nitti, nonostante gli fosse confermata la fiducia del governo, scelse di dimettersi il 16 novembre, preoccupato anche dalle agitazioni sul fronte interno degli operai e degli agricoltori, ma il re Vittorio Emanuele III lo confermò alla guida del governo. Nell'aprile 1920 Nitti partecipò alla Conferenza di Sanremo, in cui figurarono i rappresentanti delle quattro nazioni vincitrici della prima guerra mondiale. Il 21 maggio 1920, Nitti formò un nuovo governo ma il mandato fu breve. A Pallanza, il nuovo Ministro degli Esteri Vittorio Scialoja iniziò i negoziati con i rappresentanti jugoslavi per la definizione del confine orientale; tali colloqui non ebbero esito in quanto la controparte insisteva per la fissazione dei confini sulla cosiddetta “Linea Wilson”, che portava il confine a pochi chilometri da Trieste e l'esclusione di Fiume dalle richieste italiane. Ne conseguirono le dimissioni del Governo Nitti II, nel giugno 1920 dopo essere stato anche messo in minoranza sul decreto di aumento del prezzo politico del pane. Il suo posto verrà ripreso da Giolitti. Nel 1922 Mussolini invitò Nitti ad un'alleanza, con l'intento di formare una coalizione che comprendesse popolari, fascisti, socialisti e chiedendo un posto nel ministero. Nitti (interessato anche nel mettere fuori gioco il suo eterno rivale Giolitti) accettò a due condizioni: niente ministeri politici e militari, scioglimento dei Fasci. Mussolini, concorde, si mostrò interessato solo ad un posto come ministro del lavoro. Nitti (come gran parte dei politici della sua era) sottovalutò la natura del fascismo e iniziò ad opporsi fermamente all'imminente regime. Il 16 novembre 1922, Mussolini, neopresidente del consiglio, pronunciò alla camera dei deputati il suo primo discorso, il cosiddetto discorso del bivacco. Mentre esponenti politici come Giolitti, Orlando, De Gasperi, Facta e Salandra diedero la fiducia a Mussolini, Nitti si rifiutò di riconoscere la legittimità del governo fascista e abbandonò l'aula per protesta. A causa della sua astensione, iniziò ad essere vittima di intimidazioni fasciste e, nel frattempo, si ritirò nella sua villa ad Acquafredda di Maratea, sul litorale tirrenico.
La persecuzione fascista e l'esilio. Durante il soggiorno ad Acquafredda, continuò a svolgere l'attività pubblicistica relativa alle problematiche internazionali e collaborando con i più prestigiosi quotidiani europei. In questo periodo si diede alla composizione di una trilogia sull'andamento politico in Europa composta da L'Europa senza pace, La decadenza dell'Europa e La tragedia dell'Europa, la quale verrà ultimata nel 1923. In aggiunta, scrisse diversi articoli per la United Press International, agenzia di stampa statunitense e mantenne stretti contatti con alcune personalità politiche, in particolare con l'amico Giovanni Amendola. In questo periodo, scampò ad un'aggressione di un gruppo fascista giunto davanti alla sua villa, il quale decise di andarsene a seguito della difesa dell'abitazione da parte di alcuni cittadini suoi amici, che vennero a conoscenza del loro arrivo. Gli squadristi rivolsero, tuttavia, minacce di un imminente ritorno. Dopo il soggiorno, Nitti tornò a Roma tentando di fermare il governo fascista per l'ultima volta. Nel 1923 Mussolini, non avendo digerito il dissenso di Nitti verso il fascismo, mandò un gruppo di squadristi a devastare la sua casa nel quartiere Prati, oltreché minacciare lui e la sua famiglia. Nitti fu indotto a prendere la via dell'esilio. Fu il primo di tanti esuli antifascisti, a cui si aggiunsero in seguito Gaetano Salvemini, Luigi Sturzo, Piero Gobetti, Giuseppe Donati. Si recò con la famiglia prima a Zurigo e poi a Parigi dove, per 20 anni, si dedicò all'attività antifascista e la sua casa fu punto di riferimento per diversi oppositori del regime, come Pietro Nenni, Filippo Turati, Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini. Nonostante non aderisse organicamente ai movimenti antifascisti in Francia, Nitti li sostenne finanziariamente e fu sua figlia Luigia a partecipare attivamente nel coordinare associazioni come la "Lega Italiana per i Diritti dell'Uomo" (LIDU), fondata da Luigi Campolonghi e Alceste De Ambris. Nitti viaggiò anche in altre città europee come Bruxelles, Londra, Berlino e Monaco di Baviera, dove tenne discorsi sulla libertà e sulla democrazia. Il 5 maggio del 1925, Nitti scrisse una lettera al re Vittorio Emanuele III che fu, sostanzialmente, un'accusa di connivenza con Mussolini (che intanto aveva assunto poteri dittatoriali) e incitò il monarca a prendere provvedimenti contro il suo governo. Durante il suo esilio, elaborò il saggio La Democrazia, una delle sue opere più importanti, che costituisce, ancora oggi, una rilevante testimonianza della cultura politica liberal-democratica d'Italia. Nell'agosto 1943, fu arrestato dalla Gestapo a Tolosa e fu deportato in Austria: a Itter e in seguito a Hirschegg, dove vennero in seguito reclusi la duchessa d'Aosta e il figlio. Durante la prigionia nazista, Nitti scrisse Meditazioni dell'esilio, pubblicate successivamente nel 1947. Tornò libero nel maggio 1945 grazie all'arrivo delle truppe francesi.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale e il ritorno alle istituzioni democratiche, rientrò in Italia, tenendo un discorso al teatro San Carlo di Napoli, e si riaffacciò sulla scena politica. Lucido ma affetto da problemi di deambulazione, non ricoprì incarichi ministeriali, sebbene nel 1945 fu sul punto di essere incaricato di formare un governo di unità nazionale. Divenne membro della Consulta Nazionale dal 1945 al 1946, facendo parte della I Commissione Affari Esteri. Fu deputato all'Assemblea costituente dal 1946 al 1948 e senatore di diritto dal 1948 al 1953. Oltre a Giolitti, Nitti era in un particolare attrito con Vittorio Emanuele Orlando. Nel 1945, all'apertura dei lavori della Consulta Nazionale, Nitti, ormai settantasettenne e con difficoltà motorie, dopo aver saputo che Orlando ironizzava sulla sua condizione di salute, disse «La vecchiaia a qualcuno offende le gambe e ad altri la testa». Nei suoi discorsi alla Costituente avversò il sistema dei partiti e votò contro l'introduzione delle Regioni, ritenendole uno spreco finanziario e un'inutile duplicazione di funzioni e di burocrazie. Nel maggio del 1947, dopo le dimissioni del terzo governo De Gasperi, il capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola gli affida il compito di formare un nuovo governo: lo statista lucano accetterà tale incarico ma fallirà nell'intento di formare una maggioranza - a causa dei veti di Saragat, Orlando e di ampi settori della Democrazia Cristiana - e sarà costretto a rinunciare. Nitti non partecipò alle elezioni del 1948, a causa della morte della moglie avvenuta due mesi prima. Nella primavera del 1952 fu a capo di un cartello elettorale formato dai partiti laici e di sinistra, che si presentò alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Roma contro la DC. Fu anche tra gli ispiratori del movimento politico Alleanza Democratica Nazionale, che alle elezioni politiche del 1953 contribuì in modo decisivo a impedire l'attribuzione allo Scudo Crociato e ai suoi alleati del premio di maggioranza previsto dalla cosiddetta "legge truffa". Nitti morì a Roma il 20 febbraio 1953 per una congestione polmonare, nella sua casa nel centro storico.
Vita privata. Nel 1898 sposò Antonia Persico, figlia del giurista Federico Persico (1829-1903). Dall'unione nacquero cinque figli: Vincenzo, Giuseppe, Maria Luigia, Federico e Filomena. Federico, morto in giovane età, divenne un noto farmacologo. Anche Filomena fu una ricercatrice biologa, collaborando col marito Daniel Bovet, Premio Nobel per la medicina nel 1957. Francesco Fausto Nitti, suo pronipote, fu un volontario del primo conflitto mondiale, e in seguito, noto antifascista e partigiano, tra i fondatori del movimento Giustizia e Libertà.
Pensiero di Nitti. Situazione preunitaria. Secondo Nitti, tra il 1810 e il 1860, mentre gli stati dell'Europa occidentale del centro-nord (come Francia, Germania, Gran Bretagna e Belgio) e paesi extraeuropei come gli Stati Uniti stavano conoscendo il progresso, l'Italia preunitaria ebbe grandi problemi di crescita, a causa delle rivolte intestine e delle guerre d'indipendenza. La malaria, soprattutto nel Mezzogiorno, contribuì a compromettere lo sviluppo della penisola. Nitti ritenne che, prima dell'unità, vi erano marginali differenze tra nord e sud (le quali si sarebbero marcate nel periodo postunitario), nonostante il settentrione si trovasse in una posizione di privilegio rispetto al meridione: «È stato messo oramai fuori di ogni dubbio, che la differenza fra il Nord e il Sud, minima intorno al 1860, si sia accentuata rapidamente dopo. Cause finanziarie, ordinamenti politici, doganali, distribuzione delle spese di Stato hanno largamente contribuito a determinare e ad accentuare questa differenza di condizioni. Non va però in niuna guisa omesso che l'Italia settentrionale è in condizioni naturali di sviluppo assai superiori al Mezzogiorno: per mancanza o poca diffusione di malaria, per estensione di terre coltivabili, per distribuzione di acque, per situazione geografica, per essere grande via di traffico.»
Inoltre Nitti sostenne che tutta l'Italia preunitaria avvertiva la carenza della grande industria: «Prima del 1860 non era quasi traccia di grande industria in tutta la penisola. La Lombardia, ora così fiera delle sue industrie, non avea quasi che l'agricoltura; il Piemonte era un paese agricolo e parsimonioso, almeno nelle abitudini dei suoi cittadini. L'Italia centrale, l'Italia meridionale e la Sicilia erano in condizioni di sviluppo economico assai modesto. Intere provincie, intere regioni eran quasi chiuse ad ogni civiltà.»
Nitti reputò che il regno delle Due Sicilie seguiva un modello economico statico, dovuto, secondo il suo pensiero, alla mancanza di vedute e prospettive moderne. Egli ritenne che il governo borbonico, senza guardare all'avvenire, mirava al semplice scopo di riscuotere meno tasse possibili e mantenere una pressione fiscale bassa, credendo di garantire il bene del popolo, una concezione da lui considerata retriva. Benché apprezzasse l'operato politico-amministrativo del re Ferdinando II tra il 1830 e il 1848 e criticasse i suoi detrattori che ricordavano solamente gli aspetti negativi del suo mandato, egli sostenne che, fra il 1848 e il 1860, il governo borbonico aveva impostato una politica volta ad economizzare su tutto, pur di non creare nuove imposte, evitando anche le concessioni industriali, la formazione di banche e società per azioni. Nel regno vi era un'esigua spesa a livello infrastrutturale, le province versavano in una situazione piuttosto retrograda, quasi prive di scuole e strade («una grandissima città per capitale con un gran numero di province quasi impenetrabili» disse Nitti). Egli ritenne però, al tempo stesso, che «vi era uno stato di grossolana prosperità, che rendeva la vita del popolo meno tormentosa di ora». Inoltre si espresse positivamente sugli ordinamenti amministrativi e finanziari dello stato borbonico, giudizio sostenuto anche dal senatore Vittorio Sacchi, inviato a Napoli da Cavour dopo l'unità nazionale. Tale regime economico avrebbe reso il regno delle Due Sicilie lo stato preunitario con minori imposte, con maggiori beni demaniali ed ecclesiastici e con una quantità di moneta due volte superiore a quella di tutti gli altri stati della penisola messi assieme, ma allo stesso tempo il più arretrato del resto d'Italia. Vide in tutto questo accumulo di ricchezza un'occasione mancata per uno slancio economico nel Meridione al momento dell'unità. Sinteticamente Nitti disse: «Dei Borbone di Napoli si può dare qualunque giudizio: furono fiacchi, non sentirono i tempi nuovi, non ebbero altezza di vedute mai, molte volte mancarono di parola, molte volte peccarono; sempre per timidità, mai forse per ferocia. Non furono dissimili dalla gran parte dei prìncipi della penisola, compreso il Pontefice. Ma qualunque giudizio che si dia di essi non bisogna negare che i loro ordinamenti amministrativi erano spesso ottimi; che la loro finanza era buona, e in generale, onesta.»
Per quanto riguarda il Regno di Sardegna, Nitti intravide un'economia più dinamica rispetto al regno delle Due Sicilie e una maggiore propensione alla trasformazione e alla modernità, sebbene i suoi barlumi di progresso (e del nord in generale) furono, secondo i suoi studi, favoriti maggiormente dall'impulso degli stati e dei capitali dell'Europa centrale e le prime grandi industrie sorte al Nord furono costruite nella maggior parte dei casi da francesi, tedeschi e svizzeri. Nitti imputò la grave crisi economica del regno sardo ad ingenti spese pubbliche. Dopo aver paragonato le diverse voci di spesa, fra i bilanci degli stati preunitari, egli rilevò che la depressione finanziaria del Piemonte, iniziata prima del 1848, si aggravò tra il 1849 e il 1859 a causa di un'enorme quantità di lavori pubblici improduttivi, anche se riconobbe che, al 1860, il Piemonte possedeva «grandissima rete stradale; numerose ferrovie e canali, e opere pubbliche di grande importanza». Le sue tesi "controcorrente" sulla rivisitazione dell'Italia preunitaria, suscitarono polemiche non solo da parte di numerosi esponenti politici, che vedevano nelle sue parole un revanscismo borbonico e una messa in discussione del mito risorgimentale, ma anche degli stessi meridionalisti. Lo stesso Fortunato non condivise in toto le elaborazioni di Nitti, dichiarando che l'Italia meridionale entrò a far parte del nuovo Regno in condizioni differenti da quelle da lui sostenute, anche se era concorde sul fatto che lo Stato italiano beneficiava maggiormente le province settentrionali a discapito delle meridionali. Anche Salvemini dubitava delle cifre ricavate da Nitti, poiché le riteneva "falsificate" ma, come Fortunato, considerava innegabili i danni economici inflitti al sud dopo l'unità. Nitti smentì le accuse, ricordando il passato antiborbonico dei suoi ascendenti: «La mia famiglia è stata tra le più perseguitate, anzi tra le più tormentate dal passato regime, e quando io di esso ho voluto parlare con serenità, com'era dovere, coloro che lo avevan servito o sfruttato, o almeno non avevan combattuto contro di esso, han detto che io volessi fare l'apologia dei Borboni. Poiché appartengo a una razza di perseguitati e non di persecutori, ho appunto perciò maggiore dovere della equità; e trovo che a quaranta anni di distanza cominciamo ad avere l'obbligo e il bisogno di giudicare senza preconcetti.»
Moti risorgimentali. Nitti, differentemente dai suoi coevi, non riteneva il Risorgimento un movimento scaturito da sentimenti popolari ma il frutto del pensiero delle classi erudite. Egli sostenne che il popolo meridionale, ogni qual volta fosse avvenuta un'invasione, dimostrò sempre fedeltà al re borbonico, anche se manipolato per fini machiavellici, poiché la monarchia, nella sua concezione retrograda, mirava a garantire il suo benessere: « È un grave torto credere che il movimento unitario sia partito dalla coscienza popolare: è stata la conseguenza dei bisogni nuovi delle classi medie più colte; ed è stato più che altro la conseguenza di una grande tradizione artistica e letteraria. Ma le masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando IV in qua, tutte le volte che han dovuto scegliere tra la monarchia napoletana e la straniera, tra il re e i liberali, sono stati sempre per il re: il '99, il '20, il '48, il 60, le classi popolari, anche mal guidate o fatte servire a scopi nefandi, sono state per la monarchia e per il re. Questo concetto popolare (che ho studiato largamente altrove) non è, come si dice, effetto dell'ignoranza o del caso. I Borboni temevano le classi medie e le avversavano; ma tenevano anche ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo. Nella loro concezione gretta e quasi patriarcale non si preoccupavano se non di contentare il popolo, senza guardare all'avvenire, senza aver vedute prospettive.»
Per evitare il fallimento, la crisi del regno sardo poteva, secondo Nitti, essere risolta solo tramite la fusione della propria finanza con un'altra di uno «stato più grande» ma escluse la tesi di una mera occupazione, poiché Cavour voleva «fare di Napoli a ogni costo e con ogni sacrifizio una grande città industriale: e sviluppare nello stesso tempo le risorse agrarie del Mezzogiorno». Nitti imputò la piaga del mezzogiorno ai politici che lo sostituirono, ipotizzando tra i responsabili anche i meridionali stessi: «Chiara dunque avea Cavour l'idea della grande opera da compiere, poi che egli intendeva che l'annessione di Napoli e del Mezzogiorno al Regno di Sardegna non erano da considerarsi come una conquista; né il Sud potea nel concetto del grande statista avere, come ebbe infatti in seguito, funzione di semplice colonia, con diritto di rappresentanza nel Parlamento. Ma gli uomini che vennero dopo di lui, o forse le circostanze inevitabili, o forse la stessa azione dei meridionali, determinarono un indirizzo a dirittura opposto. Un regime tributario violento ed esiziale fu applicato repentinamente alle province meridionali.»
Inoltre, rilevò l'ipocrisia di tanti esuli meridionali rientrati in patria e che in passato avevano sostenuto la dinastia borbonica: «Una delle letture più interessanti è quella dell'Almanacco Reale dei Borboni e degli organici delle grandi amministrazioni borboniche. Figurano quasi tutti i nomi di coloro che ora esaltano più le istituzione nostre; o figurano tra i beneficiati, i loro padri, i loro fratelli, le loro famiglie. E sono in generale costoro che più parlano di danni del passato regime; e ne parlano coloro che lo avrebbero dovuto servire da ufficiali dell'esercito, da funzionari largamente retribuiti. Capita perfino di trovare tra i nomi dei revisori del Borbone coloro che adesso più si offendono di vedere del passato regime dare giudizio onesto. È sistema troppo comodo di spiegare la storia quello di attribuire ogni causa di malessere o inferiorità a un uomo o ad una monarchia.»
Ma Nitti non rinnegò l'operato dei patrioti e che, nel bene o nel male, l'unità nazionale portò una grande evoluzione sociale: «Da tre secoli a questa parte mai l'Italia è stata ciò che è ora: in quarant'anni di unità, di questa unità che con le sue ingiustizie è sempre il nostro più grande bene, in quarant'anni di unità, noi abbiamo realizzato progressi immensi. Noi non eravamo nulla e noi siamo molto più ricchi, molto più colti, molto migliori dei nostri padri.»
Brigantaggio meridionale. Nitti considerava il brigantaggio un fenomeno complesso, originato da diverse cause. Per lui il brigantaggio poteva assumere diverse forme: banditismo comune per sfogare i propri istinti, reazione dovuta alla fame e alle ingiustizie della società o rivolta di natura politica in cui le masse sostengono il proprio governo. Egli era contrario ai luoghi comuni del brigante dedito esclusivamente a delitti e grassazioni, definendolo semplicemente «un rivoltato e fra i rivoltati vi erano, come vi sono oggi, i sofferenti, gli idealisti e i perversi». Quindi tra i briganti Nitti vide diverse personalità, oltre a ladri e assassini, persone desiderose di diritti più umani e bramose di giustizia, che seppero guadagnarsi le simpatie dei ceti più bassi. «Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me e accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell'unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell'abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori.» Egli cita un esempio fra tanti, Angelo Duca (noto come Angiolillo), operante nella Basilicata settentrionale, in Capitanata e nelle province di Avellino e Salerno, per lui «il tipo più singolare, più interessante e quasi più leggendario del brigantaggio meridionale». Menzionò altri briganti, sebbene da lui considerati non al livello di Angiolillo, come Abate Cesare e Peppe Mastrillo, anch'essi dediti ad opere caritatevoli. Nitti individua l'origine del brigantaggio politico nel 1799, quando il re Ferdinando I di Borbone fu cacciato da Napoli dall'esercito francese e rifugiatosi in Sicilia. Egli aveva bisogno di una guida che accendesse gli animi popolari contro l'invasore, individuandola nel cardinale Fabrizio Ruffo, che Nitti, nonostante non sembri ricordarlo positivamente, considerò «più onesto dei suoi sovrani». Ruffo riuscì a sobillare le classi proletarie, in cui vi erano sia banditi che miserabili. Brigantaggio politico fu anche, secondo Nitti, la sua recrudescenza nel 1806, quando il Regno di Napoli fu occupato ancora una volta dai francesi e governato prima da Giuseppe Bonaparte e poi da Gioacchino Murat. I Borboni, fuggiti di nuovo in Sicilia, aizzarono le masse contro i francesi. Tra il 1810 e il 1860, egli constatò un ritorno del brigantaggio come banditismo comune ma vide alcune eccezioni a carattere sociale come Gaetano Vardarelli. In questo periodo Nitti vide fiorire il cosiddetto manutengolismo. Il brigante doveva avere un protettore, un informatore per compiere al meglio i suoi atti. Il manutengolo lo proteggeva per certi aspetti a causa della paura ma anche dell'avidità, poiché vi erano coloro che speculavano sui briganti e che qualche volta si arricchivano sul loro operato. All'indomani dell'unità d'Italia, Nitti vide una situazione simile a quella avvenuta nel 1799: «Francesco II cercò di salvarsi nel 1860, impiegando la stessa politica che più di sessant'anni prima avea salvata la corona del suo bisavolo. Egli e i suoi, prima di andar via, gittarono in fiamme il reame. L'esercito disciolto, proprio come nel 1799, fu il nucleo del brigantaggio, come la Basilicata ne fu il gran campo di azione.» Si riformarono così bande di briganti, con i loro capi e i loro manutengoli, e il loro bersaglio principale era la borghesia. Il governo borbonico in esilio sfruttò il malcontento popolare nella speranza di riprendersi il trono e il neogoverno italiano ricorse ad espedienti molto cruenti, che Nitti denunciò: «Il popolo non comprendeva l'unità, e credeva che il re espulso fosse l'amico e coloro che gli succedevano i nemici. Odiava sopra tutto i ricchi, e riteneva che il nuovo regime fosse tutto a loro benefizio. L'Italia nuova non ha avuto il suo Manhès; ma le persecuzioni sono state terribili, qualche volta crudeli. Ed è costata assai più perdite di uomini e di danaro la repressione del brigantaggio di quel che non sia costata qualcuna delle nostre infelici guerre dopo il 1860.»
Questione meridionale. Nitti considerava la questione meridionale determinata da diversi fattori. Egli accusò, in primis, i governi dell'Italia unita di aver sfruttato le risorse meridionali per soddisfare gli interessi settentrionali: « I debiti furono fusi incondizionatamente e il 1862 fu unificato il sistema tributario ch'era diversissimo. Furono venduti per centinaia di milioni i beni demaniali ed ecclesiastici del Mezzogiorno, e i meridionali, che aveano ricchezza monetaria, fornirono tutte le loro risorse al tesoro, comprando ciò che in fondo era loro; furon fatte grandi emissioni di rendita nella forma più vantaggiosa al Nord; e si spostò interamente l'asse della finanza. Gl'impieghi pubblici furono quasi invasi dagli abitanti di una sola zona. La partecipazione ai vantaggi delle spese dello Stato fu quasi tutta a vantaggio di coloro che aveano avuto la fortuna di nascere nella valle del Po.» Secondo il pensiero nittiano, le risorse finanziarie che lo Stato prelevò dai contribuenti furono in massima parte versate nell'Italia settentrionale, consentendo al Nord non solo un maggiore incremento economico e sociale ma anche una maggiore educazione industriale. Nitti lamentò inoltre una maggiore presenza di settentrionali nella pubblica amministrazione e di come il sud non avrebbe funto solo da "colonia" economica ma anche elettorale: «Il governo delle province, prefetti, intendenti di finanza, generali, ecc., è ancora adesso in grandissima parte nelle mani di funzionari del Nord. Non vi è nessun senso d'invidia in quanto diciamo. Ma vogliamo solo dire che se i governi fossero stati più onesti e non avessero voluto lavorare il Mezzogiorno, cioè corromperne ancor più le classi medie a scopi elettorali, molto si sarebbe potuto fare.»
Ma Nitti non escluse anche la responsabilità delle amministrazioni meridionali, le quali furono da lui criticate di preoccuparsi di cose meno rilevanti: «È innegabile che politicamente i meridionali hanno rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno, d'ordinario, male; i loro uomini politici non si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali. Un trattato di commercio ha quasi sempre per essi meno importanza che non la permanenza di un delegato di pubblica sicurezza.»
Non fu esente da critiche anche il popolo del sud che, per lui, mostrò di avere «qualità dissociali o antisociali: poco spirito di unione e di solidarietà, tendenza a ingrandire le cose o addirittura a celarle, per amore di falsa grandezza; per poco spirito di verità». Ritenne che mancasse uno spirito del lavoro nelle classi medie, un'educazione industriale, la buona fede commerciale, l'interesse di ogni cosa pubblica e che i meridionali fossero acquiescenti verso l'amministrazione e la politica in mano alle «persone indegne», pur di trarne piccoli vantaggi individuali. Infatti Nitti riteneva che «la questione meridionale è una questione economica, ma è anche una questione di educazione e di morale». A chiusura del suo saggio Nord Sud scrisse: «I lettori che in quest'arida ricerca mi han seguito ... han visto che i fatti enumerati provano tutti due cose: che la politica seguita finora è stata più favorevole allo sviluppo del Nord che non a quello del Sud d'Italia; che le differenze attuali non hanno nessun carattere di necessità o di fatalità. Abbiamo molto errato, forse; ma non vi è nulla che la penosa situazione presente renda necessaria. ...Io spero invece che se in questo libro vi sono delle verità, esse saranno accolte da quegli stessi contro i cui interessi verranno ad urtare. Poiché l'avvenire d'Italia è nella unione intima e più grande, nella crescente tendenza unitaria, coloro che sentiranno quanto l'Italia nuova ha fatto per essi, saranno più giusti verso quel Mezzogiorno d'Italia, in cui è la soluzione non solo dei problemi dell'unità, ma dell'esistenza stessa del regime liberale.»
Per fronteggiare la questione meridionale, Nitti era contrario alla consolidazione del settore industriale al nord per poi essere estesa al sud con interventi statali, in cui si sarebbe tratto vantaggio dal minore costo della manodopera. Il pensiero nittiano individua quindi in Napoli il centro propulsore per fare decollare il processo di industrializzazione in tutto il Meridione. In riferimento alla sua natia Basilicata, egli intravide come panacea innanzitutto la conduzione del popolo verso un'educazione industriale e poi la regolarizzazione dei corsi d'acqua, la costruzione di dighe, canali e laghi artificiali che avrebbero funto da base per lo sviluppo industriale della regione. Necessaria era anche una vasta opera di rimboschimento, che avrebbe ridotto la percentuale di terreni franosi.
Emigrazione. Nel dibattito sviluppatosi intorno alla questione dell'emigrazione, Nitti assunse un atteggiamento controcorrente. I pensatori suoi contemporanei, quali Carpi, Robustelli e Florenzano, la consideravano una possibile causa di sfascio della società contadina e possibile generatrice di un preoccupante spopolamento nazionale, mentre Nitti, nel primo lavoro in cui affrontò l'argomento (su cui, si deve ricordare, ebbe tutt'altro che un pensiero rigido e statico) dal titolo L'emigrazione italiana e i suoi avversari (1888), si espresse in maniera differente. Condividendo il pensiero di Giustino Fortunato (a cui l'opera è dedicata) nella stessa materia, difese il diritto ad emigrare analizzando e contrapponendosi alle principali argomentazioni contro il fenomeno. In occasione del disegno di legge presentato il 15 dicembre 1888, considerò la proposta, che voleva autorizzare il Ministero dell'Interno ad intervenire per bloccare l'emigrazione quando questa raggiungeva un dato limite, come: «una violazione aperta di ogni sentimento di libertà individuale. Il diritto che l'art. 5 del disegno di legge concede al Ministero dell'Interno di limitare l'arruolamento “così quanto alle province nelle quali possa farsi, come quanto ai paesi pei quali sia destinato”. Perciò, quando un qualunque ministero dell'interno crederà esagerata l'emigrazione di una provincia, potrà facilmente, non concedere licenze agli agenti, e, vietando gli arruolamenti, sotto qualunque pretesto, arrestarla.» Per Nitti tutti i malefici effetti attribuiti al fenomeno dell'emigrazione erano da considerarsi irreali, frutto per lo più di analisi sbagliate oppure dolosamente create per andare incontro ad interessi di classe. Non si poteva, secondo il meridionalista, ritenere che l'emigrazione avrebbe creato uno spopolamento nazionale, in quanto nel Regno d'Italia vi era un alto tasso di natalità, e per quanto concerne ai danni economici, all'aumento dei salari o alla svalutazione dei terreni, sostenne che rilevazioni attente e sistematiche non avevano documentato nulla di ciò, e in relazione all'accusa di non riuscire di fatto a migliorare le condizioni degli emigrati, Nitti affermò che ciò poteva essere accaduto nell'America del Nord (a causa della “concorrenza” degli emigrati irlandesi, inglesi e tedeschi ma ciò non poteva essere affatto vero per gli italiani che si erano recati nell'America Latina. Per le cause della specifica emigrazione nelle provincie meridionali, Nitti si soffermò sulle condizioni economiche, ai rapporti di classe e all'assetto della distribuzione fondiaria del Mezzogiorno. «Chi non ha visto la condizione dei braccianti delle province del Mezzogiorno d'Italia, non può avere una idea esatta della miseria grande che li costringe ad abbandonare il proprio paese. Si aggiunga a tutto questo l'infingardaggine e la cattiveria delle classi dirigenti. In alcune province ogni borghese che possa contare sopra un cinquecento o seicento lire di rendita annua si crede in diritto di non lavorare e di vivere, come essi dicono, di rendita. Non mai, come in molti paesi dell'Italia meridionale, ho visto maggior numero di vagabondi, e di persone che vivono di rendita.»
Per Nitti, quindi, l'emigrazione degli italiani meridionali era la risposta sociale alle condizioni socio-economiche esistenti nel Mezzogiorno, una risposta spontanea, ineluttabile e inderogabile, «poiché se per alcune parti dell'Italia superiore, l'emigrazione è un bisogno sociale, per molte province dell'Italia meridionale è una necessità, che viene dal modo come la proprietà è distribuita. Fino a che certe cause non si rimuovono, non si potranno evitare certi risultati». In questo modo il meridionalista arrivò ad equiparare il fenomeno migratorio con un altro fenomeno endemico del Mezzogiorno, quello del brigantaggio, sostenendo la tesi che il voler limitare, o addirittura sopprimere, l'emigrazione, avrebbe potuto far sfociare nuovamente il malcontento della classe più povera nella guerriglia: « poiché a noi, in alcune delle nostre province del Mezzogiorno specialmente, dove grande è la miseria e dove grandi sono le ingiustizie che opprimono ancora le classi più diseredate dalla fortuna, è una legge triste e fatale: o emigranti o briganti.»
Azione politica. Annotando meditazioni pensieri e ricordi, durante la prigionia Nitti espresse più volte il desiderio di scrivere le sue memorie – ma ciò non avvenne. La ragione sta nella sua mentalità positiva, alla quale erano venuti a mancare i punti esatti di riferimento. Trovandosi Nitti rifugiato a Tolosa durante l’occupazione tedesca, temendo perquisizioni il figlio Federico rimasto a Parigi, incompetente di cose politiche e incapace di fare una cernita, preferì incenerire nei forni dell’Istituto Pasteur i registri, le agende e tutta la corrispondenza del padre dal 1924 al 1940. Senza quei riferimenti precisi Nitti si sentì probabilmente incapace di accingersi all’opera. Proprio nell’epoca in cui l’idealismo si affermò contro il positivismo l’opera di Nitti dava ancora prova di quali fossero le migliori risorse politecniche delle scienze positive in materia politica e amministrativa, energetica e finanziaria, economica e demografica. “Grande male di molti uomini più rappresentativi della Francia è la mancanza o la deficienza di studi economici e finanziari, e ancor più demografici (...) Questa tendenza è tanto più pericolosa in quanto toglie la sensazione della realtà”.[58] L’abitudine all’uso di metodi quantitativi si vede in questo suo bilancio storico: “Se tutte le rivoluzioni hanno il loro attivo e il loro passivo, si può dire che la rivoluzione inglese, in rapporto alla civiltà mondiale, ha un passivo molto limitato e per l’Inghilterra ha un attivo molto considerevole. La rivoluzione americana ha un attivo e quasi nessun passivo. La rivoluzione francese, di ben più grande estensione e intensità, ha un enorme attivo e un enorme passivo, e la Francia e l’Europa intera ne risentono ancora l’azione”. Questo Salvemini di centro riassunse il suo pensiero politico generale così: “L’Inghilterra non è mai stata un paese democratico ... La Francia non è mai stata un paese liberale ... La democrazia, se non è temperata da uno spirito di conservazione e di tradizione, è molto spesso disposta a sacrificare la libertà”. I pregi della sua formazione positiva si videro al momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Essa andava discussa con ragioni logiche e non ideologiche: “Alleati come eravamo dell’Austria-Ungheria e della Germania, si doveva rimanere estranei al conflitto. Ma non si poteva rimanere estranei provvisoriamente e condizionalmente. Del resto l’astensione condizionale era assurda, perché o la Germania e i suoi alleati vincevano la guerra, o la perdevano. Se la vincevano avrebbero considerato nulle e immorali le concessioni fatte all’Italia in un momento di difficoltà, come per ricatto, e non le avrebbe mantenute. O perdevano la guerra, e allora i paesi dell’Intesa, animati da spirito ostile, non avrebbero riconosciuta nessuna delle concessioni. Il solo modo di non volere la guerra, fino a quando era possibile, era di mettersi fuori dalla guerra senza domandare nulla. Questa fu la mia azione nel 1915”. Ma dopo averla osteggiata, la guerra divenne per Nitti un fatto dal quale era impossibile ritrarsi; ed egli si assunse responsabilità non sue soprattutto dopo Caporetto quando, per scongiurare il panico, come ministro del tesoro annunciò che non vi sarebbe stata alcuna moratoria dei crediti bancari “perché la responsabilità cadesse tutta su di me. Volli scrivere quel documento di mio pugno”. Per il positivista Nitti la politica e la storia si riducevano a fatti. Come la guerra, anche la rivoluzione russa fu un fatto. Contro l’opinione di Clemenceau, che considerava i russi dei barbari ignoranti perfettibili e i tedeschi dei barbari istruiti imperfettibili, Nitti domandava che cosa avrebbe impedito di andare d'accordo con la Russia bolscevica, dopo che s’era andati d'accordo con la Russia degli zar: “Trapiantare i princìpi e i metodi della rivoluzione russa in un paese come l’Italia ... sarebbe sicura rovina. Ma si può aggiungere che nello spirito della rivoluzione russa vi è qualche cosa che anche l’Italia non può ignorare”. Questo “qualche cosa” era la volontà di modernizzazione d’un paese arcaico al quale, per certi aspetti, l'Italia poteva somigliare. I pregi della sua formazione positiva furono talvolta un limite positivistico. Anche in politica per Nitti contarono sempre e soltanto i fatti, scevri d’ogni valore simbolico: il sì e il no senza artifici correttivi giuridici o diplomatici, che egli non seppe mai proporre perché non li sapeva concepire. Il trattato di Versailles restò sempre per lui la sola causa del secondo conflitto mondiale. Il suo pensiero pragmatico si riassume in queste parole: “Come si può parlare di pace se le stesse cose sono concepite diversamente, secondo che siano fatte a danno o a vantaggio di una nazione o dei suoi avversari?” Egli conosceva assai bene la Francia, conosceva abbastanza bene il Regno Unito e un poco anche gli Stati Uniti. Questi (e soprattutto il revanscismo e gl’interessi siderurgici e carboniferi francesi) erano per lui dei fatti. Ma Nitti non conosceva la Germania, ed essa dunque non era un fatto: non conosceva il piano Schlieffen, per esempio, e non menziona neppure Weimar. Alla crisi del 1929 che, quando si abbatté sulla Germania, la propaganda di Hitler seppe retrodatare in senso nazionalistico come crisi del 1919, non dedica neppure una parola. Nulla, del pari, egli dice sul rifiuto di riconoscere la sconfitta con cui Hindenburg e Ludendorff prepararono la leggenda della “pugnalata alle spalle”. Il positivismo giuridico di Nitti si accanisce invece sugli articoli 227 e 228 del Trattato di Versailles che imponevano alla Germania riparazioni e la consegna al giudizio dei criminali di guerra. Entrambe le richieste erano, per Nitti, d’impossibile attuazione: non gli venne mai in mente la possibilità d’una soluzione mediante un parziale assolvimento dotato di significato simbolico. Quando la Germania si offrì di patteggiare a forfait 100 miliardi di marchi-oro, gli sembrò che la cifra fosse eccessiva e che ne bastassero 60 o 70 da pagare con merci in trent’anni. Nondimeno egli tace che il legname e il carbone richiesti non furono mai consegnati. Alla conferenza di Parigi Nitti propose che i principali imputati di crimini di guerra fossero giudicati a Lipsia da giudici tedeschi; ma poi ci ripensò: se tutte le potenze avessero aperto i loro archivi, “non era da attendersi sorprese?”. Quando fu chiesto che almeno il solo Guglielmo II fosse esiliato nella colonia olandese di Curaçao come pena simbolica per le sue responsabilità, gli sembrò un atto giuridicamente eccepibile, e per giunta inumano: gli inglesi avevano esiliato Napoleone a Sant’Elena “senza la farsa di alcun processo”; ma “nel caso del Kaiser si arrivava subito alla soluzione di Santa Elena senza l’intermezzo dell’isola d’Elba”; e “a Curaçao poteva essere sicuro di vivere anche meno che Napoleone a Sant’Elena”. La completa ignoranza dei valori simbolici o ideologici, e il disinteresse per la storia come qualcosa di non sempre attuale o fattuale, fecero dimenticare a Nitti, per esempio, che nel 1871 Bismarck aveva avuto il cattivo gusto di proclamare la fondazione del Secondo Reich proprio a Versailles, e che per orgogliosa dignità la Francia aveva voluto saldare le riparazioni chieste dalla Prussia in anticipo sulla scadenza. Eppure egli riconosce che “I tedeschi intelligenti avevano sottoscritto per necessità il trattato di Versailles, senza credere alla sua durata”. L’impresa di Fiume fu per lui, che l’osteggiò, ancora un altro fatto. Sebbene ogni trattativa diplomatica al riguardo fosse esclusa a priori, quando D’Annunzio minacciò ritorsioni per mancanza di viveri Nitti, temendo il peggio, si affrettò ad inviarli insieme con “una somma importante”. Lasciò invece cadere la proposta del generale Caviglia allorché si mise a sua disposizione per mettere fine all’avventura a fucilate (come poi fece Giolitti). Quando una rappresentanza degli avventurieri gli chiese udienza, egli li ricevette dando del capogruppo Giuriati un giudizio indulgente. Si rifiutò viceversa di ricevere una delegazione di “cittadini fiumani rispettabili” venuti a lamentare le malversazioni subìte dai “cosiddetti legionari”. Il fascismo fu l’ennesimo fatto che egli dovette riconoscere accettando, grazie alla mediazione di D’Annunzio, di stipulare un patto con Mussolini, dal quale fu travolto. Sebbene nelle Meditazioni dell’esilio egli abbia finalmente, a malapena, riconosciuto il ruolo che l’immaginazione può svolgere nell’azione politica, e sebbene abbia egli stesso fantasticato di un’unione doganale dell’Italia con Romania e Bulgaria attraverso la Jugoslavia, il limite positivistico della creatività giurispolitica di Nitti si vede bene nel suo giudizio sui mandati. Egli giudicò con disprezzo i “miserabili giuristi” che, con l’istituzione dei mandati in Siria, Armenia, Mesopotamia e Palestina, si dedicarono alla “creazione di una forma giuridica che doveva accontentare tutti ... secondo i puri principii di diritto”; e trattando l’argomento confuse immediatamente “il funesto equivoco dei mandati” con la sottrazione alla Germania delle sue colonie africane Togo e Camerun. “Dopo la caduta della Turchia i francesi volevano la Siria come mandato, e interpretavano il mandato come una forma larvata di possesso da trasformare poi in dominazione diretta”. Un'affermazione di tanta importanza non è suffragata da alcuna prova anamnestica o documentale, e certamente Nitti l'avrebbe fornita se avesse potuto esibirla. Così le contingenze storiche diventavano per lui ragioni di consenso o di ripudio in sola linea di principio: le idee non avevano valore creativo della politica e del diritto, a meno che non si presentassero come fatti compiuti o come forze ideologiche organizzate.
Meditazioni e ricordi. In mancanza delle sue predilette fonti statistiche, epistolari o diaristiche, ma giovandosi delle più diverse letture, durante la prigionia Nitti fu costretto a sintetizzare i suoi pensieri in liberi giudizi, i quali spalancano al lettore la mente in movimento d’uno statista non preoccupato che dall’eventuale indiscrezione dei suoi sorveglianti. È così che su persone e su personalità nazionali noi possiamo conoscere i fulminanti giudizi che in opere accademiche o pubblicistiche egli avrebbe, e ha, sicuramente taciuto. Non per caso il sottotitolo delle Rivelazioni è: Dramatis personae. A differenza della vita spesa nell’azione, dunque, l’attenzione dei pensieri e dei ricordi è rivolta non tanto ai fatti quanto, piuttosto, ai loro risultati nel giudizio. A parte qualche riferimento frenologico (alcuni personaggi vengono definiti come “epilettoidi”, per esempio), i giudizi personali non hanno di ‘positivo’ che l’intuizione psicologica e l’esperienza della vita. Vale la pena di passare in rassegna i principali.
A D’Annunzio, la guerra e Fiume è dedicato un lungo profilo di grande efficacia. Ciò che D’Annunzio diceva era del tutto indifferente: “Sapevo che tutto in lui era esteriore e che raramente diceva ciò che pensava, e anche più raramente pensava ciò che diceva”. “Mi sorprendeva che le sue abitudini personali fossero in tanto contrasto con la sua condotta di scrittore. Ammiravo la sua grande capacità di lavoro. Moltissime ore egli rimaneva curvo di fronte al tavolo, e preparava e rivedeva i suoi scritti con pazienza da benedettino. Nulla era in lui improvvisato”. “Giolitti senza molto esitare ordinò di attaccare Fiume per mare e per terra e di cacciarne via D’Annunzio e i suoi. Per quanto io non avessi alcuna stima né della morale né della serietà di D’Annunzio, lo sapevo uomo di coraggio e credevo che, dopo tanti giuramenti, si sarebbe fatto uccidere piuttosto che uscire da Fiume. Invece, gli assalitori avendo sparato appena qualche colpo di cannone, D’Annunzio ordinò la resa e uscì da Fiume. Tante proclamazioni di eroismo non poteano finire in modo più ridicolo. Se D’Annunzio si fosse fatto uccidere sarebbe finito in bellezza. Ma egli trattò Fiume come le sue amanti, che abbandonava dopo averle sfruttate ed esaurite”. “Nella sincerità del mio spirito nulla mi offendeva nell’opera di D’Annunzio come quel misticismo postribolare, quella confusione continua, secondo le circostanze, del sacro e del profano, della religione e del lupanare, qualche cosa come il bidet con l’acqua santa”. “L’intelligenza di Clemenceau aveva nella sua manifestazione qualche cosa di arido. Mai in tutti i rapporti che ebbi con lui ... notai altri sentimenti che di diffidenza e di avversione: mi pareva sempre che demolisse senza mai costruire. In realtà, nelle conferenze della pace non fece che demolire senza costruire. Vi erano sempre in lui più risentimenti che sentimenti, più volontà di distruggere che volontà di creare. Era in fondo un libertario, con una cultura larga ma frammentaria, con un’ignoranza di studi economici e finanziari, e quindi nella impossibilità di vedere nelle lotte umane, sia interne che estere, altra cosa che un’implacabile necessità e quindi la preparazione di nuove lotte: dominare per non essere dominati”. “Clemenceau non rappresentava interessi, ma passioni”. “Sonnino era l’ebreo levantino, sempre agitato e sempre in stato d’intimo fermento: abituato a dissimulare la sua cupidità con l’austerità esteriore, ma sempre desideroso di successo quanto più la sua azione lo destinava all’insuccesso. Aveva l’anima del ghetto, una specie di intimo rancore per tutto ciò che non era il suo mondo. Ma le qualità ebraiche le migliori erano in lui distrutte o inutilizzate dalla eredità protestante, che gli dava una grande capacità di dissimulazione e un bisogno di affermazioni e atteggiamenti esteriori di virtù. Era la peggiore espressione del marrano”. Salandra “imboscò quanti erano intorno a lui, e imboscò soprattutto i suoi figli con ostinata perseveranza, ciò che non giovò al suo credito e determinò a lui tante giustificate avversioni. Poche cose fra gli ufficiali che combattevano facea più disastrosa impressione che il sapere come il principale autore della guerra mettesse tutto il suo sforzo nel tenerne lontani i suoi figli, pur facendo ogni giorno proclamazioni di eroica intransigenza”. “Cadorna era un uomo cólto e di buona fede, ma nella sua concezione si era forse fermato alle guerre di Napoleone di cui conosceva perfettamente la storia. Sacrificò invano tante vite di soldati senza una idea ben definita che non fosse errata e finì nel disastro di Caporetto dovuto, come Mussolini ebbe giustamente parecchie volte ad affermare, a incapacità dei capi”. La catastrofe francese nel 1940 “non fu una guerra, ma una specie di sciopero generale dell’esercito”. Gli ebrei “hanno contribuito alle loro persecuzioni. Gli ebrei, ciò che è più grave, hanno essi stessi quella concezione razzista che rimproverano ora ai loro nemici”. “Persecuzioni di ebrei vi sono state in tutti i tempi: ve ne furono nell’Egitto antico che pure li aveva accolti largamente, ve ne furono a Roma che pure fu così tollerante e quasi indifferente in materia di religione (...) Bisogna riconoscere, però, che di ciò la colpa è soprattutto degli ebrei stessi”. “La mia convinzione, confermata dagli avvenimenti, è che poche cose han contribuito al movimento razzista e antisemita come il programma sionista di Gerusalemme”. “Se, come ha detto Platone, pensare significa intrattenersi in silenzio con se stessi, Nietzsche non poteva intrattenersi con se stesso, perché ritrovava il folle proprio in se stesso, e non potea intrattenersi in silenzio perché era troppo agitato”. L’opera di Marx è “una espressione mentale del Talmud in formule hegeliane”. “Il successo di un uomo di talento è una giornata di sole che fa uscire tutte le vipere”.
Francesco Saverio Nitti, scrive Salvatore Lucchese il 26 marzo 2007 su "Quindici Molfetta". Il dibattito meridionalistico di fine Ottocento ed inizio Novecento trova in Francesco Saverio Nitti (1868-1953) uno dei suoi maggiori esponenti. Diversamente dai meridionalisti di scuola liberale, Nitti evidenzia i fattori di trasformazione che attraversano il Mezzogiorno rispetto agli elementi di immobilità. Nel saggio Nord e Sud (1900) attraverso una minuziosa ricerca statistica, lo studioso lucano dimostra che in proporzione alla sua ricchezza il Meridione paga più tasse del Settentrione: la perequazione dell'imposta fondiaria, i criteri di ridefinizione catastale, la diffusione dei borghi contadini sono solo alcuni degli esempi di scelte politiche in campo fiscale che si ritorcono contro le regioni meridionali. Inoltre, il Nord risulta favorito anche nella distribuzione territoriale della spesa pubblica. Le spese e gli investimenti per caserme, scuole, ferrovie e giustizia – osserva Nitti – si sono concentrate prevalentemente nel Settentrione. Di conseguenza, la spesa per i vari servizi dipendenti dal ministero dei Lavori pubblici, sia in rapporto alla popolazione sia rispetto alla superficie territoriale, nel Sud è stata di gran lunga inferiore rispetto al Nord. Il trasferimento della ricchezza monetaria da Sud a Nord non è stato favorito soltanto dalla politica fiscale ma anche dalla politica demaniale, dalle vicende del debito pubblico e dalla politica doganale. Dalla ricerca di Nitti emerge chiaramente che il drenaggio di capitali e la concentrazione dei flussi di spesa pubblica hanno favorito le regioni settentrionali, contribuendo ad aggravare le condizioni di relativa arretratezza delle regioni meridionali, accusate in modo infondato di assorbire in modo eccessivo le risorse pubbliche. Tra il 1901 e il 1902 Nitti pubblica due libri – La città di Napoli (1901) e Napoli e la questione meridionale (1902) – in cui i problemi del Meridione non sono più considerati in relazione alle campagne ma soprattutto rispetto alle città. E' una rivoluzione prospettica strategica, in quanto il volano di sviluppo del Sud non viene più indicato nell'agricoltura ma nell'industria. Si apre la stagione politica delle leggi speciali atte a favorire durante l'età giolittina l'industrializzazione del Sud.
Quanto è costato al Sud l'unità d'Italia: uno scritto di Nitti, scrive Ignazio Coppola il 2 giugno 2014 su "Meridionews". Un passo di un celebre scritto del grande meridionalista fa giustizia di tutte le menzogne che ancora oggi si raccontano sulle vere ragioni dell'impoverimento del mezzogiorno. Francesco Saverio Nitti (1868-1953), insigne uomo politico, fu Presidente del Consiglio (dal 1919 al 1920), economista di rango, saggista, scrittore ed antifascista che nei suoi scritti e nei suoi saggi affrontò, come d’altronde lo fece dal canto suo con lucide analisi il socialista Gaetano Salvemini (1873-1957), la nascita e l’evolversi in Italia della questione meridionale. I due - tra i massimi esponenti del meridionalismo - nei loro saggi e nei loro scritti approfondirono le cause dell’arretratezza del Sud a seguito dell’unificazione nazionale. Gaetano Salvemini nei suoi scritti pose la necessità di ancorare il movimento socialista su posizioni meridionaliste, sollecitando la strategica alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud. Francesco Saverio Nitti, la cui attività di economista fu apprezzata a livello internazionale, approfondendo le cause che determinarono, dopo l’Unità d’Italia, l’arretratezza e l’impoverimento del Sud, elaborò nei suoi scritti, dopo averne sviscerato le cause, numerose proposte per affrontare e superare la questione meridionale, analizzando, tra l’altro, le ragioni del brigantaggio nel Sud Italia che andava inteso, non come fenomeno criminale, ma come rivolta sociale popolare e contadina repressa nel sangue dalle truppe italo-piemontesi del generale Cialdini in una guerra civile che durò diversi anni. A tal fine per zittire i falsi risorgimentalisti unitari e i mestatori della storiografia ufficiale freschi reduci dalle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità ed ancora i leghisti che, dal canto loro, si ostinano a dire che il Sud è stato ed è la palla al piede del nostro Paese, sarebbe cosa buona e giusta che costoro per documentarsi, rinfrescarsi la memoria e correggere le loro distorte visioni della storia si vadano a rileggere, facendosene una ragione , a proposito di quanto anzidetto, quello che Francesco Saverio Nitti ebbe a scrivere nella sua opera: L’Italia del Nord e l’Italia del Sud e traendone alla fine le debite conclusioni.
Il grande dissidio della vita italiana. L'Italia del Nord e l'Italia del Sud. Due cose sono oramai fuori di dubbio: la prima è che il regime unitario, il quale ha prodotto grandi benefizi, non li ha prodotti egualmente nel Nord e nel Sud d'Italia; la seconda è che lo sviluppo dell'Italia settentrionale non è dovuto solo alle sue forze, ma anche ai sacrifizii in grandissima misura sopportati dal Mezzogiorno. Quando per la prima volta sollevai la questione del Nord e del Sud e cercai farla passare dal campo delle affermazioni vaghe, in quello della ricerca obbiettiva, non trovai che diffidenze. "Molti degli stessi meridionali ritenevano pericolosa la discussione e non la desideravano. Poichè appartengo a una razza di perseguitati e non di persecutori, ho appunto perciò maggiore il dovere della equità; e trovo che a quaranta anni di distanza cominciamo ad avere, non solo l'obbligo, ma anche il bisogno di giudicare senza preconcetti. Ora, ciò che noi abbiamo appreso dei Borboni non è sempre vero: e induce a grave errore attribuire ad essi colpe che non ebbero, ed è fiacchezza d'animo per noi tutti non riconoscere i lati manchevoli del nostro spirito e della nostra educazione, e voler attribuire ogni cosa a cause storiche. "I primi deputati meridionali, scelti presso che tutti fra i patrioti più notevoli, ignoravano quasi completamente il Mezzogiorno. Erano in gran parte ideologi; antichi profughi; avvocati, maestri della parola e viventi di vecchie tradizioni letterarie. Da dieci anni la ricchezza dell'Italia settentrionale è grandemente cresciuta; nel Mezzogiorno vi è invece arresto e in qualche provincia vi sono anzi tutti i sintomi della depressione. La Lombardia, il Piemonte e la Liguria, godendo tutti i benefizi di un regime doganale fatto quasi ad esclusivo loro benefizio, dopo avere goduti i frutti di una politica finanziaria, che per quaranta anni riserbava ad essi i maggiori benefizi e al Sud i maggiori danni, sono in trasformazione profonda; sicchè il distacco fra il Nord e il Sud si accentua. E qualunque finzione per negare, non serve a nascondere la verità, che si manifesta in tutte le forme.
"Quando nel 1860 il regno delle due Sicilie fu unito all'Italia, possedeva in sé tutti gli elementi della trasformazione. L'Italia meridionale aveva infatti un immenso demanio pubblico. Le imposte dei Borboni erano mitissime e Ferdinando II avea cercato piuttosto di mitigarle che di accrescerle. Le accuse che Antonio Scialoja movea alla finanza borbonica, esaminate ora onestamente, sulla base delle pubblicazioni ufficiali, non resistono alla critica. Dal 1820 al 1860 il regime economico e finanziario dei Borboni determinò una grande capitalizzazione. Il commissario governativo mandato a Napoli da Cavour, dopo l'annessione, il cavaliere Vittorio Sacchi, riconosceva tutti i meriti della finanza napoletana, e nella sua relazione ufficiale non mancava di additarli. All'atto della costituzione del nuovo Regno, il Mezzogiorno, come abbiam già detto, era il paese che portava minori debiti e più grande ricchezza pubblica sotto tutte le forme. "Furono venduti per centinaia di milioni i beni demaniali ed ecclesiastici del Mezzogiorno, e i meridionali, che aveano ricchezza monetaria, fornirono tutte le loro risorse del tesoro, comprando ciò che in fondo era loro; furon fatte grandi emissioni di rendita nella forma più vantaggiosa al Nord; e si spostò interamente l'asse della finanza. Gl'impieghi pubblici furono quasi invasi dagli abitanti di una sola zona. "Ebbene: dal 1860 a oggi i 56 miliardi che lo Stato ha preso ai contribuenti sono stati spesi in grandissima parte nell'Italia settentrionale. Le grandi spese per l'esercito e per la marina; le spese per il lavori pubblici; le spese per i debiti pubblici; le spese per tutti gli scopi di civiltà e di benessere, sono state fatte in grandissima parte nel Nord. Perfino le spese fatte nel Mezzogiorno furono in gran parte erogate per mezzo di ditte settentrionali. "Ho un elenco quasi completo dei grandi appaltatori dello Stato dopo il 1862; non figurano che pochissimi meridionali. Le grandi fortune dell'Italia settentrionale sono state compiute mediante lavori pubblici o forniture militari; la storia del regime ferroviario da venti anni a questa parte, (la conversione delle obbligazioni tirrene è classico esempio) spiega non pochi spostamenti di ricchezza. Anche le tendenze imperialiste del Sud, frutto più che di ogni altra cosa, di ignoranza, sono state sfruttate (ironia dei fatti!) da grossi interessi del Nord.
"La pochezza dei rappresentanti del Mezzogiorno e la confusione delle idee è stata tale che, per tanti anni, si è detto e si è pubblicato nella Camera e fuori che il Mezzogiorno pagava poco e viceversa otteneva il maggior benefizio delle spese allo Stato! In altri termini si è aggiunta la ironia crudele al danno; ironia dei fatti, se non delle intenzioni. [Ora dalle mie indagini risulta che, proporzionalmente alla sua ricchezza, il Sud paga per imposte di ogni natura assai più del Nord; e viceversa lo Stato spende molto meno]. "In queste landa la civiltà non è rappresentata spesso che dai carabinieri; e il Governo non appare che sotto le forme della prepotenza e della violenza, costretto, per conservare i suoi feudi politici, a consegnare ogni provincia, ogni zona nelle mani dei peggiori avventurieri parlamentari. Si credeva che le grandi spese per lavori pubblici fossero state fatte nel Mezzogiorno e ho dimostrato che non è vero; si credeva che i meridionali avessero invaso gli impieghi e ho trovato che tra gli impiegati il minor numero era di meridionali. La trasformazione rapida dell'Italia del Nord non è suo merito: è conseguenza di condizioni storiche e geografiche evidentissimi. E così anche la depressione del Sud non risponde ad alcuna necessità etnica; ma solo a condizioni che possono mutare e che noi crediamo dovranno mutare.
"Le prime grandi industrie che sono sorte nel Nord sono state fatte nella più gran parte da francesi, da tedeschi, da svizzeri: il libro d'oro dell'industria e del commercio di Lombardia abbonda di suoni gutturali e di desinenze aspre. Ora, invece, l'Italia meridionale è rimasta medioevale in molte province, non per sua colpa, ma perchè tutto l'indirizzo della politica interna, economica e doganale hanno determinato questo fatto. Tra l'Italia del Nord e l'Italia del Sud è ora più grande differenza che nel 1860: e, mentre la prima si avvicina ai grandi paesi dell'Europa centrale, per la sua produzione e per le sue forme di vita pubblica, la seconda ne rimane lontana, e, per la produzione sua, rimane anzi assai più vicina all'Africa del Nord. "Sono tutte nel Mezzogiorno quelle regioni che non solo danno proporzionalmente alla loro ricchezza di più, ma quelle che ricevono meno in paragone di ciò che danno. Mentre le imposte sono dunque più aspre nel Sud, le spese sono in tutte le forme scarsissime. Si è detto e ripetuto sempre che lo Stato abbia fatto grandi spese per lavori pubblici nel Sud: ora, invece, è nel Nord che le più grandi spese sono avvenute. Le spese portuali, per le spiagge, per i fari, sono state e sono destinate quasi tutte al Nord: e così quasi tutte le altre spese. La massa degli impiegati dunque, al contrario di ciò che si dice, è stata finora sempre dell'Italia settentrionale e della centrale; l'Italia meridionale e la Sicilia hanno avuto sempre nell'amministrazione dello Stato un'importanza scarsa. "L'Italia meridionale, vivente degli impieghi, quale è stata dipinta, non è mai esistita: non si tratta che di una immorale leggenda. I confronti stabiliti in Nord e Sud fra Udine e Potenza: Alessandria e Bari; Verona e Avellino; Como e Salerno, dimostrano che povere province del Sud pagano tuttavia assai spesso più di ricche province del Nord, e che lo Stato, viceversa, fa minor numero di spese. La burocrazia nei più alti gradi era quasi esclusivamente composta di elementi settentrionali fin verso il 1880; anche ora è notevole la prevalenza di essi. La situazione tra il 1899 e il 1900 era questa: mentre l'Italia settentrionale rappresenta appena 36,8 di tutta la popolazione del regno, ha 52,8 per cento di tutti gl'impiegati superiori: l'antico regno delle Due Sicilie, rappresentando una massa di popolazione superiore, cioè 37,9 ha appena 19,7 per cento dell'amministrazione centrale superiore. Tenendo anche conto del personale superiore del Ministero della guerra e della marina e degli ufficiali ammiragli, l'Italia settentrionale, che dice di combattere il militarismo, rappresenta 63,9 di tutto il personale indicato, l'Italia meridionale e la Sicilia, che hanno popolazione superiore, appena 13,5. "Così dunque la leggenda, secondo cui i meridionali avrebbero una preponderanza nelle pubbliche amministrazioni, non ha nessuna base di realtà. Fra il 1860 e il 1870 vi erano Ministeri interi che quasi non avevano un solo meridionale; dopo le proporzioni si sono modificate, ma come ogni cosa, i meridionali sono rimasti sempre in una situazione di notevole inferiorità. Le solite bugie sul Sud Italia.
PARLIAMO DELLA QUESTIONE SETTENTRIONALE E DI QUELLA MERIDIONALE.
Nel dibattito sull'Unità d'Italia si innesta da sempre la questione nord-sud, quella frattura di faglia economica e culturale che porta da sempre a mettere in discussione l'esistenza di un'italianità unica, che ci caratterizza tutti dalle Alpi a Pantelleria. Accade, ovviamente, in modo esponenziale nell'anno del centocinquantenario. Nel nodo del contendere rientrano diverse questioni. Per citare le più note: lo status economico e politico del Regno delle Due Sicilie prima dell'annessione da parte del neonato Regno d'Italia; i metodi con cui l'unità nazionale è stata imposta alle popolazioni meridionali, delle quali una buona parte ebbe forti rimpianti per il dominio borbonico (vedasi il fenomeno del brigantaggio); i modi e i tempi con cui nel meridione il nuovo stato unitario ha affrontato la questione della proprietà terriera. Il dibattito è sacrosanto e su alcune questioni, come le brutalità delle truppe incaricate della repressione dei briganti (che sarebbe giusto chiamare lealisti), solo ora si sta facendo pienamente luce (la retorica patriottarda ha a lungo cancellato le tracce degli eccidi, così come successivamente è successo con gli eccidi commessi dai partigiani nella lotta di liberazione dal nazi-fascismo). Spesso però sia i sostenitori del Sud "oppresso" e "occupato" quanto i difensori della tradizione risorgimentale del Sud "salvato" alla garibaldina e poi giustamente "nordizzato" (per alcuni tutto ciò che continua a non funzionare semplicemente non è stato "nordizzato" abbastanza) incorrono nella stessa visione a senso unico. Per gli uni e per gli altri il Sud è in qualche modo passivo e vinto. È molto oggetto e poco soggetto. Ecco allora, anche per provocazione, proviamo a buttare li un “e se il Risorgimento fosse partito dal Sud”? Non è un ucronia fantascientifica. Semplicemente la presa d'atto che il cuore dei moti italiani del 20-21 e tutto sudista. Il germe di quello che fu il Risorgimento italiano. Il 2 luglio del 1820 una parte del reggimento di cavalleria Borbone, legato alla vendita carbonara di Noli, occupò Avellino, riuscendo ad ottenere in breve tempo l'appoggio degli ufficiali che avevano militato sotto Murat (Il generale Guglielmo Pepe in testa). Il piano degli insorti: Ottenere per il Regno delle Due Sicilie una costituzione sul modello di quella di Cadice del 1812. E non si trattò di un semplice pronunciamento militare, dietro all'esercito si muovevano i borghesi delle province (sì il Regno era pieno di piccoli borghesi attivissimi), i piccoli proprietari, i professionisti. Il 7 luglio re Ferdinando fu costretto a concedere la costituzione e il 9 gli insorti entrarono in una Napoli in festa e proiettata verso il futuro e la modernità. Come finì il sogno è noto. Le baionette austriache massacrarono le truppe di Pepe (valore ma davvero mal comandate) nelle gole dell'Antrodoco, il 10 marzo 1821. I Borbone non riuscirono a cavalcare il moto di modernità che nasceva dalle città meridionali (Ferrovie Napoli-Portici sì, libertà politiche no) e scelsero di appoggiarsi alla parte meno moderna del Regno, di non uscire dal concerto delle potenze così ben diretto da Metternich. Da quel momento in poi la possibilità di sfruttare politicamente la spinta all'indipendenza politica passò ad altre corti, nonostante tutti i tentennamenti che caratterizzeranno Re Carlo Alberto. E parte della borghesia meridionale iniziò sempre più a tifare per il "liberatore straniero". Ma anche in quel caso molti furono tutt'altro che passivi. Il che ci può far dire che molte aspettative al Sud furono disattese e tradite, ma non autorizza a pensare ad un Regno delle Due Sicilie, che nei destini italiani fu solo trascinato. Considerazioni, queste tratte da “ITALIA UNITA”, l'allegato gratuito ad “Il Giornale”, il quale racconta con dovizia di dettagli, senza censura, i primordi del risorgimento e il periodo compreso dal 1815 al 1821. Si tratteggia così un quadro originale ed affascinante, la storia della nostra unità. Un quadro che non per forza va guardato da Nord a Sud.
Il libro “Terroni” ovvero, tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, scritto da Pino Aprile, è una descrizione coraggiosa nonché documentata di quello che gli italiani fecero a se stessi, del perché a centocinquant’anni dall’Unità d’Italia la differenza tra Nord e Sud si sia addirittura accentuata, marcando tale disuguaglianza in maniera indelebile. Per quanti hanno sempre creduto che questo dipendesse da un fatto puramente geografico dovranno ricredersi, così come dovranno ricredersi coloro che avevano l’errata convinzione che il Sud del nostro paese sia da sempre la parte più povera e arretrata d’Italia. Chi sono stati i veri fautori di questa diversità? Con quanta coscienza hanno perpetrato i propri ideali traendone maggiore profitto? Chi ha reso parte della nostra società così sottomessa e spesso timorosa? Un testo che analizza il cambiamento sociopolitico di una nazione e che non teme di svelare quelle che sono le realtà scomode, tanto che persino i libri di storia le hanno da sempre taciute. “La costruzione della minorità del sud con stragi e saccheggi e leggi inique è il più grande affare di sempre per il nord”. Un linguaggio provocatorio e altamente professionale sviscera in maniera concreta i vari punti di forza di questa “messa in scena”. I Meridionali sono stati definiti per decenni facenti parte di una sottospecie in diversi dibattiti e saggi pubblicati negli anni, a riprova di come il Sud fosse un luogo con un alto indice di inferiorità. Aprile dichiara senza fare sensazionalismo come i piemontesi fecero al Sud ciò che i nazisti fecero a Marzabotto, di come nelle rappresaglie si concesse libertà di stupro sulle donne meridionali, e poi ancora di come si incarcerarono i meridionali senza accusa e senza condanna, di come l’Italia unificata impose tasse aggiuntive ai meridionali. Queste e tante altre provocazioni lancia l’autore nei confronti di quelli che dichiarandosi fratelli, umiliarono e soggiogarono la parte più soleggiata e vivace del nostro stivale. Credevamo di sapere tutto o quasi sulla storia d’Italia e della sua unità, dei sacrifici e delle problematiche che i nostri connazionali vissero, ma Pino Aprile, ex Direttore di importanti settimanali, ci fa comprendere il contrario. Dopo aver letto questo volume nessuno potrà dire “non lo sapevo”. Fratelli d’Italia... ma sarà poi vero? Perché, nel momento in cui ci si prepara a festeggiare i centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, il conflitto tra Nord e Sud, fomentato da forze politiche che lo utilizzano spesso come una leva per catturare voti, pare aver superato il livello di guardia. Pino Aprile, pugliese doc, interviene con grande verve polemica in un dibattito dai toni sempre più accesi, per fare il punto su una situazione che si trascina da anni, ma che di recente sembra essersi radicata in uno scontro di difficile composizione. Percorrendo la storia di quella che per alcuni è conquista, per altri liberazione, l’autore porta alla luce una serie di fatti che, nella retorica dell’unificazione, sono stati volutamente rimossi e che aprono una nuova, interessante, a volte sconvolgente finestra sulla facciata del trionfalismo nazionalistico.
"Terroni" è un libro sul Sud e per il Sud, la cui conclusione è che, se centocinquant’anni non sono stati sufficienti a risolvere il problema, vuol dire che non si è voluto risolverlo. Come dice l’autore, le due Germanie, pur divise da una diversa visione del futuro, dalla Guerra Fredda e da un muro, in vent’anni sono tornate una. Perché da noi non è successo? Per parodiare la famosa canzone di Giorgio Gaber, ci si potrebbe chiedere “cos’è il Nord, cos’è il Sud?”. E se il nord fosse il sud e viceversa (come insinua l’immagine di copertina del libro)? O meglio, se il sud era il nord prima di diventare quello che è ora? Una prospettiva che azzererebbe tutta la controversia italiana tra meridionali e settentrionali. È un libro storico, che ricorda come il Regno delle due Sicilie fosse al terzo posto nel mondo dopo Gran Bretagna e Francia ed addirittura al primo in molte innovazioni tecniche e libertà civili, prima di abusi e soprusi dei ‘nordisti’. Un esempio per tutti è quello che hanno fatto di Mongiana, il più ricco distretto minerario e siderurgico dell'Italia intera, situato in Calabria. L'acciaio di Mongiana rese autonomo il Regno nella produzione di travi per la costruzione di ponti sospesi in ferro e per la cantieristica della seconda flotta mercantile al mondo, dopo quella inglese. L'arsenale di Castellamare era il più grande del Mediterraneo. L'acciaio calabrese forniva i binari per l'industria ferroviaria napoletana di Pietrarsa, dove venivano fabbricate anche motrici navali. La siderurgia calabrese fu soppressa dal governo unitario solo perché era situata nel Meridione; l'industria italiana doveva essere settentrionale. A Mongiana, quando fu chiusa, lavoravano 1.200 operai. I piemontesi saccheggiarono città, stuprarono donne, rasero al suolo e bruciarono tanti paesi, praticarono la tortura più spietata, fucilarono senza processo e senza condanna tanti contadini, incarcerarono donne e bambini, aprirono al Nord campi di concentramento e sterminio dove tormentarono e fecero morire tanti italiani del Sud squagliandoli poi nella calce viva, vennero trafugate le opere d'arte dei ricolmi nostri musei. L'impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell'Unità d'Italia.
“Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio” di Guerri Giordano Bruno. In questo libro, ricco di un'avvincente documentazione, Giordano Bruno Guerri rilegge la vicenda del Risorgimento e del brigantaggio come una "antistoria d'Italia": per liberare i fatti dai troppi luoghi comuni della storiografia postrisorgimentale (come la pretesa arretratezza e miseria del Regno delle Due Sicilie al momento della caduta) e per evidenziare invece le conseguenze, purtroppo ancora attualissime, della scelta di affrontare la "questione meridionale" quasi esclusivamente in termini di annessione, tassazione, leva obbligatoria e repressione militare. Il Sud è stato trattato come una colonia da educare e sfruttare, senza mai cercare davvero di capire chi fosse l'"altro" italiano e senza dargli ciò che gli occorreva: lavoro, terre, infrastrutture, una borghesia imprenditoriale, un'economia moderna. Così, le incomprensioni fra le due Italie si sono perpetuate fino ai nostri giorni. Alcuni briganti spiccano per doti - umane e di comando - non comuni, come Carmine Crocco, che per tre anni tenne in scacco l'esercito italiano; e così le brigantesse, donne disposte a tutto per amore e ribellione; altri rientrano più facilmente nel cliché del bandito o dell'avventuriero, ma tutti contribuiscono a dare volti e nomi a una triste e sanguinaria pagina della nostra storia, che si voleva cancellare. "Non si tratta di denigrare il Risorgimento, bensì di metterlo in una luce obiettiva, per recuperarlo - vero e intero - nella coscienza degli italiani di oggi e di domani". Altro che banditi incivili e incolti: i briganti che s'opposero alle truppe savoiarde erano patrioti ribelli, contadini esasperati dall'avidità e dallo sfruttamento dei latifondisti, cittadini delusi dalla mendace propaganda garibaldina. E quella che venne combattuta tra 1861 e 1870 fu la prima guerra civile italiana. Parola del padre dell'Antistoria degli italiani. Lo storico più coraggioso, spirituale e anticonformista del nostro secondo Novecento, l'etrusco Giordano Bruno Guerri, celebra con la disorientante onestà di sempre i 150 anni dell'Unità d'Italia pubblicando Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio (Mondadori, 300 pp.,), una lettura penetrante e lucida delle vicende post-unitarie, vicende fondanti per determinare incomprensioni, ostilità e inimicizie tra le due metà della nazione. Lo storico senese ribadisce che la repressione del “brigantaggio” fu una guerra civile, insabbiata nei libri di scuola: anche Angelo Del Boca, qualche anno fa, in Italiani, brava gente? (Neri Pozza) già lamentava «non un cenno alla grande alleanza politica tra le classi dominanti del Nord e i latifondisti del Sud, a tutto danno delle classi subalterne». I briganti andrebbero chiamati con un altro nome nei libri di storia: ribelli. Tenendo presente, avverte Guerri, che è impossibile stendere una vera storia documentata del brigantaggio, perché larga parte dei documenti sono stati distrutti o censurati. Celebrare a dovere i 150 anni dell'Unità d'Italia potrebbe significare impegnarsi a «rintracciare i documenti mancanti, forse ancora nascosti e dimenticati». Perché senza memoria e senza giustizia un popolo cresce sghembo. E non impara a rispettarsi. La storia del nostro Risorgimento è condizionata e contaminata da una retorica che ha costruito, nell'immaginario dei cittadini italiani, un passato leggendario fondato sull'eroismo e sul martirio d'una minoranza di combattenti che credevano nel Bene. Quel Bene era la fondazione dell'Italia. Le cose non stanno proprio così, e non ha senso raccontarsi favole. Serve, secondo il maestro Guerri, una «profonda opera di revisione storiografica». Perché s'è trattato d'una guerra civile: e perché a raccontarla, come sempre, è stato il vincitore. Un vincitore che ha imposto la damnatio memoriae sui vinti, riducendo i suoi massacri alla stregua di semplici operazioni di polizia. Guerri vuole che il Risorgimento sia recuperato per intero, nel bene e nel male. Perché è dall'Unità in avanti che questo ha saputo diventare un grande Paese. E cercare la verità a proposito di quanto è accaduto non può macchiare l'orgoglio della nascita di una nazione. L'Unità d'Italia non seppe integrare tradizioni, culture e lingue diverse: Guerri sostiene che l'educazione all'italianità dei meridionali sia passata per una contrapposizione rancorosa. “Noi”, portatori di giustizia civiltà e legalità, contro “loro”, i briganti. A dividere le parti, spiega lo storico senese, «una diversità radicale e radicata, non un'inconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile a un'estraneità». Che significava la parola “brigante”? Guerri insegna che a introdurla furono i francesi: nel 1829 i nostri linguisti la consideravano ancora un neologismo. Prima ci si serviva di parole come “bandito” o “fuorbandito”. Secondo lo storico senese, oggi chiameremmo “briganti” dei “terroristi”, o dei “partigiani”. Oppure, aggiungiamo noi, dei “guerriglieri”. La ribellione di quanti non intendevano accettare l'Italia sabauda venne battezzata, insomma, con un francesismo d'accatto: “brigantaggio”. Adottato come sinonimo di “banditismo”. Chi era, allora, il “brigante”? Tante erano le anime dei briganti. Erano combattenti ribelli, erano lavoratori esausti, erano cittadini che rifiutavano gli anni imposti dalla leva militare obbligatoria, nel nuovo Stato, ed erano nostalgici borbonici. Erano a volte disertori, a volte delinquenti, a volte romantici. «Terra, giustizia, onore, tradizione, orgoglio, cacciata dello straniero: erano questi i concetti che invitavano i briganti alla battaglia», insegna Guerri. Secondo lo storico Del Boca invece, si trattava di «almeno 10mila soldati dell'esercito borbonico, migliaia di braccianti senza terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali». Tendenzialmente, erano fiancheggiati dal clero. Erano tutti molto religiosi, e molto scaramantici. Non mancavano le donne: secondo Guerri, si trattava di «partigiane ante litteram, antesignane di un femminismo istintivo e rabbioso, ribelli stanche di essere confinate – da sempre – al letto, al focolare e ai figli. Un esercito di nomi e di storie senza volto, un'escrescenza della storia, per decenni considerata ingiustamente marginale». E in questo libro finalmente trattate con rispetto, e con diversa sensibilità. Quanti erano i briganti? Erano parecchi. Guerri riferisce che nel 1861 agivano, dall'Abruzzo in giù, 216 bande. Secondo Del Boca, si trattò di 80mila gregari divisi in circa 400 bande. Guerri spiega bene la loro visione della realtà: «I briganti non si sentivano 'italiani'. I nemici erano usurpatori, colonizzatori arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi, i legami e le appartenenze». E com'erano, esteticamente? Considerando i tempi atroci che si vivevano allora, la pessima alimentazione, la scarsissima igiene e il sovrumano analfabetismo, oggi ci sembrerebbero mostri: non soltanto certi contadini non si lavavano quasi mai... I briganti «immaginiamoli magrissimi, di statura bassa, membra grosse, capelli ruvidi e irti, denti guasti, scuri, mancanti. Mani come pale, grosse di calli, dita non fusellate, corte, unghie nere. I pidocchi fanno parte della vita quotidiana, come l'aria». E Guerri parla dei contadini, non di quelli che sono andati alla macchia. In quel frangente le cose peggiorano con una certa facilità. Questa guerra venne combattuta con una legge, la Legge Pica dell'agosto 1863, con cui il governo italiano – sacrosanto ricordarlo – «impose lo stato d'assedio, annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri». Caddero, secondo le cifre che Guerri considera più attendibili, addirittura attorno alle centomila persone tra i meridionali, complici i caduti per stenti, prigionia, disperazione, suicidio. Morale della favola? «Oggi, non si può più tacere che quella conquista comportò episodi da sterminio di massa».Non mancarono episodi di violenza cieca e gratuita per mano sabauda, come i massacri di Pontelandolfo e Casalduni, completi di saccheggio e stupri: nascevano per rappresaglia, costituirono un focolaio d'odio. In entrambi i casi non ci fu nessun processo. Non c'è mai stata giustizia. E qualcuno voleva non ci fosse nemmeno memoria. Rumiz, su La Repubblica, in agosto 2010, scriveva: «Quattrocento per quaranta. Dieci uccisi per ogni soldato, come alle Fosse Ardeatine. Oggi a Pontelandolfo c'è solo un monumentino con tredici nomi e una lapide in memoria di Concetta Biondi, violentata e uccisa dai soldati. Mancano centinaia di nomi, scritti solo nei registri parrocchiali. Il sindaco: "A marzo siamo stati finalmente riconosciuti come "luogo della memoria". Ma non ci basta: vogliamo essere "città martire" e che questo nome sia scritto sulla segnaletica. Vogliamo che l'esercito riconosca la sua ferocia». Pino Aprile, in Terroni, aggiunge: «Ma a Roma, i nazisti (oltre la strage delle Fosse Ardeatine) non ebbero poi il coraggio di distruggere anche il quartiere in cui era avvenuto l'attentato, come pure avevano ipotizzato. A Pontelandolfo e Casalduni si fece». Paesi che nel 1861 avevano rispettivamente cinquemila e tremila abitanti oggi ne hanno meno della metà. Questo il risultato. Economicamente, il Regno delle Due Sicilie era decisamente più ricco del Regno del Piemonte, almeno per quanto riguardava le riserve auree. Gli abitanti erano gli stessi, nel 1860: 9 milioni. Per i primi trent'anni, l'Italia del Sud fu ben sfruttata dal Piemonte, da questo punto di vista. D'altra parte, nelle terre borboniche non esistevano strade, se non in 227 comuni su 1848, e i chilometri di ferrovie erano decisamente pochi. Eppure, ad esempio, «un'infinità di progetti e decreti stabilivano la costruzione di nuove strade; quasi tutti rimasero impigliati nei lacci della burocrazia e nei contrasti tra comuni, signori, preti e quanti, tra vassalli e valvassori, si arrogassero il diritto di avere voce in ogni decisione. Il morbo è arrivato fino a noi».Guerri ricorda che la base dell'economia meridionale restava l'agricoltura, fondata sul latifondo: i piemontesi non seppero risolvere il nodo della questione agraria, determinando così una delle principali cause del brigantaggio: lo scontento abnorme dei contadini. Che sognavano, naturalmente, una equa redistribuzione dei grandi possedimenti terrieri. A qualcuno di loro Garibaldi aveva promesso terra: ma quella delle camicie rosse non era stata affatto una liberazione sociale. Niente affatto.
Tutti si ricordano una frase di Massimo d'Azeglio: «Si è fatta l'Italia, ma non si fanno gli italiani». Nessuno ricorda cosa pensava davvero l'intellettuale piemontese: «La fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso». Questa nostra amnesia racconta molto del nostro desiderio di mantenere un approccio costruttivo ed edificante, solare e dialettico, per arginare e risolvere i contrasti tra le due metà del Paese. Guerri tiene a puntualizzare che diversi tra i principali padri della patria, come Gioberti, Rosmini, d'Azeglio, Cavour, pensavano a un Regno d'Italia ben diverso, limitato a Piemonte, Lombardia, Veneto e ducati emiliani: «in pratica quella che oggi viene chiamata Padania», chiosa lo storico, ribadendo che si trattava delle regioni più piemontesi o “piemontesizzabili”. L'errore di piemontesizzare il Regno delle Due Sicilie ha determinato un secolo e mezzo di incomprensioni, risentimenti, invidie, vittimismi e gelosie. Probabilmente, peraltro, ha originato un'ondata di emigrazione di straordinaria intensità, prima verso altre nazioni o altri continenti, poi verso il settentrione. E negli ultimi 12 anni le cose non sono state così diverse, nonostante si sia fatto tutto il possibile per nasconderlo, complice la propaganda berlusconiana. 700mila cittadini dell'Italia meridionale hanno dovuto abbandonare casa, famiglia e tessuto sociale per andare in cerca di fortuna a settentrione. Laddove c'è qualcuno che sembra trattarli come creature antropologicamente differenti: e non da ieri, da sempre, ovvero da quando chiamava brigantaggio la loro ribellione.
“Non c’è nulla di più sgradito che venire maltrattati da chi si crede di aiutare. Chi non era capace di capire la differenza tra la libertà appena ricevuta e la schiavitù subita per secoli andava trattato alla stregua di una belva” (Il sangue del Sud, Mondadori 2010 – pag. 94). Con la consueta chiarezza che non cede mai al comodo semplicismo – anzi, vedremo quanto complesso sia ciò che è descritto in modo chiaro – Giordano Bruno Guerri riesce a stringere in quattro righe il movente psicologico che armò l’esercito del neonato Regno d’Italia contro quanti nelle Due Sicilie rifiutarono uno Stato unitario, cercando di sabotarlo. Non è detto che davvero si aiuti “chi si crede di aiutare”, come minimo perché l’aiuto può anche non essere considerato tale, fino alla possibilità che oggettivamente non sia tale. Già, ma cos’è – sul piano storiografico – l’oggettività? Il fatto è che l’oggettività dell’aiuto che al Sud venne dal Nord è rappresentato come tale già nel suo sottotitolo, che è Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio: la maiuscola per Risorgimento e la minuscola per brigantaggio. Sarà stata una guerra civile, non c’è dubbio, e sarà stata anche crudelissima come tutte le guerre civili, non mancano i documenti che lo provano, ma i perdenti non avevano neppure un movimento degno di maiuscola. Non è così solo in Guerri: sfogliando la ricchissima bibliografia (pagg. 263-276) non si trova un solo Brigantaggio nei titoli, solo brigantaggio, come un fenomeno senza un’idea interna, come fatto non privo di motivi, ma senza una ratio. Ecco in cosa concorda – unanimemente – la storiografia (anche nelle sue degenerazioni neoborboniche e neosanfediste): i briganti erano in campo senza un’idea, fedeli a Francischiello e al Papa, senza dubbio, ma del brigantaggio si può dire che fu animato da queste fedeltà? Ma leviamo pure l’elemento emotivo, e dunque retorico, della fedeltà: dietro ai briganti c’era un progetto di società capace di competere con quello espresso dalla nobiltà e dalla borghesia del Nord? L’esito della guerra civile era già tutto nella sconfitta militare subita dallo Stato Pontificio e dal Regno delle Due Sicilie, sennò come sarebbe stato possibile tanto a Mille sfessati? Ciò che muoveva Garibaldi era più forte di ciò aveva mosso Pisacane: oggettivamente Garibaldi portava aiuto, oggettivamente Pisacane no. O meglio: così parve alle genti del Sud. Quanta resistenza fu opposta alla risalita di Garibaldi da Marsala a Napoli? Calatafimi, e poi? Il movente psicologico che armò il Nord “invasore” contro il Sud “ribelle” era tutto nella sgradevolezza del maltrattamento, che non era stato messo in conto. Il Nord capì che la soggezione e la superstizione avevano reso il Sud per sempre refrattario alla voglia di libertà, mai disgiunta dalla corrispettiva responsabilità, ma lo capì solo a Unità raggiunta, e “potremmo chiamarla la sindrome del «chi me l’ha fatto fare?»” (pag. 5). La delusione provocò una reazione spietata. La pietas umana può essere tenuta sotto controllo solo fino a un certo punto, poi traspare, quasi sempre in favore dei perdenti: questo è molto bello e accade anche in Guerri. E tuttavia, se in questo libro i briganti trovano modo di chiarire i loro motivi, la ratio di chi li massacrò trova modo di chiarire che non ci fosse altra soluzione che il massacro, perché nel brigantaggio confluivano le trame della Chiesa e dei Borboni contro il nuovo Regno d’Italia (cfr. Cap. VIII – La Chiesa, i Borboni e i briganti – pagg. 107-122): si trattava del proseguimento del Risorgimento, la sua coda feroce e insanguinata. “Una Unità mal condotta e peggio proseguita” (pag. 252), certo, ma “grazie all’Unità – attraverso un processo lungo, faticoso e non ancora terminato – l’Italia è diventata un grande Paese. Non lo sarebbe mai stata senza il Risorgimento” (pag. 253). Poi c’è da tenere presente – e questo è davvero inquietante – che, mentre il brigantaggio nasce come strumento di una possibile restaurazione clericale e borbonica, finisce per diventare icona, “almeno fino agli anni Sessanta del Novecento, [di] sindacalisti, contadini e braccianti alle prese con rivendicazioni, scioperi, battaglie [sicché] una certa estetica della guerriglia mise sullo stesso piano Carmine Crocco e Che Guevara [come se fosse possibile assurgere i briganti] al rango di mitici combattenti per la libertà” (pag. 260), volti a quell’emancipazione della plebe meridionale che Chiesa e Borboni non avrebbero mai permesso: esito paradossale del mito del brigantaggio, che sul piano sociale residua invece in delinquenza organizzata nelle forme della mafia, della ’drangheta e della camorra. Guerriglieri e criminali, però, si combattono con le stesse armi.
La Cassa per il Mezzogiorno: un provvedimento pro-Sud che ha fatto straricco il Nord. Il tassello meridionale del miracolo italiano fu messo, il 10 agosto 1950, quando nacque la Cassa del Mezzogiorno. Da un’idea del meridionalista Pasquale Saraceno, la legge 646 del 1950 fu lo strumento dell’intervento straordinario voluto dal governo di Alcide De Gasperi per modernizzare un Sud rimasto pericolosamente indietro, su cui pesava una fortissima disoccupazione. Trentaquattro anni controversi, nessuno ne ricorda solo una faccia. Impossibile guardare più ai risultati o ai fallimenti: le grandi opere e «il miracolo», oppure gli investimenti a pioggia e «lo scandalo», nei quali si possono rileggere oggi la storia della trasformazione degli uomini e del paesaggio del Sud Italia. La Cassa può allora essere descritta attraverso tante immagini. L’acqua che arriva finalmente nelle case e lascia per sempre nel passato le donne con i secchi sulla testa, che camminavano per chilometri fino al pozzo. Le fogne, i ponti e le grandi bonifiche, con la sconfitta della malaria. Il lavoro. I contadini che lasciano la terra, e diventano operai. Le strade che piegano l’asprezza dell’entroterra: anche se l’economista Vera Lutz sostenne che poi servirono alla gente soltanto «per abbandonare i paesini del Sud». Ma ci furono anche dighe inutili che hanno fatto ritirare le spiagge: costruite a tutti i costi, per arricchire imprenditori e amministratori corrotti. Ci furono coste avvelenate dall’industria, a Gela, Taranto, Brindisi e Bagnoli, che non ha mai generato l’indotto atteso. E ci fu il grosso «affare» delle partecipazioni statali e delle cosiddette Cattedrali nel deserto.
I contrasti contraddistinguono la storia della Casmez, nella quale ci sono meriti e, insomma, i veleni del progresso. E quasi tutti i vizi del Paese. La Cassa fu sostenuta anche dalla Banca Mondiale (per lo 0,9%) e dal forte contributo della Bei (che elargì il 49,9% degli investimenti totali). Nel 1984 fu il governo di Bettino Craxi a deciderne la soppressione: la Casmez fu però sostanzialmente convertita in una erede, l’Agensud, che durò ancora fino al 1993, quando chiuse i battenti sotto il governo di Giuliano Amato. A questa data l’investimento complessivo per il Sud è calcolato in 279.763 miliardi di lire (vale a dire 140 miliardi di euro). Raccontare la Casmez in modo neutro è stato a lungo, praticamente, impossibile. O «panegirico» o «condanna totale», spiegava Manlio Rossi Doria, affrontando quello che fu il pomo della discordia su cui si scannavano comunisti e democristiani, meridionali e settentrionali. Oggi l’analisi converge sulla bontà, oltre che sulla necessità, dei primi dieci anni di intervento. Ma anche chi la sponsorizzava ammette che, successivamente, dal 1965 in poi, quando cioè la legge 717 la prorogò imbrigliandola nella politica, la Cassa vide e permise l’inizio della «lenta agonia dell’intervento straordinario», nelle parole di un grande storico del meridione, Salvatore Cafiero. Nella prima fase la Cassa del Mezzogiorno ebbe meriti indiscussi, modernizzando il Sud con grandi opere e investimenti sull'agricoltura. La Banca mondiale pretese che si seguisse il modello della Tennessee Valley Authority, che negli anni '30 aveva gestito lo sviluppo agricolo industriale della valle del Tennessee. Negli anni '60, seguendo una diversa missione industriale, produsse 31 mila posti di lavoro nelle industrie di base, 35 mila in quelle meccaniche e di trasporto. Anche su questa divisione dei tempi, però, non tutti si trovarono d’accordo: uno studioso dell’economia meridionale come Augusto Graziani, ad esempio, ha messo in evidenza come la missione industriale non sia stata affrontata subito nel Mezzogiorno per una malcelata intesa fra politica e industria del Nord, che non voleva doppioni nel Paese. Proprio in quella modernità senza vero sviluppo, continua la storia della mai risolta "Questione meridionale". Cosicchè, dopo tanti anni, c'è chi come il ministro Giulio Tremonti, parlando di Sud, ha invocato il ritorno ad una nuova "Casmez". La gente non aveva l’acqua nella case al Sud, «invece arrivò questo grande fatto dalla Cassa...», racconta innanzitutto un "guerriero" della questione meridionale come Gerardo Marotta. La legge che istituì la Cassa del Mezzogiorno, il 10 agosto del 1950, secondo il giurista napoletano «era quasi perfetta, aveva un difetto grave però: le concessioni». Se i primi 10 anni della Cassa del Mezzogiorno furono «gloriosi», il fondatore dell’Istituto per gli Studi filosofici non ha dimenticato il resto della storia. Ancora sospira: «Quelle valigette cariche di banconote per corrompere i funzionari di turno, con la compiacenza dei politici corrotti...». E le dighe inutili, come quella del Menta in Calabria: «Devastarono clima e paesaggio della Magna Grecia». Passa per la modernizzazione del Mezzogiorno la storia dell’appalto all’italiana. Ne paghiamo oggi le conseguenze: «La lievitazione del debito pubblico, dovuta a un magna magna che raggiunse le dimensioni del disastro». La cassa è, insomma, un capitolo della vicenda che «arriva oggi ai pali eolici». Alla memoria dell’amministrativista tornano anche «centinaia di contadini» che subirono le espropriazioni: «Li difesi e vinsi, facendo approvare una legge per tutelare i fittavoli. Scrissero con le luminarie, in un paese, "grazie Marotta"». Trenta anni di opere, investimenti e lotte. «La Cassa fu una grande cosa per il Mezzogiorno – è la sentenza prima dei distinguo – ha fatto acquedotti, fognature in centinaia di comuni. Questa magnifica legge del 1950 prevedeva però che gli enti locali potessero evitare la gara: si potevano dare gli appalti attraverso trattative dirette in concessione». C'è una postilla storica: «Le concessioni erano regolate da una legge del '29. All’epoca si giustificò la cosa, sostenendo che il ministro ai lavori pubblici era Mussolini: con la sua 'lungimiranza' avrebbe scelto le ditte adatte». Al concessionario, continua Marotta tornando alla Casmez, «era possibile trattenere per sè la maggior parte dei soldi»: «Si precipitarono quindi nel Sud le industrie del Nord, che fecero man bassa per la costruzione delle dighe: ne spuntarono dove erano utili e non dove non lo erano. Venivano a costare anche 100 volte più del dovuto». Fu un sistema «nefasto»: «Un porco, con la protezione della politica, poteva avvicinare i presidenti delle comunità montane e ottenere le concessioni. Trafficanti venivano da tutto il Paese con le valigie piene di soldi per corrompere i funzionari della Cassa. Una volta andai là con Adriano Buzzati Traverso: uno scienziato che voleva costruire un think tank. Quando vide tutte quelle valigette, mi disse "Marotta andiamocene, questo non è ambiente per noi"». «Inoltre a poco a poco – continua il racconto – i concessionari capirono che potevano impadronirsi anche della fase della progettazione. Andai da diversi professori universitari, per segnalare il problema: mi risposero di non fare il don Chisciotte». Colse bene il problema Pasquale Saraceno, che denunciò «il blocco sociale»: «Burocrati, politici e imprenditori corrotti, camorra e 'ndrangheta». E le industrie portate dalla Cassa, che produssero migliaia di posti di lavoro? «Mia madre era di Taranto – è la conclusione della testimonianza – hanno dato posti di lavoro, distruggendo però una città bellissima. E oggi la gente deve vedersela con il cancro».
Siamo il grande malato d'Europa, con tutti i sintomi di un malessere grave: impoverimento, incertezza del futuro, precarietà lavorativa, percezione di insicurezza sociale, smarrimento identitario. L’Italia è sfiduciata, impaurita, preoccupata. In un clima di difficoltà generale, per molti il Sud è ormai un’insopportabile palla al piede, un carico di problemi insolubili a dispetto delle colossali risorse investite: Mezzogiorno a tradimento, mangiapane a tradimento. Mentre la politica sembra aver perso la capacità di indicare una direzione, l'icona-simbolo del Mezzogiorno è divenuta la 'monnezza' campana, monumento allo spreco di colossali risorse pubbliche, all'incapacità (o alla vera e propria corruzione) delle classi dirigenti meridionali, all'attitudine a una protesta ottusa. Sempre più il Sud è percepito da molti come altro da sé, e discorsi che un tempo venivano sussurrati nei bar della provincia trevigiana oggi trovano spazio sulla prima pagina del "Corriere della Sera". Ma quanto è reale e documentata l'immagine che si propone dell'economia e della società meridionale? Quanto è vera l'opinione secondo la quale le politiche di sviluppo che si sono portate e si portano avanti al Sud sono tutte, inevitabilmente, un disastro? La verità è un'altra: spesso in Italia chiamiamo "Mezzogiorno" quello che non ci piace o non vogliamo vedere del nostro paese e le difficoltà che non riusciamo a superare. Immaginiamo che sia altro dal resto delle regioni settentrionali. Non è cosi. Risolvere i problemi del Mezzogiorno e risolvere i problemi dell'Italia richiede la stessa strategia di fondo. Cifre e fatti alla mano, Gianfranco Viesti, professore di Economia Internazionale presso l’Università di Bari nel suo “Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c'è” (Laterza) smentisce gli stereotipi e i ‘sentito dire’ più diffusi sul Sud parassita.
''In Italia c'è un partito del Nord, fatto di poteri forti, trasversale agli schieramenti politici, che vuole condannare a morte il Mezzogiorno". Lo ha sostenuto il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, intervenendo all’assemblea regionale della Cna piccole e medie imprese della Puglia."Siamo di fronte all’idea che il Sud è una palla al piede, che è il punto del degrado della storia italiana. "E la cosa peggiore che si possa fare – ha detto Vendola – è pensare di contrapporci specularmente, con la stessa logica di rivendicazione parziale, il nostro territorio come un altro territorio: la questione meridionale non è mai stata la questione delle rivendicazioni corporative di pezzi di territorio. La questione meridionale è sempre stato il problema della qualità dello sviluppo del Paese, è stato sempre il tema dell’unificazione, anzi la questione meridionale è stata l’idea dell’Europa a partire dal Mediterraneo, invece la questione settentrionale è stata un’altra cosa: è stata separazione, secessione, rottura. C’è un partito del Nord che ha qualche adepto anche al Sud. C’è un partito del Nord fatto di chiacchieroni del nulla. C’è un partito del Nord quando si considera normale che gli ammortizzatori sociali per il Nord vengano finanziati con i fondi Fas che sono i fondi per il Mezzogiorno d’Italia. C’è un partito del Nord quando si immagina che il Sud può essere raccontato come una immensa Gomorra: tutto il male c’è al Sud, tutto il bene c’è al Nord.”
LADRI ED EVASORI. I PARASSITI D’ITALIA. QUELLO CHE NON SI DICE.
Lega Nord, dopo le condanne per truffa a Genova scatta il sequestro dei beni. Salvini attacca la magistratura, scrive il 14 settembre 2017 "Il Secolo XIX". «C’è una scheggia della magistratura che fa politica e vuole mettere fuori legge la Lega, vogliono farci fuori, metterci nelle condizioni di non esistere». È durissima la reazione di Matteo Salvini di fronte all’avvenuto blocco dei conti correnti intestati a diverse sezioni della Lega. Finora, riferisce lo stesso segretario in conferenza stampa alla Camera, «sono stati bloccati i conti correnti di Imperia, Bologna, Bergamo, Sanremo e Trento». Ma è probabile che presto vengano bloccati tutti i conti del partito, stante l’accoglimento da parte del Tribunale di Genova dell’istanza di sequestro della procura che chiedeva il sequestro preventivo di 48 milioni e 900 mila euro. Una cifra enorme, calcolata in base al finanziamento pubblico dei partiti, all’epoca dei fatti legato al numero dei voti presi alle elezioni. Secondo la sentenza genovese, la Lega avrebbe truffato lo Stato italiano e il sequestro va adottato prima della sentenza definitiva per cautelare il contribuente dal danno subito. Il Tribunale di Genova ha accolto questa tesi, autorizzando il sequestro. La Lega può fare ricorso contro il provvedimento. Va aggiunto che, malgrado la gestione Salvini abbia preso le distanze dalla gestione Bossi, la Lega ha scelto di non costituirsi parte civile contro il Senatur e Belsito. I vertici della Lega hanno spiegato di non avere contezza dell’atto, «perché a noi non è stato recapitato nulla, non abbiamo nessun atto in mano», ma di sapere che sia stato disposto dalla magistratura di Genova. L’esecuzione sarebbe comunque in corso e in questi casi, proprio per garantirne l’effettività, gli interessati non vengono avvertiti.
La furia di Salvini. «È una follia senza nessun precedente, è una follia che grida vendetta, un attacco alla democrazia. È una situazione che non ha precedenti nella storia democratica. Ci stanno bloccando i conti correnti». Matteo Salvini è un fiume in piena e in conferenza stampa alla Camera commenta quanto sta accadendo da questa mattina: «La magistratura ci sta bloccando i conti correnti, i soldi dei conti non sono più nella nostra disponibilità». Al momento, riferisce ancora Salvini, non sembra essere stato bloccato il conto della Lega nazionale, ma quelli di sezioni locali, come Bologna, Trento, Imperia, Sanremo ed altre. Insomma, «per mano della magistratura si sta provando a mettere fuori legge un partito, senza nessun atto formale in tasca, non ci è stato consegnato nulla. Domani mattina - annuncia - vedrò gli amministratori e gli avvocati e decideremo il da farsi, ma ad ora non sappiamo come pagare Pontida e come pagare i fornitori».
La condanna e il sequestro partono da Genova. A Genova la procura ha chiesto al tribunale di sequestrare 49 milioni al partito retto da Matteo Salvini. Una conseguenza della condanna di Umberto Bossi e dell’ex tesoriere, il genovese Francesco Belsito, a 2 anni e mezzo e 4uattro anni e 10 mesi. Secondo i magistrati i due sono responsabili d’una maxi-truffa ai danni del Parlamento (compiuta con la sponda dei revisori Diego Sanavio, Antonio Turci e Stefano Aldovisi, per i quali sono scattate pene inferiori) poiché fra 2008 e 2010 chiesero e ottennero decine di milioni di rimborsi pubblici per attività politiche, che si sono poi rivelate ben altro. La notizia di oggi è che il Tribunale di Genova ha accolto la richiesta della procura e che l’istanza di sequestro ha cominciato a essere esecutiva. La Lega Nord, ovviamente, non ha i 49 milioni oggetto teorico del sequestro, ma il blocco dei conti le inibisce di fatto ogni capacità di spesa. Oltretutto i bilanci del partito non sono particolarmente floridi.
La procura di Genova: provvedimento provvisorio. «Quello emesso dal tribunale è un sequestro preventivo provvisorio. Se la sentenza di condanna di primo grado dovesse essere ribaltata in appello o in Cassazione, i soldi verranno restituiti». Lo spiega il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi in merito alla decisione del tribunale di bloccare i conti alla Lega Nord. «In fase di indagini preliminari - prosegue Cozzi - la procura aveva già chiesto il sequestro ma il giudice per le indagini preliminari lo aveva rigettato perché ancora non era stato quantificato il danno. Adesso, con la sentenza è stato stabilito quanto è l’ammontare e quindi si è chiesto il provvedimento». La pm Paola Calleri aveva fatto la richiesta di sequestro nelle scorse settimane proprio per garantire che quei soldi venissero «congelati» per evitare che, in caso di condanna definitiva, non potessero più essere recuperati nei prossimi anni.
L’avvocato genovese della Lega: informati dai direttori di banca. «Non abbiamo in mano nessun provvedimento, nessun atto giudiziario. Ci hanno informato i vari direttori di banca che oggi ci hanno chiamato per dirci che venivano chiusi i conti correnti». Lo dice l’avvocato Filippo Marcenaro che insieme al collega Stefano Cavanna assiste il Carroccio a Genova. «È strano - sostiene il legale - che abbiano chiesto e preso i soldi alle varie diramazioni locali della Lega e non alla Lega Federale che, secondo la tesi della procura, sarebbe il fruitore dei rimborsi elettorali. I magistrati dovevano casomai andarli a prendere lì e non dai conti locali. Adesso vedremo come agire e se fare ricorso al Riesame».
Confusione tra le truffe della Lega Nord a Genova e a Milano. Nel suo veemente intervento, Salvini ha sottolineato che a suo avviso è ancor più grave il fatto che il blocco dei conti avvenga sulla base di «una sentenza di primo grado, non per una condanna in via definitiva, a causa di eventuali errori che hanno commesso dei singoli 9 anni fa. Si sta cercando di arrestare l’avanzata della Lega che è al suo massimo storico. Ma se pensano di fermarci o spaventarci si sbagliano». L’azione di blocco dei conti correnti sarebbe collegata alla sentenza di primo grado emessa contro Bossi, Belsito e altri esponenti del carroccio che, stando alla decisione del Tribunale di Genova, hanno `distratto´ 400-500mila euro appartenenti al partito. Salvini annuncia: «Faremo ricorso, ma con i tempi della giustizia italiana dovremo attendere un anno. E nel frattempo sto qui a guardar le stelle...». In realtà i 4-500 mila euro sono quelli della sentenza di condanna del Tribunale di Milano, mentre a Genova si parla di 49 milioni. La confusione è dovuta al fatto che c’è un’altra sentenza contro Bossi e Belsito per truffa ed è quella del tribunale di Milano, per una truffa di minore entità nel processo su presunte irregolarità sull’utilizzo di fondi pubblici da parte del movimento politico: 2 anni e 3 mesi a Bossi, 2 anni e 6 mesi per Belsito, 1 anno e 6 mesi per il figlio del Senatur, Renzo Bossi. Qui però si parla di cifre minori rispetto a Genova: secondo i giudici, tra il 2009 e il 2011 l’ex tesoriere della Lega si sarebbe appropriato di circa mezzo milione di euro, mentre l’ex leader del Carroccio avrebbe speso con i fondi del partito oltre 208mila euro. Anche in questo caso è stato chiesto il sequestro cautelare ma la cifra è inferiore assai, circa mezzo milione.
Anche Rixi attacca i giudici genovesi. «Se pensano di fermarci con questi metodi si sbagliano. Anzi, da domani lavoreremo di più». Lo afferma il segretario ligure del Carroccio e assessore regionale allo Sviluppo economico Edoardo Rixi. «Non è un caso - sostiene - che lo abbiano fatto adesso e non un anno fa. Si avvicinano le elezioni politiche e ognuno usa gli strumenti che è più capace di usare. Noi usiamo le idee, gli altri questi strumenti tristi». «Adesso stanno bloccando i conti in tutta Italia - continua Rixi - ma noi siamo abituati ad avere pochi soldi. Resta però un fatto gravissimo. È la prima volta nella storia italiana che si blocca un partito per questioni legati a una precedente gestione, tra l’altro». Rixi attacca così lo stesso tribunale, quello di Genova, che lo processerà (è stato rinviato a giudizio) per le cosiddette “spese pazze” in Regione, in qualità di ex capogruppo della Lega Nord.
Salvini-Renzi: è polemica sui 49 milioni rubati. Lo stato maggiore del Carroccio si è presentato in blocco alla Camera per contestare il provvedimento. Salvini ha risposto con rabbia anche a Matteo Renzi, che alla festa dell’Unità di Frascati aveva detto: «Si sono trovati bene a Roma... Tutti i giorni la Lega fa la morale a Roma ladrona ma nessuno che dica che c’è un partito che ha rubato i soldi del contribuente. La Lega deve dare 48 milioni di euro del contribuente. E nessuno ne parla. Salvini è tutti i giorni sui talk show, è dappertutto tranne a Bruxelles, e nessuno che gli chieda dei soldi della Lega». Il capo della Lega ha risposto: ««In questi minuti un mio omonimo segretario di partito dice che la Lega `deve restituire i 48 milioni di euro che ha rubato, ma non ne parla nessuno´. Sarebbe preoccupante che un segretario di partito, che si chiama democratico, se ne freghi di quanto dice la Costituzione, ovvero che un cittadino è innocente fino al terzo grado di giudizio. Renzi si vergogni. Al Pd non succede nulla perché evidentemente ha più amici dentro la magistratura».
Procura di Genova e Anm rispondono a Salvini: «Non siamo di parte», scrive il 15 settembre 2017 "Il Secolo XIX". La procura di Genova risponde agli attacchi di Matteo Salvini, dopo l’ordine del tribunale di Genova di sequestrare a scopo cautelativo 49 milioni di euro alla Lega Nord: «Nessun attentato alla Costituzione, anzi, abbiamo agito a tutela del Parlamento, che si è costituito parte civile», dichiara Franco Cozzi, capo della procura genovese. «Non entriamo in polemica con la Lega - dice ancora Cozzi - Avrebbero potuto costituirsi anche loro e chiedere danni contro imputati, hanno legittimamente scelto di non farlo. Abbiamo eseguito un sequestro conservativo del tribunale, la politica non c’entra». E oggi Salvini, a proposito del blocco dei conti del suo partito, durante una conferenza stampa in via Bellerio ha annunciato: «Faremo ricorso contro questo attacco politico. Non solo come segretario della Lega, lo faranno anche le migliaia di cittadini che hanno volontariamente donato alla Lega». «Sono sicuro che ci daranno ragione, spero non troppo tardi», ha aggiunto Salvini.
Bloccati i conti della Lega, l’ex tesoriere Belsito: «Colpa mia? Ho lasciato milioni, li hanno spesi». Bossi: «Contro di me è stato fatto un processo politico». «È la prova provata che il processo che mi hanno fatto è stato politico. Hanno inventato tutto per fermare la Lega, non hanno una prova». Lo ha detto il presidente della Lega Nord, Umberto Bossi, interpellato sul sequestro dei conti del partito, al suo arrivo a una cena per il “compleanno” della Padania. A Bossi è stato quindi chiesto che cosa dovrebbe fare ora l’attuale segretario della Lega, Matteo Salvini. «Deve piangere - ha risposto sarcastico l’ex leader -, perché se lo Stato diventa fascista è difficile da combattere rispetto a uno Stato democratico». Ma i giudici dicono che i bilanci erano irregolari, è stato fatto notare a Bossi: «Non penso proprio», ha replicato.
Cozzi: «Abbiamo agito a tutela del Parlamento». «Abbiamo il massimo rispetto per la Lega e per tutti i partiti. Ma noi non abbiamo messo in atto nessun attentato alla Costituzione, anzi è stata intrapresa una azione a tutela del Parlamento». Così il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi all’indomani del sequestro cautelativo dei fondi della Lega deciso dal Tribunale di Genova. «Camera e Senato - spiega Cozzi - si sono costituiti parte civile nel processo per avere risarcito un danno derivante dalla erogazione di contribuiti che non dovevano essere dati perché fondati su bilanci non corretti». «Noi abbiamo agito a tutela del Parlamento. E - conclude Cozzi - i processi che questo ufficio manda avanti dimostrano che non si guarda in faccia a nessuno e, tantomeno, a nessun colore politico». E in merito alle critiche sollevate da Matteo Salvini dopo la decisione del Tribunale di Genova di sequestrare circa 49 mln alla Lega Nord, Cozzi ha commentato: «Oggi la Cassazione ha confermato l’impianto accusatorio sulla presenza della ’Ndrangheta a Ventimiglia e Bordighera, nei giorni scorsi ci sono state le prime condanne per terrorismo di matrice islamica. Francamente abbiamo altro da fare che stare dietro a polemiche politiche o a pensare di privilegiare una forza piuttosto che l’altra».
L’associazione dei magistrati: Salvini eccede il diritto di critica. A proposito del sequestro preventivo dei fondi della Lega, la giunta dell’Associazione Nazionale Magistrati, in una nota, respinge «con fermezza» le «insinuazioni» secondo le quali «la magistratura abbia adottato provvedimenti al fine di danneggiare alcune parti politiche a favore di altre». La giunta dell’Associazione Nazionale Magistrati - si legge nella nota - «prende atto che nelle ultime ore l’Autorità Giudiziaria di Genova è stata oggetto di un violento attacco nel quale, ancora una volta, si insinua che la magistratura abbia adottato provvedimenti al fine di danneggiare alcune parti politiche in favore di altre». «L’Anm respinge con fermezza queste allusioni - prosegue la nota - evidenziando che eccedono il legittimo esercizio del diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e minano ingiustificatamente la credibilità e l’immagine di terzietà dell’intera magistratura».
I giudici: «Il Carroccio ha percepito i profitti dei reati». «È pacifico che la Lega Nord abbia percepito il profitto dei reati commessi dai suoi rappresentanti Bossi e Belsito, con il concorso di Aldovisi Turci e Sanavio (ex revisori contabili del Carroccio)» e che tale profitto, costituito da somme erogate come rimborso elettorale, «sia costituito da bene fungibile e aggredibile indipendentemente dalla prova del nesso pertinenziale diretto con il reato». Lo scrivono i giudici del Tribunale genovese che hanno accolto la richiesta della procura sul sequestro circa 49 mln alla Lega.
I giudici: «Era a rischio il recupero delle somme». «Considerando da un lato l’entità rilevante della somma oggetto di confisca, e quindi del presente provvedimento di sequestro, e dall’altro la diminuzione delle entrate e il depauperamento del patrimonio del movimento, documentato dalle stesse difese, si ritiene ad ogni buon conto esistente anche il requisito del periculum in mora» e cioè il rischio che un ritardo nell’attuazione del sequestro possa di fatto compromettere il recupero delle somme. Lo scrivono i giudici di Genova che hanno accolto la richiesta della Procura sul sequestro di circa 49 mln alla Lega.
Salvini: «Sul conto ci sono 30mila euro, donazioni della gente». «I soldi non ci sono, sul conto della Lega federale ci sono solo 30.000 euro». Lo ha affermato Matteo Salvini in conferenza stampa commentando la decisione del giudice di Genova. «Sequestrano i soldi di chi li ha tirati su per pagare gli affitti delle sedi - attacca - il finanziamento pubblico non esiste più, quello che abbiamo è frutto di donazioni, e questo è un esproprio proletario. Faremo ricorso non solo personalmente ma sarà firmato da migliaia e migliaia di cittadini che hanno volontariamente donato fondi alla Lega, non sarà il ricorso di un singolo ma di un popolo». «Contavamo che in Italia ci fosse giustizia, ci ritenevamo parte lesa. In Appello agiremo come Lega»: così Salvini ha risposto a chi in conferenza stampa gli aveva chiesto se si sia rivelato un errore ritirare la costituzione di parte civile nel processo a Umberto Bossi a Genova.
Cozzi risponde a Salvini: «Ma quale toga rossa, ero un ammiratore di Maroni». Anche Brunetta contro i giudici, scrive il 16 settembre 2017 "Il Secolo XIX". «Forse è la prima volta nella vita che qualcuno mi dà della “toga rossa”, al massimo mi era capitato di sentirmi dire che ero troppo moderato», dice Franco Cozzi, procuratore di Genova, da sempre attestato come vicino a Unicost (corrente centrista della magistratura). «Non voglio entrare in polemica con nessun rappresentante politico, ma solo chiarire un messaggio: qui non c’è alcun attacco alla Costituzione. Anzi, noi siamo intervenuti in difesa del Parlamento».
La procura di Genova risponde a Salvini: «Poteva costituirsi parte civile». Dopo le condanne per truffa scatta il sequestro dei beni. E la Lega Nord si ribella. L’unico momento in cui la tensione sembra allentarsi è quando le agenzie di stampa battono la nuova accusa di Matteo Salvini, che in questa iniziativa della magistratura vede un complotto delle «toghe ultrarosse»: «Forse è la prima volta nella vita che qualcuno mi dà della “toga rossa”, al massimo mi era capitato di sentirmi dire che ero troppo moderato», ridacchia Franco Cozzi, procuratore di Genova, da sempre attestato come vicino a Unicost (corrente centrista della magistratura, a cui sottolinea peraltro di «non aver alcuna affiliazione»).
«Scherzi a parte. Non voglio entrare in polemica con nessun rappresentante politico. Voglio solo chiarire un messaggio: qui non c’è alcun attacco alla Costituzione. Anzi, noi siamo intervenuti in difesa del Parlamento, che si è costituito parte civile in questo processo».
Dottor Cozzi, per il segretario della Lega Nord Matteo Salvini il sequestro dei fondi è un accanimento politico, il tentativo di affossare un partito prima delle elezioni attraverso un provvedimento giudiziario...
«Questo è ridicolo. Chi mi conosce sa che non nutro né antipatie, né simpatie per alcun movimento politico, a patto che si muova nel solco costituzionale».
Conferma di non essere una toga rossa?
«Al massimo sono una toga rossoblù: confesso di essere tifoso del Genoa (Ride ancora, poi il tono si fa di nuovo serio). Nutro rispetto per la storia della Lega Nord. Per esempio, considero Roberto Maroni uno dei migliori ministri dell’Interno che abbiano mai guidato il Paese. Ho rapporti istituzionali ottimi con alcuni esponenti di quel partito, come l’assessore Sonia Viale, con cui stiamo portando avanti una collaborazione eccellente sulle Rems (gli istituti che hanno sostituito i manicomi criminali, ndr). La politica non c’entra nulla».
Nessun attacco alla Costituzione?
«Ma per piacere. Nel trattare la vicenda è stato omesso un dettaglio fondamentale: il Parlamento si è costituito parte civile nel processo agli ex vertici della Lega Nord, perché, come prevede l’impostazione accusatoria, ritiene di essere stato danneggiato».
Anche l’attuale gestione del Carroccio sostiene di essere stata vittima delle spese effettuate durante la gestione dell’ex tesoriere Francesco Belsito.
«Potevano costituirsi parte civile. In un primo momento so che avevano pensato di farlo, ma poi, legittimamente, hanno rinunciato».
Salvini contesta anche il fatto che il sequestro sia arrivato prima che il giudizio sia definitivo.
«Proviamo a fare un po’ di chiarezza. Si tratta di un sequestro cautelativo, che segue una sentenza del tribunale di Genova. Se venisse ribaltata, quel denaro verrebbe restituito. È un atto doveroso, perché, vista la somma rilevante (circa 48 milioni di euro, ndr), il rischio è che svaniscano i soldi per risarcire le vittime. Anche perché le entrate del partito, come documentano i loro difensori, sono in calo. Non solo. La Lega Nord è stata condannata a rispondere in solido insieme agli imputati condannati. Senza quantificare il sequestro al movimento sarebbe impossibile procedere con l’azione civile nei confronti dei singoli».
Perché aggredire prima il patrimonio del partito?
«Esiste un’importante sentenza della Cassazione in tema di sequestri, il “caso Gubert”. In quel processo, che riguardava questioni fiscali, gli imputati contestarono il congelamento dei beni, facendo notare che i guadagni erano andati all’ente per cui lavoravano. Ecco, a prescindere dalle condotte di chi ha gestito le casse della Lega Nord, il partito, afferma il tribunale, ha incassato 48 milioni di euro di rimborsi pubblici a cui non aveva diritto».
Tra le dichiarazioni di giornata c’è anche quella che avete sequestrato i fondi della Lega senza fornire “uno straccio di carta”.
«Mi risulta in realtà che appena avviate le complesse procedure di sequestro la Guardia di finanza si sia messa in contatto con la segreteria di Salvini, per notificargli il provvedimento. È stato lui a dare disponibilità a ricevere l’atto solo dopo lunedì».
Anche Brunetta attacca i giudici genovesi.
«Totale solidarietà alla Lega, bloccare i conti, in modo facoltativo, a pochi mesi dalle elezioni politiche è una cosa assurda, incredibile, indecente». Lo ha detto Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, intervenendo alla kermesse “L’Italia e l’Europa che vogliamo”, in corso a Fiuggi. «Totale solidarietà a Salvini. La Lega sia salvaguardata, la Lega è importante per la democrazia nel nostro Paese. Ma agli amici della Lega dico - conclude - ci sia sempre reciprocità tra alleati, e non sempre loro l’hanno avuta nei nostri confronti, anche recentemente e anche con voti parlamentari».
La secessione di Salvini: Lega fuori dal Parlamento. Il segretario contro i giudici per i beni sequestrati: "Sette giorni fuori dalle Aule, andremo dai terremotati", scrive Paolo Bracalini, Martedì 19/09/2017 su "Il Giornale". L'atto «sovietico» è stato notificato a via Bellerio soltanto ieri pomeriggio, anche se i conti correnti del partito erano già stati svuotati quattro giorni prima per effetto del sequestro disposto dal Tribunale di Genova. «Hanno portato via tutti i soldi che c'erano, non c'è più una lira, senza neppure una sentenza di condanna - dice Salvini - I miei avvocati mi hanno spiegato che c'è un unico precedente storico, in Turchia però». Nel consiglio federale, a cui ha partecipato anche Umberto Bossi dopo la giornata di tensioni a Pontida, i vertici del Carroccio hanno deciso la contromossa al sequestro preventivo, un ricorso al Tribunale di Genova che verrà depositato oggi dai legali e commercialisti del Carroccio. La risposta politica invece, dopo l'annuncio di «iniziative eclatanti», si risolve in un atto simbolico, il ritiro dei parlamentari leghisti per una settimana, poi si vedrà. «In un Parlamento che ritiene la Lega debba sparire, i parlamentari della Lega non parteciperanno ai lavori ma saranno in visita nelle zone terremotate per parlare di problemi concreti e incontrare sindaci, imprenditori, agricoltori e cittadini - annuncia il segretario federale del Carroccio in conferenza stampa dopo la riunione d'emergenza -. Ma siamo sereni, contiamo di riprendere i lavori quando sarà possibile. Confidiamo in quella parte della magistratura, che è maggioranza in Italia, che non fa politica ma fa giustizia». Salvini è convinto che la decisione dei giudici sia politica, «vogliono imbavagliarci, a qualcuno dà fastidio l'avanzata della Lega e cerca con ogni mezzo di impedirci di andare al governo, ma noi ci andremo lo stesso. Questo non è solo un attacco ad un partito politico ma è la malagiustizia italiana che si applica tutti i giorni agli italiani che lavorano». Dopo il confronto a distanza con gli alleati sulla leadership nel centrodestra, c'è un messaggio per il Cavaliere: «Non vedo l'ora di sfidare Di Maio, Renzi e il loro nulla. A Berlusconi voglio dire che chi guida il paese lo decideranno i cittadini, il giorno delle elezioni. Noi siamo pronti». Poi c'è il caso Bossi, riaperto dopo l'esclusione del Senatùr (lui come molti altri) dal palco di Pontida. «Vogliono mandarmi via - dice in mattinata Bossi - cacciarmi via, sono presidente a vita del partito ma Salvini mica guarda le regole, fa quello che gli salta in mente...». La «cacciata» di Bossi dalla Lega però al momento non è contemplata, e il segretario federale commenta solo l'ipotesi di un'uscita volontaria del fondatore, anche questo altrettanto improbabile: «Certo che mi dispiace se Bossi va via, però qualche errore in passato è stato commesso. Ha una visione diversa della Lega che milioni di italiani stanno seguendo». Al federale i due si sono parlati, Salvini ha ribadito a Bossi che la decisione di non farlo parlare era per non esporlo al rischio contestazioni, visto che le inchieste sui fondi della Lega riguardano proprio lui e il suo ex tesoriere Belsito. Bossi ha ascoltato senza replicare. Assente al consiglio, invece, Roberto Maroni, criticato per questo da Salvini, che ha fatto sapere di non aver gradito le parole del governatore («Bossi è Pontida: ha sempre diritto di parola»). Al momento è insomma da escludere l'espulsione che Bossi paventa, più concreta invece la domanda se verrà ricandidato, oppure in che posizione nelle liste. Nella Lega c'è chi non esclude un'uscita clamorosa di Bossi dal suo partito per trovare accoglienza nelle liste di Forza Italia, in fondo Berlusconi ha sempre detto che per l'amico Umberto un posto c'è. «Per quanto ci riguarda braccia aperte» spiega l'azzurro Renato Brunetta, mentre il senatore Gasparri è più scettico: «Silvio è amico di Bossi e gli vuole bene sinceramente, ma secondo me meglio non esagerare». In ogni caso, non un compleanno (oggi) sereno per Bossi.
Il procuratore di Genova «Li invito al confronto per cercare soluzioni», scrive Erika Dellacasa su "Il Corriere della Sera" il 19 Settembre 2017. Chi è Franco Cozzi, nato nel 1951, in magistratura dal 1978, è procuratore capo a Genova. Si è occupato principalmente di reati in ambito economico e tributario, di sicurezza stradale e di criminalità organizzata. Un invito «al confronto», questa è la risposta del procuratore capo di Genova Franco Cozzi alla decisione della Lega di alzare i toni, dopo il sequestro cautelare delle casse del partito, e di disertare il Parlamento per una settimana. Procuratore, era proprio necessario bloccare i conti della Lega?
«Era obbligatorio. Una sentenza delle sezioni unite della Cassazione, il caso Gubert, stabilisce che il sequestro dei beni in caso di truffa ai danni dello Stato debba essere applicato a chi ha tratto beneficio dal reato. Al di là della posizione degli imputati questo profitto illegittimo è andato al partito. Quindi...».
Ma così si azzoppa un diritto costituzionale. Non si poteva considerare un diritto prevalente, quello di esercitare la propria attività politica?
«Ci siamo interrogati su questo punto, la vita democratica e i valori costituzionali ci stanno a cuore. Ma non possiamo uscire dalla legalità. Il fatto è che la sentenza della Cassazione non ha considerato gli effetti che la confisca diretta dei beni può avere sull’ente pubblico. Colpire i beni finanziari in questo modo può provocare il collasso del soggetto e non è ciò che si vuole». Tuttavia è quello che si rischia. Allora?
«Il mio è un invito al confronto. La dialettica fra le istituzioni è aperta e possibile. Le strade ci sono. La Lega avrebbe potuto costituirsi parte civile nel processo a Bossi e Belsito e non l’ha fatto. Scelta legittima. Può però ora, in questa fase di processo differito, avanzare le proprie ragioni per tutelare l’attività del partito. Non mi riferisco solo al ricorso. Mi spiego: può chiedere di poter far fronte alle esigenze primarie». Ad esempio pagare gli stipendi...
«Certo, pagare gli stipendi, affrontare le spese indispensabili... non sto qui a fare io un elenco. Senza deflettere dalle nostre decisioni, coerenti con quanto è stato fatto, siamo pronti al confronto perché l’attività di un partito politico è un problema di rilevanza costituzionale. Il mio auspicio è che si trovino delle soluzioni in un’ottica di confronto processuale. Però ricordo che il Parlamento si è costituito parte civile e come ufficio non potevamo restare inerti». Se il Parlamento ritirasse la sua richiesta, potreste dissequestrare i beni?
«E ritirerebbe la costituzione di parte civile a processo concluso e vinto? Parliamo di soldi pubblici. Mi sembra implausibile».
C’è chi ha visto nella decisione un caso di «giustizia a orologeria» che mette in difficoltà un partito in vista delle elezioni.
«Quali elezioni? Non mi risulta siano state indette. Semplicemente c’è stata una sentenza del tribunale che ha determinato i tempi».
Matteo Salvini si sente derubato dai fasciocomunisti mentre Berlusconi se ne frega, scrive sabato 16 settembre 2017 "Next Quotidiano". Il segretario della Lega Nord non ha ancora digerito (eufemismo) il sequestro dei conti correnti della Lega Nord per i 49 milioni di euro che il partito deve restituire allo Stato dopo che un tribunale ha certificato la “gestione allegra” (ovvero: a vantaggio personale del l’allora leader Umberto Bossi) dei contributi pubblici del Carroccio. “È un esproprio proletario. Cose di questo tipo potevano accadere nel Ventennio. Mi sento derubato dai fasciocomunisti”, ha detto in un’intervista a Libero in cui ribadisce l’intenzione di dar vita a “proteste senza precedenti” contro il blocco dei conti del suo partito. “Non ci sono precedenti di altri provvedimenti simili. Sui conti della Lega oggi ci sono 30 mila euro. I conti sono stati prosciugati e hanno mandato tutto a Roma. Incredibile. Surreale”, dice Salvini, secondo cui “è un evidente attacco politico, volto a eliminare la Lega dalla scena politica”. “Ho la certezza che vinceremo, ma l’unico precedente che abbiamo trovato è successo in Turchia. Poi potrei anche rivolgermi a Strasburgo e avere ragione, ma se me la danno tra due anni – osserva – cosa me ne faccio?”. Sulle reazioni degli altri schieramenti politici, “i grillini straparlano” e “Renzi è un giullare”, taglia corto Salvini. Quanto a Silvio Berlusconi, “è l’unico che non ha detto nulla. Stupisce, proprio perché lui ne sa qualcosa…” Lasciando da parte l’ironia della sorte di un partito che per vent’anni ha fatto fortune berciando contro Roma ladrona e sorpreso a rubare, qual è il motivo per cui il Tribunale ha deciso il sequestro cautelativo dei fondi? Vale la pena di ricordare che Bossi e Belsito sono stati accusati di appropriazione indebita e truffa allo Stato nell’ambito del processo sulle irregolarità nell’uso dei fondi pubblici della Lega. I soldi pubblici, ovvero dei cittadini, c’entrano eccome. Salvini però sostiene di non avere “nulla a che spartire con la gestione di Bossi e Belsito” ed anche se l’attuale segretario non è coinvolto nel processo gli elettori leghisti dovrebbero chiedersi come mai uno che fa politica nella Lega Nord dal 1992 e che è sempre stato ai vertici del partito non sia riuscito ad accorgersi di quello che stava accadendo. E se davvero Salvini non ha nulla a che spartire con la precedente gestione come mai la Lega Nord non si è costituita parte civile al processo? Silvio Buzzanca e Giuseppe Filippetto spiegano su Repubblica che il Tribunale di Genova si starebbe indirizzando verso i conti delle segreterie regionali (“nazionali” nella terminologia federale leghista) e provinciali per il timore che Salvini “abbia fatto in modo che non si trovi un euro nel conto del partito nazionale”. Negli ultimi due anni il leader ha infatti creato le “Leghe Nazionali” nelle varie regioni, con loro bilanci autonomi, loro casse e loro conti correnti bancari. Tutto questo Salvini lo avrebbe fatto per distribuire sul territorio il patrimonio di via Bellerio, luogo dove si sarebbero consumati i reati di Bossi e Belsito. Così nell’eventualità di condanne, che poi sono arrivate, e di eventuali confische, i magistrati non avrebbero trovato nulla. Il bilancio 2016 della Lega è stato chiuso con un rosso da un milione, 164 mila euro di depositi bancari e 436 di «valori in cassa». Come mai la Lega, con i conti in rosso, non ha preteso da Belsito e Bossi la restituzione del denaro sottratto dalle casse del partito? Salvini ha preferito fare tagli: ha chiuso il giornale la Padania (finanziato con i soldi pubblici), mettendo in cassa integrazione (pagata dallo Stato) quindici giornalisti e contestualmente aprendo un nuovo giornale on line, Il Populista. Anche Radio Padania ha chiuso e si è trasformata in una Web Radio. Nel 2014 Salvini ha invece chiesto la cassa integrazione per 70 dipendenti della sede di Via Bellerio. In passato invece la Lega con cui Salvini non ha niente a che spartire si era fatta salvare una banca da Fiorani lasciando però i correntisti senza soldi.
LA VERA STORIA DI PONTIDA LADRONA, scrive il 18/09/2017 Paolo Pagani su "Altro Pensiero". Pontida ladrona. Altro che la Roma cloaca, sentìna di tutti i vizi e aguzzina debosciata del Nord. I conti legaioli per un totale di 48 milioni di euro sequestrati dal Tribunale di Genova al partito di Matteo Salvini e depositati in sei banche raccontano un’altra storia. Di danè usati disinvoltamente dai satrapi della secessione sempre minacciata. Storiaccia. Che sporca eccome il curriculum poco duro e ancor meno puro dei lumbard. Nel luglio scorso la giustizia aveva difatti condannato in primo grado per trua ai danni dello Stato il fondatore della Lega Nord, Umberto Bossi, suo glio Renzo detto il Trota, l’ex tesoriere Francesco Belsito (quello che comprava i diamanti), altri tre dipendenti del partito lumbard e due imprenditori, coinvolti nello scandalo dei rimborsi ricevuti e poi però utilizzati per spese personali dalla famiglia dell’allora boss Bossi. Adesso il Signore delle felpe, il Matteo che nel raduno celtico domenicale di Pontida nemmeno ha fatto parlare l’anziano senatur (“Per evitargli fischi”, ha spiegato maligno), brontola, strepita, ulula. «Siamo peggio di un regime islamico». Beh, insomma: lì magari usavano la scimitarra per tagliare qualche manona furtiva, troppo svelta a intascare la refurtiva. «Attacco alla democrazia», «Vogliono metterci fuori gioco prima delle elezioni» e via di questo passo: l’escalation dell’indignazione del Salvini impoverito evoca addirittura gli spettri del golpe che non c’è. Ma dai. È solo un sequestro preventivo. Denaro pubblico è stato irregolarmente dirottato per ni privati da imputati condannati, l’azione dei giudici a tutela del parlamento è procedura abituale, normalissima, scontata. Anzi, doverosa. E comunque diverte il frignare leghista. Il piagnisteo per il quattrino che si invola nelle casseforti statali. Ma quale attacco alla democrazia. Ma quale manovra studiata ad arte. Ma mi faccia il piacere, onorevole. Se il terzo partito d’Italia non si comportasse come tanti altri, talvolta anche primi e secondi, certi incidenti non capiterebbero. Pontida ladrona.
Renzi contro M5S e Lega: “Danno lezioni di onestà, guardino in casa loro”. Matteo Renzi interviene alla festa dell'Unità della Capitale e bacchetta il M5S e la Lega Nord, scrive Domenico Silvestre il 15 Settembre 2017. Dal palco del Festival dell’Unità della Capitale, Matteo Renzi, segretario del PD, lancia accuse al M5S e alla Lega Nord sui valori dell’onestà: "Getto un ramoscello d’ulivo a Salvini. Smetterò di dire che la Lega ha truffato l’Italia. In cambio, la Lega potrebbe smettere di truffare l’Italia come ha fatto con quei 48 milioni di euro che non la magistratura, ma loro hanno portato via...Matteo Salvini ha detto più volte Roma ladrona. C’era chi rubava anche a Roma, certo. Ma siamo pieni di gente che dà lezioni di onestà onestà onestà al Pd. Poi “vai a vedere che quelli in camicia verde hanno rubato, secondo sentenza, hanno portato in Tanzania i diamanti del finanziamento pubblico”. Mentre i grillini “hanno detto no alle olimpiadi e il mese dopo il vicecapo di gabinetto della Raggi è stato arrestato per corruzione. Dicono di no perché hanno paura dei corrotti. Ma allora stiano più attenti a chi scelgono”. Stoccata decisa anche al Movimento di Beppe Grillo per le Olimpiadi rifiutate da Roms: “Parigi gode e Roma piange oggi, con 2 miliardi di dollari che vanno alle periferie della capitale francese. Quando gli avvisi di garanzia hanno cominciato a colpire i grillini si è scoperto che hanno 5 stelle sì, ma hanno due morali”.
Italia tra tangenti e referendum per l’autonomia, scrive il 16 settembre 2017 "Caserta 24 ore". (Giuseppe Pace). Qualche studioso di Roma antica invoca spesso un colto console, di 22 secoli fa, dalle umili origini, Catone il censore, che con Carmen de moribus, raccolta di sentenze morali, sembra essere tornato alla ribalta dell’attualità di ruberie e tangenti di soldi pubblici nell’Italia attuale. Siamo alla vigilia di un referendum consultivo per conoscere se i 15 milioni di cittadini residenti in Lombardia e Veneto vogliono o meno una maggiore autonomia regionale, che Roma ladrona non concede facilmente. Arriva, come un fulmine a ciel sereno, la notizia da Genova della Magistratura che blocca, in via cautelare, i conti correnti delle casse del partito, Lega Nord, su ruberie perpetrate da Bossi ed altri oltre una decina d’anni fa. La Lega Nord, con il giovane rampante politico M. Salvini, che pare non abbia mai lavorato né studiato sodo, grida all’attacco democratico, mentre dal PD renziano, in particolare, si esulta per la decisione della Magistratura di Genova. Chi ha ragione? Ha ragione la Magistratura perché non può lasciare impuniti i reati ascritti a Bossi e collaboratori, quando hanno utilizzato i fondi erogati al partito per interessi personali. Bossi e collaboratori, dice Salvini e i suoi fedelissimi, non sono la Lega Nord attuale. Lo sappiamo ma il partito è unico e proprio perché ha fatto la fortuna politica gridando contro Roma ladrona, adesso deve imparare ad essere più onesto e non copiare o sorpassare i vizi e non le virtù gli altri partiti romani. Il PD però non è più il partito dalle mani pulite perché di corrotti e corruttori non è esente del tutto come paventono i nascenti giovani (qualcuno aspira a divenire Leader per formare poi il nuovo Governo repubblicano, ma come Salvini è un altro che non ha mai lavorato né studiato sodo) Pentastellati, Raggi ed altri permettendo, poiché sono meno illibati di quanto vogliono darla a bere ai disinformati elettori. Dalla redazione ANSA ROMA 15 settembre 201713:12 News si apprende “Oggi, per la prima volta nella storia della Repubblica, i giudici stanno bloccando l’attività di un partito politico”. Lo afferma Matteo Salvini in una conferenza stampa a Montecitorio nel dare l’annuncio di una sentenza dei giudici genovesi, che da oggi diventa operativa, su irregolarità dell’utilizzo di fondi pubblici che ha come conseguenza il blocco di fondi per 49 milioni in numerose importanti federazioni del partito. “Si tratta dell’azione di una scheggia di magistratura: ora non ho disponibilità per pagare i palchi di Pontida”. Salvini parla di “attacco alla democrazia”. “Tutto – denuncia Salvini – a fronte di 400mila euro presunti utilizzati da Bossi, i suoi figli e Belsito”. Al momento sono stati bloccati i conti delle federazioni di Imperia, Bologna, Bergamo, Sanremo e Trento. Il sequestro dei conti correnti della Lega Nord è scattato su ordine del tribunale di Genova che ha accolto la richiesta del pm Paola Calleri di confiscare i soldi del partito. In particolare sono stati bloccati i conti di importanti federazioni tra cui Imperia, Bologna, Bergamo, Sanremo e Trento. La richiesta era partita dopo che il tribunale aveva disposto la confisca diretta di circa 48 milioni al Carroccio a seguito della sentenza di condanna di Umberto Bossi, Francesco Belsito e altri 5 imputati, per la maxi truffa sui rimborsi elettorali tra il 2008 e il 2010. Bossi era stato condannato a due anni e sei mesi e Belsito a quattro anni e dieci mesi, oltre ai tre ex revisori contabili Diego Sanavio, Antonio Turci e Stefano Aldovisi (con pene dai due anni e otto mesi a un anno e nove mesi) e i due imprenditori Stefano Bonet e Paolo Scala (cinque anni). Secondo l’accusa, i vertici del partito avrebbero ottenuto i rimborsi elettorali con documentazioni artefatte, fondi che poi sarebbero stati utilizzati in gran parte per spese non istituzionali. “Quello emesso dal tribunale è un sequestro preventivo provvisorio. Se la sentenza di condanna di primo grado dovesse essere ribaltata in appello o in Cassazione, i soldi verranno restituiti”. Lo spiega il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi in merito alla decisione del tribunale di bloccare i conti alla Lega Nord. “In fase di indagini preliminari – prosegue Cozzi – la procura aveva già chiesto il sequestro ma il giudice per le indagini preliminari lo aveva rigettato perché ancora non era stato quantificato il danno. Adesso, con la sentenza è stato stabilito quanto è l’ammontare e quindi si è chiesto il provvedimento”. Il pm Paola Calleri aveva fatto la richiesta di sequestro nelle scorse settimane proprio per garantire che quei soldi venissero “congelati” per evitare che, in caso di condanna definitiva, non potessero più essere recuperati nei prossimi anni. Ha fatto bene dunque la Magistratura e Salvini impari ad avere più rispetto dei Magistrati, che devono essere sempre imparziali “non leghisti”, ma nel contempo esponenti di altri partiti non ne approfittino troppo perché anche loro hanno molti scheletri negli armadi. In definitiva, sul blocco dei conti correnti della Lega Nord, sentendo le dichiarazioni entusiastiche di esponenti del PD sulla decisione della Magistratura mi viene di pensare che il PD sia contro il referendum sulla maggiore autonomia. Allora significa che gli esponenti che esultano sia romanocentrici, che difficilmente risiedono in settentrione e non conoscono affatto la realtà territoriale che va sotto il nome di Questione settentrionale, ma conoscono solo quella meridionale piagnona, non del fare rimboccandosi le maniche. Resta insoluto il problema di legalità dei partiti, che non stanno dando esempio di onestà ai propri iscritti e ai non iscritti che pure sono contribuenti. Il cittadino è stanco di fare il suddito e vedere tangentopoli, quasi impunita né prevenuta. Molti pensano che solo il Meridione è afflitto da tangentopoli, ma sta imparando a cambiare idea con le corpose tangenti del Settentrione. L’Italia tutta è da bonificare per le ruberie dei politici e di altri connessi ai primi per affari illeciti. Bisogna inasprire le pene per i tangentisti. Claudia Minutillo ha permesso di scoperchiare il pentolone del MOSE, poiché sedeva “al centro del grande sistema corruttivo. Prima come attenta segretaria di Giancarlo Galan, poi come spregiudicata imprenditrice e prestanome per affari non proprio specchiatissimi. Infine da supertestimone della grande inchiesta, indagata e ora anche un po’ pentita. È lei, questa veneziana che vive in una casa alberata della prima periferia di Mestre, ad aver dato il via all’inchiesta che sta scuotendo il Veneto e la più grande opera pubblica d’Italia, il Mose. Con i pm di Venezia è stata un fiume in piena. Ha parlato delle mazzette alla Regione, al Ministero, al Magistrato alle Acque, della corruzione del generale della Guardia di Finanza, del vorticoso giro di fondi neri nei quali è entrata a pieno titolo, di giornali acquisiti e pure di ragazze assunte per avere buoni rapporti con i Servizi segreti”. Ecco parte dei suoi verbali riportati ampiamente dai mass media. Nel marzo dello scorso anno, dopo averla arrestata per fondi neri e false fatturazioni e sospettando che dietro si nascondesse la corruzione dei politici, i pm di Venezia la incalzano sul punto. Le chiedono se le somme che transitavano dall’ufficio di Giovanni Mazzacurati, l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, l’ente che governava sul Mose, servono anche per ungere i funzionari delle strutture regionali, ministeriali o del Magistrato alle Acque. Dopo qualche resistenza, Minutillo sospira: «Sapevo che il sistema prevedeva sia la struttura burocratica, sia regionale, sia ministeriale e anche il Magistrato alle Acque che era di nomina ministeriale ma in realtà era Mazzacurati che decideva chi e come». Chi erano i destinatari delle somme raccolte da Mazzacurati? «Vi erano (omissis) e Marco Milanese, uomo di fiducia del ministro Tremonti. A lui era destinata la somma di 500 mila euro che l’ingegner Neri conservava nel suo ufficio al momento dell’ispezione della Guardia di Finanza al Consorzio Venezia Nuova… Mi dissero: “Pensa che Neri li aveva nel cassetto e li buttò dietro l’armadio”. La Finanza sigillò l’armadio e la sera andarono a recuperarli». Per lei sarebbe iniziato tutto nel 2005, anche se per gli inquirenti la data è spostata molto più indietro nel tempo. «Il primo imprenditore che accettò di finanziare i politici veneti fu Piergiorgio Baita (ex presidente della Mantovani, già arrestato e liberato dopo aver confessato, ndr), che io ebbi l’onere di presentare a Walter Colombelli su incarico di Galan a Venezia, organizzando un appuntamento all’hotel Santa Chiara. Nell’occasione ricevetti una busta contenente del denaro a Galan. Erano i primi mesi del 2005». Un capitolo viene dedicato al sistema di «spionaggio» che garantiva a imprenditori, manager e Consorzio una sorta di immunità giudiziaria. Sa qualcosa l’ex segretaria dei tentativi di bloccare gli esiti delle verifiche della Finanza? «Sì – racconta -. Ci fu corruzione di un generale ma non mi è stato detto il nome (si tratta di Emilio Spaziante, arrestato per aver ricevuto 500 mila euro, ndr)». Chi lo pagò? «La Mantovani, Baita…». L’ex presidente del gruppo Mantovani, la spina dorsale del Consorzio Venezia Nuova, capofila anche del maggior appalto dell’Expo, ricorre spesso nella deposizione. «Mi chiese anche di fare un paio di assunzioni (era già imprenditrice, ndr)». Cioè? «I cognomi di queste due ragazze sono significativi: una si chiama S., il cui padre è comandante dei Servizi segreti, che evidentemente si pensava potesse avere un ruolo nell’ambito delle indagini in corso; e l’altra si chiama A., il cui padre è un importante funzionario della Regione del Veneto, che ha un ruolo fondamentale in molte attività del Gruppo Mantovani, come per esempio tutte le opere di bonifica e di salvaguardia della laguna. Per esempio: successe che un giorno andai da Chisso per chiedere chiarimenti su un accordo di programma che non si faceva e A. doveva seguire la questione. “Ma voi non gli dovevate assumere la figlia? Lui su questa cosa è molto arrabbiato, tu assumi la figlia e vedrai che le cose si risolvono”, mi disse». A un certo punto gli inquirenti scovano una serie di contatti romani della Mantovani finalizzati all’acquisto di una società capitolina, la New Time corporation. «Si trattava dell’acquisizione di una quota della società editrice di un giornale che si chiama Il Punto … Era gente appartenente ai Servizi, per cui questa partecipazione, che costò molti soldi e molti altri vennero versati in tempi recenti, era un modo per pagare queste persone, per avere informazioni e per vedere di influire sulle indagini in corso». Ma cosa sa esattamente delle somme destinate alla Regione? «Per quanto è a mia conoscenza, le somme sono state versate a Galan e a Chisso. A Galan venivano consegnate, anche più volte all’anno, somme ingenti di denaro, parliamo di 100 mila euro o anche più. Questo mi è stati riferito sia da Baita che si lamentava delle richieste esose, sia dallo stesso Galan quando ne ero la sua segretaria. Poi c’erano alcuni funzionari regionali ai quali si facevano favori. Quanto a Galan, Baita mi disse che aveva sostenuto finanziariamente la ristrutturazione della sua villa. Non so se avete mai visto la casa, credo che i lavori siano costati qualche milione di euro». E l’assessore regionale Chisso (arrestato, ndr)? «So che normalmente l’ingegner Mazzacurati versava somme di denaro a Chisso all’Hotel Monaci all’ora di pranzo. Chisso in più occasioni si lamentò del fatto che Mazzacurati versava solo alle feste comandate… era chiaro che voleva essere remunerato più frequentemente». Da segretaria a prestanome, da imprenditrice a finanziere. Sempre più su e sempre più in là. «È la commissione di collaudo sulla gestione il vero business futuro del Mose – ha spiegato scuotendo la testa -. Il Mose ormai lo danno per finito perché i soldi sono stati erogati o comunque stanziati tutti (in realtà ne sono stati stanziati 4,9 miliardi su 5,4, ndr); il vero affare ora è quello della gestione del Mose. Vale svariate decine di milioni di euro l’anno». Poi è precipitata: l’arresto, la confessione, la super testimonianza. Oggi è libera. Intanto il costo del MOSE, finito al 90% già è di 6 miliardi. Al Sud Italia un sistema così raffinato di rubare, mediante una cupola affaristica, non sembra sia stato pensato. Ma allora è proprio vero che al Settentrione le mazzette tangentizie sono più consistenti. Catone il censore chissà cosa scriverebbe oggi del territorio controllato, referendum permettendo, ancora da Roma: forse meno ladrona dei “quasi barbari provinciali”, Bossi, Galan, ecc. L’Italia del Sud ha la irrisolta Questione Meridionale, ma il Settentrione ha la sua Questione, che non è da meno per il sistema di ruberie di alcuni politicanti che parlano non tanto bene, ma razzolano meglio.
Con tutto questo magna magna, perchè additare il Sud Italia come la fonte di tutte le nefandezze?
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche “il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna, dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile»: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le “scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo?». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la “liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era “la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati “belli” del Nord e quelli “brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente “disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno di Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati “belli” del Nord restano del Nord; quelli “brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale», parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la “Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama “New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già “meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce “isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce “Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce “Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è “rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
La Sicilia? Palla al piede d’Italia. L’indipendenza? Follia, moriamo di fame, scrive Roberto La Rosa il 18 settembre 2017. Abbiamo già visto (in parte) quanto l’Italia prende dalla Sicilia. Ci siamo concentrati sulle accise petrolifere. Ci ritorneremo su altre voci. Ora facciamo un altro discorso. Quanto spendono per noi le amministrazioni statali? Prendiamo a riferimento come al solito i conti pubblici territoriali (2013) e se li volessimo aggiornare sarebbe solo per tenere conto dei più recenti tagli. Trascuriamo le spese in conto capitale, che sono davvero trascurabili, e concentriamoci su quelle di parte corrente. La tabella è quella di cui sopra. Apparentemente si tratta di 34 miliardi 781 milioni e qualcosa. Un’enormità. Ma il lettore va guidato in questa tabella. I 4 miliardi circa di “Amministrazione generale”, infatti, non sono soldi spesi in Sicilia, ma l’attribuzione alla Sicilia del costo degli organi dello Stato centrale: Parlamento, Presidenza della Repubblica, e così via. Questi 4 miliardi, se la Sicilia fosse indipendente, non potrebbero certamente venirceli a chiedere. Sono spese italiane a tutti gli effetti. Così un altro miliardo di “Spese non ripartibili”. Cioè oneri vari dello Stato italiano che vengono ripartiti tra le varie regioni secondo criteri che possono essere accurati quanto si vuole, ma che noi non sosterremmo se fossimo indipendenti. La somma si riduce a 29 miliardi.
Poi ci sono i circa 19 miliardi di pensioni, cassa integrazione e trattamenti previdenziali simili. Per semplicità mettiamo che sono tutte pensioni (le altre forme di previdenza sono trascurabili). Questi 19 miliardi non li mette lo Stato. Sono soldi che l’INPS deve ai pensionati siciliani a fronte dei diritti che questi hanno maturato attraverso le loro contribuzioni. In caso di indipendenza l’INPS resterebbe comunque obbligato a far fronte a questi trattamenti pensionistici. Il o i nuovi enti previdenziali siciliani potrebbero rispondere solo delle pensioni per i contributi raccolti dalla data dell’indipendenza in poi. Naturalmente ci vorrebbero accordi, regimi transitori, ma quei soldi non sono spese dello stato graziosamente elargite alla Sicilia, sono soldi nostri, dei nostri pensionati, che lo Stato ci deve. Su questo non si scherza. Tolti anche questi 19 miliardi restano 10 miliardi.
Naturalmente, dentro questi 10 miliardi ci sono anche le spese centrali e le spese all’estero ribaltate sulla Sicilia. Ad esempio, nel miliardo di spese per la difesa, non ci sono solo le spese per le caserme, basi navali e aeree siciliane, ma anche la quota parte della Sicilia delle missioni “di pace” all’estero, o della quota parte del costo dello Stato Maggiore di Esercito, Marina e Aeronautica, attribuite alla Sicilia. Tutti costi che, in caso di indipendenza, non sarebbero sulle nostre spalle. Ma pure sia. La Sicilia dovrebbe certo dotarsi di un corpo diplomatico e consolare, mettiamo che l’una cosa compensi l’altra. Notiamo che in questi 10 miliardi sono “nascosti” ben 3 miliardi di “assistenza e beneficenza”. Non è chiarissimo cosa ci sia dietro, ma si tratta in gran parte delle rendite INAIL per gli infortuni sul lavoro, o assegni di invalidità. Si tratta, quindi, in gran parte, di spese per le quali gli enti previdenziali hanno percepito i relativi contributi e delle quali sono debitrici, e tali resterebbero anche in caso di indipendenza. 7/8 miliardi sono quindi le spese che lo stato svolge direttamente per la Sicilia, ad essere prudenti, su un bilancio statale di centinaia di miliardi.
Sorprenderà forse il lettore vedere che in molti cassetti ormai lo Stato non ci mette più nulla. E i dati successivi al 2013, non ancora disponibili, sono anche peggiori. Si pensi ai 110 mila euro per lo smaltimento dei rifiuti che quindi è a totale carico nostro già ora, come se fossimo indipendenti, anzi peggio perché lo Stato ci impone come e quanto spendere a favore di aziende del Nord per tale smaltimento. Oppure ai 12 milioni 200 mila euro per l’industria e l’artigianato. In pratica indipendenti lo siamo già, e non lo sappiamo, ma solo dal lato delle spese. Per le entrate, quelle no, quelle ce le dividiamo con lo Stato che fa la parte del leone. La voce più grossa, ancora a carico dello Stato, è l’istruzione (scuola + università) che non arriva a 3,5 miliardi l’anno (nel 2013, oggi certamente meno). A questi vanno aggiunti i circa 3 miliardi (sono un po’ meno in realtà, stando alle previsioni più aggiornate) di trasferimenti dello Stato alla Regione (circa 2,5 miliardi, quasi tutti per la sanità), ai Comuni, qualche centinaio di milioni, ai Liberi Consorzi (ex province), solo 6 milioni. In tutto quindi non più di 10 miliardi l’anno. Questo è quello che lo Stato oggi spende per la Sicilia, tutto incluso. E, a fronte di questi 10 miliardi, lo ricordiamo, si prende 16 miliardi circa (sempre fonte CPT) fra imposte dirette, indirette (Iva + Accise) e altre entrate proprie, già al netto di quelle che poi devolve alla Regione, si prende un altro miliardo circa di “contributo al risanamento” della finanza pubblica statale, una somma imprecisata, fra i 3 e i 4 miliardi, di art. 37, cioè di redditi d’impresa maturati in Sicilia e riscossi altrove. In tutto si prende, quindi circa 20 miliardi per spenderne 10, con un guadagno netto, dalla colonia Sicilia, di circa 10 miliardi l’anno. Abbiamo idea di quello che si potrebbe fare con 10 miliardi l'anno di minori tasse o maggiori servizi al cittadino o, ancora, infrastrutture? Ecco perché dobbiamo restare italiani. Girate e fate sapere la vera ragione per cui la Sicilia è “povera”.
"QUELLO CHE I SICILIANI NON DEVONO SAPERE", scrive Roberto La Rosa il 17 agosto 2017. Questa tornata elettorale regionale ha i riflettori puntati da tutta Italia. Ma quei riflettori coprono solo vergogne, come la vecchia politica. Chi guarda un TG, di qualunque canale, sente parlare del corteggiamento di Alfano, di quale rettore o ex rettore sarà scelto dal PD, se la destra va unita o divisa e tutti, ma proprio tutti, a dire che queste elezioni “sono importanti per l’Italia”, come una specie di anticipo di campionato. Della Sicilia, naturalmente, non parla nessuno. Di come risolvere i suoi drammi. E soprattutto il più importante dei candidati schiettamente siciliani, Roberto La Rosa, dei “Siciliani Liberi”, è il CANDIDATO INVISIBILE. I SICILIANI NON SANNO e NON DEVONO SAPERE che esiste un’alternativa, che l’indipendentismo oggi è praticabile, che il primo passo verso la libertà della Sicilia è la sua costituzione in Zona Economica Speciale. Nulla, silenzio, tabù. Se potessero silenzierebbero anche i social.
I Siciliani non devono sapere. E soprattutto non devono sapere che mentre tutti gli altri competitori non hanno ancora pubblicato alcun programma, l’unico PROGRAMMA che c’è è quello nostro. E soprattutto non devono sapere quanto ci costa la “dominazione italiana”, soprattutto sotto il governatorato coloniale di Crocetta.
Proviamo a ricordare soltanto le peggiori malefatte. Presenti e passate. Chi legge questo post, proprio per la censura che c’è, avrebbe il dovere morale di diffonderlo.
Lo Stato ruba da molti anni circa il 40 % dell’IRPEF dei Siciliani (circa 3,5 miliardi), violando lo Statuto e il decreto attuativo dello Statuto. Crocetta, con l’accordo del 20 giugno scorso, ha rinunciato al 100 % dell’IRPEF, e alla finanza originaria, accontentandosi della promessa che “in futuro” (fra tre anni) il furto del 40 % sarà ridotto al 29 %, e in cambio ha modificato il decreto attuativo dello Statuto del 1965, regalando per sempre CONTRO LO STATUTO, quasi tre miliardi l’anno allo Stato, senza prendere nulla in cambio.
Crocetta ha rinunciato DUE VOLTE al gettito del contenzioso con lo Stato italiano giacente in Corte Costituzionale, di difficile quantificazione, ma pari comunque a svariati miliardi, in cambio, la prima volta (2014) di un piccolo rilassamento del patto di stabilità pari a 500 milioni, la seconda volta in cambio di nulla (2016). E, si badi, la prima volta, non è stato “in cambio di mezzo miliardo”, come ha detto una certa stampa, ma della possibilità accordata da Roma di “potere spendere” mezzo miliardo in più che era già nostro (questo è l’assurdo patto di stabilità europeo, non potere spendere nemmeno i nostri soldi).
Dal 2013 ad oggi lo Stato ha imposto un balzello nuovo sulla Sicilia e su tutti gli enti locali: il Contributo al risanamento della finanza pubblica erariale. Alle altre regioni il balzello è stato fatto pagare trattenendo una parte dei trasferimenti dello Stato. Alla Sicilia, alla quale ormai non si trasferisce da Roma praticamente più nulla, si è fatto pagare con un prelievo diretto dell’IRPEF dei Siciliani. Questo prelievo ammonta ormai a 1,3 miliardi l’anno (forse 2 l’anno prossimo), il QUADRUPLO di quello che pagano tutte le altre regioni in rapporto pro capite, e il secondo in assoluto dopo la Lombardia, che però ha un PIL di circa tre volte superiore al nostro.
Crocetta ha acconsentito all’azzeramento di tutti i contributi dello Stato verso le ex province e al quasi azzeramento di quelli verso i Comuni. Adesso tutti gli enti locali siciliani, a parte i pochi tributi locali, sono alle spalle della Regione, la quale riduce sempre di più i trasferimenti, perché a sua volta affamata da Roma, condannando ormai TUTTI GLI ENTI LOCALI AL DISSESTO. Non contento di questo, lo Stato ha tolto alle province il gettito dei tributi provinciali e ha preteso pure un contributo dalle stesse al risanamento della finanza pubblica erariale (AGGIUNTIVO RISPETTO A QUELLO DELLA REGIONE). Di fatto le province non possono più svolgere le loro funzioni, ma, a stento, soltanto pagare gli stipendi. La risposta di questo governo è stata la reintroduzione dei consigli elettivi con remunerazione dei mandati.
Da ultimo anche l’IVA, che lo Stato trattiene illegittimamente per circa 3 miliardi l’anno alla Regione, è stata regalata allo Stato con un accordo sottobanco che i giornali non hanno ancora pubblicato. Il corrispettivo è che ora la Sicilia, a finanza derivata, si vedrà restituire (forse) una certa % dell’IVA maturata in Sicilia.
L’introduzione, nel 2016, del bilancio armonizzato secondo la nuova legge di contabilità è stata un’occasione per cancellare di colpo non meno di 5 MILIARDI di crediti verso lo Stato per tributi da questo riscossi al posto della Regione e illegittimamente mai devoluti alla stessa. Nel silenzio dei media e, gravissimo, della Corte dei Conti (!), la Sicilia ha cancellato nell’estate 2015 con un colpo di spugna tutti i crediti miliardari che questa vantava nei confronti dello Stato. Crocetta e i suoi, anziché pretendere quanto dovuto dallo Stato, si è limitato a chiudere i bilanci, di anno in anno, siglando mutui, a tassi variabili usurai, nei confronti di un organo dello Stato, la Cassa Depositi e Prestiti, che quindi presta, a usura, con una mano, ciò che ha sottratto, con violenza e inganno, con l’altra. Primo fra tutti il mutuo da un miliardo, contratto per la “premura” di pagare le case farmaceutiche “italiane” che non potevano aspettare i normali tempi di pagamento di una regione finanziariamente in affanno. In cambio di questo - si penserà - lo Stato però provvederà ai bisogni dei Siciliani? No, manco per sogno.
Di fronte all’emergenza migranti lo Stato ha gestito dei fondi a favore solo degli enti no profit vicini alle forze governative, lasciando Comuni e Regione ad anticipare risorse che non sono poi state mai più pagate da uno stato cialtrone e truffaldino. La perequazione infrastrutturale, che era prevista dall’art. 38 dello Statuto, è restata lettera morta: nel Masterplan dello Stato le risorse destinate alla Sicilia sono non più dello 0,5 % del totale nazionale. Tutte le infrastrutture, strade, scuole, mezzi di soccorso antincendio, tutto, in Sicilia va drammaticamente in malora per assoluta mancanza di fondi. E, come se non bastasse, tutta la P.A. è praticamente accollata alla Regione. Tutto, dai beni culturali, alla sanità, alla tutela del territorio, al sostegno finanziario ai Comuni, è svolto dalla Regione con i brandelli di risorse che uno stato ladro e rapace, lascia all’amministrazione coloniale. I dati statistici sono truccati, e i nostri stessi tributi devoluti (cioè le tasse raccolte in Sicilia) sono registrati come “trasferimenti dello Stato”, facendo sembrare la Regione dipendente dalla Penisola, quando accade esattamente il contrario.
Lo Stato si occupa ormai di pagare soltanto gli strumenti repressivi (polizia, magistratura, esercito…), gli stipendi dei professori, un quarto delle spese correnti sanitarie e qualche briciola ai comuni. Per tutto il resto la Sicilia è già un paese “indipendente”. Indipendente dal lato delle spese, che sono solo nostre, ma schiavo e tributario dal lato delle entrate, nelle quali lo Stato fa la parte del leone. Oltre allo sfruttamento fiscale, naturalmente, l’Italia ha mille altri canali per succhiare sangue alla Sicilia. L’energia, che è nostra, viene regalata al Continente, e a noi tocca pagare la benzina e l’energia elettrica tra le più care d’Italia. L’acqua, che è nostra, è stata venduta ad una multinazionale francese, che ce la rivende “a sangue di papa”. Il nostro prodotto agricolo e alimentare è vittima dello strozzinaggio dei broker italiani, che impongono prezzi sottocosto, per poi rivendere nei nostri supermercati a un multiplo del prezzo originario, costringendo al fallimento e alla vendita, agricoltori, pescatori, industriali… Le nostre aziende, quando hanno successo, in un modo o nell’altro vengono fatte chiudere e assorbire da imprese italiane che poi qui fanno chiudere i battenti. Le banche, che ci sono state tutte tolte, emettono e prestano, a interessi maggiori che altrove, lo stesso denaro che usiamo per le transazioni tra di noi. Senza un nostro tessuto bancario, siamo solo terra di raccolta di risorse finanziarie e pochissimo di impieghi, per i quali sono sempre favoriti gli “esterni”. I pochi “lavori” che si fanno in Sicilia sono spesso appannaggio di mediocri imprese “italiane”, spesso cooperative “rosse” del PD. Le nostre università sono state oggetto dei tagli più dissennati che ci siano stati in tutta Italia, fin quasi a far chiudere il luogo del pensiero per eccellenza.
E siccome la storia dice sempre “Guai ai Vinti!”, per colmo della beffa, la TV italiana, anche quella pagata col canone dei Siciliani, addita a pubblico ludibrio ogni giorno i “Siciliani”, un popolo di mafiosi, pigri, reprobi, irredimibili. Ogni scandalo è siciliano. Il linciaggio mediatico della Sicilia procede imperterrito, finendo per complessare i nostri stessi concittadini, che pensano quasi che essere Siciliani sia una colpa.
Nessuno dice che la Sicilia, con il 40 % dei beni culturali dell’Italia, spende un centesimo di quanto spende l’Italia. Nessuno dice che la Sicilia è PENULTIMA in Italia per spesa sociale e spesa sanitaria (ma come? e i falsi invalidi?).
Tutto questo i Siciliani non lo devono sapere. Non devono sapere che l’Italia ha ridotto la Sicilia a un cumulo di macerie, con la complicità di una classe politica collaborazionista. Con il 60 % della disoccupazione giovanile, con i cumuli di immondizia in mezzo alle strade, con le proprie campagne in fiamme. L’Italia sta distruggendo la Sicilia, ne sta fiaccando ogni energia, ogni forza. Ruba le nostre tasse, porta via o compra i migliori, ci oltraggia ogni giorno, fa sulla nostra pelle ogni sorta di speculazione, rendendo un deserto la più bella Nazione del mondo. Questo i Siciliani non lo devono sapere. E a poco servirà mettere al primo posto “il taglio dei vitalizi”, con cui si recuperano (forse) 10 milioni, se poi si tace sui 10 miliardi l’anno rubati dall’Italia alla Sicilia. Di questi non ne parla nessuno o - se ogni tanto qualcuno ne parla - lo fa con una voce così flebile che neanche si sente, eppure hanno deputati e TV puntate su di loro. Solo “Siciliani Liberi”, che non ha paura, sfida ogni censura. Quando arriveremo in ARS tutti saranno costretti a fare i conti con noi. Noi proponiamo la Zona Economica Speciale, la migliore ricetta e il migliore programma per fare rinascere questa Sicilia. Vediamo chi ci sta.
QUELLI CHE SON SECESSIONISTI...
Salvini: «Il referendum libererà il Veneto». Il leader con Zaia: Lega al 15,3%, record storico. Avviso ai militanti litigiosi: «Lavate i panni in sezione», scrive Giusy Andreoli il 02 settembre 2017 su "Il Mattino di Padova". «Io voglio cambiare il Veneto, la Sicilia, l’Italia intera nel nome del buongoverno, dell’onestà, del lavoro, della sicurezza. E quindi il referendum del 22 ottobre è importante quanto liberare i siciliani dall’immigrazione e dal disastro del Pd. Poi sarà fondamentale vincere le elezioni politiche quando Renzi si degnerà di farci votare, io sono pronto, noi siamo pronti». Parole di Matteo Salvini, il leader della Lega, di scena a Campodarsego per l’apertura della nuova sede del Carroccio. Lontani i tempi di “Prima il Nord” e della secessione bossiana: «Sono orgoglioso dei nostri 300 sindaci in tutto il Nord. Ma sono felice anche di aver eletto i primi sindaci in Toscana, in Umbria, nelle Marche, nel Lazio e i consiglieri comunali in Puglia, in Sicilia. L’Italia sè bella, diversa, lunga. Voglio che rimaniamo insieme nel nome dell’autonomia, dell’identità, del federalismo, anche per opporci ai diktat europei che ci stanno massacrando». Chi prevede che il Nord del simbolo leghista sarà abbandonato a Pontida, il 17 settembre, si sbaglia: «Al raduno si parlerà di autonomia, lavoro, tasse, immigrazione. Del futuro, di bambini, io voglio tornare a riempire le culle, io voglio che i veneti e tutti gli italiani tornino a scommettere sul domani, a fare dei figli». Non teme, Salvini, un crollo del consenso di rinuncia al “marchio” nordista? «Non abbiamo avuto così tanti consensi, la gente ha capito che la battaglia della Lega per l’autonomia e il federalismo sono decisive per tutto il Paese, non solo per veneti e lombardi. Lo dimostra il sondaggio Swg che mi hanno girato oggi Swg: danno la Lega al 15,3%, è il massimo storico». Quanto all’immigrazione, Salvini contesta pure il piano Minniti: «Non è vero che arrivano meno profughi. Intanto ne sono sbarcati altri 600, dopo 4 anni fanno in ritardo e male quello che la Lega chiede da sempre. Ma quando lo dicevamo noi, eravamo razzisti». Adesso, però, la priorità assoluta sono i referendum per l’autonomia promossi da Luca Zaia e Roberto Maroni: «Finalmente 15 milioni di veneti e lombardi avranno l’occasione di chiedere poteri e risorse, di avere voce in capitolo sull’immigrazione, libertà di scelta sulla sanità, sui vaccini, sulla scuola, sull’educazione dei figli, di poter spendere i soldi per le infrastrutture e le ferrovie, ferme da troppo tempo». Poi la stoccata a chi osteggia la legge regionale che impone di esporre la bandiera di San Marco negli edifici pubblici: «Non vedo quale danno possa arrecare un simbolo di storia di libertà, di lavoro, di sacrificio, di fatica, di orgogli. Da milanese, dico: viva il Leon». E i leghisti padovani che vengono alle mani a Santa Giustina? «Beh, dico loro di chiarirsi prima in sezione e di uscire poi con il sorriso sulle labbra».
QUELLI CHE SON INDIPENDENTISTI...
Indipendentismo, Claudia Zuncheddu: "Anche la Sardegna è una nazione senza Stato", scrive Giuseppe Meloni l'1 ottobre 2017 su "L'Unione Sarda". Mentre Barcellona vota sull'indipendenza, Claudia Zuncheddu guarda con ansia alla Catalogna: "La repressione di Rajoy contro il popolo sovrano mi preoccupa", confida la fondatrice di Sardigna libera, "ha schierato 10mila militi per impedire che ci si pronunci"».
Ci sarà mai un percorso d'indipendenza simile, in Sardegna?
"Il governo catalano ha una maggioranza indipendentista e identitaria. Da noi, parte dei cosiddetti sovranisti sostiene le politiche neoliberiste di Pigliaru. Questo è un freno al processo di costruzione di un vasto fronte indipendentista".
Per alcuni l'indipendentismo della ricca Catalogna somiglia più all'egoismo padano che all'indipendentismo sardo. Condivide?
"Non esiste l'indipendentismo delle regioni ricche contrapposto a quello delle regioni povere. Esistono i popoli senza Stato con le loro rivendicazioni. Storicamente la Catalogna, come la Sardegna, è una nazione senza Stato, con una storia e un'identità fortissima, ma sotto dominio coloniale".
Intanto la Lega celebra i referendum per l'autonomia del nord.
"Prima la Lega scimmiottava il sardismo. Oggi è tutt'altro, un movimento razzista e xenofobo che cavalca le paure dei popoli in modo spregiudicato, quindi è un nostro antagonista politico".
Confronti a parte, che senso ha chiedere l'indipendenza oggi?
"La Sardegna, con una storia diversa da quella sabauda, rinunciò con la Fusione perfetta del 1847 alla condizione di Stato. Si generò un'oppressione coloniale che è alla base dei nostri mali. L'indipendenza è il futuro, con un ritorno alla dignità del passato. Ridiscute i privilegi costituiti, mira all'uguaglianza di tutti. Tutti devono avere uguali opportunità: diritto alla salute, al lavoro, allo studio, alla felicità; libero autogoverno del territorio, della cultura, dell'economia".
Su quali battaglie concrete deve impegnarsi la politica sarda?
"La difesa degli ospedali, la sanità pubblica di qualità e gratuita per tutti. La tutela dell'ambiente, del settore agropastorale, della piccola-media industria. La difesa della scuola pubblica e della cultura e lingua sarda; la difesa del territorio dal cemento e da tutto ciò che inquina, militarizzazione compresa".
Quale sviluppo economico immagina, nei prossimi vent'anni?
"La materia prima è il nostro unicum ambientale. Un progetto di governo deve tener conto anzitutto dell'economia agropastorale, condizione per un turismo realmente produttivo. Assurdo importare l'80% dei prodotti alimentari".
E all'industria dice no?
"Dico sì all'industria di trasformazione dei nostri prodotti, della farmaceutica, del sale, dei tessuti. Sì all'alluminio, per ottenere prodotti finiti dal riciclo; non per produrre veleni. No ai modelli di sviluppo imposti come il petrolchimico, che hanno dato profitti per pochi e alti costi in termini di salute".
Senza i fondi statali, come si gestiranno i servizi alla collettività?
"C'è una vertenza entrate che non è da barattare con le pensioni o con gli oboli ai Comuni. Certe logiche ricordano i fondi straordinari per i Piani di rinascita: di straordinario non c'era nulla, i Piani erano pagati con i soldi che lo Stato doveva ai sardi. E oggi noi ci paghiamo sanità e trasporti interni".
Gli indipendentisti criticano chi si è alleato con Pigliaru, ma anche lei nel 2014 si candidò in quella coalizione, con Sel. Fu un errore?
"Non è tanto grave essere eletti in una coalizione, il problema è: al servizio di chi si mette una forza indipendentista? Nel 2009 fui eletta con la coalizione di Soru e feci grandi battaglie, spesso in solitudine ma mai al servizio di nessuno, se non degli interessi dei sardi".
Su quali punti rimase sola?
"Per esempio per lo scandalo del G8 alla Maddalena nessun consigliere ebbe il coraggio di firmare la mia mozione. Vinsi da sola la battaglia giudiziaria contro la protezione civile di Bertolaso. Poi nel 2014 i miei appelli all'unità del mondo identitario cozzarono con posizioni precostituite. Mi candidai da indipendente con Sel perché in Consiglio sosteneva la mie battaglie. Capii poi che era per opportunismo. Oggi mi chiedo cosa ci fosse dietro il rifiuto dell'unità indipendentista, chi fossero gli sponsor italiani. Il perché di quel settarismo, utile a dividere".
Le piace l'idea di una casa comune degli indipendentisti aperta a chi ebbe ruoli rilevanti nei partiti italiani, come Pili e Oppi?
"Quando crolla il partito italiano di riferimento, non basta una berritta in testa per diventare sardisti. Ma Pili, di cui pure non condivido molte posizioni, segue da tempo il percorso identitario, gliene va dato atto. Il suo posto è in un fronte fuori dai blocchi italiani. Non me ne voglia invece Oppi, ma sulla rete ospedaliera non vorrei che fosse proprio lui il trait d'union tra Giunta e centrodestra".
Come si schiereranno le forze dell'autogoverno alle Regionali?
"Auspico che tutti i movimenti di matrice identitaria, sardista e indipendentista si uniscano sui grandi temi, lasciando anche spazio ai movimenti italiani progressisti che stanno fuori dai blocchi italiani e dalle loro politiche coloniali".
E alle elezioni Politiche, invece?
"Gli indipendentisti devono essere lì dove si decide il destino dei sardi. Un cartello che veda unite le nostre forze è necessario".
Sardigna libera parteciperà?
"Lavoriamo in quel senso, ma non solo per un cartello elettorale. Aborriamo il concetto di partito: parliamo di un movimento che può sciogliersi in un fiume che porti all'autodeterminazione e a costruire l'indipendenza. Per farlo dobbiamo governare, costruendo un grande movimento identitario che cambi il nostro destino".
Referendum, dieci differenze tra indipendentisti italiani (Lega Nord) e catalani, scrive Alessio Pisanò il 30 settembre 2017 "Il Fatto Quotidiano". Troppo spesso la Lega Nord ha sbandierato un supposto gemellaggio politico con i movimenti e partiti indipendentisti catalani. Qualche giorno fa il Pirellone, sede del Consiglio regionale della Lombardia, ha rifiutato la richiesta del gruppo leghista di esporre la bandiera catalana, segno tangibile di un forte desiderio di secessione che nella base padana non è mai tramontato nonostante le velleità nazionali e nazionaliste del leader Matteo Salvini. Tuttavia le differenze tra Lega Nord e partiti catalani sono enormi e parlare di gemellaggio appare quantomeno azzardato. Vediamole nel dettaglio:
– La Lega Nord è un partito unico mentre l’indipendentismo catalano è supportato da tre partiti: il PDeCAT, l’Erc e il Cup;
– La Lega Nord si riferisce alla Padania, entità geografica senza unità politico amministrativa mentre la Generalitat de Catalunya è il sistema amministrativo-istituzionale per il governo autonomo della comunità autonoma della Catalogna;
– La Lega Nord è un partito conservatore e con forti legami con la destra e l’estrema destra italiana, mentre il PDeCAT è centrista e liberale, l’Erc di sinistra e il Cup di estrema sinistra.
– La Lega Nord è contraria all’Euro e all’Unione europea mentre PDeCAT e ERC sono fortemente europeisti, il Cup è anticapitalista quindi critico (ma non scettico) nei confronti dell’Ue. Tuttavia i partiti catalani sono a favore di una maggiore integrazione europea, sebbene il Cup solo a determinate condizioni.
– La Lega Nord supporta una politica anti-immigrazione mentre i partiti catalani sono a favore e per la piena accoglienza dei rifugiati;
– La Lega Nord è ‘no global’ e contraria ai principali trattati commerciali internazionali, mentre i catalani – ad eccezione del Cup – sono per l’economia di mercato;
– La Lega Nord è molto vicina alla Russia di Putin e contraria alle sanzioni Ue nei confronti di Mosca, mentre i partiti catalani sono europeisti;
– La Lega Nord ha accolto con favore l’elezione di Donald Trump e le sue politiche negli Stati Uniti mentre Carles Puigdemont, presidente della Generalitat de Catalunya, è su posizioni opposte;
– La Lega Nord ha ipotizzato l’introduzione di una flat tax (tassa unica al 15 per cento indipendentemente dal reddito) mentre i partiti catalani sono per una tassazione progressiva basata sul reddito;
– La Lega Nord è per una riforma della legittima difesa e per il possesso di armi da fuoco mentre nessun partito catalano renderebbe popolare il possesso di pistole e fucili.
LA SECESSIONE IDEOLOGICA.
La secessione ideologica, scrive l'1 ottobre 2017 Augusto Bassi, su "Il Giornale". Passando in rassegna i commenti della rete e ascoltando gli analisti televisivi, trovo esilarante notare come tutti i più illuminati europeisti di sinistra – che vedevano nella Brexit un regionalismo primitivo, rivendicazione oscurantista di una massa di contadini nostalgici, cocciuti nel voler mettere il becco in rivolgimenti più grandi di loro, ignari del mondo senza frontiere involato sulla testa delle piccinerie identitarie, e che prima ancora avevano plaudito alla sconfitta dei regredienti secessionisti scozzesi – ora celebrino l’orgoglio catalano, la comunità coriacea, il sacro fuoco indipendentista contro la iattanza del regime…
La Sinistra è morta. Suicida, scrive Nino Spirlì, Giovedì 28 settembre 2017, San Venceslao – a Casa Spirlì, in Calabria, su "Il Giornale". Accade. Accade quando perdi di credibilità. Quando le tue denunce da farsa, pronunciate a voce stentorea e ferma, risultano essere delle fanfaronate da saltimbanco. Quando il tuo elisir di lunga vita, alle analisi, risulta essere meno che piscio di gallo. Accade quando dai del fascista, pensando di offendere, e poi ti comporti da nazista, sapendo di esserlo. Accade quando per costruire una verità di carta, pensi di poter nascondere con un ditino la montagna della verità di granito.
Accade quando vai a casa del dio della comunicazione e pensi di metterlo nel sacco con grottesche scivolate sulla parete di specchio (magari anche oliata), raccontando di te e dei tuoi improbabili successi. Accade quando tenti di riempirti le tasche di danaro giustificandoti come farebbe il bambinello con la bocca sporca di Nutella davanti allo sportello del frigo. Accade quando sei massomafioso. Accade quando, in campagna elettorale, ti porti appresso gli sgherri delle peggiori ‘ndrine e ti riempi la bocca di antimafia e legalità.
Accade quando cerchi di privatizzare a tuo guadagno l’acqua pubblica; quando ti ingrassi con l’accoglienza dei clandestini; quando ti organizzi per farti appaltare la raccolta della monnezza; quando amministri la cosa pubblica come fosse roba tua.
Accade quando ti senti più tutelato degli altri davanti alla Legge, se la legge è rappresentata da qualche amichetto tuo.
Accade quando ti senti superiore a Dio e ai Santi e pensi di governarne anche le processioni con inchini e carnevalate. Accade. Sì, accade…Ecco, la sinistra Sinistra, quella italiana, quella che all’anagrafe risulta essere figlia della defunta demoNcrazia cristiana e di qualche figlio spurio dell’incenerito PCI, è morta così. Con le mani in pasta. Ovunque. La gente non le crede più e si sparpaglia. Si allontana dal paese dei balocchi, da lucignolo e pinocchio e cerca lidi più sicuri. Magari non immacolati, ma certamente meno prostituiti. Di questo decesso, ne avremo conferma nelle prossime tornate elettorali. Intanto, recitiamo un requiem, mentre, inascoltata, lei ulula il proprio De Profundis…fra me e me.
QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.
Referendum autonomia, Vittorio Feltri l'Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano": non diamo i nostri soldi a quelli che li spendono male. Il referendum che si voterà in ottobre circa l’autonomia delle regioni Veneto e Lombardia non viene pubblicizzato a dovere poiché infastidisce il potere centrale e il Mezzogiorno. I quali temono di perdere la tetta da cui succhiare risorse. È noto che il Nord produca più del Sud e mandi a Roma la quasi totalità dei proventi fiscali locali, che poi servono ad alimentare le casse dello Stato, incline a sprecare capitali a scopi elettoralistici. La novità consiste nel fatto che i lombardi e i veneti ne hanno piene le scatole di versare denaro a chi non è in grado di utilizzarlo convenientemente. Lavorare per gli altri che non lavorano affatto non è piacevole. Ecco perché i governatori Maroni e Zaia si sono impegnati legittimamente in questo plebiscito consultivo: si tratta di accertare se gli abitanti delle zone ad alta densità industriale vogliono o no amministrarsi in proprio, trattenendo sul territorio una quantità maggiore, rispetto ad oggi, dei loro quattrini sudati. Dove sia lo scandalo della iniziativa non sappiamo. La contrarietà da taluni manifestata a questo sano progetto si spiega soltanto col desiderio di negare a Milano e a Venezia il diritto di amministrare i loro beni in favore dei propri cittadini. Durante una trasmissione televisiva imperniata sul tema dell’autonomia, il direttore del Messaggero di Roma, Virman Cusenza, si è espresso contro il referendum senza una ragione plausibile. Egli infatti è siciliano, e di ciò almeno noi non abbiamo colpa, quindi di una regione che della autonomia ha fatto pessimo uso. Ebbene con quale faccia egli vieta alla Lombardia di avere le stesse facoltà gestionali di cui gode (inutilmente, per cronica inettitudine) la Sicilia? La quale, se fa schifo, non è responsabilità dei lombardi bensì dei concittadini di Cusenza. In Italia le regioni autonome sono cinque. Perché non averne sei o sette? Sul punto il direttore del Messaggero, come tutti i meridionali, tace o tergiversa. In silenzio stanno anche i giornaloni nazionali e le tivù più importanti. Gli addetti alla informazione sono quasi tutti terroni e terrorizzati alla idea che Lombardia e Veneto cessino di versare palanche sotto il Po. La questione è molto semplice. Ciascuno è obbligato a vivere del suo, come si diceva una volta. Nessuno impedisce al Mezzogiorno di creare imprese, posti di lavoro e ricchezza. Le popolazioni meridionali utilizzino i finanziamenti statali per realizzare infrastrutture, cioè le basi per incrementare l’economia. Non si illudano di campare in eterno alle spalle degli odiati nordici, che sono stanchi di essere sfruttati quali bancomat. Il mese prossimo lombardi e veneti pertanto voteranno sì al referendum per essere padroni del loro portafogli. Non c’è nulla di ideologico né di razzistico nella ricerca della autonomia, solo l’esigenza di essere uguali alla Sicilia e di dimostrare ad essa che tale autonomia si può sfruttare per crescere e non per sprofondare in un mare di debiti palermitani. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16.03.2017. Da oltre mezzo secolo ascolto discorsi e leggo articoli che auspicano la crescita del Mezzogiorno. I politici meridionali in particolare predicano in continuazione che è necessario investire al Sud per migliorare le condizioni generali del Paese. Belle parole, ma soltanto parole. Fatti concreti se ne sono visti pochi, se si escludono vari foraggiamenti a pioggia distribuiti nelle regioni più disastrate dello Stivale, denaro non utilizzato poi per creare infrastrutture, bensì per arricchire mafie e oligarchie. Cosicché il divario tra il ricco Nord e il resto della penisola non è mai stato colmato. E oggi siamo ancora qui a blaterare sul modo per aiutare i terroni (senza offesa) a essere un po' meno terroni. I soliti pistolotti vacui, la solita retorica inconcludente. Risultato, la spaccatura tra le due Italie è sempre più profonda. Quando si dice che la politica è incapace di fare progetti e di realizzarli ci si attiene al realismo più crudo. Oltretutto, le cose non migliorano neanche per forza di inerzia, ma peggiorano. Per risollevare la Calabria e la Sicilia, prima Berlusconi e dopo Renzi si erano messi in testa di costruire il ponte sullo stretto di Messina. Una idea del cavolo ma comunque un'idea. Ovviamente abortita per motivi che è inutile elencare tutti, basta citarne uno: mancavano i soldi.
Ci domandiamo come immaginassero, sia Silvio sia Matteo, di trovare il grano necessario per legare col cemento l'isola alla penisola. Mistero. Sorvoliamo sulle velleità infantili dei due ex premier e veniamo alla più stringente attualità. I deficienti che amministrano la nostra vituperata nazione, per dare una mano ai fratelli calabresi hanno deciso di chiudere l'Aeroporto di Reggio. Perché non rende alle compagnie che gestiscono i voli, che pertanto si rifiutano di seguitare a decollare e ad atterrare nel suddetto scalo. Da giugno in poi i reggini che desidereranno venire a Milano e poi tornare nella loro città saranno costretti a usare mezzi diversi dal jet: il treno (non quello ad alta velocità che laggiù non c'è), l'automobile o la carrozza di San Francesco, cioè i sandali. Vi rendete conto, cari lettori, che avanti di questo passo il Mezzogiorno precipiterà a livelli africani?
Vi pare una mossa intelligente sopprimere l'aeroporto nel capoluogo di una regione che non dispone di altre infrastrutture, visto che l'autostrada è un sentiero accidentato e la ferrovia è ottocentesca? Dato che il ponte tra Scilla e Cariddi non si può erigere, per compensare il buco togliamo anche l'aerostazione e che i reggini vadano a fare in culo, loro, la 'Ndrangheta e la 'nduja. Il ragionamento cretino prosegue. La Calabria ha una sola risorsa importante, il turismo, e noi ci attrezziamo per ucciderlo abbattendo gli aerei perché costano di più di quanto ricavano. Ecco come i nostri meridionalisti del piffero intendono incrementare l'economia del Sud. Non sanno poveri idioti che i trasporti sono un servizio oneroso, questo è pacifico, ma indispensabile per creare giri di affari e quindi ricchezza. Hanno condannato a morte la regione e ne piangono la salma. Sono scemi o delinquenti? Entrambe le cose. Ai calabresi tocca soltanto l'incombenza di ospitare e assistere profughi portatori di miseria, malattie e problemi sociali. E ci stupiamo che essi preferiscano la mafia allo Stato.
"Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Feltri, lo schiaffo a (certi) napoletani, scrive il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti.
Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiú sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Vittorio Feltri
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…
CHI DICE TERRONE E’ SOLO UN COGLIONE.
Chi dice Terrone è solo un coglione.
La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero.
L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
Così è sempre, così è stato a Pontida il 22 aprile 2017. Sono più di 1500 e molti di loro vestono la t-shirt “terroni a Pontida” o anche “terroni del Nord”. Sono accorsi a Pontida, in provincia di Bergamo, da tutta Italia, ma soprattutto da quella Napoli che l’11 marzo 2017 aveva ospitato Matteo Salvini, leader della Lega Nord che proprio qui a Pontida ha la sua roccaforte. «Abbiamo espugnato Pontida, questa terra considerata della Lega Nord. Siamo qui per raccontare che per noi non esistono i feudi della Lega Nord e del razzismo, vogliamo costruire ponti e lo facciamo con questa festa, che richiama l’orgoglio antirazzista e terrone», ha spiegato Raniero Madonna di Insurgencia a “La Stampa”. E mentre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris invita sui social i "terroni" a unirsi da Lampedusa a Pontida si pensa al bis. Il clou del concertone è la canzone "Gente d'ò Nord", brano che i 99 Posse hanno firmato con una serie di altri artisti che insieme hanno inciso un doppio cd con il nome di "Terroni uniti". "C'è tantissima gente. E' un bel posto - ha concluso Luca O'Zulú dei 99 Posse - perché non farlo diventare da simbolo della Lega a sede del Concerto Nazionale Antirazzista Migrante e Terrone?".
Un contro-concertone del Primo Maggio gratuito e dal sapore terrone con 10 ore di musica, interventi e colori degli artisti del Sud, scrive “La Repubblica” il 26 aprile 2017. In scena in piazza Dante, dalle 14 a mezzanotte, il festival dell'orgoglio antirazzista e meridionale che ha iniziato il suo tour a Pontida lo scorso 22 aprile. E in programma c'è una già terza tappa: Lampedusa. L'annuncio è arrivato dalla voce del sindaco de Magistris, durante una conferenza stampa che dal Comune si è spostata in piazza Municipio. "E' un progetto talmente bello - ha detto il sindaco - che lo riteniamo un progetto della città: ogni primo maggio si dovrà tenere nella capitale del Mezzogiorno un concerto che abbia come obiettivo i sud del mondo, i diritti, la solidarietà, l'antirazzismo, il lavoro e la lotta per la liberazione dei nostri popoli". Un Primo Maggio "terrone" perché "i terroni difendono il proprio territorio dai rifiuti, dalla malavita, dallo sfruttamento, dalla finanza predatoria". Ed è proprio sul palco del Primo Maggio che i Terroni Uniti continueranno il loro tour dopo Pontida, perché "a Napoli la festa dei lavoratori diventa la festa ribelle dei lavoratori a nero, dei lavoratori sfruttati, della manodopera dell'informale, delle vittime clandestine del caporalato".
Interverranno anche gli scrittori “Terroni uniti” come Maurizio de Giovanni e Antonello Cilento. Una maratona di musica e impegno sociale che avrà come tema il lavoro, la difesa dei diritti dei lavoratori, dei disoccupati e delle vittime del caporalato, e l'orgoglio meridionale.
Che figure di merda…più che terroni si è coglioni. Se già da sé ci si chiama terroni, cosa faranno chi li vuol denigrare?
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Il Terrone visto dai Polentoni, scrive Gianluca Veneziani. Dopo Vieni via con me è la volta di Sciamanninn, la versione terrona del programma di successo condotto da Fazio e Saviano. Anche in questo programma ci saranno degli elenchi. Ma non riguarderanno né i valori di destra, né quelli di sinistra, e tantomeno i 27 modi di essere gay. Avranno a che fare, piuttosto, con le caratteristiche tipiche di un meridionale. A stilare la tassonomia ci penserà un padano. Ecco allora il dodecalogo del terrone visto da un uomo del Nord. Terrone è:
Barbuto. Pregiudizio in voga soprattutto nei confronti delle donne. Si perpetua l’idea che le donne meridionali abbiano i baffi. Il pelo nell’ovulo riecheggia lo stato selvaggio e ferino del nostro Meridione.
Barbaro. Il terrone è considerato un ostrogoto. Per due ragioni: è rozzo, incurante di ciò che tocca e vede. E, quando apre bocca, non lo capisce nessuno. Credono che parli ostrogoto.
Barbone. Il meridionale è pensato come un mendicante, uno che questua soldi e vive a scrocco altrui. Magari un finto invalido che si mette agli angoli delle strade durante il giorno e la sera va a ballare con i soldi ricavati dall’elemosina.
Borbone. Pregiudizio storico. Il sudista è ancora assimilato alla vecchia dinastia pre-unitaria. Contribuiscono al cliché i cosiddetti neo-borbonici che, con grande tempismo, si fanno sentire adesso che l’Italia deve spegnere 150 candeline.
Lo sfaticato, che non vuole lavorare. Terrone non indica più la provenienza geografica, ma un’attitudine lavorativa. È terrone non chi viene dal Sud, ma chi sgobba poco. Il fannullone, il perdigiorno, chi lavora con lentezza. Fatto curioso, se si pensa che i terroni vanno al Nord, appunto, per lavorare. Ma il pregiudizio resta. Terùn, va a lavurà!
Il cafone, il tamarro, il che cozzalone. Fare una “terronata” significa fare una pacchianata, qualcosa di kitsch e di trash. Anche se chi la fa è un brianzolo, il nome “terrone” gli si appicca addosso.
Chi a colazione chiede cornetto ed espressino. Il barista lo guarda perplesso, senza capirlo. In Padania si dice brioche e marocchino. Occorre adeguarsi. Altrimenti vieni scambiato per un terrone o, peggio, per un marocchino.
Chi, il venerdì sera, fa il pendolare Nord-Sud e torna a casa in cuccetta, mentre i lumbard escono per fare l’happy hour Il terrone fugge dal Nord nel fine settimana: il sabato e la domenica va a consacrare le feste altrove.
Chi il lunedì mattina torna con lo stesso treno a Nord. Con un bagaglio però, pesante il doppio, perché la mamma lo ha caricato di tutte le sue delizie fatte in casa. Quella che si chiama “roba genuina”.
Chi al rientro in ufficio, offe ai colleghi specialità tipiche del suo Paese (magari le stesse che la mamma gli ha sbattuto in valigia). Una mia collega di Cava de’ Tirreni ci ha offerto mozzarelle di bufala campane. È stata festa grande, quel giorno.
Chi è legato alla terra, come dice il nome. Ama la terra, nel senso dei campi da coltivare: ama la terra, nel senso della propria terra; e ama la Terra, con la t maiuscola, perché il terrone è soprattutto un terrestre. Anche se qualcuno lo considera un extraterrestre.
Chi è legato al cielo. Il terrone è umile, cioè vicino all’humus, alla terra. Ma degli umili è il regno dei cieli.
Da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2010.
C’è sempre, però, chi è più terrone di un altro.
L’infelice battuta di Mandorlini. Il suo Verona giocò e vinse quella finale playoff contro la Salernitana, conquistando la serie B. Nel dopo partita si lasciò andare a frasi poco carine (Ti amo terrone…), che scatenarono una disgustosa rissa in sala stampa. E quando Agroppi, opinionista Rai, lo bacchettò in televisione invitandolo a chiedere scusa per aver offeso il Sud, replicò in modo beffardo: «Tu sei fuori dal mondo». Mandorlini, ravennate di nascita, ha giocato in sei squadre, Ascoli quella più a Sud. E allenato dodici club, più giù di Bologna non è mai sceso. Spesso comportamenti e dichiarazioni sono state tipiche del leghista, il suo capolavoro resta la festa promozione in B, ottenuta contro la Salernitana. Saltellava e ballava con i tifosi gialloblù cantando «Ti amo terrone»: festival del razzismo puro. Travolto da critiche e polemiche, fece spallucce. Qualche mese più tardi ci pensò un napoletano, Aniello Cutolo, a rispondergli per le rime a nome di tutti i terroni: giocava con il Padova, derby veneto a Verona, gol pazzesco del partenopeo da venticinque metri e di corsa ad esultare in faccia a Mandorlini: «Ti amo coglione».
“Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo”. Ve lo ricordate quel coro di Mandorlini? Beh di certo in pochi lo avranno dimenticato. Per questo ieri ne abbiamo scritto. E’ il simbolo di questo Paese dove in uno stadio si canta la Marsigliese per ricordare le vittime degli attentati di Parigi, poi un minuto dopo in quello stesso stadio si consente a quegli stessi tifosi di inneggiare il solito coretto “Vesuvio lavali col fuoco”. Certo, se poi un allenatore del Verona, che lavora in una città ad alto tasso di razzismo, soffia sul fuoco anziché cercare di educare la propria tifoseria, allora la battaglia è proprio persa. “Ti amo terrone”, “Lavali col fuoco”, “Napoli colera”. Per quanto tempo ancora vogliamo andare avanti in questo modo? Fatecelo sapere. Lo capiremo quando anche stavolta, l’ennesima, non arriverà nessuna sanzione realmente incisiva verso chi canta queste schifezze insopportabili.
Giovani padani: "Siamo invasi dai terroni", scrive Daniele Sensi su “L’Unità”. «Non è giusto, siamo invasi! Ovunque ti giri sei sommerso da ‘sti qui che vogliono comandare loro, mi fanno venire la nausea», sbotta una novarese. «Troppi, ce ne sono troppi, meglio con contarli», ribatte un utente di Mondovì. «Ce ne sono tanti, ma molti dei loro figli crescono innamorati del territorio in cui sono nati e cresciuti», replica un magnanimo iscritto ligure. Ennesimo dibattito su immigrazione e presunte invasioni islamiche? No. Il sito è quello dei Giovani Padani, e l'oggetto della discussione è quanti siano i meridionali residenti nel nord Italia. Non si tratta solo di un divertito passatempo: lamentando la mancanza di dati ufficiali («Purtroppo nessuno ha mai pensato di fare un censimento etnico in Padania, poiché siamo tutti "fratelli italiani"»), sul forum del movimento giovanile leghista con cura e dovizia vengono incrociate fonti diverse per tentare di fornire una risposta all'inquietudine che pare togliere il sonno ad alcuni simpatizzanti. Così, ricorrendo ad una terminologia allarmante e servendosi del censimento del 2001, delle analisi di alcuni studiosi dialettali e di quelle relative alle migrazioni interne del dopoguerra (con una certa approssimazione dovuta all'impossibilità di conteggiare con precisione i «meridionali nati al nord da genitori immigrati o da matrimoni misti padano-meridionali») alla fine, tenendo comunque conto «del tasso di fecondità dei centro-meridionali in base al quale è possibile stimare 3 milioni di discendenti meridionali nati in Padania, compresi i bambini nati da coppie miste», il verdetto è di «9 milioni di individui, tra centro-meridionali etnici e loro discendenti puri o misti». Una stima al ribasso secondo un utente milanese che arriva a denunciare, nelle statistiche, «la mancanza dei clandestini, cioè di quelli che sono qui di fatto ma non hanno domicilio o residenza padane». Dati eccessivamente gonfiati, al contrario, per un altro giovane lombardo, perché «credo proprio che il meridionale al nord, specie se sposato con una padana, figli meno rispetto al meridionale che sta al sud». Una ragazza di Reggio Emilia, invece, pare poco interessata a parametri e variabili: «Non so quanti siano, non mi interessa il numero, so solo che sono troppi e che stanno rovinando una zona che era un'isola felice. Girando per strada difficilmente si incontra un reggiano! Purtroppo stiamo diventando una minoranza e i meridionali la fanno da padrone».
La Lega, si sa, ha oramai ampliato il proprio bacino elettorale, pertanto pure un simpatizzante salernitano si inserisce nella conversazione, e, quasi invocando clemenza («Io sono meridionale ma amo la Lega e odio i terroni che vengono qui al nord per spadroneggiare e per rompere i coglioni»), finisce col cedere allo stesso meccanismo di autodifesa visto attivarsi durante la recente campagna mediatica e politica anti-rom, quando, per riflesso, non pochi cittadini rumeni quasi si sono messi rivendicare distinzioni etniche dai loro connazionali residenti nei campi nomadi, poiché nel gioco all'esclusione c'è sempre chi sta un po' peggio: «Certi meridionali non possono essere espulsi perché italiani, ma, se si potesse fare una bella barca, sopra ci metterei i meridionali che non lavorano e gli extracomunitari, che sono più bastardi dei meridionali». Qualche nordico animatore del forum non indugia nel mostrare comprensione e solidarietà al fratello salernitano, e si affretta a precisare come sia possibile ravvisare differenza tra "meridionali" e "terroni", spiegando che «terrone è colui che arriva e pensa di essere nel suo luogo di origine, e si comporta di conseguenza, tanto che nemmeno si offende se lo chiami terrone». Per taluni, addirittura, il luogo di origine non c'entra proprio nulla, perché «non è la provenienza che fa l'individuo, e nemmeno il sangue o il colore della pelle, ma unicamente l'atteggiamento». L'insistenza dei più ostinati («Se ne dicono tante sui cinesi ma sicuramente li rispetto più di certi meridionali o marocchini o slavi perché almeno lavorano e si fanno i fatti loro») incontra obiezioni dalle quali emergono ulteriori sfumature d'opinione tra i giovani padani, quelli più "cosmopoliti", coinvolti nella surreale disamina, tanto che tra essi diviene possibile distinguere tra filantropi («Di meridionali ne conosco tanti e tanti miei amici sono meridionali, per me un meridionale è colui che è venuto e lavora onestamente»), progressisti («Esempi di integrazione con il passare degli anni si fanno più frequenti, sono esempi da non snobbare ma anzi da far diventare casi di scuola: piano piano li integreremo»), e possibilisti («Un meridionale che lavora e interagisce con gli altri vale quanto un settentrionale»). Su tutti, però, inesorabile cade il richiamo ad un maggior pragmatismo da parte dei realisti: «Siete in ritardo di 40 anni, c'è bel altra gente che invade le nostre città, purtroppo!». Trascorso qualche giorno, sul forum viene avviata una nuova discussione: «Un test per capire a quale sottogruppo della razza caucasica apparteniamo». Un test scientifico, affidabile, perché «per una volta non ci si basa sul colore della pelle, dei capelli e degli occhi, ma sulla forma del cranio».
Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani, scrive Francesco Romano su “Onda del Sud”. Trento: “Terrone di merda”. Operaio reagisce all’insulto con un pugno: licenziato. Al centro della discussione fra l’uomo e il caporeparto un ritardo dopo una pausa. Il giudice ha dato ragione all’azienda. “Il Gazzettino.it” di Trento ha riportato la seguente notizia: - Il caporeparto dell’azienda trentina per la quale lavorava lo ha appellato “terrone di merda” e lui, un operaio di origini meridionali, ha reagito all’insulto con un pugno. Per questo è stato licenziato. Al centro della discussione c’era il presunto ritardo dell’operaio dopo una pausa. Al termine dell’accesa discussione, il caporeparto avrebbe mandato via l’operaio dicendo “terrone di merda”. L’operaio avrebbe così reagito sferrando un cazzotto contro il collega, raggiungendolo di striscio. Dopo dieci giorni è arrivato il licenziamento in tronco. Da qui la causa intentata dall’operaio. La sentenza di primo grado del giudice del lavoro di Trento ha dato ragione al caporeparto in quanto «non è possibile affermare anche nei rapporti di lavoro la violenza fisica come strumento di affermazione di sé, anche quando si tratti della mal compresa affermazione del proprio onore». Un concetto ribadito dalla sentenza d’appello che ribadisce come «la violenza fisica non può mai essere giustificata da una provocazione rimasta sul piano verbale». Questo è quello che accade nel profondo Nord. Se non è mobbing questo, che cos’è. “Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani” era una vecchissima battuta comica di Francesco Paolantoni. La violenza certamente non ci appartiene ma forse è arrivato il momento di rivoluzionare il significato delle parole. Passare da negativo ad uno positivo. Questa è la cultura leghista che si è affermata al Nord. Dobbiamo subire la discriminazione dell’emigrazione e ci è impedita l’integrazione in questa nazione proprio quando ci apprestiamo a festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
QUELLI CHE SON RAZZISTI…EVASORI E LADRI.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD. Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche “il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna, dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile»: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le “scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo?». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la “liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era “la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati “belli” del Nord e quelli “brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente “disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati “belli” del Nord restano del Nord; quelli “brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale», parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la “Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama “New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già “meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce “isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce “Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce “Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è “rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
Dalle mazzette ai diamanti, tutti i guai della Lega Nord. I conti sequestrati sono solo l'ultimo problema in ordine temporale del Carroccio. Che dalla tangente Montedison al crack della CrediEuroNord ha mostrato di essere ladrona non meno di altri partiti, scrive Susanna Turco il 2 ottobre 2017 su "L'Espresso". Dai conti sequestrati di oggi, indietro fino a Tangentopoli. Ecco come, nella Lega, la razza padana s’è mescolata in un quarto di secolo con la Roma ladrona. “Ladroni in casa nostra”, sintetizzava amaro nei primi anni Duemila un cartello delle valli bergamasche. Azzeccato? «Per amor di Dio sì». Nel gennaio 1994, interrogato dall’allora pm Antonio Di Pietro, il capo della Lega Umberto Bossi risponde così alle domande sui duecento milioni incassati dal tesoriere Alessandro Patelli come contributo alla campagna elettorale, provenienti dalla Montedison attraverso l’amministratore delegato Carlo Sama e, materialmente, Marcello Portesi. Patelli stesso l’aveva ammesso un mese prima, davanti ai militanti ad Assago, dandosi del pirla: «Ingenuità, stupidità, o pirlaggine: chiamatela come volete.». Ingenui, sempre. Stessa versione di Bossi davanti a Di Pietro: «Eravamo senza soldi, senza finanziamenti. Per amor di Dio». «Per amor di Dio si o per amor di Dio no?», domanda il magistrato. «Per amor di Dio sì», risponde Bossi. “Sono socio fondatore della CrediEuronord, e tu?”. Ecco lo slogan, con tanto di faccione di Bossi, nel manifesto che alla fine degli anni Novanta lancia la Popolare CrediEuronord, la banca padana per i padani. L’impresa scricchiola nel 2003, nel 2004 vien comprata da Giampiero Fiorani. Il quale, dalla galera, chiarirà poi di aver tentato il salvataggio affinché i leghisti cambiassero idea su Bankitalia e Antonio Fazio (sperava di ottenerne favori). Nel flop vengono coinvolti 3.500 soci, la banca dilapida venti milioni di euro in quattro anni. La sentenza assolve però i dirigenti leghisti coinvolti. La Lega si dichiara vittima del crac. E per anni lancia sottoscrizioni per risarcire i militanti.
Villaggi turistici. Tra i disastri finanziari negli anni Novanta a opera del tesoriere Maurizio Balocchi da Genova, il fallito tentativo di costruire un villaggio turistico nell’Istria croata: 14 ettari, 180 appartamenti, albergo, piscina, centro benessere, golf, porticciolo. Cento militanti padani sottoscrivono le azioni della Ceit srl, che doveva realizzare il tutto. Finisce in un crack spettacolare e seguente inchiesta per bancarotta fraudolenta. Catastrofe pure il successivo tentativo di buttarsi nel business delle sale da gioco, con la Bingo.net: per risarcire il danno, Balocchi dovrà vendere due case di proprietà.
The family. L’impareggiabile cartellina “The family” spuntata nel 2013 dalla cassaforte del tesoriere leghista alla Camera, che contiene la lista delle spese dalla famiglia Bossi, tra cui: quasi diecimila euro per l’operazione di rinoplastica del figlio Sirio, le multe di Renzo, la ristrutturazione della casa di Gemonio, la laurea albanese in gestione aziendale del Trota.
Parte lesa. Il tesoriere genovese Franco Belsito, allievo di Balocchi, alla vigilia di Capodanno 2012 fa partire da Genova il bonifico da 4,5 milioni di euro, destinati a finire in un fondo in Tanzania, svelando il giro di mega prelievi, operazioni offshore, movimenti di assegni, vorticosi giri tra Africa e Cipro, milioni di corone norvegesi e pacchi di dollari australiani. Si darà così il via al processo che ancora oggi dà filo da torcere al Carroccio. Nel quale il segretario Matteo Salvini spiega essere la Lega, ancora una volta, “parte lesa”.
Undici diamanti. Belsito ormai ex tesoriere, riconsegna alla Lega undici diamanti e dieci lingotti, facendoli trasportare da Genova a Milano nel bagagliaio della A6 prima a disposizione di Renzo Bossi. L’autista, il collaboratore leghista Paolo Cesati, arriva a via Bellerio e consegna l’automobile, direttamente.
Esclusivo: anche Matteo Salvini ha usato i soldi rubati da Bossi. L’attuale leader della Lega e Bobo Maroni hanno utilizzato una parte dei 48 milioni di euro frutto della truffa orchestrata dal Senatur e dall’ex tesoriere. Lo dimostrano le carte del partito tra la fine del 2011 e il 2014 che abbiamo consultato, scrivono Giovanni Tizia e Stefano Vergine il 2 ottobre 2017 su "L'Espresso". Cinque anni fa, quando tutto ebbe inizio, Umberto Bossi usò un’immagine biblica per spiegare il suo intento. «Ho fatto come Salomone: non ho voluto tagliare a metà il bambino», disse mentre si apprestava a lasciare le redini del partito a Roberto Maroni. Erano i giorni in cui i giornali pubblicavano le prime notizie sullo scandalo dei rimborsi elettorali leghisti, quelli incassati gonfiando i bilanci e usati per pagare le spese personali del Capo e della sua famiglia, come la laurea in Albania del figlio Renzo o le multe del primogenito Riccardo. Il senso della metafora bossiana era chiaro: piuttosto di dividere la Lega tra chi sta con me e chi contro di me, il Senatùr si diceva pronto a lasciare pacificamente il potere al suo storico rivale. Da allora in poi l’intento di chi è succeduto a Bossi, prima Maroni e oggi Salvini, è sempre stato quello di differenziarsi, di creare compartimenti stagni tra il partito dell’Umberto e quello di oggi, tanto che all’ultimo raduno di Pontida al fondatore non è stato nemmeno concesso il tradizionale discorso dal palco.
Gli immigrati al posto dei meridionali, il nazionalismo in sostituzione del secessionismo. Pure un nuovo marchio, Noi con Salvini, dotato di satelliti sparsi dal Centro al Sud e rappresentato da personaggi della destra, come in Calabria, o vecchi democristiani votati all’autonomia, come in Sicilia. Nuovi volti (per modo di dire) e nuovi ideali sostenuti con forza proporzionale all’incedere delle inchieste giudiziarie sui fondi elettorali. Se è vero che negli ultimi anni molto è in effetti cambiato all’interno del Carroccio, c’è qualcosa che è rimasto segretamente invariato. Roberto Maroni preferisce non dirlo, Matteo Salvini lo nega categoricamente. Insomma, gli eredi del Senatùr sostengono di non aver visto un euro di quegli oltre 48 milioni rubati da Bossi e Belsito. «Sono soldi che non ho mai visto», ha scandito di recente l’attuale segretario federale commentando la decisione del Tribunale di Genova di sequestrare i conti correnti del partito dopo la condanna per truffa di Bossi. I documenti ottenuti da L’Espresso dimostrano però che esiste un filo diretto tra la truffa firmata dal fondatore e i suoi successori. Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati. Per scoprire i retroscena di questo intrigo padano bisogna tornare al 5 aprile del 2012. E tenere a mente le date. Quel giorno, a poche ore dalla perquisizione della Guardia di Finanza nella sede di via Bellerio, a Milano, Bossi si dimette da segretario del partito. È la prima scossa del terremoto che sconvolgerà gli equilibri interni alla Lega.
A metà maggio diversi giornali scrivono che a essere indagato non è solo il tesoriere Francesco Belsito, ma anche il Senatùr. Il reato ipotizzato è quello di truffa ai danni dello Stato in relazione ai rimborsi elettorali. Il primo di luglio Maroni viene eletto nuovo segretario del partito. E quattro mesi dopo, il 31 ottobre, passa per la prima volta alla cassa. Come certifica un documento inviato dalla ragioneria del Senato alla Procura di Genova, quel giorno l’attuale governatore della Lombardia riceve 1,8 milioni di euro. È il rimborso che spetta alla Lega per le elezioni politiche del 2008, quelle vinte da Berlusconi contro Veltroni. Il primo di una lunga serie. Da qui in poi a Maroni verranno intestati parecchi bonifici provenienti dal Parlamento. A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo avrà così ricevuto 12,9 milioni di euro. Tutti rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato. Che cosa cambia quando Salvini subentra a Maroni? Niente, se non le cifre. A metà dicembre del 2013 Matteo viene eletto segretario del partito. L’inchiesta sui rimborsi elettorali intanto va avanti, e a giugno del 2014 arrivano le richieste di rinvio a giudizio: i magistrati chiedono il processo per Bossi. Un mese e mezzo dopo, il 31 luglio, Salvini incassa 820mila euro di rimborsi per le elezioni regionali del 2010. Perché allora il segretario della Lega e aspirante candidato premier per il centro-destra continua a sostenere che lui quei soldi non li ha mai visti? E se li ha visti, come poteva non sapere che erano frutto di truffa? Due mesi dopo aver incassato gli oltre 800 mila euro, Salvini e la Lega si costituiscono infatti parte civile contro i compagni di partito. Si sentono vittime di un imbroglio, di una truffa che ha sfregiato il vessillo padano. E vogliono essere risarciti. La nuova dirigenza è dunque consapevole della provenienza illecita del denaro accumulato sotto la gestione di Bossi. Ma il 27 ottobre, solo venti giorni dopo l’annuncio di costituirsi parte civile, Salvini fa qualcosa che appare in netta contraddizione con quella scelta: ritira altri soldi. Questa volta la somma è piccola, poco meno di 500 euro: l’ultima tranche di rimborso per le elezioni regionali del 2010. La sostanza però non cambia. Sono denari ottenuti con la rendicontazione gonfiata firmata da Belsito. Fatto di cui a quel punto è dichiaratamente convinto anche Salvini. Il quale, due giorni dopo l’ultimo prelievo, riceve persino una lettera dallo storico avvocato di Bossi, Matteo Brigandì. «Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato», si legge nella missiva con la quale la vecchia guardia lancia un messaggio chiaro al nuovo gruppo dirigente: voi ci accusate di aver rubato quattrini, allora sappiate che i soldi che avete in cassa sono il profitto della truffa, e usarli vuol dire diventare complici del reato.
Il denaro, più che l’ideologia, è dunque il collante tra l’epoca di Bossi, l’interregno di Maroni e il presente firmato Salvini. Le tre età del partito della Padania intrecciate attorno a una vicenda che tutti vogliono dimenticare in fretta. Talmente in fretta da ritirare persino la costituzione di parte civile davanti al giudice. Già, perché solo un mese dopo essersi dichiarato vittima della truffa targata Bossi-Belsito, Salvini fa marcia indietro. Come a dire: chiudiamola qua, scordiamoci il passato e andiamo avanti. Una scelta travagliata, non da tutti condivisa. All’interno della Lega, infatti, nei primi mesi del 2014, c’era chi voleva mostrare pubblicamente la rottura col passato. Altri, invece, parteggiavano per la politica della rimozione. In questo contesto matura l’accordo di conciliazione” con l’avvocato di Bossi, nel quale la Lega rinuncia a costituirsi parte civile. A un patto però: il legale di fiducia del Senatùr avrebbe dovuto accantonare ogni pretesa di denaro che il partito gli doveva, circa 6 milioni di euro. Infine, a Bossi sarebbe andato un lauto vitalizio. Tutto risolto, dunque? Macché. Salvini e Maroni vengono meno al patto. E danno mandato all’avvocato Domenico Aiello, legale del governatore lombardo, di procedere con la costituzione di parte civile. Uno smacco al vecchio amico Bossi, a cui poco dopo segue un altro colpo di scena. A novembre durante l’udienza preliminare contro B&B, Aiello ritira l’atto di costituzione. In pratica la Lega non chiede più i danni per la truffa. Un’idea di Salvini, motivazione ufficiale: «Non abbiamo né tempo né soldi per cercare di recuperare soldi che certa gente non ha», spiegò l’europarlamentare appena eletto segretario del Carroccio. Una mossa che sorprese persino il governatore della Lombardia, Maroni, che con Aiello aveva fatto il possibile per chiedere i danni agli imputati leghisti. La sensazione di chi il partito lo frequenta da venti e passa anni è che sia stata una ritirata strategica, per rappacificare le opposte fazioni ed evitare rivelazioni scomode. Soprattutto in merito ai soldi lasciati in cassa da Bossi, quelli finiti al centro delle inchieste di tre procure.
I bilanci della Lega raccontano, infatti, meglio di qualsiasi dichiarazione politica che cosa è successo in questi anni ai soldi dei Lumbard, o meglio di tutti i contribuenti italiani. Il primo dato evidente è che le cose andavano molto meglio, almeno dal punto di vista finanziario, quando sulla plancia di comando c’era Bossi. Con lui al vertice i bilanci degli ultimi anni si sono infatti chiusi sempre in positivo. Le cose cambiano nel 2012, quando arriva Maroni: per la prima volta la Lega chiude i conti in rosso, con una perdita di 10,7 milioni di euro. L’anno seguente, il primo interamente firmato da Bobo, le cose vanno persino peggio: il bilancio evidenzia una perdita di 14,4 milioni. Colpa della diminuzione dei rimborsi elettorali e del calo delle donazioni private, si legge nei resoconti padani. Ma non è solo questo. Nonostante i dipendenti diminuiscano, i costi sostenuti dalla Lega aumentano. In particolare alcune voci, come quella denominata “spese legali”, per cui il partito arriva a sborsare oltre 4,3 milioni di euro tra il 2012 e il 2014. Un bella somma, oltretutto senza neppure essersi costituita parte civile nel processo contro Bossi e Belsito. Com’è possibile allora aver speso tutti quei soldi in avvocati? I bilanci non lo spiegano, ma un documento ottenuto da L’Espresso aiuta a capire meglio come sono andate le cose. È un contratto datato 18 aprile 2012. Bossi si è dimesso da due settimane e il Carroccio è retto dal triumvirato Maroni-Dal Lago-Calderoli. Sono loro ad affidare la consulenza legale allo studio Ab di Domenico Aiello, già avvocato personale di Maroni e in ottimi rapporti con il magistrato milanese che sta seguendo l’inchiesta, Alfredo Robledo. Nel contratto si specifica che la consulenza riguarderà proprio i procedimenti penali che coinvolgono Bossi e i rimborsi truccati. Si tratta delle indagini in corso a Milano, Napoli, Genova e Reggio Calabria, ciascuna segnalata con il relativo numero di fascicolo. Un lavoro ben pagato: per Aiello la tariffa sarà di 450 euro all’ora, costo che sale a oltre 650 euro se si aggiungono - come da prassi - spese generali, contributi previdenziali e imposte. Insomma non male per l’avvocato calabrese che, qualche anno dopo, Maroni piazzerà nel consiglio d’amministrazione di Expo, mentre la moglie, Anna Tavano, finirà per un periodo in Infrastrutture Lombarde, società controllata direttamente dalla Regione. Va detto che Aiello, così come la moglie, ha un curriculum di tutto rispetto. Tra i suoi clienti più celebri, oltre a Bobo Maroni spicca l’ex presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua. Poi ci sono gli incarichi negli organismi di vigilanza: Consip, Siemens, Conbipel, Veolia e la Sparkasse di Bolzano. In quest’ultima banca il presidente del Consiglio di amministrazione si chiama Gerhard Brandstätter. Brillante avvocato del Sudtirolo, che con Aiello, nel 2011, ha fondato lo studio associato AB, lo stesso scelto dalla Lega. Con Maroni traghettatore, le camice verdi apriranno anche un conto “easy business” e un conto deposito presso la banca altoatesina, depositando in totale qualche milioncino. È il periodo in cui si tentava di mettere al sicuro il patrimonio del partito, dalle cordate bossiane e forse anche dai giudici. Matura così l’idea, poi tramontata, di creare un trust in Sparkasse per blindare quasi 20 milioni. I bilanci non confermano solo questo. Spiegano anche perché oggi i conti del partito sono a secco. E quale la strategia scelta per evitare il sequestro effettivo dei soldi. Nel 2015, quando è Salvini a comandare, la ricchezza della Lega cala, infatti, vistosamente. Il patrimonio netto passa da 13,1 milioni dell’anno precedente a 6,7 milioni. Il motivo è spiegato chiaramente nella relazione sulla gestione finanziaria: i soldi del partito sono stati trasferiti alle sezioni locali, 13 in tutto, dotate nel frattempo di codici fiscali autonomi. È così ad esempio che due giorni prima di Natale la sezione Lombardia, fino ad allora sprovvista di risorse finanziarie, diventa titolare di un patrimonio da 2,9 milioni di euro. Custoditi per lo più su conti correnti bancari e postali. Una partita di giro, insomma. Il risultato? Al termine del 2016 la Lega aveva una disponibilità liquida di soli 165mila euro, mentre le sue 13 sezioni locali messe insieme registravano somme per 4,3 milioni. La nuova architettura finanziaria non ha però impedito ai magistrati di sequestrare le ricchezze del Carroccio. Come ha dichiarato lo stesso Salvini, al momento non è stato bloccato il conto corrente della Lega nazionale, ma quelli delle sezioni locali. «Un punto su cui daremo battaglia in sede legale», assicura una fonte del Carroccio che non vuole essere nominata. C’è però ancora una questione da risolvere. Il tribunale di Genova, nei giorni scorsi, ha deciso di bloccare il sequestro. I giudici hanno annunciato di aver congelato poco meno di 2 milioni. Eppure, come detto, alla fine dell’anno scorso sui conti della Lega c’erano 4,3 milioni. Mancano dunque all’appello oltre 2 milioni. Possibile che la Lega li abbia spesi in questo 2017. O anche che siano stati trasferiti su altri conti. Un’ipotesi, questa, impossibile da verificare. Perché “Noi con Salvini”, il movimento creato tre anni fa dal nuovo leader del Carroccio per conquistare il Centro-Sud, non ha mai pubblicato un bilancio. Dubbi e interrogativi sollevati dai nemici interni del leader in felpa. Salvini potrà dire che a lui certe questioni “politichesi” non interessano e che preferisce parlare di immigrazione, euro, lavoro. Ma all’interno del suo partito i bossiani non dimenticano. E i mal di pancia iniziano a diventare veri e propri tumulti silenziosi. Pare che siano persino pronti a muoversi autonomamente per le prossime elezioni politiche. Una forza che ruberebbe al Capitano il 2-3 per cento. Del resto non è facile disfarsi del Senatur, fu il primo a dare avvio a una tipica usanza leghista: scaricare i compagni di partito che osavano mettere in dubbio la sua autorità. Bossi fece così con l’ideologo della secessione Gianfranco Miglio. Con la stessa moneta lo hanno ripagato Maroni e Salvini. E ora sotto a chi tocca.
LA QUESTIONE MERIDIONALE.
Questione meridionale. Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà. Questa è una voce tematica: trovi la fonte di ogni citazione nella voce dell'autore. Citazioni sulla questione meridionale.
Amendola ha toccato nel suo intervento la grande e difficile questione dell'unità da realizzare tra disoccupati e occupati. Sono pienamente d'accordo che la realizzazione di tale unità è un obiettivo decisivo: se si determina una frattura tra occupati e disoccupati, tutta la battaglia per un nuovo sviluppo subisce un colpo. Perciò la questione del Mezzogiorno ancora ha carattere centrale. (Pietro Ingrao)
Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C'è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl'intimi legami che corrono tra il benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale. (Giustino Fortunato)
Ci siamo rotti i coglioni dei giovani del Mezzogiorno, che vadano a fanculo i giovani del Mezzogiorno! Al Sud non fanno un emerito cazzo dalla mattina alla sera. Al di là di tutto, sono bellissimi paesaggi al Sud, il problema è la gente che ci abita. Sono così, loro ce l'hanno proprio dentro il culto di non fare un cazzo dalla mattina alla sera, mentre noi siamo abituati a lavorare dalla mattina alla sera e ci tira un po' il culo. (Matteo Salvini)
«È questo il momento in cui la stessa collera della natura scatenata sul Mezzogiorno dà un tono perentorio alla protesta delle popolazioni meridionali. Le quali, ed è qui la novità, non vogliono elemosine, provvidenze paternalistiche che ripugnano alla loro coscienza civile e politica. Conoscendo i limiti del proprio diritto, e misurando su quei limiti, senza alcuno zelo servile, il loro dovere, le popolazioni meridionali vogliono soltanto quel che loro spetta come facenti parte della famiglia italiana, nella quale, con l'Unità, si sono illuse di entrare a parità di diritti, non avendone che lo sfruttamento e la degradazione. Tutto questo è stato reso possibile dal tradimento della classe politica che aveva in mano le sorti del Mezzogiorno. La borghesia terriera del Sud accettò lo sfruttamento perpetrato dal protezionismo industriale del Nord per avere, in cambio, qualche posticino nel branco delle maggioranze governative, il possesso indisturbato della terra e la continuità dell'oscurantismo. «In omaggio alla verità, nostra sola padrona, aggiungeremo che, al banchetto protezionista, se pur prendendo solo le briciole, parteciparono alcune aristocrazie operaie del Nord portate dalla dinamica di classe a realizzare migliori salari, anche se ottenuti con una maggiorata soffocazione economica delle popolazioni rurali del Sud. […] La Questione Meridionale è tutta la questione italiana. Se la piaga della degradazione non si chiude, la cancrena che potrebbe seguirne non minaccerebbe solo la distruzione della parte malata ma l'intero organismo nazionale. […]» (Leonida Rèpaci)
Giolitti amministrò il flusso delle rimesse migratore con un criterio tuttora sub judice: per Gaetano Salvemini, veemente accusatore del "ministro della malavita", ingrassò cinicamente il Nord a spese del Mezzogiorno, rendendo cronica e insolubile la "questione meridionale". (Paolo Pavolini)
Giuliano Procacci e Rosario Villari che hanno parlato nell'ultima tornata dei lavori [incontro culturale bilaterale di Oxford], si sono preoccupati di rintracciare gli elementi unificati della storia d'Italia. Entrambi hanno posto l'accento sulla esistenza di un forte dato di continuità rintracciabile nella presenza, a tutt'oggi, di vecchi problemi e annosi equilibri: la questione meridionale con il divario fra nord e sud – Ginsborg e Davies hanno parlato addirittura di «una nazione» e di «due paesi»: uno arretrato il Mezzogiorno ed uno avanzato il nord – la questione agraria, il rapporto città-campagna situato nel contesto europeo. (Piergiovanni Permoli)
I vecchi governi hanno inventato, allo, scopo di non risolverla mai, la questione meridionale. Non esistono questioni settentrionali o meridionali. Esistono questioni nazionali. (Benito Mussolini)
[Guerra al brigantaggio in Calabria] Il racconto dei pochi mesi di quell'inverno 1863 registra atrocità da una parte e dall'altra. Sì, questi soldati mandati in un mondo arretrato di cui non capiscono la lingua e non conoscono gli usi, le tradizioni, le credenze, ricordano i militari americani in Vietnam, Afghanistan, Iraq. E c'è un'altra concordanza: l'aver sciolto l'esercito borbonico e rimesso in libertà quei soldati fornì ai ribelli un'enorme massa di sbandati. Un po' come è successo in Iraq con l'esercito di Saddam (Luigi Guarnieri)
Il ruolo, cui l'energia nucleare sarà chiamata nell'economia del Mezzogiorno, è fondamentale, perché essa, mettendo a disposizione in un futuro ormai prossimo quantitativi di energia notevoli a basso prezzo e senza aggravi notevoli per la bilancia dei pagamenti, permetterà di avviare a definitiva soluzione la «questione meridionale» e consentirà l'inserimento del Mezzogiorno nella più vasta comunità italiana ed europea, in condizioni di parità. Perché se il Mezzogiorno è povero di risorse naturali, energetiche e minerarie, mediante l'energia nucleare esso potrà e dovrà crearsi un'industria, segnatamente produttrice di beni di consumo e, attraverso un programma pianificato a lunga scadenza, potrà inserirsi nello sforzo produttivo dell'Europa riscattando il proprio peccato d'origine. Quando ciò sarà realizzato, se avremo le capacità e la disciplina di realizzarlo, potremo dire che il genio dell'uomo avrà vinto una grande battaglia contro le forze avverse della natura e allora finalmente «Cristo non si è fermato a Eboli». (Felice Ippolito)
Il Sud puzza. Puzza da morire di cancro, di leucemia, di polmoni, di malattie genetiche. Puzza un po' ovunque: nella Piana del Volturno, a Taranto, a Gela, a Priolo e Augusta, a Brindisi e in Val d'Agri. Puzza di monnezza accatastata da decenni, di scarti dell'industria petrolifera e di quella della produzione di cemento, di residui gassosi e no della chimica di trasformazione, di fumi di altiforni per fare l'acciaio e di rifiuti tossici interrati o bruciati illegalmente. Con quella puzza si campa male e si muore troppo. (Pino Aprile)
L'ambiente fisico del Mezzogiorno d'Italia costituisce, per ragioni geografiche e geologiche, il presupposto naturale di quel complesso di problemi economici e sociali sinteticamente indicati con l'espressione «questione meridionale». Fin da quando, sullo scorcio del secolo scorso, una serie di insigni meridionalisti, tra i quali emerge Giustino Fortunato, affrontò lo studio sulla «questione», venne dissolta la leggenda di un Mezzogiorno ricco e altamente produttivo, perché difatti, dietro le cortine ubertose della Terra di lavoro o della Conca d'oro, si succedono montagne aspre e dirute, terreni secchi e franosi, poggianti su di un sottosuolo povero di risorse naturali, energetiche o minerarie. (Felice Ippolito)
L'euro al Sud non se lo meritano. La Lombardia e il Nord l'euro se lo possono permettere. Io a Milano lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia e ha bisogno di un'altra moneta. L'euro non se lo può permettere. (Matteo Salvini)
L'Italia meridionale le ha fatte tutte [le guerre], considerandole un'evasione e una breccia per l'emigrazione. Ora l'Italia meridionale tenta un'evasione interna [...] meridionalizza la nazione. (Corrado Alvaro)
La Padania è una realtà politica, culturale ed economica ben nota in tutto il mondo, anche se la classe politica stracciona del Mezzogiorno finge di non saperlo, mentre per noi il Meridione esiste solo come palla al piede, che ci portiamo dolorosamente appresso da 150 anni. (Mario Borghezio)
La questione meridionale è così difficilmente solubile, perché costituzionale, di clima. Anzi, non è una questione; è un modo – che vale un altro – di essere. (Umberto Saba)
La questione meridionale è una questione economica, ma è anche una questione di educazione e di morale. (Francesco Saverio Nitti)
Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti. (Antonio Gramsci)
Napoli e la Basilicata sono dunque i due estremi della questione meridionale: la città popolosissima e la campagna spopolata. (Francesco Saverio Nitti)
Noi sotto lo stesso tricolore, dalle Alpi fino al mare, | ma se diventiamo una questione? | La questione è meridionale. (Eugenio Bennato)
Non lo dimentichiamo: esistono treni rapidi che «avvicinano» Torino (o Düsseldorf) al meridione, c'è la televisione che invia messaggi di... unità attraverso i presentatori e le acconciature delle belle annunciatrici, c'è il cinema, ci sono anche i libri e i rotocalchi (senza contare l'azione più specificamente politica dei partiti governativi e delle opposizioni)... Pure non si sfugge all'impressione che il Mezzogiorno resti ancora e in larga parte la terra solitaria e difficile, talvolta incomprensibile, che Abba e gli altri – le armi in pugno – vennero a scoprire e a «ricondurre» all'Italia vincendo, com'è noto, molte e cruente e gloriose battaglie ma in definitiva perdendo la loro guerra liberatrice. [...] non è una affermazione che si faccia a cuor tranquillo, giacché resta comunque incomprensibile come un secolo così complesso di tragedie e di sommovimenti possa aver lasciato tanta parte del Mezzogiorno ferma ed estranea. Come è possibile questo? Se appena però ci si rifiuta di limitare il ragionamento alle modifiche più evidenti e naturali del costume meridionale (del resto molto limitate per esempio nei paesi dell'interno) e si bada invece al crescente dislivello nello sviluppo economico e culturale del sud rispetto alle altre regioni italiane (dislivello paurosamente cresciuto negli ultimi dieci anni) si deve ammettere come un dato della situazione italiana la perdurante «estraneità» del sud rispetto al resto della Nazione. Né vi può ormai essere alcuno disposto seriamente a imputare questo ai meridionali in genere e non al blocco industriale-agrario che ha guidato secondo il proprio interesse la Nazione determinando per il Mezzogiorno una funzione e un destino coloniali. (Aldo De Jaco)
Questione meridionale. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C'è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl'intimi legami che corrono tra il benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale.» (Giustino Fortunato). La dizione questione meridionale indica, nella storiografia italiana, la situazione di difficoltà del mezzogiorno d'Italia rispetto alle altre regioni del Paese. Utilizzata la prima volta nel 1873 dal deputato radicale lombardo Antonio Billia, intendendo la disastrosa situazione economica del Mezzogiorno in confronto alle altre regioni dell'Italia unita, viene adoperata nel linguaggio comune ancora oggi.
L'origine delle differenze economiche e sociali tra le regioni italiane è da tempo controversa, anche a causa delle relative implicazioni ideologiche e politiche. La corrente storiografica maggioritaria sostiene che le differenze tra le diverse aree della penisola fossero già molto marcate al momento dell'unità: l'agricoltura intensiva della pianura Padana, l'impulso alla costruzione di strade e ferrovie del Piemonte, e il ruolo del commercio e della finanza vengono contrapposti all'impostazione che caratterizzava il Regno delle Due Sicilie. Altre correnti storiografiche, invece, tendono a valorizzare l'originalità del sud e ad attribuirne l'impoverimento alle politiche perseguite dal nuovo stato unitario. Secondo Francesco Saverio Nitti, tra il 1810 e il 1860, mentre stati come Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Germania, Belgio conobbero il progresso, l'Italia preunitaria ebbe grandi difficoltà di crescita, dovute in gran parte a diverse problematiche come le ribellioni intestine e le guerre d'indipendenza. La situazione era anche aggravata dalla malaria, che affliggeva soprattutto il Meridione. Nitti, riteneva che, prima dell'unità, non vi erano marcate differenze economiche a livello territoriale e in ogni zona dell'Italia preunitaria si sentiva la scarsità di grandi industrie: «Prima del 1860 non era quasi traccia di grande industria in tutta la penisola. La Lombardia, ora così fiera delle sue industrie, non avea quasi che l'agricoltura; il Piemonte era un paese agricolo e parsimonioso, almeno nelle abitudini dei suoi cittadini. L'Italia centrale, l'Italia meridionale e la Sicilia erano in condizioni di sviluppo economico assai modesto. Intere province, intere regioni eran quasi chiuse ad ogni civiltà.» Secondo quanto esposto da Denis Mack Smith nella sua opera Storia d'Italia dal 1861 al 1998, a partire dal 1850, il Piemonte di Cavour era guidato da un'élite liberale che impresse una radicale accelerazione, con lo scopo dichiarato di confrontarsi con le maggiori potenze europee. Il codice civile venne riformato sul modello di quello francese, più avanzato ma decisamente centralista. Venne fondata una nuova banca per fornire credito alle imprese industriali e vennero ridotti significativamente i dazi, in media del 10%, da confrontare con anche il 100% presente nel Sud. Vennero inviati tecnici in Inghilterra per studiare l'industria bellica, e venne dato un forte sviluppo alle infrastrutture: il canale Cavour, iniziato nel 1857, rese fertilissima la regione di Vercelli e Novara, le ferrovie vennero ampliate tanto che nel 1859 il Piemonte possedeva metà del chilometraggio dell'intera penisola, e dal 1868, la ferrovia del Moncenisio (dal 1871 rimpiazzato dalla galleria del Fréjus) permise presto di raggiungere Parigi in un solo giorno di viaggio. Nitti sostenne che tale trasformazione comportò ingenti spese pubbliche che condussero il regno sardo verso una profonda depressione finanziaria, poiché molti lavori pubblici si rivelarono improduttivi. Secondo Nitti la situazione del Regno di Sardegna, per scongiurare il fallimento, poteva essere risolta solo «confondendo le finanze piemontesi a quelle di altro stato più grande». Viene generalmente riconosciuto come, nel clima di restaurazione successivo ai moti siciliani del 1848 il Regno delle due Sicilie perseguisse una politica conservatrice. Il governo borbonico, secondo Mack Smith, ricalcava un modello aristocratico, basato su livelli inferiori di tasse e basse spese per le infrastrutture. La politica economica era paternalista: la produzione interna era protetta da alti dazi per l'importazione delle merci e il prezzo degli alimenti era tenuto basso dalla proibizione di esportare il grano, mentre la proprietà della terra era concentrata tra pochi possidenti che la tenevano a latifondo, o tenuta a Manomorta dalla Chiesa, mentre valevano ancora diritti feudali di decima e di fruizione pubblica di terreni comunali. Nitti valutò che il sistema adottato dai Borbone fosse dovuto ad una mancanza di vedute, ad un rifiuto di guardare al futuro, un principio da lui giudicato gretto e quasi patriarcale, ma che, allo stesso tempo, garantiva una «grossolana prosperità, che rendeva la vita del popolo meno tormentosa di ora». Le cause del problema meridionale vanno comunque ricercate nelle numerose vicende politiche e socio-economiche attraverso le quali il Meridione è passato nei secoli: nella mancanza di un periodo comunale, suscitatore di energie spirituali e produttive; nella persistenza di monarchie straniere incapaci di creare uno stato moderno; nel dominio plurisecolare di un baronaggio, geloso detentore di tutti i privilegi; nella persistenza del latifondo; nella mancanza di una classe borghese, creatrice di ricchezza ed animatrice di nuove forme di vita politica; nella dominazione spagnola, nefasta e corruttrice. Particolare importanza ebbe la quasi sistematica alleanza tra monarchie straniere e nobiltà sulla base del mantenimento del regime feudale; essa, oltre ad alimentare i privilegi di classe, determinò una mentalità statica, un'atmosfera di servilismo che contribuì molto all'ignoranza e alla miseria del popolo. Tale alleanza impedì la formazione di una borghesia attiva, intraprendente. La durata di vita media era di diversi anni inferiore al sud rispetto al nord ed esisteva un'incidenza maggiore di malnutrizione e sottoalimentazione.
Per interpretare correttamente la situazione economica e sociale, bisogna considerare che il Regno non era una realtà uniforme al proprio interno, e che anzi le differenze regionali erano più marcate di quelle dell'Italia moderna. In generale, la ricchezza aumentava dall'entroterra alle coste, e dalle campagne alla città. Napoli era tra le prime città d'Europa per popolazione e la sua provincia (forte anche delle rendite del governo e della corte) poteva competere con le province più sviluppate del nordovest mentre esistevano aree estremamente povere, come l'entroterra calabrese, siciliano e lucano. La Sicilia costituiva un caso a parte: la fine dei moti del '48 ne aveva ristabilito la riunificazione con il resto della penisola, tuttavia l'indipendentismo continuava ad essere forte e sarebbe stato determinante nel sostegno allo sbarco garibaldino. La situazione dell'Italia preunitaria era, in genere, svantaggiata rispetto quella degli altri Stati dell'Europa occidentale e decisamente povera rispetto agli standard attuali. In un paese relativamente sovrappopolato e povero di materie prime, l'economia era profondamente basata sull'agricoltura. Dei 22 milioni di abitanti registrati dal censimento del 1861, 8 erano occupati nell'agricoltura, contro i 3 occupati nell'industria e nell'artigianato. Oltretutto, di questi l'80% circa erano donne occupate solo stagionalmente. Secondo la visione tradizionale, il livello di produttività delle differenti regioni era però radicalmente diverso, sia per cause naturali che per le tecniche adottate. La natura del territorio meridionale riduce la disponibilità e la regolarità delle acque riducendo le possibilità di coltivazione. Il secolare disboscamento e la mancanza di investimenti per la cura del territorio e la canalizzazione facilitavano l'erosione e il permanere di paludi anche molto estese, come quelle Pontine o del Fucino. In diverse zone Le malattie infettive portate dalle zanzare anofele spingevano le popolazioni a ritirarsi sulle colline. Mack Smith ritiene che nel Regno delle due Sicilie il metodo di coltivazione era basato sul sistema feudale: latifondi coltivati da braccianti producevano grano per il solo autoconsumo. Gli aristocratici che li possedevano non vivevano nei loro possedimenti e trovavano disdicevole occuparsi della loro gestione. Di conseguenza non avevano interesse a investire nel migliorare le tecniche produttive o in colture più redditizie come l'ulivo o i frutteti, che potevano diventare produttivi anche dopo una decina di anni, preferendo la coltivazione annuale del grano, anche su terreni inadatti: nel 1851 Nassau Senior notava come in Sicilia la produzione per ettaro fosse invariata fin dai tempi di Cicerone. I prezzi risultanti erano alti, e assieme alle barriere doganali scoraggiavano il commercio. La vita dei braccianti, secondo Mack Smith, era ben misera: la malaria, i briganti e la mancanza d'acqua costringevano le popolazioni ad ammassarsi in villaggi che distavano anche una ventina di chilometri dalle zone in cui esse lavoravano. L'analfabetismo era pressoché completo, e ancora nel 1861 esistevano luoghi in cui l'affitto, le decime al parroco, la "protezione" dei campieri venivano pagati in natura. La disoccupazione era diffusa, tanto che osservatori dell'epoca riportarono come un contadino del Sud guadagnasse la metà di un suo equivalente del Nord nonostante i salari fossero paragonabili. Al contrario il nordest del paese avrebbe almeno in parte recepito le tecniche della rivoluzione agricola del nord Europa, introdotte nel corso delle campagne napoleoniche. L'agricoltura era praticata da fattori nel Nord e da mezzadri in Toscana, e alimentata dai capitali delle città, che agivano come centri finanziari. La legislazione delle acque era più avanzata e l'intensa canalizzazione permetteva la cultura intensiva del riso, che poteva essere esportato. Per quanto riguarda l'industria, al momento dell'Unità era costituita soprattutto una serie di attività artigianali al servizio delle élite. L'Italia, è infatti un paese di seconda industrializzazione, perché la mancanza di materie prime (ferro e carbone) ne hanno rallentato lo sviluppo industriale fino a circa il 1880. Parallelamente, il basso costo del lavoro, la difficoltà di accesso ai capitali e la mancanza di esperienza tecnica scoraggiavano l'acquisto di macchinari dall'estero per sostituire il lavoro manuale.
Faceva parziale eccezione la tessitura meccanizzata, diffusa dal 1816 soprattutto nel nordovest, più ricco di corsi d'acqua, e che con l'arrivo del telaio a vapore avrebbe costituito la base di un capitalismo industriale diffuso. I principali prodotti da esportazione erano la lana e la seta lombarde e piemontesi, seguiti dallo zolfo siciliano, utilizzato per la polvere da sparo. Tuttavia Mack Smith, nell'opera Il Risorgimento italiano, sostiene che «in molte industrie lombarde non veniva osservata la legge sull'istruzione obbligatoria e due quinti degli operai dell'industria cotoniera lombarda erano fanciulli sotto i dodici anni, per la maggior parte bambine, che lavoravano dodici e persino sedici ore al giorno». Nell'estrazione dello zolfo erano impegnati importanti capitali inglesi, e sarebbe rimasto rilevante per l'economia Siciliana fino all'affacciarsi della concorrenza degli Stati Uniti. Il Sud non era privo di industrie: vengono spesso citate a titolo di esempio le Officine di Pietrarsa, la ferriera di Mongiana e i cantieri navali di Castellamare di Stabia, fortemente volute dalla Corona in quanto strategiche per ridurre la dipendenza dalle importazioni inglesi. Il loro impatto sull'economia globale del Regno dev'essere però considerato limitato. Nel campo dei trasporti vennero conseguiti alcuni primati sorprendenti, come la prima nave a vapore in Italia e il primo ponte di ferro. Ma all'investimento in strade e ferrovie, reso difficile dall'entroterra collinoso, venne soprattutto preferito il trasporto marittimo, facilitato dalla significativa estensione delle coste tanto che la flotta mercantile borbonica divenne la terza in Europa per numero di navi e per tonnellaggio complessivo, anche se la marina mercantile degli altri stati pre-unitari del nord aveva un tonnellaggio superiore. I tonnellaggi delle flotte mercantili peninsulari nel 1858 erano i seguenti: Regno di Sardegna 208.218; Granducato di Toscana 59.023; Modena 980; Stato pontificio 41.360; Due Sicilie 272.305; Venezia e Trieste 350.899. Su di un totale di 932.785 tonnellate, il regno borbonico ne aveva quindi meno di un terzo. Sulla consistenza della flotta mercantile borbonica lo storico meridionale Raffaele De Cesare, nel suo libro La fine di un Regno (pp. 165–166) scrive, fra l'altro, testualmente: «“La marina mercantile era formata quasi interamente di piccoli legni, buoni al cabotaggio e alla pesca e la montavano più di 40.000 marinari, numero inadeguato al tonnellaggio delle navi. La navigazione si limitava alle coste dell'Adriatico e del Mediterraneo, e il lento progresso delle forze marittime non consisteva nel diminuire il numero dei legni ed aumentarne la portata, ma nel moltiplicare le piccole navi. La marina mercantile a vapore era scarsissima, non ostante che uno dei primi piroscafi, il quale solcasse le acque del Mediterraneo, fosse costruito a Napoli nel 1818. Essa apparentemente sembrava la maggiore d'Italia, mentre in realtà alla sarda era inferiore, e anche come marina da guerra, era scarsa per un Regno, di cui la terza parte era formata dalla Sicilia e gli altri due terzi formavano un gran molo lanciato verso il Levante. La marina e l'esercito stavano agli antipodi: l'esercito era sproporzionato al paese per esuberanza, la marina per deficienza.”» L'inaugurazione nel 1839 degli 8 km della Napoli-Portici, prima ferrovia italiana, aveva suscito grande entusiasmo. Tuttavia, solo 20 anni dopo le ferrovie settentrionali si estendevano per 2035 km, mentre Napoli era collegata soltanto con Capua e Salerno, totalizzando appena 98 km di linea ferrata. Analogamente, secondo Nicola Nisco, nel 1860 erano privi di strade e quindi di fatto irraggiungibili ben 1621 paesi su 1848, dove il transito avveniva su tratturi e mulattiere, infatti la scarsità di infrastrutture stradali si faceva sentire molto nel Sud borbonico, che poteva contare su una rete stradale di soli 14.000 km, mentre la sola Lombardia, quattro volte più piccola aveva una rete stradale di 28.000 km, con la rete stradale del centro Italia allo stesso livello della Lombardia, per metri al km².
La penuria di capitali era sentita ovunque, ma particolarmente al Sud, dove i risparmi venivano immobilizzati in terreni o in monete preziose. Nel saggio "Nord e Sud", Nitti rileva che quando le monete degli stati preunitari vennero unificate, al sud vennero ritirate 443 milioni di monete di vari metalli, da confrontare con i 226 milioni di tutto il resto d'Italia. La sostituzione consentì di ritirare diversi tipi di metalli preziosi, generando la sensazione di una vera espropriazione, tanto che ancora nel 1973 Antonio Ghirelli sostiene che 443 milioni di lire d'oro siano "finiti al Nord". Va ricordato che lo sviluppo del Piemonte ebbe un prezzo: i conti pubblici vennero gravemente inficiati sia dallo sforzo di modernizzare l'economia che dalle guerre di unificazione. Con la nascita dell'Italia unita il passivo di bilancio del Regno di Sardegna fu incamerato nelle casse del neonato Stato italiano, che finanziò negli anni successivi all'unità la costruzione di molti km di strade e ferrovie, in tutta la penisola e particolarmente nel Sud, allora con poche strade (14.000 km) e pochissime ferrovie (circa 100 km), ma la realizzazione di tali infrastrutture non avviò un parallelo sviluppo economico del meridione rispetto al resto della penisola. Il divario economico era già allora evidente considerando il dato statistico riferito alle società in accomandita italiane al momento dell'Unità, in base ai dati relativi alle società commerciali e industriali tratti dall'Annuario statistico italiano del 1864. Le società in accomandita erano 377, di cui 325 nel centro-nord, escludendo dal computo quelle esistenti nel Lazio, nel Veneto, del Trentino, nel Friuli e nella Venezia Giulia. Comunque, il capitale sociale di queste società vedeva un totale di un miliardo e 353 milioni, di cui un miliardo e 127 milioni nelle società del centro-nord (sempre prescindendo da Lazio, Veneto, Trentino, Friuli, Venezia Giulia) e soltanto 225 milioni nel Mezzogiorno. Per fare un paragone, il totale della riserva finanziaria dello stato borbonico era pari a 443,200 milioni di lire; praticamente un terzo del capitale delle società in accomandita del centro-nord escludendo diversi territori non ancora annessi. Le sole società in accomandita del Regno di Sardegna avevano un capitale totale che era quasi doppio di quello dello stato borbonico: 755,776 milioni contro 443,200 milioni di liquidi. Si tenga conto sempre poi che in questo calcolo sono escluse tutte le società per azioni del nord-est, poiché non era incluso nel 1861 nel regno d'Italia. Giustino Fortunato nella sua analisi delle condizioni dell'Italia meridionale al momento dell'Unità, osservava quanto segue riguardo alla politica borbonica: «"Eran poche, sì, le imposte, ma malamente ripartite, e tali, nell'insieme da rappresentare una quota di lire 21 per abitante, che nel Piemonte, la cui privata ricchezza molto avanzava la nostra, era di lire 25,60. Non il terzo, dunque, ma solo un quinto il Piemonte pagava più di noi. E, del resto, se le imposte erano quaggiù più lievi — non tanto lievi da non indurre il Luigi Settembrini, nella famosa 'Protesta' del 1847, a farne uno dei principali capi di accusa contro il Governo borbonico, assai meno vi si spendeva per tutti i pubblici servizi: noi, con sette milioni di abitanti, davamo via trentaquattro milioni di lire, il Piemonte, con cinque [milioni di abitanti], quarantadue [milioni di lire]. L'esercito, e quell'esercito!, che era come il fulcro dello Stato, assorbiva presso che tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe d'Oriente.” » Infatti, Fortunato osservava ciò che è chiaramente provato sui bilanci dello stato borbonico: le spese erano rivolte in stragrande maggioranza alla corte od alle forze armate, incaricate di proteggere la ristrettissima casta dominante del regno, lasciando pochissimo agli investimenti per opere pubbliche, sanità ed istruzione e la natura veramente classista della politica economica borbonica risalta dalle seguenti cifre relative ai bilanci dello stato. Nel 1854 la spesa governativa borbonica contava 31,4 milioni di ducati dei quali 1,2 milioni erano quelli per istruzione, sanità, lavori pubblici, mentre erano ben 14 milioni i ducati spesi per le forze armate e 6,5 milioni per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, oltre alle ingenti spese per la corte regale. Il bilancio dello stato borbonico previsto per il 1860, prima ancora che Garibaldi sbarcasse a Marsala, quindi in stato di pace e non di guerra, ribadiva anche in questo caso la sproporzione fra le spese militari e di repressione e quelle per la popolazione. Le spese previste, esclusa la Sicilia (con bilancio separato) sommando il bilancio direttamente speso dallo stato centrale (16.250.812 ducati) e quello ripartito fra gli enti locali (19.200.000 ducati) per un totale di 35.450.812 ducati erano così ripartite: Esercito 11.307.220; Marina 3.000.000; Esteri 298.800; Governo centrale 1.644.792; debito pregresso 13.000.000; lavori pubblici 3.400.000; Clero e istruzione 360.000; Polizia, giustizia 2.440.000. Le spese militari rappresentavano circa il 40% del bilancio totale, sommando anche le spese per polizia e giustizia si arriva al 47% del bilancio, mentre alle spese per istruzione e clero era destinato solo l'1% del bilancio totale di 35.450.812 ducati. La Sicilia aveva l'ultimo bilancio rilevabile espresso in lire 41.618.200, al cambio del 1859 di 4,25 lire per ducato stimato equivalente a 9.793.000 ducati. Un'attenta e critica analisi del sistema finanziario dei Borbone fu descritto nei particolari da Giovanni Carano Donvito, nella quale pose in luce come l'ex governo napoletano “…se poco chiedeva ai suoi sudditi, pochissimo spendeva per essi e questo pochissimo spendeva anche male…”.
Negli ultimi decenni la discussione sulle differenze economiche tra Nord e Sud all'Unità ha avuto un nuovo impulso grazie alla ricostruzione delle serie storiche di indicatori economici significativi. La ricerca è resa difficoltosa dalla mancanza di dati precedenti al 1891, e in particolare le serie perdono di significato prima del 1871 a causa degli sconvolgimenti del decennio precedente. Ha avuto in particolare risonanza la ricostruzione in cui Vittorio Daniele e Paolo Malanima, si concentrano sul PIL pro capite in quanto indicatore del benessere nelle varie regioni italiane, arrivando a concludere che non ci fossero divari rilevanti tra le regioni al momento dell'unificazione. Altri studi sostengono invece tesi diverse, come l'opera di Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna, pagg. 258, 2013. Nel sito istituzionale per il 150° dell'unità è esposta la tesi che considera il divario Nord-Sud preesistente all'Unità e provocato principalmente dalla diversa storia dei due territori, già a partire dalla caduta dell'impero romano, differenza che sarebbe aumentata a partire dal 1300.
Nel febbraio 1861 si riunirono per la prima volta a Torino i rappresentanti delle regioni unificate, che un mese dopo avrebbe conferito a Vittorio Emanuele il titolo di Re d'Italia per grazia di Dio e volontà della nazione. Il modo in cui dovesse essere governata era però ancora da definire. Il Re e la corte erano stati scomunicati a causa dell'invasione della parte orientale dello stato pontificio, e ai cattolici era proibito partecipare alla vita politica. La maggior parte dei governanti non conosceva affatto il meridione, non avendo mai viaggiato più a sud di Napoli o avendo passato lunghi anni in esilio come oppositori dei Borbone. Si erano convinti che la ricchezza del sud fosse fino ad allora rimasta inespressa a causa del malgoverno precedente e che l'unificazione dell'Italia ne avrebbe da sola liberato le ricchezze nascoste. Non conoscevano la povertà delle campagne o lo stato delle infrastrutture, e questo li portò tra l'altro a imporre tasse superiori a quanto il territorio potesse pagare. Oltretutto la partecipazione al voto era per censo, quindi i deputati del Sud rappresentarono più spesso le istanze dei proprietari terrieri che della popolazione. Con la morte di Cavour il 6 giugno, iniziò una serie di governi deboli e di durata spesso inferiore ad un anno. I problemi da risolvere erano molti: si trattava di unificare otto sistemi giuridici, economici, monetari, perfino di pesi e di misure. L'unificazione era avvenuta in un modo sorprendentemente rapido, e non aveva dato modo all'identità nazionale di affermarsi: questo, unito all'irredentismo verso il Triveneto, ancora austriaco, e verso Roma e il Lazio, presidiati da una guarnigione francese, creava la pericolosa tentazione di provare le forze del nuovo stato in una guerra verso lo straniero. L'italiano era parlato da una minoranza istruita della popolazione, e i plebisciti che avevano sancito l'unificazione erano avvenuti in modo estremamente discutibile, sia nella forma sia per l'ingerenza delle autorità che avrebbero dovuto sorvegliarli, creando la falsa sensazione di un consenso di molto superiore al reale, mentre molti meridionali avrebbero espresso piuttosto l'esigenza di maggiore autonomia. Le istanze favorevoli al decentramento amministrativo, rappresentate dal ministro Minghetti vennero frettolosamente abbandonate. Il 3 ottobre venne convertito in legge il decreto che il 2 gennaio aveva esteso al Sud la legislazione piemontese, proseguendo quanto fatto con la Lombardia con il decreto legge Rattazzi del 1859. Organizzazioni amministrative, anche gloriose, degli Stati preunitari vennero cancellate in modo acritico promuovendo una progressiva "piemontesizzazione" dalla pubblica amministrazione. I primi provvedimenti del nuovo governo furono volti a recuperare i capitali necessari per unificare il paese e dotarlo delle infrastrutture di cui aveva un pressante bisogno. Fu istituita la leva obbligatoria, finora sconosciuta nel meridione, per il servizio militare e vennero introdotte nuove tasse, e in particolare nel 1868 quella particolarmente odiosa sul macinato che colpiva le fasce più deboli della popolazione con un aumento del prezzo del pane. Venne anche intrapresa una decisa opera di abolizione dei privilegi feudali, tra cui l'importante vendita di ampi terreni demaniali dello stato e della Chiesa. Le intenzioni erano di aumentare la produttività agricola con una distribuzione della terra, ma di fatto questi terreni andarono nelle mani dei possidenti che avevano i capitali per acquistarli e mantenerli. Una risorsa irrecuperabile venne di conseguenza sprecata, con scarso incasso da parte dello stato e l'immobilizzazione di capitali che avrebbero potuto produrre più ricchezza se investiti nel miglioramento dei campi o nell'industria. I coltivatori ebbero ulteriormente a soffrirne non potendo più sfruttare i terreni comuni fino ad allora a disposizione dei vari villaggi. Vennero intraprese anche opere positive, come la realizzazione di opere pubbliche e un nuovo impulso alla realizzazione della rete ferroviaria, ma gli effetti sarebbero stati lenti a presentarsi. Le varie leggi che cercarono di istituire una, seppur minima, istruzione gratuita ed obbligatoria, trovarono un'applicazione difficile soprattutto al sud. L'onere di mantenere le scuole elementari, infatti, incombeva ai comuni, con la conseguenza che molte amministrazioni meridionali non riuscivano ad affrontare le spese necessarie. Bisognerà aspettare l'epoca del fascismo per assicurare un'istruzione di base, quella del secondo dopoguerra per un'istruzione di massa, e la televisione per assistere all'utilizzo dell'italiano in sostituzione dei vari dialetti.
Solamente a partire dall'epoca giolittiana il governo centrale fece prova di un primo e tentennante interessamento verso il meridione. Benché non abbia ridotto la povertà o l'emigrazione, nei primi anni del novecento si dotò il sud di amministrazioni pubbliche analoghe a quelle del nord, cosa che portò all'assunzione di un certo numero di impiegati statali. Fu sempre merito del governo centrale se nel 1911 lo Stato prese in carico l'istruzione elementare, fino ad allora prerogativa dei comuni. Il peggioramento delle condizioni di vita e la disillusione rispetto alle aspettative create dall'unificazione portarono a una serie di rivolte di popolo a Napoli e nelle campagne, e al fenomeno passato alla storia come brigantaggio, a cui il nuovo Stato reagì con l'invio di soldati e adottando un modello amministrativo di tipo dirigista e autoritario, in cui le autonomie locali venivano sottoposte al rigido controllo del governo centrale. Vittorio Bachelet parlerà di "un certo atteggiamento colonizzatore assunto dall'amministrazione unitaria in alcune regioni". Da notare che tale atteggiamento cosiddetto "colonizzatore" non fu però mai riscontrato negli altri territori annessi, neppure in quelli del centro Italia, che con la cultura piemontese avevano poco in comune, in quanto territori lontani dal Piemonte e confinanti con il meridione. Invero, lo stesso espansionismo piemontese era mirato in un primo tempo ad uno Stato comprendente le regioni dell'Italia settentrionale e non ad uno Stato Nazionale delle proporzioni della nuova Italia, era anzi molto caldeggiata all'epoca sia a nord che a sud una Confederazione di stati. L'annessione del Regno delle Due Sicilie fu un fatto dovuto ad una straordinaria serie di contingenze favorevoli in termini politici.
Il brigantaggio era un fenomeno endemico nel Sud preunitario, come Francesco Saverio Nitti spiega nel suo libro Eroi e briganti (edizione 1899) pag. 9. « ogni parte d'Europa ha avuto banditi e delinquenti, che in periodi di guerra e di sventura hanno dominato la campagna e si sono messi fuori della legge […] ma vi è stato un solo paese in Europa in cui il brigantaggio è esistito si può dire da sempre […] un paese dove il brigantaggio per molti secoli si può rassomigliare a un immenso fiume di sangue e di odi […] un paese in cui per secoli la monarchia si è basata sul brigantaggio, che è diventato come un agente storico: questo paese è l'Italia del Mezzodì. » Il nuovo governo disattese le aspettative sia dei repubblicani sia di alcuni moderati che pure avevano favorito l'unità, ma che auspicavano un nuovo ordinamento agrario e adeguati spazi politici nella gestione del paese, il controllo dell'ordine pubblico divenne sempre più problematico. Molti braccianti meridionali avevano sperato che il nuovo regime assicurasse una qualche riforma agraria, ma le loro aspettative andarono deluse. Secondo Tommaso Pedio, la rapida trasformazione politica conseguita nel Mezzogiorno, suscitò ovunque risentimenti e malcontenti non solo da parte del popolo e della vecchia classe borbonica ma anche dei borghesi e dei liberali, i quali pretesero di mantenere privilegi e incarichi remunerativi dal neogoverno. Il ceto borghese, fedele alla corona borbonica prima del 1860, appoggiò la causa unitaria soltanto allo sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il nuovo stato Italiano decise così di privilegiare i liberali per paura di inimicarseli e per servirsi dei loro maggiori esponenti contro le aspirazioni delle frange radicali, trascurando i bisogni delle classi popolari, alle quali, secondo Pedìo, sarebbe bastato il riconoscimento e la quotizzazione delle terre demaniali. La questione demaniale non fu risolta, per Pedìo, non solo a causa della noncuranza del regio governo ma anche dell'opposizione della classe liberale, poiché avrebbe rischiato di perdere il sostegno dei ricchi possidenti, i quali interessi ne sarebbero usciti danneggiati. Il basso popolo, unica voce non ascoltata, oppresso dalla fame, sconvolto dall'aumento delle tasse e dei prezzi sui beni primari, costretto alla leva obbligatoria, iniziò a rivoltarsi, sviluppando un profondo rancore verso il nuovo regime e soprattutto verso gli strati sociali che si avvantaggiarono degli avvenimenti politici riuscendo ad ottenere cariche, impieghi e nuovi guadagni. Nacquero bande di briganti (molte di esse già nel periodo di Garibaldi a Napoli), a cui aderirono non solo braccianti disperati ma anche ex soldati borbonici, ex garibaldini e banditi comuni. Il governo delle Due Sicilie in esilio colse l'occasione di poter tentare una reazione per riprendersi il trono, facendo leva sulla disperazione e sull'astio popolare contro il nuovo ordine. Il popolo disperato ascoltò le parole del vecchio regime e si lasciò suggestionare dalle sue proposte e, nella speranza di poter ottenere benefici, appoggiò la causa di una restaurazione borbonica. Molti scontri si erano già verificati in varie parti del meridione fin dalla fine del 1860, particolarmente aspri intorno alla cittadella borbonica di Civitella del Tronto, espugnata nel 1861 dal generale ex borbonico Luigi Mezzacapo. In aprile scoppiò una rivolta popolare in Basilicata. Nel corso dell'estate, in molte province dell'interno bande di briganti, formate in gran parte da contadini, ex soldati borbonici, diedero vita a forme di guerriglia violentissima, impegnando le forze piemontesi e battendole ripetutamente. In molti centri del sud fu rialzata la bandiera borbonica. Il Governo rispose ordinando esecuzioni sommarie anche di civili e l'incendio di interi paesi. Il luogotenente di Napoli, Gustavo Ponza di San Martino, che aveva tentato nei mesi precedenti una pacificazione, venne sostituito dal generale Enrico Cialdini, che ricevette dal governo centrale pieni poteri per fronteggiare la situazione e reprimere la rivolta. Il fenomeno assunse, secondo alcuni studiosi, i connotati di una vera e propria guerra civile, che costrinse lo stato italiano ad impiegare circa 120.000 soldati per reprimere la ribellione nelle provincie meridionali. Fu combattuta con ferocia da entrambe le parti e di cui fece le maggiori spese come sempre la popolazione civile: una triste situazione che si ripeté continuamente per tutta la durata della guerra civile era il saccheggio di un paese da parte delle bande di ribelli, seguito dall'intervento dell'esercito alla ricerca di collaborazionisti, che comportava sistematicamente un secondo saccheggio, la distruzione degli edifici che venivano dati alle fiamme, esecuzioni sommarie e spesso la dispersione dei sopravvissuti. Il Presidente Giorgio Napolitano, ricorda in occasione del 150° Anniversario dell'Unità d'Italia che "fu debellato il brigantaggio nell'Italia meridionale, anche se pagando la necessità vitale di sconfiggere quel pericolo di reazione legittimista e di disgregazione nazionale col prezzo di una repressione talvolta feroce in risposta alla ferocia del brigantaggio e, nel lungo periodo, col prezzo di una tendenziale estraneità e ostilità allo Stato che si sarebbe ancor più radicata nel Mezzogiorno".
La grande emigrazione meridionale ha inizio solo alcuni decenni dopo l'unità d'Italia, laddove nella prima metà del XIX secolo aveva già riguardato diverse zone del Nord, in particolare del Piemonte, del Comacchio e del Veneto. Le ragioni storiche della prima emigrazione meridionale della seconda metà del XIX secolo sono da ritrovare per letteratura diffusa sia per la crisi delle campagne e del grano, sia per la situazione di impoverimento economico che colpisce il Sud all'indomani dell'unità, quando gli investimenti industriali si concentrano nel Nord, nonché per altri fattori. L'emigrazione meridionale è fenomeno che segue diverse ondate storiche di partenze e differenti mete geografiche nei diversi periodi. È fenomeno che non si arresta nelle statistiche nemmeno nell'attualità quando l'emigrazione si caratterizza per un notevole flusso di spostamento geografico di laureati e professionisti meridionali, qualificandosi come emigrazione intellettuale, al di là dei normali flussi di mobilità della forza lavoro, che impoverisce ulteriormente il substrato sociale e culturale delle regioni meridionali.
Nel 1875, a seguito di un peggioramento della situazione dell'ordine pubblico nelle regioni del Mezzogiorno e in Sicilia, il Governo propose al Parlamento l'adozione di provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza. Durante il dibattito in aula, e mentre infuocavano le polemiche nel Paese, fu deciso di subordinare l'adozione dei provvedimenti all'esecuzione di un'inchiesta sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia, che fu affidata a un gruppo di parlamentari (della Destra e della Sinistra) e di magistrati e svolta tra il 1875 e il 1876. I risultati furono pubblicati e poi ristampati più volte, anche insieme agli atti preparatori, ma vennero sottovalutati dall'opinione pubblica e dalla classe politica del tempo. Nel 1877 i professori universitari ed esponenti della Destra storica Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, anche per replicare all'inchiesta "ufficiale", pubblicarono la loro inchiesta in Sicilia con cui per la prima volta richiamarono l'attenzione pubblica sulla durezza delle condizioni di vita in alcune regioni del Sud[49] e lo sfruttamento del lavoro dei fanciulli siciliani nelle zolfare.
L'emergere dell'Italia come uno stato unitario aveva indotto a perseguire una politica estera aggressiva sullo scacchiere europeo piuttosto che a concentrarsi nel risolvere le contraddizioni interne. Le conseguenze della terza guerra di indipendenza, gli attriti per l'annessione dello Stato Pontificio e interessi contrastanti in Tunisia portarono l'Italia da allontanarsi dal tradizionale alleato francese e ad avvicinarsi a Germania ed Austria nella Triplice Alleanza. Già tra il 1877 e il 1887 (Governi Depretis) l'Italia aveva adottato nuove leggi di matrice protezionistica sulle tariffe doganali, per proteggere la propria debole industria. Queste leggi andavano a svantaggio delle esportazioni agricole del Sud, avvantaggiando la produzione industriale concentrata al Nord e creando le premesse per corrotte commistioni tra politica e economia. Secondo Giustino Fortunato con questi provvedimenti si determinava il definitivo crollo degli interessi meridionali di fronte a quelli dell'Italia settentrionale. Nella stessa direzione Luigi Einaudi sottolineò come la "forte barriera doganale" del periodo post-unitario assicurò alle industrie del Settentrione "il monopolio del mercato meridionale, con la conseguenza di impoverire l'agricoltura".
Con la Prima guerra mondiale il relativo sviluppo del nord, fondato sull'industria, venne favorito dalle commesse belliche, mentre al sud, il richiamo alle armi dei giovani lasciò nell'incuria i campi, privando le loro famiglie di ogni sostentamento, in quanto in assenza degli uomini al fronte, le donne meridionali non erano abituate a lavorare la terra, come invece facevano le donne contadine del centro-nord, infatti nel Sud i terreni coltivabili erano spesso lontani dalle abitazioni, che erano situate nei paesi e anche volendo le donne meridionali non avrebbero potuto accudire alle faccende domestiche e al tempo stesso coltivare il terreno, cosa invece possibile nel Nord e Centro Italia, dove i contadini vivevano nelle case coloniche a pochi metri dai terreni da coltivare. A guerra finita, poi, fu la borghesia imprenditoriale del nord a profittare dell'allargamento dei mercati e delle riparazioni di guerra, in questo caso anche perché i danni del primo conflitto mondiale erano stati provocati soprattutto nell'area centro-orientale del paese confinante con l'Austria.
Lo Stato fascista era interessato ad allargare il proprio consenso mediante una crescita economica che sostenesse la sua politica espansionista. A tal fine promosse una serie di opere pubbliche attraverso vari organismi quali l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) e l'Istituto Mobiliare Italiano (IMI), per dotare di infrastrutture i territori più depressi del Meridione. Vennero migliorati due porti (Napoli e Taranto), costruite alcune strade, ferrovie e canali, intrapresa la costruzione di un grande acquedotto (quello del Tavoliere Pugliese) e, soprattutto, ideato un ambizioso piano di bonifica integrale. Tuttavia si trattò di investimenti che soddisfacevano solo in minima parte le esigenze locali, con una ricaduta modesta sull'occupazione e distribuiti secondo criteri volti a produrre o consolidare il consenso verso il regime da parte delle popolazioni interessate e, nel contempo, a non ledere gli interessi di quei ceti, latifondisti e piccolo-borghesi, che costituivano lo zoccolo duro del fascismo nel Meridione. Ciò fu particolarmente evidente nell'attuazione dell'imponente piano di bonifica, dove non si riuscirono ad armonizzare gli interessi contrastanti dei contadini, che richiedevano un trasferimento delle terre bonificate a loro favore, e dei vecchi proprietari terrieri, timorosi di venire espropriati. Si cercò invano di limitare l'influenza di questi ultimi e così « [...] la bonifica si arrestò nel Mezzogiorno alla fase delle opere pubbliche, mentre tutti i fermenti che la miseria e i permanenti squilibri suscitavano, furono incanalati, in quegli anni, verso il mito dell'Impero.» Anche le politiche messe in atto in epoca fascista per incrementare la produttività nel settore primario non furono coronate da successo: in particolare la politica agraria voluta da Mussolini danneggiò profondamente alcune aree del Mezzogiorno. La produzione si concentrò infatti soprattutto sul grano (battaglia del grano) a scapito di colture più specializzate e redditizie che erano diffuse nelle aree più fertili e sviluppate Meridione. Per quanto riguarda l'industria, questa visse durante il "ventennio nero" un lungo periodo di stagnazione nel Sud, rilevabile anche sotto il profilo occupazionale. Gli addetti al settore secondario nel Mezzogiorno costituivano infatti, nel 1911, il 20% sul totale nazionale e, quasi trent'anni più tardi, tale percentuale non aveva subito mutamenti di rilievo. Nel 1938 i lavoratori dell'industria erano scesi infatti al 17,1%[54], ma, tenendo conto del minor peso demografico del Meridione e delle Isole rispetto alle altre due macroaree economiche del Paese a quella data, il rapporto fra costoro e quelli operanti nel resto d'Italia era rimasto praticamente invariato (nello stesso arco temporale la popolazione del Mezzogiorno era scesa dal 38% circa al 35,5% circa su quella totale dello Stato). Sul finire degli anni trenta il fascismo diede nuovo impulso al suo impegno economico nel Meridione e in Sicilia, ma si trattò di un'iniziativa tesa ad accrescere gli scarsi consensi che il Regime godeva nel Mezzogiorno e a rendere più popolare, nel Sud, la guerra mondiale che di lì a poco avrebbe travolto l'Italia. L'Italia fascista, quale Stato totalitario, fece ricorso a strumenti anche al di fuori dello Stato di diritto (tortura, leggi speciali) per combattere ogni forma di malavita organizzata nel Sud. Celebre fu la nomina di Cesare Mori, che venne poi chiamato "Prefetto di ferro" per i suoi duri metodi, quale prefetto di Palermo con poteri straordinari su tutta l'isola. Nonostante gli ottimi risultati conseguiti, la mafia non fu del tutto sradicata, tanto che si alleò con gli anglo-americani durante la Seconda guerra mondiale ed ebbe contatti con alcuni esponenti del fascismo stesso (vedasi Alfredo Cucco e il Caso Tresca).
Con la Seconda guerra mondiale le disparità, oltre che economiche, furono di carattere politico. Nel 1943 gli alleati stavano preparando lo sbarco in Sicilia per invadere l'Italia, e trovarono un'alleata nella mafia tramite le famiglie operanti negli Stati Uniti, che si offrì di fornire informazioni strategiche e legittimazione morale agli invasori in cambio del controllo civile del sud Italia. Il comando alleato accettò, e così le zone via via conquistate da questi passarono sotto il controllo dei vari clan mafiosi, che approfittarono della fase per consolidare, anche militarmente, il loro potere. Al crollo dell'apparato repressivo statale conseguì il ritorno della questione del banditismo, soprattutto in Sicilia, dove certi suoi esponenti si collegarono ai movimenti politici indipendentisti, che chiedevano l'indipendenza dell'isola. Il governo provvisorio decise di non reprimere il movimento, che peraltro non aveva contenuti o rivendicazioni sociali, ma di corromperlo. Grosse quote del piano Marshall furono dirottate verso le zone in fermento, e la protesta venne privata dell'interessamento attivo della popolazione. I capi banda vennero pagati per deporre le armi, e, attraverso manovre politiche complesse, si convinsero alcune delle bande rimaste, pagandole, a compiere attentati contro la popolazione civile, che finì per isolare i gruppi armati. Parallelamente si scatenò una campagna stampa denigratoria nei confronti degli insorti. Per finire la nuova costituzione repubblicana concesse una certa autonomia alla Sicilia, cosa che privò gli ultimi ribelli di ogni legittimazione politica. Le poche bande rimaste vennero individuate ed eliminate nell'indifferenza della popolazione. Come ottant'anni prima, però, la mafia aveva già preso le distanze dai gruppi armati, ritornando in clandestinità e confondendosi fra la popolazione. Parte integrante di questa strategia è la collaborazione della gente ordinaria, particolarmente attraverso l'omertà, ovvero il fatto di ostacolare la forza pubblica nascondendo o tacendo informazioni sensibili.
Dopo la guerra la mafia acquistò un enorme potere in alcune importanti regioni dell'Italia meridionale, prima in Sicilia e poi in Calabria e Campania. Della questione meridionale si discusse a lungo in Assemblea Costituente e fu previsto, proprio a sottolineare la dimensione nazionale e costituzionale del tema, nell'articolo 119 della Costituzione, che "Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali". Tale riferimento sarà poi abrogato con la legge di revisione costituzionale n. 3/2001. A varie riprese il governo italiano destinò fondi allo sviluppo del Mezzogiorno, creando pure un istituto finanziario chiamato Cassa del Mezzogiorno per gestirne i flussi. La mafia dal canto suo investì i propri proventi illeciti in attività legali. Ma tali movimenti finirono, rispettivamente, a dirottare denaro pubblico e a riciclare i proventi di crimini, e non a finanziare imprese produttive. Troppo spesso gli investimenti statali vennero utilizzati male, e troppo spesso servirono a creare stabilimenti industriali, da parte dei grandi gruppi pubblici e privati del nord, in aree mal servite dalle infrastrutture, con una sede dirigenziale situata spesso lontano dagli impianti di produzione, e che tuttavia approfittavano degli ingenti capitali pubblici ivi stanziati. Infatti molti gruppi industriali del nord furono incitati tramite sovvenzioni pubbliche a stabilirsi nel sud, ma tali scelte si rivelarono sotto certi aspetti antieconomiche, dato che molti di questi esperimenti industriali fallirono in breve tempo con il terminare delle sovvenzioni pubbliche. Le grandi aziende che aderivano a questi progetti e i partiti politici che li promuovevano, dal canto loro, approfittavano del contesto disagevole in cui operavano facendo ricorso a prassi clientelari nelle assunzioni, senza che venisse mai messa nessuna enfasi sulla produttività o sul valore aggiunto dalle attività imprenditoriali. Queste pratiche malsane, dette "assistenzialistiche", ebbero come conseguenza la profonda alterazione delle leggi di mercato e l'aborto di ogni possibile sviluppo economico delle aree più depresse del paese. I capitali privati italiani evitavano il Mezzogiorno se non incoraggiati con lo stanziamento di ingenti fondi pubblici, considerando che ogni investimento effettuato in chiave produttiva, non sovvenzionato dallo stato, fosse destinato alla perdita. Benché oggigiorno la situazione sia sensibilmente diversa, atteggiamenti clientelari perdurano ancora nella politica meridionale, e troppo spesso i grandi appalti pubblici del sud vengono affidati ai soliti grandi gruppi industriali. Per quanto riguarda lo sviluppo dell'economia privata del meridione bisogna sottolineare come negli anni del cosiddetto "boom economico", fino alla metà degli anni '70, ci fu nel sud una intensa e costante crescita economica, che riuscì finalmente (dopo quasi un secolo) a ribaltare le tendenze dell'economia meridionale e riavvicinarla ai livelli del nord. Questo cambio di tendenza si interruppe bruscamente nei primi anni '70, dopo lo shock petrolifero, e da quel momento in poi il dualismo tra nord e sud tornò a crescere. Negli ultimi anni tuttavia, a partire dal 2000, i dati raccolti ci dicono che lentamente l'economia meridionale sta riducendo nuovamente il divario. Quando il governo si ritrovò a prendere provvedimenti legislativi o a negoziare accordi internazionali in ambito economico, l'attenzione si diresse, ancora, alle industrie del nord. Per esempio, quando negli anni quaranta e cinquanta emigranti italiani, soprattutto meridionali, incominciarono a raggiungere massivamente le miniere carbonifere del Belgio, il governo italiano chiese e ottenne da quello belga una tonnellata di carbone all'anno per ogni lavoratore espatriato, questo approvvigionamento non beneficiò le regioni d'origine dei minatori emigrati, essendo destinato alle fabbriche prevalentemente ubicate nelle aree settentrionali della nazione. Negli anni sessanta e settanta le aree industrializzate vissero un periodo di sviluppo economico, incentrato sull'esportazione di prodotti finiti, chiamato miracolo “italiano”. Il fenomeno attirò manodopera dal Mezzogiorno, e interessò per alcuni decenni anche lo stesso Mezzogiorno, ma la disparità dei due livelli di tenore di vita diventò evidente e largamente discussa. In reazione, gli emigranti inviarono rimesse alle loro famiglie rimaste nel sud, e lo stato dedicò finalmente importanti risorse allo sviluppo dei servizi essenziali, ma queste risorse non erano in grado di essere reinvestite in circoli produttivi, e servirono solamente ad aumentare, anche se di poco, il tenore di vita delle famiglie degli emigranti meridionali. A partire dagli anni ottanta l'organo giudiziario cercò un altro compito, e si focalizzò sulla criminalità organizzata. Evoluzioni sociali come l'individualismo e la spettacolarizzazione della vita pubblica contribuirono a creare condizioni tali per cui il sistema di potere utilizzato dalla classe dirigente incominciò a rivelare delle crepe. Varie leggi rinforzarono la lotta contro la corruzione e la criminalità: una che confermava la separazione del potere giudiziario da quello esecutivo, un'altra che istituiva sconti di pena e altri vantaggi agli accusati che collaborano con le indagini in corso, ed infine una che individuava nell'appartenenza ad un'associazione mafiosa un reato più grave rispetto alla semplice associazione per delinquere. Tutto questo permise negli anni ottanta di arrivare ad ottenere alcuni progressi nella lotta antimafia.
In questo periodo viene intrapreso un parziale risanamento del debito pubblico accumulato dalle amministrazioni precedenti, impresa che si accompagna a riduzioni e razionalizzazioni della spesa pubblica. L'Unione europea accompagna parzialmente questo processo finanziando progetti imprenditoriali a carattere sociale, ecologico o culturale, ma queste iniziative non sono di natura tale da creare meccanismi di autofinanziamento, e i vantaggi derivati sono molto ridotti. Al riguardo è importante ricordare che l'Abruzzo differentemente da tutte le altre regioni del meridione, è uscita dal cosiddetto, ed ormai passato, obiettivo 1. In termini assoluti la situazione economica del meridione è indubbiamente migliorata negli ultimi sessant'anni; in termini relativi, però, il divario con il nord è drasticamente aumentato a partire dagli anni '70 del '900. Anche inglobato nell'Unione europea, difficilmente il Mezzogiorno potrà conoscere un forte sviluppo economico in tempi brevi. Ancora oggi vari problemi strutturali ipotecano le sue possibilità di progresso economico: la carenza d'infrastrutture, la presenza di un sistema bancario poco attento alle esigenze del territorio (le vecchie grandi Banche del sud, a partire dagli anni '90, sono state via via inglobate nei grandi gruppi del nord, come ad esempio il Banco di Napoli), i ritardi di una pubblica amministrazione spesso pletorica, l'emigrazione di tanti giovani che a causa della limitata crescita economica non trovano un lavoro, e soprattutto l'infiltrazione della malavita organizzata nella vita politica ed economica del sud, fattore questo che rappresenta il principale freno alla crescita economica meridionale.
La questione meridionale non è limitata alla sola diversa condizione di sviluppo economico tra il settentrione ed il meridione, in quanto il divario si estende anche a molti aspetti socio-culturali rilevati dai dati Istat, che investono i più diversi argomenti e comportamenti sociali nella penisola. Lo stesso Giustino Fortunato, nella frase all'inizio di questo argomento, affermava che, oltre che nel campo economico, esisteva "[...] anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale." Anche lo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo famoso romanzo Il Gattopardo, rappresenta il differente atteggiamento culturale siciliano ed in generale meridionale, nei confronti dei cambiamenti apportati dall'unità d'Italia.
L'interpretazione della Questione meridionale ha vissuto profonde evoluzioni nel tempo. Dopo la fine del Regno d'Italia, col passaggio dalla monarchia alla Repubblica, fu più facile fare valutazioni obiettive su un dibattito fino a quel momento, fortemente influenzato dalla censura e propaganda della corona sabauda, preoccupata di legittimare l'annessione del Sud, da molti ritenuta una conquista. Secondo le personalità che da tempo denunciavano uno sfruttamento del sud, per anni si era impedito che pervenissero documenti, oggi rinvenuti negli Archivi di Stato, da cui si evincono dati controversi su tutta la storia dell'annessione del Sud al Regno d'Italia, come ad esempio, il numero di vittime della repressione, storie di massacri non ancora note a tutti, conti delle ricchezze non egualmente distribuite, e alcune zone d'ombra che gettavano nuovi dubbi sulla lealtà con cui il meridione d'Italia fosse stato trattato dai Savoia all'inizio del Regno. Recentemente, la riapertura degli Archivi di Stato, e una attenta rilettura dei documenti, alla luce dell'avvenuta Repubblica, ha consentito di rivedere da parte di alcuni storici, alcune realtà che durante la monarchia erano da tutti ritenute verità indiscutibili, come la verità sullo stato economico del Regno delle Due Sicilie o il brigantaggio. Oggigiorno tesi come l'inferiorità genetica delle popolazioni del sud Italia, una volta alquanto condivise, non sono più accettate accademicamente. Al contrario negli ultimi anni finalmente delle ricerche economiche ci aiutano a stabilire scientificamente (con l'ausilio di disparati indicatori e dati economici) esattamente la nascita della questione meridionale, cioè nella parte finale dell' '800, dopo l'Unità d'Italia. Altri studi sostengono invece tesi diverse, come l'opera di Emanuele Felice e Luciano Cafagna, che dimostrano l'infondatezza della tesi di uno sviluppo economico dell'Italia settentrionale a spese dell'Italia meridionale. Anche il marxista Antonio Gramsci, pur critico nei confronti dello stato italiano, attribuiva l'esistenza del divario, già dal 1860, principalmente a causa dei molti secoli di diversa storia del nord della penisola rispetto al sud, definiti due tronconi "antitetici", che si riunivano dopo 1000 anni, come il Gramsci stesso evidenzia nella sua opera “La questione meridionale - Il Mezzogiorno e la guerra 1, pag. 5). D'altra parte, la numerosa letteratura del tempo immediatamente successivo alla Spedizione dei Mille, dimostra una feroce contrarietà contro le modalità utilizzate dal Regno di Savoia per gestire l'annessione del Regno delle Due Sicilie, e anche la fiorente nascita di musiche e canzoni del meridione dimostra quanto già nel 1868fosse viva una agguerrita satira contro il neonato regno. Si pensi ad esempio alle celebri canzoni Palummella zompa e vola, canto nostalgico per la perduta libertà del Regno del Sud, o come il celebre canto carnascialesco Italiella.
La tesi revisionista, che vedrebbe il Sud ostile ai Savoia dopo l'Unità, non spiega il fatto che, durante il referendum Monarchia-Repubblica del 1946, fu proprio il Sud a votare a grande maggioranza in favore della monarchia Sabauda, mentre il Nord votò Repubblica, inoltre dal 1946 al 1972 i partiti monarchici, poi confluiti nel Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica (PDIUM), ottenevano ancora consensi soprattutto nel Meridione e a Napoli, dove, in occasione del referendum del 1946, diversi cittadini napoletani morirono in Via Medina, durante gli scontri in difesa della monarchia Sabauda, fatti noti come Strage di via Medina (1946). Si possono comunque distinguere tre approcci storiografici principali, che ricalcano in grosse linee dibattiti ideologici e politici più ampi: La storiografia classica, così chiamata perché nata prima, proposta dal Mezzogiorno come segno di un'evoluzione atipica o ritardata, dove altre condizioni avrebbero permesso alla regione di inserirsi con successo in una dinamica di crescita e di integrazione. Al riguardo si evidenzia la tesi che considera il divario Nord-Sud preesistente all'Unità e provocato principalmente dalla diversa storia dei due territori, già a partire dalla caduta dell'impero romano, differenza che si è rafforzata a partire dal 1.300. La storiografia moderna, così chiamata perché proposta a partire da Gramsci e Salvemini, vede il persistere della miseria come una componente essenziale del capitalismo, che è basato sulle dualità sfruttatore - sfruttato, sviluppo - sottosviluppo, anche su base geografica. L'interpretazione deterministica, che vede nella demografia (attraverso tesi razziste) o nella geografia del sud le origini, spesso insormontabili, della povertà nella quale si trova il Meridione. Molti letterati anche tra quelli già citati come Gramsci e Giustino Fortunato riscontrarono pubblicamente la presenza di una vera e propria questione meridionale ma affermarono, altrettanto pubblicamente anche se poco o per nulla diffuso, che essa era dovuta alla disparità di trattamento tra Italia del nord e Italia del Sud, quest'ultima sfruttata fino all'inverosimile tanto che buona parte dei suoi figli emigrarono lasciando la propria terra per cercare fortuna all'estero. La storiografia revisionista sostiene la tesi dello sfruttamento del Sud a vantaggio del Nord, in particolare il fatto che, il cosiddetto triangolo industriale “Torino-Milano-Genova” si sarebbe sviluppato economicamente sottraendo risorse al Meridione, senza però spiegare come le province del Nord-Est e dell'Italia Centrale, pur senza ricevere aiuti, si siano sviluppate economicamente nel tempo in maniera prossima e, in diversi casi, anche superiore ad alcune aree industriali del suddetto triangolo industriale “Torino-Milano-Genova” come risulta dai seguenti dati Unioncamere e ISTAT. In particolare la storiografia revisionista non spiega lo sviluppo economico delle regioni appartenenti all'ex Stato Pontificio, monarchia teocratica assoluta antiliberale e quindi stato profondamente diverso dal Regno di Sardegna, dove dopo il 1860 non si verificarono episodi di brigantaggio, né rivolte anti-sabaude, con le popolazioni ex pontificie che si adattarono presto alle nuove e profondamente diverse norme dello Stato Italiano unitario, crescendo lentamente, ma progressivamente fino a raggiungere negli ultimi decenni del novecento, uno sviluppo economico-produttivo prossimo a diverse province settentrionali padane e in alcuni casi, anche maggiore, come risulta dai dati Istat ed Unioncamere sopra indicati. L'argomento “La Questione Meridionale”, introdotto in epigrafe con una famosa affermazione dello storico e politico meridionale Giustino Fortunato] può essere storicamente compreso anche citando la famosa frase del politico e patriota torinese Massimo d'Azeglio: « [...] io non so nulla di suffragio, so che al di qua del Tronto[68] non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. »
Secondo le ricostruzioni di Nitti le consistenti ricchezze del regno, oltre a contribuire in modo preponderante alla formazione dell'erario nazionale, furono destinate prevalentemente al risanamento delle finanze di regioni settentrionali compromesse dalla sproporzionata spesa pubblica sostenuta dal Regno di Sardegna in quegli anni, cioè allo sviluppo delle province del cosiddetto "triangolo industriale". Il debito pubblico piemontese crebbe nel decennio precedente al 1860 del 565%, producendo come effetto un aumento delle tasse (furono introdotte negli stati sardi 23 nuove imposte negli anni cinquanta dell'Ottocento), la vendita dei beni demaniali (come lo stabilimento siderurgico di Sampierdarena) e la necessità di contrarre grandi prestiti, rimettendo in questo modo le sorti dello Stato sabaudo nelle mani di alcuni grandi banchieri (come i Rothschild). Al contrario nello Stato borbonico, riporta Giacomo Savarese (Ministro e Consigliere di Stato nel 1848), il debito pubblico corrispondeva al 16,57% del PIL ed esistevano solo 5 tasse tramite le quali le rendite pubbliche in quegli anni aumentarono da 16 milioni a 30 milioni di ducati "per effetto del crescere della ricchezza generale". Occorre però considerare che, negli anni successivi all'unità, vennero realizzate nel meridione grandi opere pubbliche, tra le quali il potenziamento della preesistente scarsa rete stradale meridionale e in particolare la costruzione di una rete ferroviaria, prima del 1860 limitata a circa soli 100 km attorno a Napoli. Il costo globale di queste opere fu molto elevato, come risulta da Storia delle ferrovie in Italia.
Recenti ricerche hanno evidenziato come prima dell'Unità non esistessero sostanziali differenze economiche tra sud e nord in termini di prodotto pro capite e industrializzazione, benché esistessero comunque gravi criticità negli indicatori sociali del Mezzogiorno (istruzione, speranza di vita, povertà), dovuti alla generale arretratezza del territorio meridionale e del resto dell'Italia rurale. Altri autori hanno espresso critiche nei confronti della tesi che non esistevano differenza economiche sostanziali tra il settentrione ed il meridione al momento dell'unità. Il divario economico vero e proprio cominciò ad approfondirsi invece negli ultimi anni dell'XIX secolo, allargandosi da quel momento in poi fino a creare l'attuale dualismo tra centro-nord e Mezzogiorno, come venne messo in evidenza proprio in quel periodo da politici e studiosi del sud come Sidney Sonnino, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Guido Dorso, Francesco Saverio Nittie Antonio Gramsci. Le difficoltà economiche e le speranze deluse del proletariato meridionale negli anni successivi all'Unità d'Italia furono all'origine della lotta armata che infiammò le campagne dell'ex regno borbonico, definita "lotta al brigantaggio". La povertà portò inoltre alla formazione di un massiccio flusso migratorio, assente in epoca preunitaria. Il declino economico del sud divenne percepibile anche a causa delle diverse proporzioni che assunse il flusso migratorio tra le varie parti del paese: se nel periodo 1876-1900, su un totale di 5.257.911 espatriati, la gran parte degli emigrati all'estero furono abitanti delle regioni centro-settentrionali (il 70,8% partì dal centro-nord e il 29,2% dal centro-sud), in quello 1900-1915, su un totale di 8.769.785 esuli, la tendenza si invertì ed il primato migratorio passò alle regioni meridionali, con una riduzione degli emigrati settentrionali e una crescita di quelli dal Mezzogiorno (il 52,7% partì dal centro-nord e il 47,3% dal centro-sud): in particolare, su meno di nove milioni di emigrati, quasi tre milioni provenivano da Campania, Calabria e Sicilia.
Lo stesso Giustino Fortunato, benché avesse posizioni molto critiche nei confronti delle politiche borboniche e fosse un fervido fautore dell'unità nazionale, sostenne che il danno maggiore inflitto all'economia del Mezzogiorno dopo l'unità d'Italia fu causato dalla politica protezionistica adottata dallo Stato italiano nel 1877 e nel 1887, che a sua detta determinò "il fatale sagrifizio degl'interessi del sud" e "l'esclusivo patrocinio di quelli del nord", in quanto cristallizzò il monopolio economico del nord sul mercato italiano. A supporto di questa tesi ci sono gli studi condotti dallo storico dell'agricoltura italiana Emilio Sereni, il quale individuava l'origine dell'attuale questione meridionale nel contrasto economico tra nord e sud che si venne a creare in seguito all'unificazione dei mercati italiani negli anni immediatamente successivi alla conquista militare del reame, affermando che: "Il Mezzogiorno diviene, per il nuovo Regno d'Italia, uno di quei Nebenlander (territori dipendenti), di cui Marx parla a proposito dell'Irlanda nei confronti dell'Inghilterra, dove lo sviluppo capitalistico industriale viene bruscamente stroncato a profitto del paese dominante". Gradualmente le manifatture e le fabbriche del Mezzogiorno decaddero: l'industria locale cedette sotto i colpi combinati dell'industria forestiera e soprattutto di quella settentrionale, che grazie a politiche protezionistiche venne messa dai governi del tempo nelle condizioni ottimali per poter conquistare il monopolio del mercato nazionale. Il sud quindi fu avviato ad un processo di agrarizzazione, e la massa di lavoro che gli operai e le popolazioni contadine impiegavano in altri tempi nelle lavorazioni connesse all'industria restò inutilizzata, provocando un marasma non solo industriale ma anche agrario. Se nelle campagne il malcontento delle masse contadine prendeva la via della rivendicazione legittimista, nei centri industriali del vecchio reame si verificò in quegli anni la nascita di nuclei socialisti ed anarchici (è da ricordare che le prime sezioni italiane ad aderire all'Internazionale nacquero a Napoli e a Castellammare pochi mesi dopo la nascita dell'organizzazione a Londra) a cui aderirono operai e giovani intellettuali di estrazione borghese (come Carlo Cafiero, Emilio Covelli, Francesco Saverio Merlino, Errico Malatesta ed Antonio Labriola). Questo processo avvenne gradualmente nei primi decenni di vita del Regno d'Italia, e già nel 1880 l'industria italiana era ormai per gran parte concentrata nel triangolo industriale. La questione meridionale emerse durante il processo di formazione e di assestamento del mercato nazionale. Essa, con i suoi vizi d'origine, acquistò un'acutezza sempre maggiore nel corso dello sviluppo capitalistico dell'economia italiana, complicandosi a mano a mano di nuovi fattori sociali e politici.
La teoria dello sviluppo del Nord a danno del Sud, in particolare il fatto che, il cosiddetto triangolo industriale “Torino-Milano-Genova” si sarebbe sviluppato economicamente sottraendo risorse al Meridione, non spiega come le province del Nord-Est e dell'Italia Centrale, pur senza ricevere aiuti, si siano sviluppate economicamente nel tempo in maniera prossima e, in diversi casi, anche superiore ad alcune aree industriali del suddetto triangolo industriale “Torino-Milano-Genova” come risulta dai seguenti dati Unioncamere e ISTAT.
La storiografia classica sostiene la tesi che considera il divario Nord-Sud preesistente all'Unità e provocato principalmente dalla diversa storia dei due territori, già a partire dalla caduta dell'impero romano, differenza che sarebbe aumentata a partire dal 1.300.
Nel 1860 la rete stradale del Centro-Nord era stimata di circa 75.500 km rispetto ai 14.700 km del Meridione ed isole, per una densità corrispondente di 626 km per 1.000 km² nel Centro Nord rispetto ai soli 108 km nel Meridione.
Nel 1860 l'intera siderurgia italiana produceva 18.500 tonnellate di lavorati in ferro, dei quali 17.000 prodotti nel Settentrione e solo 1.500 nel Meridione.
Nel 1861 dei 2.500 km di ferrovie esistenti, 869 erano in Piemonte, 756 nel Lombardo Veneto, 361 in Toscana, mentre nel Regno delle Due Sicilie erano in esercizio solo 184 km nei dintorni di Napoli, con il resto del Sud totalmente privo di binari ferroviari.
L'esistenza del divario economico-produttivo nord-sud, anteriormente al 1860, è attestata anche da altri autori: Carlo Afan de Rivera, importante funzionario dell'amministrazione borbonica, con le sue "Considerazioni sui mezzi da restituire il valore proprio ai doni che la natura ha largamente conceduto al Regno delle Due Sicilie", descrive la situazione dell'agricoltura nel Sud preunitario e il grande ritardo economico di partenza con cui il Mezzogiorno d'Italia si trovava nel momento dell'unificazione, Luciano Cafagna, storico dell'economia, illustra alcune delle ragioni che portano a ritenere infondata la tesi di uno sviluppo economico dell'Italia settentrionale a spese dell'Italia meridionale. L'opera di Emanuele Felice, dimostra l'inesistenza di uno sviluppo economico dell'Italia settentrionale a spese dell'Italia meridionale, evidenziando invece i veri motivi del divario. Anche il marxista Antonio Gramsci, pur critico con i governi sabaudi, attribuì il manifestarsi della Questione meridionale principalmente ai molti secoli di diversa storia dell'Italia meridionale, rispetto alla storia dell'Italia settentrionale, come chiaramente esposto nella sua opera "La questione meridionale". «La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni. L'invasione longobarda aveva spezzato definitivamente l'unità creata da Roma, e nel Settentrione i Comuni avevano dato un impulso speciale alla storia, mentre nel Mezzogiorno il regno degli Svevi, degli Angiò, di Spagna e dei Borboni ne avevano dato un altro. Da una parte la tradizione di una certa autonomia aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva una organizzazione economica simile a quella degli altri Stati d'Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dell'industria. Nell'altra le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l'agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione geologica, possedeva. L'unificazione pose in intimo contatto le due parti della penisola. »
In relazione alla problematica della questione meridionale, esiste anche la tesi sostenuta dal politologo statunitense Edward C. Banfield (1916 - 1999), secondo la quale l'arretratezza del meridione sarebbe dovuta al cosiddetto familismo amorale, un tipo di società basata su una concezione estremizzata dei legami familiari, che va a danno della capacità di associarsi e dell'interesse collettivo, spiegata nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (trad. it.: Le basi morali di una società arretrata, Ed. Simon & Shuster 1976). Il politologo statunitense Robert D. Putnam propone tesi simili a quelle di Edward C. Banfield nel suo libro La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993, sostenendo come la mancanza di senso civico produca effetti negativi nei confronti dello sviluppo e dell'efficienza delle istituzioni e quindi come le regioni con poco senso civico siano più arretrate, anche economicamente, rispetto alle regioni con maggiore senso civico.
Vari studiosi e uomini politici hanno affrontato la Questione meridionale, cercando le cause dei problemi del sud. Ecco i più noti.
Giuseppe Massari (1821 - 1884) e Stefano Castagnola (1825 - 1891) furono due deputati italiani che diressero una commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio fra il 1862 ed il 1863. Sebbene parziale e puramente descrittivo, il loro lavoro espose bene come la miseria avesse un ruolo capitale nella nascita della rivolta.
Pasquale Villari (1827 – 1917) fu tra i primi a sollevare il problema della questione meridionale. Portò in risalto la crisi che attanagliava il Meridione e indagò, in particolare, sulla debolezza delle istituzioni del neonato stato italiano nei territori del sud. Criticò l'operato dello stato appena unificato poiché, per raggiungere il pareggio di bilancio, impose tassazioni inique al ceto popolare, che fu una delle cause principali dell'insurrezione proletaria agraria. Villari ritenne che la questione meridionale poteva essere sanata riavvicinando il governo alla plebe del sud.
Stefano Jacini senior (1827 - 1891), a lungo ministro dei lavori pubblici, si interessò alla necessità di costruire infrastrutture e creare una classe di piccoli proprietari terrieri.
Stefano Jacini junior (1886 - 1952), suo nipote, constatò due generazioni dopo che la situazione non era cambiata, e riprese le stesse posizioni.
Leopoldo Franchetti (1847 - 1917), Sidney Sonnino (1847 - 1922) ed Enea Cavalieri (1848 - 1929) realizzarono nel 1876 una celebre e documentata inchiesta sulla Questione meridionale, nella quale mettevano in luce i nessi fra il permanere dell'analfabetismo e del latifondo, la mancanza di una borghesia locale, la corruzione e la mafia, sottolineando la necessità di una riforma agraria, nonché la lentezza dello sviluppo delle infrastrutture portuali, ferroviarie e stradali.
Giustino Fortunato (1848 – 1932), uomo politico conservatore, effettuò vari studi in materia, e pubblicò nel 1879 il più conosciuto di essi, in cui esponeva gli svantaggi fisici e geografici del sud, i problemi legati alla proprietà della terra, e il ruolo della conquista nella nascita del brigantaggio. Era decisamente ostile ad ogni tipo di federalismo, e, sebbene difendesse la necessità di redistribuire la terra e di finanziare servizi indispensabili come scuole e ospedali, fu ritenuto da alcuni interpreti pessimista per la sfiducia che mostrava nei confronti dei meridionali di vincere con le proprie forze i condizionamenti economici e storici del Mezzogiorno. Si aspettava dal Nord la salvezza[94], ma col tempo si mostrò disilluso per l'incapacità delle classi dirigenti settentrionali (e più in generale della nuova Italia) di risolvere la questione meridionale.
Benedetto Croce (1866 - 1952), filosofo storicista, rivide in chiave storiografica le vicende del Mezzogiorno dall'Unità fino al Novecento, mettendo l'accento sull'imparzialità delle fonti. Il suo pensiero divergeva parzialmente da quello del suo amico Giustino Fortunato riguardo all'importanza da attribuire alle condizioni naturali in riferimento ai problemi del Mezzogiorno. Riteneva infatti fondamentali le vicende etico-politiche che avevano condotto a quella situazione. Entrambi ritenevano fondamentale la capacità delle classi politiche ed economiche, nazionali e locali, per affrontare e risolvere la questione. La sua Storia del Regno di Napoli, del 1923, rimane il punto di riferimento essenziale per la storiografia posteriore, sia per i discepoli che per i critici.
Francesco Saverio Nitti (1868 - 1953), più volte ministro, si dedicò molto allo studio dell'economia meridionale. A differenza della maggioranza dei meridionalisti, che videro un sud oppresso dal regime borbonico, egli ritenne che il Meridione non fosse in una situazione estremamente grave prima dell'unità. Egli criticò il modello economico di stampo conservatore del Regno delle Due Sicilie che, a suo dire, avrebbe impedito al sud di seguire i tempi moderni ma esso avrebbe garantito un mediocre benessere che venne perso dopo l'unità e ne lodò i suoi ordinamenti amministrativi e finanziari. Nitti analizzò il timido sviluppo industriale, l'emigrazione, ed esortò la creazione di un primo stato sociale. Dopo la Seconda guerra mondiale, propose anche un vasto programma di lavori pubblici, di irrigazione e di rimboschimento, ed affermò come altri prima di lui l'urgenza di una riforma agraria.
Gaetano Salvemini (1873 - 1957), storico e politico socialista concentrò le sue analisi sugli svantaggi che il sud aveva ereditato dalla storia, criticò aspramente la gestione centralizzata del paese, e indicò come necessaria l'alleanza degli operai del nord con i contadini del sud. Tuttavia lo sfruttamento sistematico del Mezzogiorno da parte del capitale settentrionale e l'adozione di una legislatura statale particolarmente penalizzante per il Sud era stata resa possibile, secondo Salvemini, dalla complicità dei grandi proprietari terrieri meridionali e dai loro alleati, i piccoli borghesi locali. Questi ultimi, volgari e oziosi, suscitavano il disprezzo di Salvemini[96], che invece nutriva un profondo rispetto nei confronti dei sobri, laboriosi e dignitosi contadini meridionali. Ancora nel 1952 Salvemini metteva in evidenza le gravi responsabilità che la piccola borghesia meridionale aveva avuto, e continuava ad avere, nel mancato sviluppo del Mezzogiorno, ma « [...] di questa responsabilità i borghesi meridionali amano rimanere ignoranti. Trovano comodo prendersela con i settentrionali. Ebbene, quella responsabilità noi meridionali dobbiamo metterla in luce, sempre. Bisogna impedire che i meridionali dimentichino se stessi per non far altro che sbraitare contro i settentrionali.»
Antonio Gramsci (1891 - 1937), noto pensatore marxista, lesse il ritardo del sud attraverso il prisma della lotta di classe. Studiò i meccanismi in corso nelle rivolte contadine dalla fine dell'Ottocento fino agli anni venti, spiegò come la classe operaia fosse stata divisa dai braccianti agricoli attraverso misure protezionistiche prese sotto il fascismo, e come lo stato avesse artificialmente inventato una classe media nel sud attraverso l'impiego pubblico. Auspicava la maturazione politica dei contadini attraverso l'abbandono della rivolta fine a se stessa per assumere una posizione rivendicativa e propositiva, e sperava una svolta più radicale da parte dei proletari urbani che dovevano includere le campagne nelle loro lotte. Il marxista Antonio Gramsci attribuiva il manifestarsi della Questione meridionale principalmente ai molti secoli di diversa storia dell'Italia meridionale, rispetto alla storia dell'Italia settentrionale, come il Gramsci stesso evidenzia nella sua opera “La questione meridionale - Il Mezzogiorno e la guerra 1, pag. 5), indicando l'esistenza, già nel 1860, di una profonda differenza socio-economica tra il Nord-centro e Sud della penisola italiana, evidenziando anche le gravi carenze delle precedenti amministrazioni spagnola e borbonica. «La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni. L'invasione longobarda aveva spezzato definitivamente l'unità creata da Roma, e nel Settentrione i Comuni avevano dato un impulso speciale alla storia, mentre nel Mezzogiorno il regno degli Svevi, degli Angiò, di Spagna e dei Borboni ne avevano dato un altro. Da una parte la tradizione di una certa autonomia aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva una organizzazione economica simile a quella degli altri Stati d'Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dell'industria. Nell'altra le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l'agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione geologica, possedeva. L'unificazione pose in intimo contatto le due parti della penisola. »
Guido Dorso (1892 - 1947) fu un intellettuale che rivendicò la dignità della cultura meridionale, denunciando i torti commessi dal nord ed in particolare dai partiti politici. Effettuò esaurienti studi sull'evoluzione dell'economia del Mezzogiorno dall'Unità fino agli anni trenta e difese la necessità dell'emergenza di una classe dirigente locale.
Rosario Romeo (1924 - 1987), storico e politico, si oppose alle tesi rivoluzionarie ed evidenziò le differenze esistenti, prima e dopo il Risorgimento, fra la Sicilia ed il resto del sud. Attribuì i problemi del Mezzogiorno a tratti culturali, caratterizzati dell'individualismo e lo scarso senso civico, piuttosto che a ragioni storiche o strutturali.
Paolo Sylos Labini (1920 - 2005) professore ed economista, riprese tesi che vedevano nell'assenza di sviluppo civile e culturale le origini del divario economico. Considerò la corruzione e la criminalità come endemiche della società meridionale, e vide l'assistenzialismo come principale ostacolo allo sviluppo.
Edward C. Banfield (1916 - 1999) politologo statunitense sostiene che l'arretratezza del meridione sarebbe dovuta al cosiddetto familismo amorale, un tipo di società basata su una concezione estremizzata dei legami familiari, che va a danno della capacità di associarsi e dell'interesse collettivo, spiegata nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (trad. it.: Le basi morali di una società arretrata, Ed. Simon & Shuster 1976).
Robert D. Putnam (1941) politologo statunitense propone tesi simili a quelle di Edward C. Banfield nel suo libro La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993. sostenendo come la mancanza di senso civico produca effetti negativi nei confronti dello sviluppo e dell'efficienza delle istituzioni.
Luciano Cafagna (1926 - 2012), storico dell'economia, espone alcune delle ragioni che portano a ritenere infondata la tesi di uno sviluppo economico dell'Italia settentrionale a spese dell'Italia meridionale.
Orizzonti Meridiani (2011), gruppo di ricercatori e di collettivi politici che promuove studi e inchieste a partire dall'azione dei movimenti sociali nel Mezzogiorno d'Italia, affrontando le rappresentazioni e i discorsi prodotti dalle classi dominanti sulla "questione meridionale" e le funzioni che essi assolvono, in modo da sostenere le iniziative sociali in cui sono protagonisti le comunità locali e i movimenti per altri modelli di sviluppo, di ecologia e di democrazia nelle regioni meridionali d'Europa. La prima raccolta di studi di Orizzonti Meridiani è Briganti o emigranti. Sud e movimenti fra con ricerca e studi subalterni, con prefazione di Franco Piperno (Ombre Corte, 2013).
Questione meridionale. Treccani Enciclopedie on line. Il dibattito circa le ragioni che avrebbero determinato e, con il trascorrere del tempo, aggravato la situazione di sottosviluppo economico e sociale del Mezzogiorno d’Italia, fin dal costituirsi dello Stato unitario.
1. Dopo l’Unità. Di questione m. si cominciò a parlare quasi subito dopo il 1861 in relazione al brigantaggio e ai problemi politici e sociali che esso poneva. All’atto dell’unificazione era generale la convinzione che tra l’area padana e l’area m. le differenze di tipi e di livelli di vita fossero dovute unicamente alle più sfortunate vicende politiche del Mezzogiorno. A queste convinzioni di fondo fu ispirata la politica dell’Italia unita verso il Sud. Il sistema fiscale, il regime di liberalismo completo negli scambi, gli ordinamenti amministrativi, la legislazione penale e civile furono adeguati a quelli del Piemonte sabaudo. La pressione fiscale si scaricò così su un’economia che non era in grado di sostenerla. Il regime liberistico travolse quel po’ di sviluppo manifatturiero che aveva attecchito intorno alla capitale negli ultimi tempi dei Borbone. Dopo due o tre decenni di vita unitaria si cominciò, pertanto, a parlare di una questione m. in termini nuovi e prese l’avvio il meridionalismo, ossia una riflessione organica sui problemi che si ponevano nell’Italia unita per il forte dislivello fra le due sezioni del paese. Contro i nostalgici della secolare indipendenza napoletana, che attribuivano all’Unità i mali del Mezzogiorno, G. Fortunato affermò con fermezza che, se non si fosse legato allo Stato nazionale italiano, il Mezzogiorno non avrebbe potuto essere sottratto a un destino africano o balcanico. Intanto, però, avevano luogo grandi trasformazioni: le varie province si scioglievano dall’antica soggezione e dipendenza verso Napoli e, in Sicilia, verso Palermo; un progresso agrario importante si verificava in alcune zone (pianure campane e pugliesi, conca di Palermo, piana di Catania); la commercializzazione dei prodotti agrari si faceva sensibile; si sviluppava una serie di centri urbani; veniva creata una rete ferroviaria, sia pure volta più a collegare il Sud con il Nord; migliorava il livello dell’istruzione e della vita pubblica. Alla fine degli anni 1880 i contrasti che portarono a una vera e propria guerra economica con la Francia – maggiore cliente del Mezzogiorno agrario di allora – inflissero un duro colpo all’agricoltura meridionale. In quegli anni la reazione alle nuove condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno produsse un movimento emigratorio torrenziale. Dinanzi a queste contraddizioni e a questi problemi alla fine del 19° sec. maturò la riflessione di F.S. Nitti, secondo il quale lo sviluppo settentrionale e il sottosviluppo meridionale dopo l’Unità sarebbero stati determinati fondamentalmente dal forte drenaggio dei capitali meridionali attraverso il fisco e il credito e dall’indirizzo della politica doganale, prima liberistico e poi protezionistico nei settori più gravosi (siderurgia, zucchero, grano ecc.). Nitti proponeva perciò una politica di intervento statale e una politica sociale in grado di avviare una vera e propria industrializzazione del Mezzogiorno, avvalendosi dell’energia idroelettrica di cui l’Italia poteva essere una buona produttrice. Nello stesso tempo la corrente degli economisti favorevoli al libero scambio (L. Einaudi, G. Carano Donvito, A. De Viti De Marco) sviluppava il tema antiprotezionistico, anch’esso una tesi classica del meridionalismo. Il socialismo italiano aveva dedicato poca attenzione al problema: G. Salvemini assunse perciò una posizione assai originale quando individuò nella grande borghesia agraria che si avvantaggiava del dazio sul grano e nella piccola borghesia urbana le zone da combattere nella società m., prospettando un’alleanza di classe fra contadini del Sud e operai del Nord e il suffragio universale come elementi decisivi. Il quindicennio giolittiano fu un periodo di relativo sviluppo delle regioni del Sud e vide l’applicazione della prima legislazione speciale a favore del Mezzogiorno.
2. Dal fascismo alla Cassa per il Mezzogiorno. Dopo la Prima guerra mondiale la riflessione meridionalistica si avviò decisamente sul piano politico. L. Sturzo perorò la causa delle autonomie regionali come il mezzo più idoneo a liberare le energie e a proteggere gli interessi del Sud. A sua volta A. Gramsci individuò nella questione m. la massima contraddizione storica e sociale del paese. Egli sviluppò le indicazioni salveminiane da un punto di vista leninista, come schema di un’alleanza di classe analoga a quella che in Russia aveva reso possibili la rivoluzione e la vittoria dei soviet degli operai e dei contadini. Così, rivoluzione italiana e abbattimento del blocco di potere formato dagli agrari del Sud e dagli industriali del Nord facevano tutt’uno. G. Dorso vedeva in un rinnovamento della classe dirigente, nella formazione di una élite direttiva e nell’avvio, sulle basi di una forte autonomia m. e regionale, a un tipo di sviluppo da società occidentale avanzata l’obiettivo più auspicabile. Erano posizioni destinate a essere travolte dalla marea montante del fascismo, che dichiarò chiusa la questione m. e vide nell’espansione coloniale e nell’intensificazione della produzione agraria la soluzione del problema. Nel dopoguerra le forze politiche si dimostrarono assai sensibili alla questione. I comunisti ripresero e riarticolarono le tesi di Gramsci. I socialisti portarono il contributo della riflessione di R. Morandi, in particolare, alla questione dell’industrializzazione. Allo stesso problema si dedicò P. Saraceno nel campo cattolico. Nel campo laico si ripresero con particolare vivacità le tesi di Nitti e di Dorso; M. Rossi Doria elaborò il tema dello sviluppo agricolo e di una riforma agraria, mentre altri richiesero una considerazione prioritaria dell’industrializzazione e del problema della città. Sotto la sollecitazione anche dei movimenti di massa si giunse tra il 1949 e il 1950 alla definizione di una serie di linee operative, fra cui una parziale riforma agraria e l’istituzione di una Cassa per il Mezzogiorno, partita in un primo tempo dal presupposto che per avviare lo sviluppo del Sud fosse sufficiente dotarlo delle grandi infrastrutture di cui esso mancava; in un secondo tempo si ritenne necessario un intervento diretto e si arrivò a promuovere e a realizzare alcuni grandi impianti industriali. I risultati dell’azione della Cassa e di tutta la politica speciale successiva non furono quelli sperati, pur essendo innegabile un processo di sviluppo che, specialmente negli anni 1960, trasformò il quadro stesso dell’ambiente meridionale. Negli anni 1950, inoltre, riprese la grande emigrazione interrottasi alla fine degli anni 1920, diretta questa volta verso l’Europa occidentale e l’Italia settentrionale. Tuttavia si poteva osservare in tutte le regioni meridionali un netto mutamento delle condizioni e del livello di vita. All’inizio degli stessi anni 1960 si manifestò sempre più chiara la richiesta, non raccolta, di un superamento e di un’integrazione della politica speciale per il Mezzogiorno in una politica nazionale di programmazione e di sviluppo dell’intero sistema nazionale. Il meridionalismo perse molto della sua carica politica e assunse una fisionomia tecnica quasi da disciplina accademica.
3. Il mancato superamento della questione. Il criterio di una ‘politica speciale’ rimase quello dominante nell’azione per il Mezzogiorno. L’attenzione si spostò sempre più massicciamente sull’industria e sui servizi. Né si tenne conto dell’arresto ormai completo dell’emigrazione che di nuovo congestionava fortemente il mercato del lavoro, già trasformato dall’unificazione salariale del paese. Gli obiettivi settoriali, territoriali e sociali dello sviluppo divennero l’oggetto della ricerca di un equilibrato dosaggio fra interventi diretti e indiretti dello Stato, tra finanziamenti e agevolazioni o incentivi, tra assistenza e promozione. Nel giro di una ventina di anni il Mezzogiorno prese l’aspetto di una periferia di grande area sviluppata. Dall’altro lato, però, la distanza strutturale, reddituale, sociale, funzionale rispetto alla sezione più avanzata del paese tendeva a crescere. Né si poteva tracciare un bilancio positivo dell’autonomia regionale, toccata nel 1947 alla Sicilia e dal 1970 alle altre regioni. A metà degli anni 1980 molti parlarono di un ormai avvenuto superamento della questione m., ma in realtà un tale bilancio era impossibile. Specialmente dopo il terremoto campano e lucano del 1980 la politica speciale prese la via di una serie di ‘grandi opere’ e di incentivazioni e agevolazioni, che finì con il cadere sotto il controllo di gruppi politici. Clientelismo, corruzione e oligarchismo notabilare si saldarono frequentemente in un nesso deteriore più forte di quanto fosse mai accaduto in precedenza. Per di più, con la diffusione del traffico della droga e gli enormi guadagni connessi, la vecchia patologia criminale mafiosa, che solo in Sicilia con la mafia sembrava avere preoccupanti dimensioni, esplose anche nelle altre regioni. La collusione tra i ceti politico-amministrativi e professionistici e i gruppi della criminalità organizzata prese dimensioni superiori a ogni precedente. Nel mondo agrario, alla crescente fioritura di alcune produzioni in determinate zone corrispondeva un abbandono generale delle campagne che assumeva tutti i caratteri di una vera e propria destrutturazione economica e sociale, a malapena compensata da una politica di assistenza e di pensioni sociali e da un’artificiosa diffusione di occupazione, soprattutto pubblica, scarsamente produttiva o parassitaria. Nel 1986 la Cassa per il Mezzogiorno fu sostituita da un’Agenzia per la promozione dello sviluppo nel Mezzogiorno, concepita secondo linee più snelle ma i cui risultati non furono sostanzialmente migliori e alla fine fu anch’essa soppressa, con il passaggio delle competenze meridionalistiche al ministro del Bilancio. La profonda crisi politica che investì l’Italia agli inizi degli anni 1990 trovò il Mezzogiorno, il meridionalismo e la politica meridionalistica in una condizione simultanea di trasformazione e di travaglio che continuava a mantenere le regioni m. in uno stato generale di ‘inferiorità’ analogo, benché mutato nei termini, a quello in considerazione del quale era stata sollevata un secolo prima la questione meridionale. Anzi, la grande diffusione al Nord di tendenze revisionistiche dell’unità nazionale determinava una comprensione assai inferiore o, addirittura, una ripulsa delle esigenze del Mezzogiorno, visto come scaturigine ed emblema dei ‘mali’in cui era precipitato il sistema politico italiano.
4. La problematica attuale. Nel 21° sec., era della globalizzazione, dei mercati interdipendenti, dell’economia della conoscenza, l’ottica necessariamente si allarga e nello stesso tempo si fa più selettiva. Da una parte, i mercati di riferimento non sono più quelli locali o nazionali, ma il mercato europeo e la sua apertura verso l’Est e verso il Mediterraneo. Dall’altra, le logiche dello sviluppo possibile sono sempre più strettamente intrecciate al territorio, alla valorizzazione delle energie endogene, alla nascita e alla crescita dei distretti, alla messa in rete – reti imprenditoriali e istituzionali, reti di fiducia – delle iniziative. Si fa strada un meridionalismo nuovo, pragmatico, meno dirigista e più attento alle peculiarità positive che il Sud può esprimere, alle potenzialità che, fra luci e ombre, la società civile meridionale manifesta. Si rifiuta l’idea che il Mezzogiorno abbia bisogno di politiche ‘speciali’. Si sostiene invece che servono modulazioni territoriali, non solo per il Sud, di una coerente politica nazionale, in un’Italia che fa parte, per la scelta europea, di un insieme più vasto, con vincoli e con opportunità, e che, per la sua posizione geografica, è un ponte naturale fra l’Europa e il Mediterraneo.
La questione meridionale. Guido Pescosolido - Dizionario di Storia (2010) (Treccani). L’espressione «questione meridionale» indica l’insieme dei problemi posti dall’esistenza nel Mezzogiorno d’Italia dal 1861 sino a oggi di un più basso livello di sviluppo economico, di un diverso e più arretrato sistema di relazioni sociali, di un più debole svolgimento di molti e importanti aspetti della vita civile rispetto alle regioni centrosettentrionali. Il grave degrado della vita amministrativa e dei sistemi di potere locali e l’indigenza in cui versavano nel Mezzogiorno le masse popolari furono portati per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e delle classi dirigenti nei primi anni Settanta dell’Ottocento dagli studi di P. Villari e dalle inchieste di L. Franchetti e S. Sonnino, che denunciarono l’insufficienza dell’azione dello Stato nel Mezzogiorno, senza tuttavia alcun rimpianto filoborbonico, ma riponendo nello Stato unitario stesso qualunque speranza di soluzione dei problemi meridionali. La proposta di rimedio dei mali descritti fu, infatti, una serie di riforme promosse dal governo in materia economica, sociale e amministrativa (alleggerimento del carico fiscale, facilitazioni creditizie, riforma dei contratti agrari). A partire dalla metà degli anni Ottanta si ebbe una differenziazione strutturale degli apparati produttivi della penisola molto più accentuata di quella esistente nel 1861, quando Nord e Sud avevano entrambi un’economia largamente agricolo-commerciale e un apparato industriale minimo. Dagli anni Ottanta a un Mezzogiorno persistentemente agricolo-commerciale si contrappose un’Italia settentrionale sensibilmente industrializzata. La differenza di reddito pro capite tra le due macroaree cominciò allora a crescere sensibilmente. Le plebi meridionali diedero luogo tra la metà degli anni Ottanta e lo scoppio della Prima guerra mondiale alla più grande emigrazione di massa all’estero che la storia del Mezzogiorno ricordi. Nell’ambito del pensiero meridionalista comparvero nomi nuovi. G. Fortunato, F.S. Nitti, A. De Viti De Marco, G. Salvemini, L. Einaudi sostennero che tra Ottocento e Novecento esistevano due Italie, geografiche, economiche, sociali, che procedevano a velocità diverse. Il protezionismo introdotto nel 1887, mentre favoriva la cerealicoltura estensiva del latifondo, esponeva le esportazioni di prodotti dell’agricoltura specializzata del Mezzogiorno alle ritorsioni commerciali francesi. Il Sud era ridotto a mercato coloniale delle industrie settentrionali, nell’interesse degli industriali del Nord e dei latifondisti del Sud, alleati in un blocco politico-sociale conservatore e protezionista. Per Salvemini questo stato di cose poteva essere scardinato solo mediante un’azione politica dal basso tendente al cambiamento radicale della forma dello Stato in senso federalista. Operai del Nord e contadini del Sud avrebbero dovuto lottare per l’introduzione del suffragio universale e, attraverso i mutati equilibri politici che ne sarebbero conseguiti, spezzare il blocco protezionista tra industriali e latifondisti che danneggiava non solo il Mezzogiorno ma l’intera economia nazionale. Al contrario di Salvemini, Nitti, dopo una prima fase liberista e dopo avere messo in luce come lo Stato italiano avesse drenato risorse dal Sud al Nord attraverso le leve della politica fiscale e della spesa pubblica, si convinse della giustezza della scelta protezionista. In un contesto internazionale di altissima competitività essa soltanto poteva garantire al Paese un avvenire industriale, senza il quale l’Italia intera sarebbe stata condannata all’arretratezza permanente. Alla luce di tale superiore interesse nazionale si poteva anche giustificare il sacrificio del Sud, a patto però che lo Stato si facesse carico di una politica correttiva dello squilibrio promuovendo anche nel Mezzogiorno, con interventi legislativi specifici, un processo di industrializzazione, collegato a un razionale riordino delle risorse idrogeologiche indispensabili allo sviluppo della produzione di energia elettrica. La legislazione speciale a favore delle regioni meridionali varata dal governo Giolitti all’inizio del sec. 20° derivò soprattutto da questa sua analisi. Per quanto apprezzabili, i risultati della legislazione speciale, fra cui la costruzione dell’impianto siderurgico di Bagnoli a Napoli, l’acquedotto pugliese, la direttissima Roma-Napoli, non ridussero però, né tanto meno annullarono il divario Nord-Sud. Le necessità belliche della Prima guerra mondiale, le successive politiche di restringimento degli scambi di merci e risorse umane affermatesi a livello mondiale tra gli anni Venti e Trenta, le scelte di politica demografica del fascismo e infine la Seconda guerra mondiale e la ricostruzione agirono tutte in modo che alla fine degli anni Quaranta del Novecento il dislivello economico Nord-Sud raggiungesse i suoi massimi storici. All’indomani del secondo conflitto mondiale si ebbe una vigorosa ripresa dell’azione di denuncia e proposta dei maggiori meridionalisti, nonché dei partiti che si riaffacciavano ufficialmente alla vita politica. Di fronte alla gravità del divario apparvero subito fuori tempo le posizioni della destra liberista, favorevole all’attesa dei tempi lunghi della crescita spontanea dell’economia meridionale. Tutte le altre forze intellettuali e politiche ritenevano indispensabile e urgente un intervento straordinario dello Stato sugli assetti socioeconomici del Mezzogiorno. Le differenze strategiche tra forze di ispirazione comunista, socialista, liberal-democratica e cattolica erano tuttavia marcate. Il PCI riproponeva sostanzialmente immutata la strategia di alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud che Gramsci all’indomani del primo conflitto mondiale aveva ripreso da Salvemini, inserendola nel disegno rivoluzionario marxista del suo partito. La riforma agraria fu concepita come strumento di avvio di un processo rivoluzionario degli assetti sociali e politici dell’intera società meridionale e nazionale. Fu in questa prospettiva che il Partito comunista, fiancheggiato dalla rivista Cronache meridionali con M. Alicata e G. Amendola, assunse una posizione avversa a quasi tutti i provvedimenti specifici varati a favore del Sud negli anni Cinquanta, inclusa l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e, più tardi, la stessa adesione al MEC. Alla riforma agraria guardavano con favore anche esponenti importanti del mondo cattolico. Riprendendo la linea di L. Sturzo, essi vedevano nella formazione di una piccola proprietà coltivatrice lo strumento principe per il rilancio del processo di modernizzazione di una società rurale meridionale elettoralmente controllata dalla DC. La riforma agraria era al centro anche del «grande disegno» di M. Rossi Doria e del meridionalismo socialista non inserito nell’orbita comunista. Nella riforma Rossi Doria vedeva un fondamentale strumento modernizzatore sul modello delle esperienze delle aree arretrate degli Stati Uniti. Le soluzioni prospettate puntavano a duraturi e significativi miglioramenti produttivistici, nella piena consapevolezza che essi peraltro non sarebbero bastati a riequilibrare il rapporto tra popolazione e risorse nel Mezzogiorno, un rapporto irrimediabilmente compromesso dalla politica demografica fascista. Rossi Doria vedeva pertanto inevitabile una nuova ondata migratoria dal Sud, come unica condizione per la creazione in tempi brevi di un’agricoltura competitiva e l’avvio di uno sviluppo economico autopropulsivo, che avrebbe potuto in un secondo tempo estendersi anche ad attività industriali. La riforma agraria, che pure attraverso la «legge Sila» e la «legge stralcio» assestò un duro colpo alla proprietà terriera assenteista, non rispose comunque alle aspettative di Rossi Doria. A trainare la modernizzazione dell’agricoltura meridionale non furono mai le aree interne investite dalla riforma, ma quelle costiere dell’agricoltura specializzata. Tanto meno la riforma agraria fu il volano del processo di radicale sovvertimento economico e sociale preconizzato dalla sinistra comunista. Il più grande processo di trasformazione della società meridionale che la nostra storia ricordi, anche se non si è concluso con la rimozione del divario, è avvenuto solo grazie alla destinazione di una mole senza precedenti di risorse oltre che al settore agricolo anche e soprattutto al secondario e terziario, come aveva intuito a suo tempo Nitti e come sostennero a partire dal 1946 i fondatori della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), R. Morandi e P. Saraceno, e poi i meridionalisti liberaldemocratici gravitanti intorno al Mondo di M. Pannunzio e alla rivista Nord e Sud fondata da F. Compagna, con V. De Caprariis, G. Galasso e R. Romeo. Costoro negli anni Cinquanta ritenevano ormai improrogabile l’equiparazione del Mezzogiorno al benessere e alla civiltà delle democrazie industriali dell’Occidente, mediante uno sviluppo che rendesse quella meridionale una società pienamente e organicamente sviluppata in tutte le sue componenti, rurali e urbane. E ciò attraverso un intervento straordinario che doveva avvenire non solo attraverso leggi speciali come quelle dell’inizio del sec. 20°, ma anche attraverso istituzioni appositamente finalizzate alla loro applicazione quali anzitutto e soprattutto la Cassa per il Mezzogiorno. La politica di intervento straordinario si concluse senza annullare il divario Nord-Sud e la sua liquidazione sancì una crisi gravissima del meridionalismo e per alcuni anni una scomparsa della questione meridionale dall’agenda politica del Paese. Ciò avvenne per una serie di ragioni che il meridionalismo di vari orientamenti (P. Saraceno, U. La Malfa, F. Compagna, G. Cingari, G. Galasso e altri) ha ripetutamente messo in luce. Crisi petrolifera, assenza di un’efficace programmazione a causa della scelta delle forze politiche e sindacali di non attuare una rigida politica dei redditi e di contenimento dei consumi, uniformità dei livelli salariali tra Nord e Sud che scoraggiava gli investimenti, insufficienza delle classi dirigenti regionali di fronte alla prova dell’autonomia, crescita della malavita organizzata, uso clientelare di parte cospicua delle risorse destinate al Mezzogiorno. Tuttavia, al cospetto di quanto avvenuto dopo la sua liquidazione, quando l’andamento dell’economia meridionale è stato, per almeno otto anni, il peggiore in assoluto di tutta la storia del Mezzogiorno nel secondo dopoguerra, va anche detto che l’intervento straordinario resta a tutt’oggi l’unica strategia che si sia rivelata capace, al saldo di tutti i suoi risvolti negativi, di fare del Mezzogiorno una delle aree più progredite del Mediterraneo, radicalmente diversa per struttura produttiva e configurazione sociale da quella di sessant’anni addietro. Il persistere del divario, e soprattutto l’assenza nel Mezzogiorno di una condizione strutturale per cui la sua economia sia in grado di mantenere, senza il sostegno di aiuti esterni, uno sviluppo autopropulsivo superiore a quello del Centro-Nord è peraltro un problema che non è possibile in alcun modo ignorare. Sembra al riguardo ancora attuale quanto scrisse nel 1959 R. Romeo a proposito del ruolo del Mezzogiorno nella storia dello sviluppo economico italiano. Romeo sostenne che il sacrificio del Mezzogiorno, ancorché obbligato, era stato altamente funzionale, se non addirittura essenziale, allo sviluppo dell’industria settentrionale e dell’intera economia nazionale fino alla Seconda guerra mondiale. Tuttavia l’arretratezza accumulata dal Sud a causa dello sviluppo capitalistico nazionale protetto rischiava di trasformarsi ormai in un fattore di grave rallentamento della stessa economia settentrionale. Ed è quest’ultimo concetto che ci ricorda che è nell’interesse dell’intera comunità nazionale, e non solo del Mezzogiorno, interrogarsi sulla natura odierna della questione meridionale e sui suoi possibili rimedi.
Trinacria power. Ecco perché ci sono tanti siciliani ai vertici dello Stato…, scrive Franco Busalacchi il 29 settembre 2017 su “I Nuovi Vespri”. Questa anomala abbondanza di cariche istituzionali nazionali occupate da siciliani aveva insospettito Franchetti e Sonnino, autori dell’inchiesta in Sicilia del 1876 i quali da acuti ricercatori avevano trovato la risposta…L’Espresso di qualche settimana fa ha pubblicato un articolo sui Grillopardi e vi ha inserito un polittico di siciliani eccellenti sotto il titolo Trinacria Power. Vi erano riportate le fotografie, tra gli altri, di Mattarella, Grasso, Alfano, Pitruzzella e Paino. Qualcuno si sarà certamente fatto una domanda: come è possibile che con tante eccellenze collocate ai vertici delle istituzioni repubblicane la Sicilia sia la schifezza della schifezza delle Regioni? Domanda legittima. Dovete sapere che questa è storia antica. Infatti questa anomala abbondanza di cariche istituzionali nazionali occupate da siciliani aveva insospettito Franchetti e Sonnino, autori dell’inchiesta in Sicilia del 1876 i quali da acuti ricercatori avevano trovato la risposta. Siccome i siciliani non ci stanno ad essere derubati e sono gente sempre pronta al dunque, ecco che occorre frantumare il fronte carsico della ribellione e dell’insurrezione sonnecchiante, cooptando nel sistema centrale quanti più rappresentanti siciliani possibili. Ovviamente, poiché la qualità nei siciliani è abbastanza diffusa e quindi c’è abbondanza di materia prima, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La “chiamata”, proprio in ragione dello scopo che si prefigge, “sopire, chetare”, ha però un prezzo: gli “eletti” non possono parlare della Sicilia, nessun intervento per la Sicilia va perorato, al contrario, la parola d’ordine è assecondare ogni azione del sistema, teso a derubare l’Isola e, per di più, tenere buoni i conterranei siciliani i quali ovviamente si fideranno. Quale siciliano potrebbe infatti pensare che un siciliano, Presidente del Consiglio, a parte Crispi e Scelba, farebbe sterminare suoi conterranei che chiedono migliori condizioni di lavoro?
Veniamo ai fatti. La fattispecie che descriverò dovrebbe essere nota ai nostri lettori: è stata definita e denominata come il “Patto scellerato Renzi-Crocetta”. Qui è necessario qualche passaggio un po’ tecnico. E spero me lo me lo perdonerete per amore della verità. L’Art. 8 dello Statuto della Regione Sardegna così stabilisce:
Le entrate della Regione sono costituite:
a) dai sette decimi del gettito delle imposte sul reddito delle persone fisiche e sul reddito delle persone giuridiche riscosse nel territorio della regione;
L’articolo 36 dello Statuto della Regione siciliana stabilisce che:
1. Al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione…
E’ chiaro? Alle Sardegna spettano i 7 decimi del gettito, alla Sicilia l’intero gettito. Eppure lo Stato italiano, con la collaborazione pelosa dei politici siciliani, è riuscita ad equiparare le entrate della Sicilia a quelle della Sardegna sottraendoci il 30% delle nostre risorse. Lo Stato, “leale collaboratore” del piffero, ha remato contro, sin dall’inizio della vita della Regione, le ha sperimentate tutte, dal furto con destrezza alla truffa semplice, dal ricorso specioso alla causa temeraria, fino a quando le condizioni per fare i propri comodi non si sono presentate. Ovvero, la coincidenza che in tutti i punti nodali del procedimento necessario per derubare definitivamente i siciliani ci fossero siciliani. Care amiche e cari amici, dovete sapere che un determinato articolo del nostro Statuto può divenire operativo se vengono emanate le relative norme di attuazione. Queste sono un meccanismo normativo che regola il passaggio dallo Stato alla Regione dei poteri e delle competenze previste in quel determinato articolo. E’ un percorso lungo e complicato che di mani in mani passa attraverso vari organi istituzionali. Vi descriverò quello del “Patto scellerato”.
Tutto comincia quando, a corto di liquidità, e con la promessa di avere prestati 800 milioni di euro, Rosario Crocetta (primo siciliano in causa) subisce dal governo centrale due ricatti: il primo di dovere rinunciare ad alcuni ricorsi in materia tributaria alla Corte costituzionale che, se vinti, avrebbero fatto pervenire nella ‘casse’ della Regione svariati miliardi di euro (vedi qui); il secondo di approvare le norme di attuazione dell’art 36 dello Statuto siciliano con la rinuncia all’intero gettito e con l’equiparazione alla norma della Regione Sardegna. Si trattò di una scorretta e anticostituzionale interpretazione della serie “Il lupo e l’agnello”. Mentre l’Assemblea regionale approva l’operato di Crocetta (per vedere chi vota a favore vai a “Ars, ecco i nomi dei Giuda che affossano la Sicilia), una commissione lavora alacremente: ha il compito di elaborare le norme di attuazione che daranno gambe al ‘Patto scellerato’. E’ una commissione interamente composta da siciliani, due nominati dallo Stato, Ida Nicotra e Antonio La Spina, e due dalla Regione, Giuseppe Verde e Antonino Caleca, tutti piddini di stretta osservanza renziana. La legge approvata dalla Regione diventa parte integrante della legge statale sugli enti locali con il voto favorevole dei deputati siciliani (vedi: “Accordo truffa. Ecco i traditori siculo – romani) e dai senatori siciliani (Ecco i senatori siciliani che hanno detto sì al patto scellerato), con il testa il sicilianissimo Piero Grasso. Il pregevole lavoro della Commissione paritetica viene portato in Consiglio dei ministri, dove Alfano il girgentano si volta dall’altra parte, e infine viene sottoposto alla firma del siciliano supremo, l’ultimo siciliano in causa, Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica. Questo è il vero Trinacria power!
LA TRACCIA di NICOLA CARACCIOLO. 1 luglio 2011 su "La Repubblica". Dopo Franchetti e Sonnino nel Sud che moriva di fame. L'inchiesta dell'Espresso del 1959. Come nacque e come si sviluppò il reportage a più voci che l'Espresso di Arrigo Benedetti pianificò nel 1959 ricalcando il celebre Grand Tour dell'arretratezza e della miseria compiuto nel 1876. Lo racconta uno dei giornalisti incaricati di ripercorrere quell'itinerario, primo obiettivo la Sicilia e Tudia. Arrigo Benedetti, il terribile direttore dell'Espresso di quegli anni, durante la riunione di redazione che si teneva ogni mercoledì pomeriggio con tutti i redattori presenti, una quindicina circa, annunciò con voce bassa e minacciosa il suo nuovo grande progetto: un'inchiesta sulla miseria e l'arretratezza del Sud, fatta sulle orme di un classico della materia scritto nel 1876 da Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, pietra miliare degli studi italiani sulla questione meridionale. La nostra inchiesta avrebbe avuto come titolo “L'Africa in casa”.
Era il 1959, era gennaio. Io avevo 27 anni, cuore socialista, madre americana, colta, ricca, bella, liberal; padre principe napoletano, antifascista. Durante la Resistenza aveva fatto parte di Giustizia e libertà e poi del Partito di azione. Era presidente dall'Automobil Club d'Italia. Mia sorella Marella aveva sposato Gianni Agnelli, mio fratello Carlo era il mio editore e tra i socialisti e i comunisti, tutto sommato, preferiva questi ultimi. Con alle spalle questa situazione, montai sulla mia millecento e andai verso un'Italia che non conoscevo. Con me c'era un altro giornalista, Manlio del Bosco, ex combattente in Russia, militante del Partito radicale, quindi grande amico sia di Eugenio Scalfari che di Arrigo Benedetti, che allora erano ambedue radicali: parte cioè di una tradizione che, anche se aperta a sinistra, rimaneva tenacemente liberale. La nostra meta sarebbe stata per due mesi prima la Sicilia e dopo la Calabria. Altri giornalisti si sarebbero diretti invece a Napoli, nelle Puglie, in Abruzzo e anche nel Polesine, considerato, benchè nel Nord, zona depressa. Benedetti ci ammonì: dovevamo assolutamente seguire le tracce dell'inchiesta di Franchetti e Sonnino. E noi sapevamo che, pena la vita, bisognava ubbidire. Prima di partire andai dunque alla Biblioteca nazionale per leggere quel sacro testo. Benedetti governava la redazione col terrore. Gli portavamo i nostri pezzi tremando. Lui li leggeva sillabando lettera per lettera. Se qualcosa non gli piaceva, nasceva un putiferio. Uomo generoso, non licenziò mai nessuno, ma coprì di insulti a più riprese tutti suoi redattori, Scalfari eccettuato. Il mio primo contatto con il mondo della povertà siciliana ebbe, per me, qualcosa di allucinante. Non pensavo fosse possibile, ottanta anni dopo la famosa inchiesta da cui eravamo partiti, che la gente stesse così male. Franchetti e Sonnino, d'accordo, erano intelligenti, sinceri e spregiudicati, ma io ritrovavo le tracce di un mondo più recente, quello di "Cristo si è fermato ad Eboli" di Carlo Levi. Ignoranza, analfabetismo, denutrizione, condizioni sanitarie deplorevoli. Danilo Dolci, al quale ci rivolgemmo per consigli, ci raccontò che la sua protesta contro le ineguaglianze sociali in Sicilia aveva avuto inizio a Partinico quando gli fu messo davanti il corpo di un fanciullo morto di fame. Più che i dati e le analisi di Franchetti e Sonnino, noi ci trovavamo ancora di fronte questo mondo. A Palermo, agli angoli delle strade dei quartieri più poveri, Cortile Cascina per esempio, si vedevano grandi pentoloni messi a bollire con dentro porcherie di ogni genere, chiamate quarume, ritrovate nelle pattumiere. Però c'era anche un qualcosa di inaspettato. La presenza di un mondo di maghi e di fattucchiere che condizionano la vita dei villaggi. A Tudia, per esempio, un gruppo di donne era convinto che ci fosse stata l'apparizione di una presenza divina: un angelo travestito da viandante, che aveva annunciato prossima la fine del mondo. “C'erano troppe sofferenze”, aveva detto l'angelo. All'insaputa di Benedetti, oltre a quella di Franchetti e di Sonnino, io avevo la guida, certo anche di Carlo Levi, ma soprattutto di Ernesto De Martino, l'antropologo autore di un libro allora celebre, Il mondo magico, e di inchieste sulla condizione dei contadini meridionali.
L'inchiesta di Franchetti e Sonnino sulla Sicilia, scrive Salvatore Lucchese il 26 ottobre 2006 su "Quindici Molfetta". Nel 1876 Sidney Sonnino (nella foto) e Leopoldo Franchetti intrapresero la loro inchiesta sulla Sicilia, che già era stata oggetto di un'indagine parlamentare approdata ad una valutazione estremamente prudente sui mali che la caratterizzavano. Nel primo volume dell'inchiesta – Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia – Franchetti incentrò la propria attenzione sulle radici storico-sociali della violenza diffusa e della mafia. L'aspetto specifico della criminalità organizzata dell'isola fu individuata dal giovane toscano nell'universale complicità di cui essa godeva ai più svariati livelli. Ma l'osservazione più importante era l'organicità della mafia rispetto al sistema di clientele e alla natura particolaristica dei rapporti sociali, che alimentava la fedeltà verso un gruppo ristretto di individui mimando il consenso e la fiducia nei confronti delle istituzioni e del bene comune. Le origini del sistema clientelare e della mentalità individualista, secondo Franchetti, doveva essere rintracciata nella storia dell'isola che per secoli aveva conosciuto un sistema feudale sopravvissuto alle riforme costituzionali e alle leggi che lo dovevano abolire. L'abolizione formale del regime feudale con la costituzione del 1812 non mutò la realtà di fatto di dominio e sopraffazione. “Ma – osserva Franchetti – se dopo l'abolizione della feudalità non era mutata la sostanza delle relazioni sociali, ne era bensì mutata la forma esterna. Avevano cessato di essere istituzioni di diritto la prepotenza dei grandi ed i mezzi di sancirla: le giurisdizioni e gli armigeri baronali. L'istrumento che conveniva adesso adoperare per i soprusi, era in molti casi l'impiegato o il magistrato”. Con l'unità d'Italia la situazione non cambiò. Anzi i latifondisti accrescono il loro potere e la loro influenza a discapito delle classi meno abbienti. In una situazione del genere il compito dello Stato italiano era quello di fare prevalere l'autorità della legge e della giustizia sull'autorità privata non con i metodi repressivi, ma con un sistema giuridico-politico fortemente accentramento per sottrarre alle consorterie locali il controllo della polizia e della magistratura. Franchetti era conscio del fatto che il suo programma sarebbe stato ostacolato dalle forze politiche governative, che, in parte, erano espressione di quei ceti dominanti nell'isola che egli intendeva combattere. Ma la soluzione dei mali era necessaria se non si voleva mettere a rischio la stessa unità nazionale. “Certamente – affermò Franchetti – l'Italia potrà sussistere per molto tempo ancora in quelle medesime condizioni nelle quali vive da quindici anni. Sono molte le malattie organiche che non spingono a pronta morte. Ma in un organismo indebolito, pieno di germi di decomposizione, quelle medesime cagioni che in un corpo sano produrrebbero effetti appena avvertibili, generano lo sfacelo generale. E quando questo avvenisse, i primi a soffrirne crudelmente sarebbero i membri di quella classe che adesso non sa capire quali responsabilità e quali doveri le imponga di fronte al rimanere della nazione il fatto ch'essa è quasi sola a trar profitto della libertà italiana”. Un monito, quello di Franchetti, ancora oggi drammaticamente attuale. Salvatore Lucchese
Franchetti – Sonnino. Di Luciano Mirone, martedì, 6 dicembre, 2011 su “L’Informazione”. Nel 1876 due deputati nazionali, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, presentano in Parlamento una relazione destinata a passare alla storia, si intitola “Inchiesta in Sicilia”, è la prima indagine documentata sulle condizioni sociali ed economiche dell’Isola dopo l’Unità d’Italia. Prima d’allora nessuno – almeno a certi livelli – si era cimentato in un lavoro del genere, c’erano stati i grandi viaggiatori che della Sicilia avevano descritto il volto più bello, ma non avevano approfondito il lato più deteriore e triste. Questa relazione, oltre a creare scandalo negli ambienti più perbenisti, fu considerata un fulmine a ciel sereno per chi era abituato ad avere dell’Isola l’immagine aulica dell’ “Isola felice”. I parlamentari, avvalendosi delle testimonianze di persone comuni, di magistrati, di prefetti, di questori e di rappresentanti della forze dell’ordine, descrivono la mafia come si presenta ai loro occhi – un’accozzaglia di briganti, di malandrini, di facinorosi alleati con i ricchi proprietari terrieri, che trae forza dalla violenza e dal delitto –, stilano centinaia di pagine che suscitano dibattiti a non finire, ma evidentemente non riescono ad andare oltre (almeno sul piano politico). Anzi, le analogie fra quell’epoca e questa – seppure segnate da condizioni del tutto differenti – è stupefacente, soprattutto per quanto riguarda i rapporti fra mafia e politica. Un lavoro prezioso perché “pionieristico” in quanto precede quello di illustri studiosi della questione meridionale (pensiamo a Giustino Fortunato) e perché mette in risalto le diverse sfaccettature del fenomeno mafioso. A tanti anni di distanza, la casa editrice “Yorick” pubblica dei passi scelti di quella famosa relazione, destinati soprattutto alle scuole. Il titolo, “La mafia è un sentimento medioevale”, è estrapolato da una frase contenuta nella stessa relazione. Un lavoro arricchito da un saggio (“Il costo delle mafie”) curato da Giuseppe Ciaccio, responsabile del Nucleo ricerche economiche della sede palermitana della Banca d’Italia, che approfondisce le ricadute finanziarie – soprattutto in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia – causate dalla presenza della criminalità organizzata. Le pagine di Franchetti e Sonnino “fotografano” la condizione di una Sicilia povera e ignorante, dove la mafia si è sostituita in tutto e per tutto ad uno Stato assente e spesso inefficace, anche se la differenza fra la parte occidentale dell’Isola e quella orientale (allora indenne dal fenomeno mafioso) viene marcata più volte. “La prima impressione”, si legge, “del viaggiatore che, sbarcato a Palermo, visita la città e i suoi dintorni… è una delle più grate che si possano immaginare”. Gli autori vengono colpiti dalla “bellezza delle vie principali, dall’aspetto monumentale dei palazzi, e dall’illuminazione notturna, una delle migliori d’Europa”, e scrivono che il capoluogo siciliano “presenta tutte le apparenze di un paese ricco e industrioso”, specie se si pensa alla “perfezione della coltura dei giardini della Conca d’Oro”. Ma quando il forestiero si spinge oltre le apparenze, si accorge che la situazione è ben diversa. “Egli sente raccontare che in quel tal luogo è stato ucciso con una fucilata partita da dietro un muro, il guardiano del giardino, perché il proprietario lo aveva preso al suo servizio invece di altro, suggeritogli da certa gente che s’è presa l’incarico di distribuire gl’impieghi nei fondi altrui”. Non meno efficace quest’altro passo, che si sofferma sul modo di fare clientelismo (probabilmente a sfondo politico) con la forza del delitto: “A un giovane che aveva avuto l’abnegazione di dedicarsi alla fondazione e alla cura di asili infantili nei dintorni di Palermo, è stata tirata una fucilata”. Perché? “Certe persone che dominavano le plebi di quei dintorni, temevano ch’egli, beneficando le classi povere, si acquistasse sulle popolazioni un poco dell’influenza ch’esse volevano riserbata esclusivamente a sé stesse”. Ma questo è soltanto il “primo livello”, l’ala militare dell’organizzazione. Poi si scorge il “terzo”, quello politico: “I Ministeri italiani d’ogni partito sono i primi a dare l’esempio di quelle transazioni interessate che sono la rovina della Sicilia”. E poi: “Il prefetto stesso deve ubbidire ai superiori, e così dimenticare il vero fine della sua missione”. Alla fine la storia si ripete: “Una volta aperta la porta agli intrighi, si vede a Roma l’influenza del prefetto avversata da quelle stesse persone che egli ha ufficio di combattere”. Conclusione: quando dei capi mafia si trovano sotto processo per quelle “violenze sanguinarie che opprimono il paese, v’è come una forza arcana che li protegge contro chiunque, soprattutto contro l’autorità pubblica”. Sono trascorsi 134 anni. Da allora cosa è cambiato?
Inchiesta in Sicilia. Da Wikiversità, l'apprendimento libero.
L'Italia unita ricerca la propria identità. Abbiamo esaminato il quadro dell'agricoltura toscana delineato da Cosimo Ridolfi: le apparenze seducenti di uno scenario dominato dalle colture arboree, l'emergere, dietro le cortine armoniose di viti, olivi e gelsi, dell'arretratezza degli ordinamenti, delle incongruenze del sistema mezzadrile, della resistenza, opposta agli imperativi di rinnovamento, dalla rigidità degli equilibri tradizionali. Può sorprendere chi abbia verificato la lucidità delle argomentazioni del patrizio toscano constatare, nel dibattito economico dei decenni successivi all'Unità, l'assunzione della mezzadria toscana a termine ideale di comparazione dei sistemi di conduzione delle regioni del Paese in cui persistono consuetudini agrarie che rivelino le tare dell'inefficienza produttiva e dell'iniquità contrattuale. L'unificazione nazionale è stato il frutto di un moto che ha coinvolto una cerchia sostanzialmente esigua di spiriti patriottici, pensatori illuminati, generosi uomini d'azione: lo ha raccolto, in circostanze storiche singolarmente favorevoli, il realismo politico di uno statista che ha potuto avvalersi della macchina militare che il suo sovrano ha ereditato da antenati famosi per le glorie guerresche. Dopo secoli di divisione, ai principati uniti dalla corona sabauda manca il cemento di una cultura storica, giuridica, economica comune: abbiamo registrato la crisi di identità che l'Unità determina tra le scuole agrarie regionali, incapaci di emanciparsi dagli orizzonti entro i quali hanno sviluppato la propria tradizione per affrontare i problemi nuovi determinati dalla formazione di un solo grande mercato. L'assenza di una dottrina agraria nazionale alimenta, abbiamo rilevato, lo sconcerto dei possidenti, il disorientamento dei governanti, spiega le incongruenze di più di una scelta politica assunta nell'assenza di una conoscenza adeguata dei fenomeni da disciplinare. Unita senza conoscere se stessa l'Italia si osserva inquieta alla ricerca della propria identità: gli ostacoli che si frappongono alla mutua conoscenza e comprensione delle aree diverse del Paese sono enormi: intere regioni sono isolate dalla mancanza di vie di comunicazione, parlano linguaggi reciprocamente incomprensibili, praticano costumi che rappresentano il retaggio di civiltà dalle radici le une alle altre estranee. Degli elementi che la coscienza nazionale raccoglie faticosamente alla ricerca di un patrimonio culturale sul quale fondare l'unità politica numerosi sono tali da suscitare stupore e smarrimento, non di rado una violenta repulsa. Nel quadro nazionale l'agricoltura è l'attività dalla quale trae i mezzi di sussistenza la parte preponderante della popolazione, la prima fonte della ricchezza prodotta nel Paese, il primo dei cespiti che alimentano le finanze pubbliche: è, quindi, obbedendo ad una necessità ineludibile che all'agricoltura dedicano le proprie indagini e la propria riflessione quanti partecipano alla ricerca delle strade per la conoscenza ed il governo della società italiana. E nella sfera dell'agricoltura gli elementi che suscitano l'apprensione di politici e uomini di cultura impegnati ai trasformare un mosaico di regioni disarticolate in nazione unitaria sono innumerabili: l'arretratezza delle pratiche agrarie diffuse nella maggior parte del Paese, conseguenza del supino ossequio alla tradizione di proprietari e contadini, la miseria delle popolazioni rurali, durissima anche nelle aree dove gli ordinamenti colturali sono più progrediti, la diffusione di malattie endemiche che dilagano con la virulenza di piaghe sociali, la frammentazione dei mercati, pesante remora che si oppone alla specializzazione delle produzioni secondo le vocazioni regionali. In un panorama nel quale sono i fattori di arretratezza e di disgregazione ai imporre la propria preminenza, un'inquietudine particolare suscita la situazione delle regioni nelle quali agli squilibri agrari appaiono più intimamente legate le lacerazioni del tessuto sociale: la diffusione della criminalità e del brigantaggio, l'inefficienza delle istituzioni civili impiantate dallo Stato unitario. Propongono, con intensità diversa, il binomio di arretratezza agraria e disordine sociale la Romagna, la Campania, la Basilicata, la Calabria: la sua gravità è particolarmente drammatica in Sicilia, dove il brigantaggio trova nella miseria della popolazione rurale il terreno più fertile per imperversare incontenibile, dove la mafia, il vocabolo si è imposto con prepotenza nel lessico politico nazionale, distende un alone di onnipotenza nelle campagne di tutte le province occidentali, e l'invalicabile barriera di omertà di cui godono i delinquenti vanifica gli sforzi dei funzionari regi più solerti, immobilizza l'imponente schieramento militare che il Governo mantiene, senza risultati tangibili, nell'Isola. Le tare dell'agricoltura, le loro connessioni con le disfunzioni sociali, miseria e delinquenza, e con l'inefficienza delle istituzioni, infiammano il dibattito più concitato. Da quel dibattito prendono vita, tra il 1875 e il 1877, l'inchiesta parlamentare sulla situazione economica e civile della Sicilia e quella sull'agricoltura nazionale, espressioni, entrambe, dell'impegno per la conoscenza del quadro nazionale: il confuso contrappunto di voci in dissonanza che ne accompagna lo svolgimento e ne segue le conclusioni tradisce, peraltro, clamorosamente, l'impreparazione a governare la vita nazionale di una classe politica la maggioranza dei cui membri è incapace di spingere lo sguardo oltre i confini del collegio elettorale. Gli uomini la cui percezione politica e la cui passione civile varcano le barriere che hanno diviso nei secoli la Penisola sono drappello esiguo: seppure vigorosa, la loro voce si leva a fatica dal coro di quanti reclamano la tutela di interessi locali. In quel manipolo sono destinati ad assumere ruoli di prestigio eminente tre studenti universitari che verificano la comunanza dei propri ideali civili alla Scuola normale di Pisa, nelle aule dalle quali si è irradiato il magistero di Ridolfi e di Cuppari: Leopoldo Franchetti, fiorentino, Enea Cavalieri, ferrarese, Sidney Sonnino, pisano. Il primo futuro animatore, con l'amico Sonnino, della Rassegna, una delle voci più lucide e coraggiose del confronto politico nazionale, il secondo futuro alfiere della cooperazione agricola, il terzo protagonista di una impegnativa attività ministeriale, che lo porterà due volte a ricoprire il ruolo di capo del Governo. Prima dell'Unità focolaio fervente di idealità patriottiche, negli anni successivi all'unificazione l'Ateneo pisano è assurto a centro di un dibattito appassionato fino alla violenza: professori e studenti si raccolgono attorno alle bandiere che contendono i consensi elettorali e animano lo scontro parlamentare, quella liberale e quella clericale, quella radicale e quella socialista. Tra le fazioni opposte diverbi e polemiche ardono inestinguibili. Per ognuno dei problemi cruciali della vita nazionale quattro strategie si misurano contrapponendo analisi inconciliabili e proposte divergenti, alimentando dissensi tanto violenti sul terreno verbale quanto, spesso, inconsistenti su quello politico. È la percezione dell'inanità delle dispute verbali, la determinazione a confrontare i propri ideali con i problemi più drammatici della realtà nazionale ad indurre Cavalieri, Franchetti e Sonnino ad una decisione nella quale si compendia il gusto dell'esplorazione dei grandi viaggiatori contemporanei, l'aspirazione a contribuire ali progresso civile della Patria, una considerevole carica di goliardica temerità: visitare la Sicilia per studiarne le condizioni economiche e civili. Siccome reputano che i nodi della società siciliana siano strettamente connessi alle forme di conduzione della terra e a quelle di ripartizione dei suoi prodotti, stabiliscono che lo studio dell'agricoltura costituirà l'obiettivo esplicito della missione, che non riveleranno, invece, a nessuno dei futuri interlocutori le finalità politiche del viaggio, nel convincimento che dall'indagine dei problemi agrari emergeranno, per le connessioni intrinseche, le ragioni economiche, sociali e politiche del disordine civile dell'Isola. Nessun indizio la relazione del viaggio fornisce per valutare quale influenza abbia esercitato, sulla decisione, sulla scelta dell'itinerario e dei quesiti da affrontare, la conoscenza, che dobbiamo presumere, di Girolamo Caruso, il successore, anch'egli siciliano, di Cuppari sulla cattedra di agronomia dell'Ateneo pisano, ardente fautore della stessa proposta di cui si faranno propugnatori, al ritorno, i tre giovani studiosi per rinnovare il tessuto agrario e sociale dell'Isola, la diffusione del contratto di mezzadria. Mentre precisano il proprio disegno, il Parlamento delibera l'esecuzione di un'inchiesta sulle condizioni della Sicilia. Decisi a precedere, con la propria relazione, la pubblicazione della relazione parlamentare, affrettano i preparativi, che si protraggono, comunque, per qualche mese, compromettendo l'assolvimento del proposito.
Passione civile, carabina e revolver. Procuratisi una serie di lettere credenziali per siciliani facoltosi, per funzionari civili e ufficiali dell'esercito in servizio nell'Isola, acquistate quattro carabine a ripetizione dell'ultimo modello offerto dal commercio e quattro revolver di grosso calibro, accompagnati da un servitore, intraprendono, nel gennaio del 1876, un itinerario che li condurrà, nel corso di quattro mesi, a toccare tutti i centri più importanti della regione, attraversando uno scenario geografico e sociale che non tradisce le attese di tre giovani trasportati dalla passione politica e dallo spirito d'avventura. «Presa la nostra decisione -scrive Cavalieri vergando, nei 1925, la prefazione alla seconda edizione della relazione del viaggio che, al ritorno, è stata realizzata dai due amici- abbiamo subito pensato alla preparazione necessaria. Anzitutto occorreva che ciascuno raccogliesse quante più lettere di presentazione presso siciliani di diversa condizione ma sempre dimoranti nell'Isola e preferibilmente interessati nell'Agricoltura; infatti alla vigilia della partenza ne contavamo già quaranta che poi si moltiplicarono grazie alla grande cortesia con cui quei signori ci accolsero, e ce ne munirono. Fin da allora ci siamo prefissi di non prendere appunti durante i nostri colloqui, ma di affidarne alla memoria le parti più importanti e redigerne ricordo scritto alla sera aiutandoci scambievolmente. Conservo ancora il mio testo che comprende oltre cinquecento pagine e nel quale si leggono perfino gravissime accuse sulle quali, com'era doveroso, abbiamo conservato un geloso silenzio. Poiché era da prevedere che avremmo passato moltissime notti nei più umili villaggi e nei loro alloggi primitivi, abbiamo pensato ad aggiungere al nostro semplicissimo bagaglio dei letti da campo pieghevoli, ognuno munito di quattro vaschette di rame, rientranti l'una nell'altra per economia di spazio, nelle quali, riempiutele d'acqua, tuffare i piedi del letto prima di coricarci, per isolarlo dagli insetti. Abbiamo pure dovuto preoccuparci dell'eventualità di venire aggrediti dai briganti a scopo di ricatto, e quindi abbiamo deciso di provvedere per noi e per un fidato nostro servo che ci doveva accompagnare, quattro carabine "vetterli" di recentissimo modello a ripetizione, e quattro rivoltelle di grosso calibro, da portare costantemente su noi lungo il viaggio nell'interno... ... abbiamo avuto occasione di avvertire molti pericoli perché scoscesi i sentieri, infide le cavalcature e spesso acconcio agli agguati il solitario nostro cammino, non ci siamo mai trovati di fronte a minacce concrete. È vero che viaggiavamo con molte precauzioni lasciando sapere il meno possibile i nostri itinerari e le nostre prossime tappe, e scegliendo mulattiere e guide solo all'ultimo momento...Ma se i briganti forse non pensarono nemmeno a tentare un colpo di mano ai nostri danni, noi abbiamo avuto tuttavia ripetutamente la sensazione della loro vicinanza. Talora il nostro piccolo drappello è stato scambiato per una banda, e i carabinieri, a Mistretta ed altrove, e lo stesso Prefetto a Caltagirone, ci confessarono l'errore provocando la nostra più schietta ilarità.» Se l'itinerario siciliano è stato generoso di occasioni per appagare lo spirito d'avventura, dalle visite, dai colloqui, dalla riflessione sulla società in cui si sono immersi i tre laureati della Scuola normale non hanno mancato di ricavare gli elementi con cui assolvere allo scopo che si sono proposti. Usando dell'acume che ne farà protagonisti di primo piano della vita nazionale hanno interrogato centinaia di siciliani di ogni condizione, dai grandi proprietari patrizi ai contadini con i quali sono stati in grado di dialogare, superando diffidenze e ritrosie hanno raccolto notizie, dati, impressioni che coprono l'intero mosaico della vita sociale dell'Isola. Riordinando, al ritorno, l'immensa mole degli appunti vergati, alla luce della lanterna, nelle stanze di locanda, si accorgono della difficoltà di dividere dati e notizie in tre sfere concettualmente distinte, quante vorrebbero individuarne peli ripartire in tre volumi la memoria del viaggio compiuto. Risolve il dilemma della suddivisione la decisione di Cavalieri, non pago dell'avventura siciliana, di partire per compiere il giro del mondo. La ripartizione della materia in due parti può essere compiuta secondo un criterio intrinsecamente coerente: Franchetti assume il compito di illustrare le condizioni civili e amministrative dell'Isola, Sonnino di svolgere l'esame delle forme di sfruttamento della terra, le pratiche agronomiche, le produzioni, i contratti agrari. L'imminenza della pubblicazione degli atti dell'inchiesta parlamentare impegna i due giovani studiosi, decisi a precederla con la propria relazione, in un'accesa competizione col tempo. Rifiutando di sacrificare l'organicità del lavoro abbreviandone la stesura, esso vede la luce in dicembre, tre mesi dopo la pubblicazione della relazione parlamentare: anziché comprometterne il significato la dilazione ne accentua il rilievo politico. Cedendo alle pressioni dei circoli politici siciliani, gli estensori della relazione hanno omesso l'analisi delle radici sociali del clima di illegalità che regna nell'Isola, hanno sottaciuto le connivenze e la generale omertà di cui fruisce la delinquenza organizzata. Oltre al significato di analisi penetrante della società siciliana, la relazione del viaggio assume quello di denuncia delle omissioni dell'inchiesta pubblica. Fedeli al disegno concepito partendo per la spedizione, muovendo dal terreno di un'indagine di economia agraria Franchetti e Sonnino sviluppano un'analisi organica dei rapporti sociali ed economici, dell'ordine amministrativo, di quello giudiziario della Sicilia. La procedura d'indagine si rivela perfettamente coerente all'oggetto di studio: salvo l'appendice mineraria rappresentata dall'estrazione dello zolfo, la società siciliana è, infatti, una società agricola. È parte di una società agricola la folla di braccianti, piccoli affittuari e compartecipanti che popola i borghi dell'Isola, di cui coltiva le distese di cereali e i giardini arborati in una condizione di soggezione alla terra e ai suoi padroni di inconfondibile matrice medievale. È parte di una società agricola l'unico elemento di borghesia mercantile presente nel quadro isolano, quel ceto di gabellotti che costituisce l'arbitro dell'economia della regione, disponendo dell'affitto dei latifondi, del commercio del grano, dei flussi di denaro, che controlla attraverso l'usura. È parte di una società agricola la nobiltà che nei palazzi di Palermo dissipa in un ozio sontuoso le rendite dei latifondi, la cui infima produttività, conseguenza della primordialità dei metodi di coltura, è compensata dall'immensità delle superfici. Intrinsecamente interdipendenti, analisi degli ordinamenti agrari e analisi degli equilibri sociali si dividono nei due volumi senza perdere la coesione che ne fa i segmenti di una sola indagine, guidata dalla medesima ispirazione economica e civile. L'opera vede la luce con un titolo generale, La Sicilia nel 1876, ed un sottotitolo per ognuno dei due volumi: Condizioni politiche e amministrative il primo, I contadini il secondo.
La mafia signora della vita civile ed economica. Costruito, secondo un piano espositivo di grande funzionalità, usando gli strumenti di una profonda cultura giuridica e politica, in una prosa elegante ed efficace, il primo volume, frutto del lavoro di Franchetti, propone al lettore moderno pagine di attualità sconcertante nel terzo capitolo, La pubblica sicurezza, nel quale, analizzando i fenomeni che turbano la convivenza nell'Isola, il giovane studioso indaga sulle radici storiche e le manifestazioni peculiari, sociali ed economiche, della più potente delle forze dell'illegalità siciliana, la mafia. Signora incontrastata della vita economica e civile delle province di Trapani, Girgenti e Caltanissetta, il cuore dell'idra pulsa tra i ricchi agrumeti della Conca d'Oro ed i palazzi di Palermo, una città alla cui singolare bellezza corrisponde una diffusione della violenza e della corruzione senza eguali tra tutte le città d'Europa. Del fenomeno Franchetti ricerca la genesi nella storia delle istituzioni civili dell'Isola, commisurando sistematicamente il risultato dell'indagine storica con le testimonianze e le osservazioni raccolte nel corso del viaggio. La sua origine deve essere attribuita, spiega, all'ordinamento feudale che ha costituito la forma della convivenza civile, in Sicilia, fino al 1812, quando fu soppresso con un provvedimento altrettanto privo di risonanza nella coscienza collettiva quanto vuoto di effetti sull'ordine sociale. Ordinamento feudale significa legittimità dell'esercizio della forza da parte dei signori terrieri, cui i titoli feudali attribuiscono, nei rispettivi domini, la potestà dell'esercizio della giustizia. È caratteristica intrinseca dell'ordinamento feudale la facilità di abusi, che nessuna autorità superiore è in grado di controllare: abusi del signore a vantaggio di interessi personali, abusi delle sue guardie armate, inevitabilmente propense ad usare della forza di cui detengono il privilegio contro una popolazione inerme. Agli arbitrii all'interno del feudo si aggiungono quelli che nascono dalla soluzione, affidata anch'essa alla forza, delle controversie che insorgano tra la giurisdizione dei signori di domini confinanti. Come ogni ordine giuridico legittima i propri strumenti, l'ordinamento feudale giustifica, comunque, l'uso della forza, nella quale la popolazione riconosce la manifestazione del diritto vigente. Soppressa, formalmente, la feudalità, il governo borbonico non era in grado di sostituire all'imperio della forza dei baroni l'imperio della legge dello Stato: la violenza privata è rimasta il, mezzo universale per la soluzione di ogni conflitto di interessi, da strumento legittimo assumendo i connotati di strumento arbitrario. L'abuso, che nella cornice dell'ordine feudale rivestiva apparenze di diritto, si è imposto esplicitamente come diritto del più forte, consolidando nella società dell'Isola il convincimento già radicato che la forza fosse l'unica arma per la tutela degli interessi individuali. La sovrapposizione, dopo la conquista garibaldina, delle istituzioni giudiziarie dello stato moderno ad una situazione di illegalità consolidata dalla degenerazione dell'ordinamento feudale è stato innesto dagli effetti meramente epidermici, incapace di informare a regole nuove l'ordito dei rapporti tra i cittadini. La sussistenza di qualsiasi ordinamento moderno si fonda, argomenta Franchetti, sul consenso generale dei cittadini al sistema delle leggi, il cui imperio è considerato vantaggio generale, la cui violazione, a danno di chiunque, viene percepita come minaccia alla sicurezza di ciascuno. Mancando, nella coscienza civile della Sicilia, qualsiasi sentimento che potesse costituire il supporto delle nuove istituzioni, il trapianto di un ordinamento moderno ha moltiplicato, anziché contenere, le opportunità della violenza, siccome i rappresentanti dello Stato nell'Isola si sono trovati a confrontarsi con gli esponenti dell'antico ceto feudale rivestiti della nuova dignità parlamentare, che li riveste della dignità di rappresentanti del popolo seppure siano, nella realtà, mandatari della tutela di un tessuto di interessi fondati sull'illegalità. Il confronto ha sistematicamente determinato la sconfitta dei funzionari fedeli al proprio dovere, dei quali i parlamentari dell'Isola hanno sempre ottenuto la rimozione: a diciassette anni dall'annessione l'acquiescenza è la regola universale dell'amministrazione della giustizia in Sicilia. È nella sfera giudiziaria che deve individuarsi, secondo Franchetti, la falla più grave dell'apparato statale, in modo particolare nell'inefficienza della rete delle preture, che anziché costituire l'asse portante del sistema della giustizia si sono trasformate, per l'isolamento dei borghi, per i legami dei pretori con i potentati locali, nel baluardo a difesa dei ceti che della generale illegalità sono i diretti beneficiari. L'impotenza della giustizia consolida, sottolinea il giovane studioso fiorentino, il convincimento generale che per la difesa degli interessi personali non esista legge diversa dalla violenza, rafforza la considerazione che la coscienza collettiva tributa a chi sappia imporre la propria preminenza, qualsiasi siano delitti e prevaricazioni attraverso le quali essa è conquistata e conservata. Caratteri peculiari, nel quadro del generale imperi o della violenza, presenta. il circondario di Palermo, dove la frequenza dei delitti mostra che nella coscienza della popolazione l'assassinio è considerato il mezzo ordinario per risolvere conflitti di qualsiasi natura. Della violenza dei costumi di Palermo Franchetti identifica l'origine nella tradizionale presenza, nella città, delle schiere di bravi al servizio delle casate patrizie, una moltitudine turbolenta per la quale il delitto costituisce esercizio ordinario del proprio mestiere. Il legame tra mafia e aristocrazia, asse portante della vita politica Se, tuttavia, la frequenza del delitto di sangue è l'elemento più appariscente del quadro civile della città, conseguenze ancora più gravi per l'ordine pubblico derivano dalla rete inestricabile del potere mafioso che domina il suo circondario. Le ricche campagne della Conca d'Oro sono ripartite, riferisce Franchetti, in aree di influenza di capimafia, arbitri sovrani della scelta degli affittuari e dei guardiani degli agrumeti, del prezzo di vendita dei prodotti agricoli, delle tariffe dei mulini, persino delle clausole economiche dei patti matrimoniali. Con la trama onnipotente della mafia intrattengono relazioni sistematiche le grandi famiglie patrizie, che all'autorità della mafia affidano la tranquillità dei propri possessi e la regolare riscossione degli affitti. Ripagano quella sicurezza riconoscendo alla mafia il potere di intermediazione economica che costituisce il fondamento della sua potenza, quella forza intimidatrice che ne fa l'arbitro dei rapporti sociali. Il riconoscimento, palese seppure non esplicito, da parte della nobiltà terriera, assicura alla mafia la più indiscutibile legittimazione nel quadro della società isolana. Nell'alleanza, antica e indissolubile, tra mafia e nobiltà terriera, Franchetti addita uno dei nodi che rendono insolubili i problemi della Sicilia: il disinteresse dei patrizi per l'amministrazione dei propri possedimenti significa, infatti, indifferenza, per i mezzi con i quali il mafioso cui ne è rimessa la tutela regola i rapporti con la folla multiforme dei subalterni, così che anche il proprietario dall'indole più mite, rifiutando di assolvere personalmente i fastidi di cento rapporti minuti, si converte, forse inconsapevolmente, eppure inevitabilmente, nel connivente di un delinquente, probabilmente di un assassino. Nei rapporti tra nobiltà e mafia deve identificarsi, cioè, il seme della corruzione della vita politica dell'Isola. Il giovane patrizio che mira alla carriera politica difficilmente rifiuterà il sostegno offertogli dall'uomo che esercita un'autorità notoria ed indiscussa su un intero borgo rurale: può forse, intimamente, provare ripugnanza per il ricatto ed il crimine: accettando quel sostegno si lega ad un delinquente con un patto che gli imporrà, quando avrà conseguito prestigio ed autorevolezza, di usarne per assicurare all'uomo cui è debitore della propria ascesa l'acquisizione di appalti, l'archiviazione di indagini giudiziarie, ergendosi, ad ogni richiesta, a patrono dei mestieranti del crimine che dell'alleato politico sono il braccio esecutivo. «Il vantaggio che un membro della classe dominante -scrive Franchetti, nel capitolo sulla Pubblica sicurezza, al paragrafo 57- può trarre dall'esistenza del ceto dei malfattori è, nel massimo numero dei casi, indiretto. Ben di rado egli ha bisogno di dare un mandato per omicidio, ed anche per minaccia. Nel corso ordinario della vita, perch'egli possa impunemente imporre la sua volontà, basta la fama ch'egli è alleato colla mafia. Come la mafia è la forza più rispettata, così chi l'adopera è certo di vincere chiunque usi altri mezzi di violenza, e fra coloro che l'adoperano, è sicuro di predominare chi è unito alla frazione più temuta di essa. Inoltre, la mafia non ha bisogno di adoperare attualmente la violenza o l'intimidazione diretta se non nel minimo numero dei casi in cui usa la sua autorità. Essa ha ormai relazioni d'interesse così molteplici e variate con tutte le parti della popolazione; sono tanto numerose le persone a lei obbligate per la riconoscenza o per la speranza dei suoi servigi, che essa ormai ha infiniti mezzi d'influire all'infuori del timore della violenza, per quanto la sua esistenza si fondi su questa...Parimente, la perfetta organizzazione della classe dei facinorosi è cagione che essa possa assumere qualunque impresa per così dire, a cottimo, in modo che chiunque le dà un incarico non abbia da occuparsi dei mezzi che essa adopera per raggiungere il fine desiderato, e possa perfino ignorarli. Può benissimo darsi che sia commesso anche un assassinio nell'interesse di uno che si appoggi sulla mafia, non solo senza che questi lo sappia, ma anche quando sia uomo da riprovarlo ed impedirlo se lo sapesse. Non è che le cose avvengano sempre in questo modo. Più di un membro della classe dominante è direttamente responsabile di aver dato mandato per omicidii o per intimidazioni. Ma molti, e forse la maggior parte non hanno e probabilmente non avranno mai intenzione diretta di far commettere un assassinio; si contentano di conoscere in genere che se ne commettono, e si rassegnano a malincuore alla dura necessità che sia da altri usato siffatto mezzo per raggiungere direttamente o indirettamente i propri fini...Ma se tutti coloro i quali proteggono la mafia non sono complici dei suoi misfatti, tutti, senza eccezione, contribuiscono a porla in grado di commetterli, adoperando tutti i mezzi di cui dispongono per mantenerla in vita prospera e rigogliosa, per proteggere i malfattori e sottrarli alla giustizia. Il dar loro ricovero, il nasconderli dalle ricerche dell'autorità, il dar loro vitto, vesti, armi, sono, fra i mezzi usati, i meno efficaci, e per così dire i più negativi; molto più che questi fatti, considerati isolatamente, caso per caso, si possono in gran parte giustificare col timore di una vendetta. Ma l'alleato della mafia, protegge i malfattori, aiutandoli a fuggire se arrestati, intrigando presso la magistratura o l'autorità coi potenti mezzi di cui dispone per impedire le condanne, sollevando al bisogno la cosiddetta opinione pubblica, per mezzo dei giornali di cui dispone, contro i funzionari che li fanno arrestare, e contro il Governo che sostiene quei funzionari.» Nella precisione delle fondamenta storiche, nella lucida individuazione degli interessi economici e dei legami sociali che dominano la società siciliana, è un'analisi nella quale nulla ritiene di dover mutare, poco di dover aggiungere, chi abbia varcato, negli ultimi lustri del Ventesimo secolo, la soglia della società di una regione in cui l'autorità della legge dello Stato è tanto inconsistente da non opporre che risibili remore formali alle forze che detengono, oggi come al tempo del viaggio nell'Isola appena unita all'Italia, l'autentico, incontrastato dominio della vita economica e civile.
Nelle plaghe dell'interno la tirannia del grano. Nella cornice storica e sociale delineata dal compagno di viaggio, nel secondo volume Sidney Sonnino affronta il tema che ha costituito lo scopo esplicito dell'avventuroso itinerario: i contratti agrari, le modalità di ripartizione, cioè, tra i ceti sociali che partecipano al suo sfruttamento, dei frutti della terra nelle diverse aree della regione, secondo le caratteristiche delle proprietà e delle colture praticate Predisponendo la cornice entro la quale delineare il proprio quadro, alla disamina delle consuetudini contrattuali lo studioso toscano premette la descrizione della geografia agraria dell'Isola, che divide in due regioni: quella interna, ripartita in latifondi nei quali si pratica la coltura estensiva dei cereali e l'allevamento in forma semibrada, le coste sulle quali, in proprietà di dimensioni minori, prosperano le colture arboricole: vite, olivo, agrumi, mandorlo, frassino mannifero. Tanto è desolatamente monotono lo scenario dell'area cerealicola, i cui connotati si ripetono identici dalla piana di Catania all'entroterra di Palermo, dai contrafforti delle Madonie a quelli dei Peloritani, altrettanto omogenei sono i canoni secondo i quali sono amministrati i latifondi in cui è suddivisa, identiche, in aree anche lontane, le pratiche agrarie, privo di varianti significative il tessuto dei contratti agrari.
I latifondi cerealicoli sono i dominii terrieri che hanno costituito l'ossatura del sistema feudale siciliano. Dissolta, con le leggi di eversione della feudalità, la connessione tra proprietà fondiaria e potere civile, hanno assunto, formalmente, i caratteri di grandi proprietà agrarie: soppresso, tuttavia, dalla legge di un sovrano privo di autorità, l'antico ordine giuridico, nulla è mutato nel contesto dei rapporti economici che si intessono per il loro sfruttamento. La sostanziale continuità delle forme di conduzione dei latifondi nella realtà dell'Isola trova l'espressione più efficace nel termine con cui li definisce il linguaggio comune, quello di ex feudi. Le loro dimensioni sono variabili, comunque oltremodo ampie: la superficie media del latifondo cerealicolo può considerarsi, annota Sonnino, compresa tra 500 e 1.000 ettari, non pochi varcano, tuttavia, il limite dei 6.000 ettari. Lo scenario di cui costituiscono le tessere è una fuga senza fine di dossi nudi, verdeggianti di un manto rigoglioso di grano, fave e foraggi nei mesi della primavera, quelli durante i quali si compie il viaggio dei tre compagni, che ripartiranno prima che la mietitura del grano li trasformi in deserto di stoppie, poi il lavoro degli uomini e dei muli in distesa di zolle nere e brune. La vista del rigoglio della primavera, non contemperata da quella dell'aridità dell'estate, distorcerà, constateremo, alcune delle valutazioni di Sonnino sulla fertilità dell'Isola. Al centro dei campi che domina dall'alto, la masseria racchiude, entro muraglie solide come quelle di una fortezza, stalle e magazzini. Attorno alla sua mole quadrata qualche fico, olivo, carrubo interrompono con una presenza arborea la, distesa ossessiva dei seminativi e dei pascoli che si perdono, tra ondulazioni sempre uguali, all'orizzonte. «Campi a grano, pascoli naturali -scrive Sonnino descrivendo, nel primo capitolo, i Caratteri generali della prima zona-, e maggesi lavorati alla profondità di un palmo - ecco la descrizione completa di tutta l'immensa campagna, che abbiamo compresa nella prima zona. Si può camminare a cavallo per cinque o sei ore da una città ad un'altra e non mai vedere un albero, non un arbusto. Si sale e si scende, ora passando per i campi, ora arrampicandosi per sentieri scoscesi e rovinati dalle acque; si passano i torrenti, si valicano le creste dei poggi; valle succede a valle; ma la scena è sempre la stessa: dappertutto la solitudine, e una desolazione che vi stringe il cuore. Non una sola casa di contadini. A lunghissimi intervalli, forse a ore di distanza, si trova qualche grande casolare all'apparenza antica e trasandata, Con una costruzione che accenna insieme a fortezza e a granaio. È quello il centro dell'amministrazione di qualche grande tenuta o ex feudo, servendo talvolta più di magazzino provvisorio, che di luogo di abitazione. Per strada s'incontra forse qualche gruppo di contadini che tornano dal lavoro, a piedi, o a due e tre a cavallo di un asino o di un mulo, tutto spelacchiato e piagato, sul quale hanno pure caricati tutti gli arnesi di campagna, cioè l'aratro e la zappa. Ad un tratto apparisce sull'orizzonte una comitiva di gente a cavallo, che scende nella vallata in direzione opposta alla vostra, e vedete il luccicare delle armi. Eccovi tutti in guardia. Esaminato il grilletto della vostra carabina, procedete innanzi con qualche precauzione. Non sarà nulla: - forse due o tre proprietari, o un gabellotto, che viaggiano coi loro campieri, tutti armati fino ai denti, da una fattoria o da una città ad un'altra.» L'area del latifondo è un'immensa distesa di terre disabitate: la precarietà dei rapporti di conduzione e l'insicurezza delle campagne impediscono ai contadini di risiedere sulla terra che coltivano, accentrandoli in grandi borghi nei quali vivono in tuguri miserabili, in indescrivibili condizioni di promiscuità e sudiciume. La conseguenza dell'accentramento nei borghi è l'entità degli spostamenti che debbono affrontare, quotidianamente, per recarsi sul campo, aggiungendo un percorso defatigante alla fatica del lavoro. La distanza tra le abitazioni dei contadini e la terra che lavorano oppone una remora insormontabile all'impianto, nelle aree cerealicole, di qualsiasi coltura arborea, che imporrebbe una presenza costante. Precarietà dei contratti, insicurezza delle campagne, concentrazione dei lavori nei periodi cruciali della monocoltura, assenza di occasioni di lavoro per la cura di piante diverse, si compongono in un contesto in cui ogni elemento è, insieme, causa ed effetto di ogni altro, che insieme rendono indissolubile il binomio della cerealicoltura e della miseria. A collegare le masserie ai grandi borghi non esistono, per di più, vere strade: le trazzere sulle quali si svolgono le comunicazioni della Sicilia interna non sono che piste di terra, che la prima pioggia d'autunno trasforma in solchi fangosi, che solo i muli sono in grado di percorrere faticosamente. La mancanza di strade rappresenta una delle tare più gravi dell'agricoltura dell'Isola, siccome impone il trasporto e la vendita del grano sul mercato più vicino immediatamente dopo il raccolto: una necessità che costringe i contadini a cedere la quota di loro spettanza nel momento in cui la congestione del mercato consente agli incettatori di imporre i propri prezzi senza incontrare alcuna resistenza.
Gabellotti, metatieri, terratichieri. La forma universale di conduzione degli ex feudi è l'affitto: i casi di conduzione diretta del proprietario sono tanto rari, annota Sonnino, da costituire più ragione di sorpresa che occasione di studio. Nel lessico agrario dell'Isola il contratto di affitto è definito col termine di gabella, un vocabolo di origine medievale che esprime efficacemente la natura di un sistema contrattuale nel cui ordito le clausole vessatorie tipiche dei rapporti economici medievali costituiscono elementi essenziali. Ad assumere a gabella i latifondi della nobiltà terriera è il gabellotto, figura peculiare dello scenario economico siculo, nel qual costituisce l'unico rappresentante di un ceto imprenditoriale, dotato del capitale necessario a prestare le garanzie pretese dal proprietario e a sostenere le spese di conduzione. Non è evento raro, costituisce, anzi, la regola dei latifondi di dimensioni maggiori, la cessione, da parte di chi abbia stipulato l'affitto col proprietario, di parti dell'ex feudo in subaffitto a gabellotti dalle capacità economiche minori. Anche quando, tuttavia, conduce direttamente il latifondo, il gabellotto, imprenditore caratteristico di una società primitiva, non assume né gli oneri né i rischi della coltivazione della terra, si limita a provvedere, attraverso personale stipendiato, alla cura del bestiame di sua proprietà, che utilizza il foraggio dei maggesi, secondo la rotazione ordinaria un terzo della superficie totale, ma rimette la coltivazione dei seminativi a contadini che la realizzano a proprio rischio, limitandosi, attraverso i propri guardiani, a sorvegliarne le opere ed a riscuotere la quota del raccolto di sua pertinenza. La subconcessione della terra si realizza secondo una molteplicità di forme contrattuali: qualsiasi sia il meccanismo adottato, esso assicura al gabellotto la percezione di una quota sicura del prodotto esonerandolo dalle spese e dai rischi della coltivazione. Della parte del raccolto che spetterà, alla divisione, al concedente, tutte le clausole del contratto tendono ad accrescere l'entità a svantaggio del lavoratore, che esegue tutte le operazioni colturali senza alcuna certezza che il suo lavoro sarà compensato, siccome formalmente l'atto che gli assicura la disponibilità della terra è un contratto di affitto o di compartecipazione, che percepirà, quindi, quanto resterà del prodotto dopo il prelievo, da parte del gabellotto, delle quote che gli assicura la molteplicità di clausole a suo vantaggio. Qualunque sia l'entità del raccolto, il sistema garantisce al gabellotto la potestà di spoliazione del contadino. Giungendo alla messe, infatti, onerato dalle anticipazioni ricevute dal concedente ad interessi usurari, obbligato ad adempiere ad una molteplicità di clausole vessatorie, costretto a vendere la propria parte del prodotto al momento in cui i prezzi sono più bassi, spesso privo dei mezzi per il trasporto ad un mercato, anche dall'esito dell'annata più favorevole il contadino non ricaverà mai quanto gli sarebbe necessario per affrontare l'annata successiva libero dalla schiavitù dell'usura, l'esito di un'annata infausta lo costringe a vendere il tugurio in cui vive, cadendo in una miseria ancora più disperata. «Con questo contratto - scrive Sonnino analizzando, nel secondo capitolo della seconda parte, l'essenza economica della concessione del suolo per la coltivazione del grano- si rende assicuratore dei rischi di una coltura incerta, come quella dei cereali dovunque specialmente manca l'irrigazione, il piccolo coltivatore del suolo che difetta di capitali; e senza capitali non vi è possibile assicurazione di rischi. Ora perché il contadino potesse formarsi un tal capitale di assicurazione per le annate meno buone, bisognerebbe che le condizioni del fitto fossero moderatissime, e che il canone fosse calcolato piuttosto sulle raccolte delle annate cattive che delle buone. Ma invece abbiamo già veduto che cosa accade. La forma del contratto lasciando aperto a doppio battente l'adito alla concorrenza dei lavoranti, i padroni ne approfittano per stringere i patti, ed elevare sempre più i canoni di affitto, riducendo fino all'ultimo limite e al di là, il compenso che può toccare al contadino per la prestazione della sua opera.» Nella molteplicità delle varianti legate a usi locali, e alla disponibilità, da parte del contadino, di un animale per l'aratura, la concessione del suolo per la coltura del grano assume, nei latifondi dell'area interna, due forme alternative: quella di un contratto di affitto, il terratico, quella di un contratto di compartecipazione, la metateria. Per gli studi compiuti sulla mezzadria toscana osservatore accortissimo di clausole e vincoli, di entrambi Sonnino svolge l'analisi più accurata, esaminandone ogni condizione, eseguendo il computo degli esiti della ripartizione del prodotto secondo le clausole adottate, secondo le anticipazioni che il contadino abbia richiesto al concedente e l'entità del raccolto. «Il contratto di terratico - spiega al secondo capitolo, nel quale descrive le peculiarità della Zona intermedia e meridionale- non è altro che un fitto in grano. Si conviene che il contadino terratichiere deve pagare secondo la qualità delle terre o i luoghi 2, 3 o 5 salme di grano (1 salma di grano palermitana = litri 275,09) per salma di terra (1 salma di superficie palermitana = mq 17.460) Di più paga in generale 1 tumulo di grano (16 tumoli = 1 salma) per ogni salma di terra a titolo di diritto di guardia, ossia pel pagamento del campiere, impiegato dal gabellotto per sorvegliare la terra e più ancora il rigoroso adempimento del contratto da parte del villano... Si dice in Sicilia che il terratico è di 2, 3 o 5 terraggi... secondo il numero di 2, 3 o 5 salme di grano, che il contadino debba pagare per ogni salma di terra. In media si può forse ritenere che il terratico in Sicilia sia di 3 terraggi; ma le medie ci dicono poco o nulla; e per farsi un giudizio di quanto sia volta per volta più o meno grave la prestazione per il contadino, bisogna poter tener conto di molti altri elementi oltre quello della cifra degli ettolitri da pagarsi per ettaro di terra, come per esempio della fertilità del suolo, del capitale impiegato, ecc... Il terraggio in grano è dovuto dal terratichiere anche per l'anno del maggese, quando questo sia compreso nel contratto, e ciò tanto se il contadino vi semina le fave, e questo è il caso più generale, come se fa il maggese vuoto. Naturalmente l'essereci o no il maggese compreso nel contratto fa una differenza nel fitto.»
Operazioni colturali e clausole di divisione. «Secondo gli usi dei luoghi, la natura dei terreni o la più o meno durezza dei padroni, e la concorrenza dei lavoranti -scrive lo studioso pisano analizzando, al paragrafo successivo, il secondo contratto-, sono infinite in Sicilia le minute varietà del contratto di metaterìa, e che vertono specialmente sui patti di restituzione della semenza e sul maggiore e minor numero di diritti, che deve pagare il contadino sulla sua parte...E cominciamo dall'anno del maggese, supponendo che questo sia a carico del contadino. Se il maggese resta vuoto, e soltanto lavorato con due o tre arature dal contadino, questi nulla paga e nulla riscuote per quell'anno, ma i patti per l'anno seguente sono in compenso più vantaggiosi per lui. Riceve intanto, e finché durano i lavori nel campo, qualche soccorso in grano dal padrone; soccorso ch'egli deve rendere nell'anno seguente, alla raccolta del frumento, restituendo 20 tumoli per ogni 16 che riceve. Se invece sul maggese si mettono le fave, i patti sono di due specie. Nella prima che è la meno vantaggiosa pel contadino, il padrone anticipa la semenza delle fave, che ripiglierà al tempo del raccolto coll'addito, o frutto, di quattro tumoli per ogni salma (16 tumoli) che ha dato... detratta... la semenza, il resto si divide a metà...Secondo l'altra forma di contratto, che si usa per le terre più stanche, più distanti e meno buone, tutto quanto il raccolto va al contadino colla sola deduzione della semenza coll'addito; ma in questo caso per lo più i patti per la divisione del frumento dell'anno seguente sono alquanto aggravati...Passiamo ora al primo anno della coltura del frumento. Se il padrone lavorò, il maggese precedente per proprio conto, la divisione del raccolto si fa con uno dei due sistemi seguenti, che si ritrovano usati ambedue negli stessi luoghi. 1° Il padrone dà la semenza senza riprenderla sul raccolto. Il contadino fa l'aratura e tutti i lavori di seminagione, prendendo l'aratro in affitto, se non l'ha in proprio, oppure unendosi ad un altro compagno, se egli non possiede che un solo mulo; fa tutti i lavori di sarchiatura del grano, tutte le spese della raccolta, del trasporto sull'aia, e della trebbiatura che in tutta la Sicilia si fa colle cavalle, o più spesso coi muli. Per il trasporto all'aia il padrone è tenuto talvolta a prestare i bovi; altre volte egli prende dal contadino un tanto fisso, generalmente un tumolo di grano per salma di terra, a titolo di trasporto... Più spesso la divisione è di tre parti, di cui una al borgese e due al padrone, riprendendosi questi per di più, ora sì e ora no, la semenza prestata. Il contadino deve sulla sua parte pagare a titolo di guardia, un tumolo di grano per salma di terra. 2° Il padrone anticipa la semenza. Il contadino fa tutti i lavori e le spese dette sopra. Il raccolto si divide a metà, ma il contadino deve per di più al padrone sulla propria metà: a) La semenza, ch'egli deve restituire nella quantità ricevuta, più l'addito di quattro tumoli per salma, ossia del 25% per circa 7 mesi: - talvolta l'addito non è che di due tumoli, ma è caso alquanto raro... b) Un terriggiuolo o antiparte, che varia molto nel suo importare, ma sta per lo più tra una e due salme di grano, per salma di terra; c) Il diritto di guardia, che varia da mezzo a due tumoli, ma ordinariamente è di un tumolo di grano per salma di terra... Di più secondo i casi, i luoghi, i terreni e i proprietari si toglie dalla parte del contadino il diritto di messa; ordinariamente un tumolo per salma di terra. Questo diritto viene tassato nei luoghi lontani dalla città, per pagare il prete che dice la messa... diritto di estimo o di stimatina, di cui non sapremmo bene dare la spiegazione; e che per lo più non si prende che nel solo primo anno in cui si coltiva frumento. È di circa un tumolo per salma di terra; diritto di sfrido per la perdita che subirà nella vagliatura il grano restituito per la semenza: è di circa 3/4 di tumolo per salma di terra; restituzione della tassa di ricchezza mobile colonica stata anticipata per legge dal padrone; diritto di cuccìa o del maccherone, che vien dato dal contadino al campiere a titolo di dono. - I padroni dicono che essi non ci hanno che vedere, e che il contadino può dare quel che vuole, ma nel fatto accadono molti abusi e i padroni, non se ne incaricano. Si ritiene ordinariamente come giusto il dare un mezzo tumolo per salma di terra; diritto del galletto, ed altri minuti diritti e angherie. L'una o l'altra delle suddette due forme di contratto riesce più o meno vantaggiosa al padrone o al contadino, secondo il maggiore o minore prodotto che si ottenga da una salma di terra. Se il prodotto è molto ricco, converrà più al padrone la prima forma di divisione a 3/4 e 1/4, o anche a 2/3 e 1/3, siavi o no prelevazione della semenza, mentre quando il prodotto per salma di terra è meschino, riesce più grave al contadino la seconda forma, quella cioè della divisione a metà, più la restituzione della semenza coll'addito, e il pagamento del terriggiuolo fisso; - e ciò evidente mente perché essendo il terriggiuolo una quantità fissa, come pure la restituzione della semenza coll'addito, esse superano nelle cattive annate la differenza che può correre tra la metà e i due terzi o anche i tre quarti del raccolto.»
I braccianti, paria della società isolana. Nel quadro di degradazione economica e morale in cui trascinano l'esistenza i contadini siciliani, vivono in condizioni ancora più precarie dei terratichieri e dei metatieri, che il lessico siciliano definisce, paradossalmente, borgesi, coloro che, non possedendo nemmeno il mulo con cui eseguire l'aratura di un appezzamento assunto in concessione, sono costretti ad affidare la sopravvivenza alle prestazioni giornaliere, i giornatari. Ai giornalieri la cerealicoltura estensiva che domina l'area del latifondo non offre, nell'intero corso dell'anno, sicurezza di lavoro che in due periodi, quello delle semine e quello della mietitura, quando l'urgenza delle operazioni essenziali per la produzione fondamentale dell'economia del latifondo consente ai giornatari di richiedere salari sufficientemente elevati: i più alti, annota Sonnino, tra quanti si registrano nell'intero Paese, nelle condizioni più favorevoli fino a 3,5 lire al giorno. La domanda di lavoro si esaurisce, tuttavia, in archi brevissimi di settimane, costringendo i braccianti ad un ozio forzato che si protrae per la maggior parte dell'anno, causa dell'orrenda miseria in cui vivono. A pagare i salari dei braccianti non sono comunque, nel meccanismo inesorabile che fagocita i frutti del lavoro dei contadini siciliani, i gabellotti, sono i metatieri ed i terratichieri cui spetta, in base ai rispettivi contratti, l'esecuzione di tutte le operazioni colturali. Solo nel caso di impossibilità del concessionario del terreno ad assoldare le braccia necessarie, vi sopperisce, a proprie spese, il gabellotto, sicuro di potersi rivalere sul grano accumulato nell'aia dopo la trebbiatura. «Tutta l'economia agricola della maggior parte dell'Isola - rilevaa Sonnino nel terzo capitolo della seconda parte, dedicata ai salari - tende a rigettare il pagamento dei salari dei braccianti sulla stessa classe dei contadini. Sono difatti i contadini metatieri o terratichieri che devono pagare tutti i lavori necessari per la coltivazione dei loro poderi... Tutte queste classi, e sovrattutto i metatieri e terratichieri, che sono il maggior numero, si trovano in condizioni tali che è loro impossibile di accordarsi in modo espresso o tacito, per lottare contro l'elevatezza dei salari in quelle epoche dell'anno in cui è grande il bisogno di braccia. Se essi per difendersi mostrassero di voler differire o sospendere i lavori, ci penserebbe subito il loro padrone o il suo campiere a fissare addirittura le ciurme dei lavoranti; e al padrone poco importa se il salario pagato è di qualche centesimo più o meno, poiché egli non fa che anticiparlo per conto del borgese.» Nella miseria comune, la differenza tra le condizioni dei borgesi e quelle dei giornatari si risolve, annota Sonnino, nella certezza dei primi di impiegare la propria opera quando non sussiste, per i braccianti, alcuna possibilità di lavoro, ed in quella di poter richiedere al gabellotto anticipazioni sul raccolto che seppure, a ragione del tasso usurario a cui saranno ripagate, fagociteranno la loro quota di raccolto, assicurano loro la sopravvivenza durante l'inverno.
Un'economia fondata sull'usura. Compartecipante o bracciante, nelle plaghe del latifondo la vita del contadino si consuma nell'assoluta precarietà del lavoro, le cui occasioni si risolvono in poche settimane di fatiche abbrutenti all'epoca delle arature e della mietitura, il cui compenso spesso non è sufficiente a ripagare i debiti contratti per soddisfare i bisogni primordiali della famiglia. La sua esistenza scorre nella soggezione incondizionata all'usura, il perno sul quale ruota il meccanismo della ripartizione dei frutti della terra nella Sicilia cerealicola, il meccanismo che rende possibile ad un ceto di privilegiati di trarre da un'economia primitiva i mezzi per un tenore di consumi che eguaglia quello delle capitali europee del commercio e delle manifatture. «Il tarlo roditore della società siciliana è l'usura - scrive Sonnino al quinto capitolo della prima parte-. Il contadino siciliano è sobrio, laborioso e duro alla fatica: il suolo è fertile quanto altro mai: la media di produzione di grano non è certo inferiore alle otto semenze, più cioè che in Toscana dove si vanga profondo e si concima, mentre in Sicilia l'aratro non fa che malamente scalfire la terra con solchi della profondità di un palmo, e la concimazione è più nominale che reale: il clima è temperato e assai costante, - e con tutto ciò la condizione delle classi agricole è misera. I contratti agricoli sono tali che la concorrenza reciproca dei contadini riduce sempre il loro guadagno annuale complessivo al minimo necessario alla vita; come accade sempre e dovunque la legge, l'accordo, o meglio la consuetudine, non abbiano posto barriere alla libera concorrenza dei lavoranti; ma quel che peggio è, in Sicilia la forma speciale dei contratti e le condizioni dell'agricoltura in tre quarti dell'Isola, sono tali da rendere indispensabile al contadino di mutuare denari, ossia di chiedere soccorsi anche nelle stesse annate buone...Il saggio comune del frutto o addito, che si prende il padrone per le anticipazioni fatte al proprio contadino, è di 4 tumoli a salma, ossia del 25%. E si noti che questo addito si prende anche per una anticipazione fatta non più di due o tre mesi prima del raccolto, sicché in questo caso il saggio annuo dell'interesse diventa quattro o cinque volte maggiore, e veramente enorme... La ragione per la quale ai proprietari o gabellotti convien sempre di fare essi stessi le anticipazioni ai metatieri durante i lavori sulle loro proprietà, è quella d'impedire che altri possa, prestando soccorsi al contadino, acquistare privilegio per il rimborso sul raccolto...E finalmente... essendo i prezzi del grano nell'inverno scorso e nella primavera di quest'anno (1876) rimasti piuttosto bassi, vari gabellotti e proprietari dei pressi di Caltanissetta, temendo di riscuotere troppo poco grano all'epoca della futura raccolta col semplice conguaglio dei prezzi, più i 2 tumoli di addito, s'appigliarono al partito di valutare il grano che consegnavano ai contadini a un prezzo fittizio, e molto superiore a quello vero del mercato...E questo invero è l'espediente generale con cui l'usura in Sicilia come altrove, maschera una parte delle sue enormità, col valutare cioè a un prezzo fittizio e superiore al vero, quanto viene consegnato al mutuatario. Il giornaliere si trova naturalmente, quando abbia bisogno di soccorsi, in condizioni ancora più dure di quelle del metatiere, poiché non avendo padrone a cui indirizzarsi, e a cui importi di lui, egli deve, salvo i casi di relazioni personali o di clientela con qualche proprietario o gabellotto, ricorrere in ogni circostanza agli usurai di mestiere. L'usura rende impossibile al contadino siciliano ogni risparmio, ogni miglioramento della sua sorte; e peggio ancora, col tenerlo in uno stato continuo di asservimento legale e di depressione morale, gli toglie ogni libertà, ogni sentimento della propria dignità.»
Vite, olivo, mandorlo, frassino. Una correlazione speculare a quella che unisce la monotonia del dominio del latifondo all'omogeneità dei rapporti contrattuali che vi sono praticati si rileva tra la multiforme varietà delle colture delle fasce costiere e delle valli che dalla costa si protendono fra i rilievi, ed i contratti praticati per la loro coltivazione. In un ambiente geografico singolarmente propizio a tutte le coltivazioni arboree, secondo le condizioni climatiche e le tradizioni locali si dispiega sulle coste dell'Isola una gamma ricchissima di specie e di consociazioni. La vite domina incontrastata tra Mazzara e Trapani, gli agrumi nei giardini della Conca d'oro; della costa settentrionale, tra Termini Imerese e Messina, è signore l'olivo, che cede il proprio primato, in aree particolari, a specie diverse: il frassino mannifero a Castelbuono, il gelso a Patti. La costa orientale è un denso mosaico di vigneti, oliveti, agrumeti. Vite e olivo risalgono, fino al limite dei boschi, le pendici dell'Etna; in provincia di Siracusa l'arboricoltura si protende verso l'interno con gli agrumeti di Lentini e le piantagioni di carrubo di Noto. Dovunque mandorli e fichi si inframmettono tra le specie diverse. Delle specie dominanti, delle consociazioni colturali, delle pratiche di coltivazione e delle consuetudini contrattuali Sonnino delinea schizzi di grande precisione agronomica, di seducente efficacia letteraria. «Il comune di Marsala - scrive nel terzo capitolo della prima parte, dedicato alla Zona alberata-, oltre all'alto onore di aver dato il nome al vino siciliano più conosciuto in Europa, presenta la particolarità di essere uno dei due soli municipii di tutta la parte occidentale dell'Isola, dove la popolazione rurale abiti in gran parte sparsa nelle campagne... Verso Mazzara la proprietà dei vigneti non è molto frantumata, e vi si usa più dai proprietari la coltivazione per mezzo di salariati a giornata... A Marsala invece, il vignere prende l'impresa di tutti i lavori della vigna, a estaglio, ossia a un tanto - ordinariamente 24 lire - per ogni 1000 piante. Egli deve fare due arature fra le viti, la potatura, e ogni altro lavoro, prendendo per suo conto i giornalieri necessari: la spesa di vendemmia però è a metà col padrone... In ogni vigna, che non sia piccolissima, evvi una casetta, che ha generalmente un primo piano oltre quello terreno. L'aspetto di tutte queste casette è sorridente, e dà un'impressione di benessere dei contadini, forse anche maggiore della realtà, poiché l'abitazione vera del contadino è quasi sempre ristretta a una stanza, e il resto della casa è riservato esclusivamente al proprietario della vigna, che va a starvi durante la vendemmia. La condizione però della classe dei vigneri, sembra essere veramente un po' migliore che altrove...La coltura così estesa della vite è stata promossa dai grandi stabilimenti per la fabbricazione di quel tipo di vino conosciuto dovunque come vino di Marsala. Il più antico di questi stabilimenti (Woodhouse) data fin dal 1789; a questo s'aggiunse 1815 lo stabilimento Ingham, che occupa ora circa 300 operai, e possiede 12 grosse barche a vela, che viaggiano le coste della Sicilia per raccogliere da ogni parte mosto e vino; e in data molto più recente surse il non meno grandioso stabilimento Florio...I grandi stabilimenti che a Marsala vengono designati col nome generico gl'Inglesi, fanno nel corso dell'anno anticipazioni in denaro ai proprietari e ai censuari dei vigneti, contro l'obbligo di consegnare a suo tempo allo stabilimento mutuante, tutta l'uva, o il mosto, o il vino che produrranno; e ciò al prezzo generale che fisseranno gli stessi Inglesi... Questo prezzo viene fissato uniformemente da tutti gli stabilimenti primari.» «Prima però di lasciare la provincia di Palermo -scrive Sonnino riferendo della prima tappa dell'itinerario tra Palermo e Messina-, merita il conto di fare una gita nella fertile vallata di Castelbuono, che giace immediatamente sotto le Madonie, ed è divenuta tristamente reputata, per essere da circa quattordici anni teatro delle gesta della banda brigantesca capitanata dal Rinaldi. Qui oltre gli oliveti e le vigne, troviamo il centro maggiore della coltivazione del frassino mannifero, e specialmente della varietà amolléo, che produce una manna più bianca e di maggior prezzo...Una particolarità singolare che si riscontra più specialmente in questa vallata, è la promiscuità dei diversi diritti di proprietà degli oliveti. Il suolo degli oliveti appartiene spesso a un proprietario, e gli alberi a uno o più altri. L'origine storica di questa singolarità è la seguente. Nei secoli scorsi il marchese di Geraci, feudatario di questa valle, allo scopo di arricchire la città e le terre, e per attirarvi maggiore popolazione, dava il permesso a chiunque di innestare gli oleastri, che qui crescono dappertutto spontanei, e di far così proprie le piante di olivo. Il Comune di San Mauro tolse la promiscuità nei suoi beni col censimento che ne fece nel 1861, nella quale occasione concedé a un censo minimo a ciascun proprietario di qualche pianta di olivo, il pezzo di terreno sottostante... In moltissimi oliveti però dura tuttora la promiscuità dei diritti. Il possessore degli olivi ha diritto di innestare gli oleastri che nascono più vicino ai suoi alberi che a quelli degli altri. Morto però un olivo, il possessore non ha diritto di ripiantarlo; il diritto di piantare nuovi olivi non spetta che al proprietario del suolo...Nei contratti agricoli che si usano nella vallata per le colture alberate, si ritrova più frequente l'uso della partecipazione del contadino al prodotto, che non in tutta quella parte della Sicilia, che abbiamo finora percorsa. Non vi è però- forma di mezzadria secondo il tipo continentale, perché mancano nella campagna le case rurali; perché di anno in anno variano generalmente i patti che si fanno con ogni contadino, il quale contratta ogni volta per appezzamenti diversi, e non ha alcun legame stretto e continuato collo stesso padrone; e perché presso ogni proprietario e per ogni speciale coltura i patti hanno forma e natura diversa.» Espressione della varietà delle consociazioni, conseguenza dell'isolamento di ogni piana o vallata, siccome le strade litoranee non sono migliori di quelle che attraversano l'interno, le forme contrattuali praticate per la coltura degli arboreti propongono una gamma innumerabile di varianti di un novero pure cospicuo di rapporti tipici. Nel proprio itinerario sulle coste i tre viaggiatori registrano la prevalenza, nelle aree che attraversano successivamente, dei rapporti medievali di censo e di enfiteusi, dei contratti di affitto, di quelli di partecipazione, fino ai contratti di miglioria, il patto con cui il contadino si impegna ad impiantare un arboreto di cui godrà i frutti nei primi anni per renderlo, scaduto il termine, al proprietario: una forma di miglioramento fondiario che addossa ogni onere, ancora, al lavoratore, al quale non assicura che un beneficio temporaneo, di valore certamente inferiore alle spese di piantagione. Oltre alla molteplicità delle forme contrattuali, differenzia il quadro delle consuetudini agrarie delle fasce arboricole da quello del latifondo la diffusione dell'impiego di lavoro salariato, un uso che si spiega, annota Sonnino, considerando la delicatezza delle cure richieste da un impianto arboreo, tale da indurre il proprietario ad affidarne l'esecuzione a personale sottoposto al proprio controllo diretto. Conoscono una considerevole diffusione anche i patti che prevedono la parziale partecipazione del lavoratore alla divisione del prodotto, che compongono una gamma che si dispiega da forme di semplice integrazione del salario, che rappresenta l'elemento fondamentale della retribuzione, con quote pressoché insignificanti del raccolto, fino ad autentici rapporti di ripartizione della produzione, in cui il compenso del lavoro è costituito per intero da una parte del prodotto. Particolarmente diffusi in provincia di Messina, i patti di compartecipazione assumono nelle campagne circostanti le Petralie una configurazione che consente di assimilarli alla mezzadria toscana.
Contro la miseria contadina diffondere la mezzadria. A conclusione della rassegna che ne ha compiuto Sonnino dichiara, comunque, che i patti di partecipazione che si praticano sulle coste della Sicilia sono inadeguati, complessivamente, ad assicurare condizioni di lavoro più eque ai contadini, che nelle aree caratteristiche dell'arboricoltura versano nella stessa miseria di quelli dell'area cerealicola. La constatazione, riconosce, potrebbe essere assunta a dimostrazione dell'indifferenza, per il contadino, della configurazione del contratto secondo il quale presti la propria opera, siccome la concorrenza dei lavoratori livellerebbe le retribuzioni, in qualsiasi forma pattuite, ai limiti della sussistenza. Un'analisi più accurata delle forme di partecipazione praticate in Sicilia consente di rilevare, sottolinea lo studioso toscano, che la loro incapacità di assicurare ai lavoratori condizioni di vita più umane deve essere attribuita alla loro frammentarietà, siccome sullo stesso fondo è consuetudine associare compartecipanti diversi alle differenti colture, e alla loro precarietà, siccome la durata si esaurisce generalmente nel corso di una stagione. Per consentire la sicurezza del lavoratore i contratti di partecipazione debbono essere integrali, sottolinea Sonnino, interessare, cioè, tutte le colture del fondo, e stabili, avere cioè, per principio, durata illimitata. Il contratto di compartecipazione che assolve con maggiore organicità ai due requisiti è la mezzadria, che, allievo dell'Ateneo in cui hanno esercitato il proprio magistero Ridolfi e Cuppari, egli stesso autore di un penetrante saggio sulla mezzadria toscana, Sonnino propone come il modello verso il quale indirizzare, per rinnovare il tessuto economico della regione, l'evoluzione dei patti agrari siciliani. La diversità delle condizioni sociali tra le quali propone la trasposizione del contratto è tale da suggerire il dubbio che l'assunto sia frutto di velleità utopistiche: valendosi della conoscenza del patto mezzadrile acquisita con le indagini condotte in Toscana, della messe di dati sull'agricoltura siciliana acquisita nel corso della spedizione, il giovane studioso toscano si impegna a dimostrare tanto la necessità quanto la possibilità di diffondere la mezzadria nell'Isola, una dimostrazione che sviluppa attraverso un lucido contrappunto di enunciazioni teoriche, di osservazioni economiche, di ipotesi politiche: nel suo insieme un lucido saggio di economia applicata. Fornisce la chiave dell'intera argomentazione l'identificazione delle condizioni necessarie per la sussistenza del contratto di mezzadria, le condizioni che lo distinguono da ogni patto diverso di partecipazione facendone forma organica di integrazione del capitale e del lavoro. Quelle condizioni sono, secondo Sonnino, fondamentalmente tre. La prima, la partecipazione del contadino a tutte le produzioni del podere, coltivazioni e allevamenti, così che gli sia possibile dedicare le proprie cure, con sistematicità, alle diverse specie, i cui calendari colturali si integrano consentendogli di svolgere un'attività continuativa, e di partecipare alla ripartizione delle produzioni che maturano al succedersi delle stagioni, così che la disponibilità dei mezzi necessari alla famiglia sia affidata ad una pluralità di fonti i cui proventi si succedono nel corso dell'anno. La seconda, una durata del contratto che leghi moralmente il contadino alla terra, inducendolo a dedicare l'impegno più attento a tutte le colture, specialmente a quelle arboree, che patti temporanei spingono a sfruttare senza alcuna preoccupazione per il vigore necessario ai raccolti futuri. La terza, la residenza del contadino sul podere, delle cui colture possa seguire lo sviluppo quotidianamente, dedicando alla loro cura tutto il proprio tempo, senza l'aggravio di spostamenti faticosi ed inutili. Sono i tre elementi essenziali per la sussistenza del contratto di mezzadria, la cui composizione non si verifica, salvo le rare eccezioni del Messinese, in nessuno dei rapporti di partecipazione diffusi nelle aree arboricole dell'Isola, dove è uso universale affidare a coloni diversi le colture seminative e quelle delle differenti specie arboricole, dove la precarietà dei rapporti è regola generale, dove le abitazioni poderali costituiscono la singolarità di aree eccezionali. È dal mancato assolvimento delle tre condizioni della società mezzadrile che deriva, ribadisce Sonnino, l'incapacità dei patti di compartecipazione della Sicilia di assicurare ai coloni condizioni di vita meno precarie di quelle dei braccianti. Per offrire ai lavoratori agricoli una sicurezza di vita e di lavoro più degna di una società civile il mezzo più sicuro sarà, quindi, la diffusione nell'Isola della mezzadria nella sua forma integrale, quella caratteristica della Toscana. È formulando, nella terza parte del volume, che dedica all'enunciazione di Rimedi e proposte, la propria ipotesi per la riforma del tessuto agrario dell'Isola che Sidney Sonnino, militante politico non meno che studioso di economia, assolve ai propositi che hanno determinato il viaggio costruendo, sui risultati della propria indagine, una proposta organica per il riscatto economico e civile dell'Isola, il cui disegno rivela, inconfondibili, i segni dell'idealità liberale del futuro capo del governo e della matrice culturale della scuola pisana. «Già da molti è stata proposta l'introduzione nell'interno della Sicilia del contratto di mezzadrìa - osserva criticamente nel secondo capitolo, in cui suggerisce le coordinate per L'azione dei proprietari-, colla conseguente divisione dei poderi e delle colture, come rimedio ai mali economici, morali, politici e sociali che affliggono quel paese... D'altra parte vi sono pure molti e non di poco valore, che oppongono che le condizioni telluriche e climatologiche della Sicilia contrastano all'utile introduzione di questa forma di contratto, e che la coltura piccola e la mezzana dovrebbero là considerarsi piuttosto come un pericolo da evitarsi, anziché un'ideale cui tendere con tutte le forze... Abbiamo già detto quali sono le condizioni che debbono accompagnare la mezzadrìa, perché essa possa veramente dare utili risultati sociali, come forma di distribuzione della ricchezza prodotta dal suolo. Di quelle condizioni, la maggior parte dipende dalla volontà dei proprietari, come, per esempio, quella della partecipazione eguale del contadino a tutti quanti i prodotti...Vi sono però due condizioni capitali tra quelle avvertite, le quali talvolta non dipendono che in piccola parte dalla volontà dei proprietari o di chicchessia; e sono- quella di una varietà di colture sullo stesso podere, e che le colture arborescenti vi si uniscano a quelle dei cereali o delle leguminose; e l'altra, che vien quasi come conseguenza della prima, che vi sia lavoro continuo in tutto l'anno sul podere, onde possa pure esservi la fissità del colono sullo stesso appezzamento di terra. Orbene, la Sicilia si presta in modo tutto particolare nella maggior parte del suo territorio a soddisfare a queste condizioni. La varietà delle colture è resa facile da un clima e da un suolo in cui crescono rigogliosi, secondo i vari terreni e le diverse esposizioni, l'olivo, l'agrume (limone, arancio, mandarino), il mandorlo, il frassino mannifero, il gelso, il fico d'India, il carrubbio, il nocciuolo, il pistacchio, e quasi ogni varietà di albero da frutta... Molte però di queste colture, ci si osserverà, e specialmente di quelle legnose, non esistono attualmente nell'interno dell'Isola, e ci vogliono capitali e un lasso di anni perché si possano attivare, e perché se ne possa ritrarre un qualche frutto...Né perciò si richiederebbero grandi capitali. Bastano a dimostrare il contrario le colonìe perpetue introdotte in passato dai conventi e dai monasteri... Lo dimostrano pure i contratti a migliorìa della costa settentrionale, di quella orientale, e del Siracusano, dove vediamo poveri villani creare vigne, oliveti, mandorleti e carrubbeti, soltanto perché il prodotto delle loro fatiche è assicurato loro per un certo numero di anni...Ci sembra che tali fatti servano a dimostrare praticamente come sarebbe facile per i proprietari, ove veramente volessero introdurre la mezzerìa nelle loro terre, di ridurle con pochi sacrifizi a quelle condizioni di coltura che abbiamo supposto necessarie per la completa riuscita di quella forma di contratto. Basterebbe a questo intento che stipulassero coi coloni dei contratti lunghi in modo da assicurare loro il giusto frutto dei loro sforzi; che concedessero loro per i primi anni alcune condizioni più larghe di repartizione dei prodotti; e di più che li aiutassero nella costruzione delle case, e nel provvedersi di qualche strumento agricolo un po' meno primitivo di quelli attuali; e li sovvenissero con qualche soccorso senza interessi, o a un frutto modico, e col dar loro possibilmente qualche capo di bestiame a soccida, perché possano meglio lavorare e concimare i poderi, e ritrarre qualche guadagno dall'allevamento. Sappiamo in vero che molti proprietari non sono in condizioni di poter far subito nemmeno questo, ma d'altra parte ve ne sono pure tanti altri per cui la formazione ogni anno di uno o due nuovi poderi muniti di tutta la dote occorrente per l'attivazione di una mezzadrìa, sarebbe cosa facilissima, e che non implicherebbe altro sagrifizio che quello di voler prendere una decisione; ovvero per alcuni la rinunzia a un cavallo di lusso, o a un palco al teatro, o a qualche giorno di più di visita alle bagnature dell'estero: e, diciamo il vero, il pensiero di tali sagrifizi non ci commuove, e tanto meno se pensiamo che essi non rappresentano altro che la rinunzia a un godimento immediato in vista di un vantaggio avvenire; che equivalgono insomma a mettere denari a frutto.» Alla formulazione della proposta Sonnino ha premesso la dichiarazione della consapevolezza che più di un'ipotesi analoga è già stata avanzata nel dibattito politico degli anni recenti, ma che nessuna ha saputo imporsi contro le critiche che ha suscitato. Dimostrata l'idoneità delle condizioni climatiche dell'Isola alla diffusione del contratto, e l'insussistenza di ostacoli economici insuperabili, a conclusione della propria argomentazione esamina e confuta, con lucido puntiglio, le ragioni addotte da chi ha sostenuto l'impossibilità di introdurre il contratto nell'Isola, che prevede verranno reiterate contro la propria proposta.
Piccola e grande coltura, dilemma capzioso. La prima di quelle ragioni è un assunto di economia agraria, l'asserzione che l'economia moderna imporrebbe la diffusione della grande coltura, la forma di coltivazione fondata sull'uso delle macchine praticata nelle pianure dell'Inghilterra, della Francia e della Germania: inscindibilmente connessa ad unità poderali di dimensioni limitate, la mezzadria costituirebbe impedimento all'espressione di una tendenza sospinta da imperativi incoercibili. Rigettando la legittimità di dogmi che pretendano di imporre le soluzioni funzionali in ambienti specifici a situazioni dai connotati diversi, e ricalcando le argomentazioni con cui hanno sostenuto la maggiore produttività della piccola coltura, nelle regioni caratteristiche delle coltivazioni arboree, gli economisti francesi, tra i quali possiamo iscrivere De Gasparin, Sonnino ribadisce che le caratteristiche climatiche dell'Isola ne fanno l'ambiente ideale per le colture intensive, quindi per la piccola coltura, che assicurerebbe possibilità di lavoro adeguate alla numerosa popolazione della Sicilia, moltiplicandone, insieme, le produzioni più pregiate. «Quanto alla questione della coltura grande e di quella piccola, non ci è dato di qui discuterla in tutti i suoi aspetti, chè non basterebbe un volume apposito; ma osserveremo a tal riguardo che tutte le ragioni che sono state addotte in teoria, e che si sono dimostrate valide in pratica, per consigliare la piccola coltura nella maggior parte della Francia, e specialmente nelle provincie sue meridionali, valgono a fortiori per la Sicilia, dove è maggiore la varietà delle colture, e maggiore il profitto di quelle colture legnose, che, come l'olivo, la vite, ec., richiedono maggior cura, e in genere di tutte quelle coltivazioni in cui la qualità del lavoro ha un'importanza non minore della sua quantità... E la mezzadrìa nel suo tipo toscano raggiunge in gran parte i vantaggi del sistema francese del contadino proprietario, poiché eleva egualmente il morale del contadino, esercitandone l'intelligenza nella direzione della coltura del podere; lo affeziona al suolo; gli fornisce lavoro in tutti i mesi dell'anno; assicura al1e colture più delicate, lo zelo e le cure assidue di chi ha interesse diretto nella prosperità del fondo...» Intrinsecamente connessa alla prima obiezione è quella di chi oppone alla creazione di poderi mezzadrili la presunzione che le loro dimensioni costituirebbero un ostacolo all'impiego delle macchine, la cui diffusione viene riconosciuta esigenza imprescindibile per il progresso agricolo. Sonnino la confuta ricordando i risultati dell'indagine di Edward Leslie sulla diffusione delle nuove attrezzature nell'agricoltura dell'Inghilterra, della Francia e del Belgio, dove la maccanizzazione è risultata più intensa nei distretti dove predomina la piccola proprietà che in quelli dove domina la grande azienda. Dissolti i dubbi di natura più spiccatamente teorica, lo studioso toscano affronta le obiezioni che alle proposte di introduzione della mezzadria hanno opposto gli esperti di cose agricole dell'Isola. Per confutarne gli argomenti trascrive le osservazioni, che ritiene risolutive, di un altro viaggiatore toscano, Ermolao Rubieri, segretario dell'Accademia dei Georgofili durante la presidenza di Ridolfi, che ha attraversato l'Isola dieci anni prima del viaggio dei tre amici pisani. La precisione del riferimento accresce la nostra curiosità per l'assenza di ogni menzione, nel volume, degli scritti e dei discorsi con cui ha propugnato, dalla cattedra di Ridolfi di Cuppari, la diffusione della mezzadria in Sicilia l'agronomo siciliano che al momento del viaggio dei tre amici esercita a Pisa il proprio magistero, Girolamo. Caruso. «Ci resta ancora da esaminare -scrive nello stesso capitolo- talune delle principali difficoltà pratiche che secondo il parere di alcuni si oppongono invincibilmente all'introduzione della mezzadrìa nella maggior parte della Sicilia. Esse sono: lo stato della pubblica sicurezza, la mancanza di acqua potabile, la malaria e, per alcune provincie, la vicinanza delle zolfatare, dove i gas che emanano dai calcaroni nella fusione dello zolfo, nuocciono entro una certa cerchia ad ogni coltura, e specialmente a quella di piante arborescenti. Diremo innanzi tutto di quest'ultima circostanza. In primo luogo si potrebbe studiare il modo di evitare l'attuale sprigionamento dei gas durante la fusione degli zolfi, o almeno di diminuirlo di molto, con non piccolo risparmio del minerale. Inoltre la cerchia di terreno resa attualmente in parte improduttiva per siffatta ragione non è di una grande estensione...In risposta alle altre obiezioni... riprodurremo qui per comodo del lettore l'argomentazione del Rubieri, giacché non sapremmo esprimere meglio gli stessi concetti con parole diverse. Si dice prima di tutto che la mezzerìa non può stabilirsi in Sicilia per la mancanza di pubblica sicurezza. Ma lasciando da banda che tal mancanza deriva appunto, almeno in parte, da quella campestre solitudine che non esisterebbe se esistesse la mezzerìa, io voglio concedere che sarebbe imprudente il cominciare dallo stabilirla in luoghi affatto remoti dall'abitato: potrebbesi bensì senza rischio cominciare dallo stabilirla a contatto di quella zona adiacente alle città dove il sistema delle case sparse e de' piccoli poderi già vige, e passare ad estenderla di mano in mano, serbando sempre una congiunzione non interrotta tra i poderi già istituiti e quelli da istituirsi...Si dice che anche la mancanza di acqua potabile fornirebbe un impedimento. Ma anche su questo punto ritengo che l'acqua vi sia, che la mancanza si riscontri piuttosto ne' lavori atti ad assicurarne l'uso, e che la mezzerìa facendo sentire il bisogno di tali lavori ne farebbe cessare la mancanza...Ma si dice finalmente (seguita il Rubieri) che la malsanìa è quella che le fa paura (alla mezzerìa). È infatti assiomatico esser la scarsità della popolazione che produce il difetto di coltura, e questo che produce la insalubrità del clima. In pochissimi casi la malsanìa può esser tanto predominante e incorreggibile da impedir tali effetti. Uno di tali casi è certamente quello delle toscane maremme. Eppure anche in queste la malsanìa è andata restringendosi in ragione diretta dello estendersi della coltura e della popolazione, e si è arrivati al punto che... ha già potuto in buona parte stabilirvisi anche la mezzerìa...» Che auspicare la diffusione nell'Isola di rapporti mezzadrili non sia espressione di mera utopia, e che l'insediamento del contratto assicurerebbe ai lavoratori della terra condizioni di vita incomparabili con quelle che impone di constatare la vista dei borghi siciliani provano, peraltro, in modo inequivocabile, i rapporti colonici delle aree, quantunque rare, nelle quali i patti agrari si avvicinano alla forma canonica del contratto toscano, quei rapporti di partecipazione meno aleatori che i tre amici hanno registrato nel Messinese, tra i quali può definirsi autentica mezzadria quello praticato nelle campagne delle Petralie, dove ai coloni è affidato l'intero novero delle colture del podere, e dove esistono casi in cui la persistenza della stessa famiglia sul medesimo podere che si protrae da più di una generazione. Oltre ai vantaggi economici, dimostra il valore di strumento di civiltà della mezzadria la dignità delle condizioni di vita, che Sonnino ed i due amici hanno verificato in tutti i casi in cui l'abitazione del contadino sia ubicata sul fondo, anche dove non sussista alcun patto di compartecipazione, come nel caso dei vigneri di Marsala, che vivono in condizioni incomparabili a quelle dei borgesi e dei giornatari ammassati come bestie, insieme alle proprie bestie, nei borghi rurali. Rilevata la coerenza delle repliche dell'economista toscano alle opinioni avverse alla proposta che formula, chi rifletta sul contesto dell'argomentazione non può mancare di osservare come sia assente, tra le ragioni poste a confronto, l'unica obiezione agronomica che le può essere rivolta: la constatazione dell'inospitalità dell'interno della Sicilia per le più ricche tra le colture arboree diffuse sulle coste, e dei limiti insuperabili opposti dall'aridità estiva all'allevamento intensivo che costituisce condizione essenziale dell'economia mezzadrile. L'errore costituisce, probabilmente, conseguenza dell'epoca durante la quale i tre compagni hanno attraversato l'Isola, la primavera, quando il rigoglio dei pochi mandorli e carrubi disseminati attorno alle masserie, ed il lussureggiare dei pascoli, suggeriscono l'impressione di una terra capace di trasformarsi, alla sola condizione dell'impiego dell'intelligenza dell'uomo, in un unico giardino.
L'eversione della manomorta, un errore economico e civile. Se la mezzadria costituisce il sistema agrario capace di assicurare lo sfruttamento più razionale, a vantaggio della società isolana e dell'economia nazionale, della generosità di una terra fecondata da un clima propizio, e se le remo re economiche ed agronomiche alla sua diffusione non possono ritenersi insormontabili, la realizzazione della riforma presuppone, tuttavia, la sussistenza di adeguate condizioni politiche: scrutatore attento di equilibri parlamentari, il futuro primo ministro del Regno d'Italia dedica al loro esame pagine di singolare penetrazione. Nelle quali si interroga sulla capacità del Governo nazionale di operare scelte lungimiranti e interventi coerenti per rinnovare il quadro economico e civile dell'Isola. Degli elementi attraverso i quali ricerca una risposta al quesito, che raccoglie nel primo capitolo della terza parte, in cui esamina L'azione dello Stato, quelli di segno negativo sono alquanto più numerosi, peraltro, di quelli di segno positivo. La loro analisi è una lucida denuncia dell'inadeguatezza, di fronte ai problemi del Paese, della politica dei primi governi unitari. La prima posta passiva del bilancio degli interventi statali è la forma nella quale è stata eseguita la vendita delle proprietà ecclesiastiche la cui espropriazione è stata una delle prime decisioni dello Stato liberale. L'operazione, ricorda Sonnino è stata realizzata dall'Erario assetato di liquidità con procedure improvvisate e in assenza di controlli rigorosi, assicurando al tesoro pubblico entrate irrisorie rispetto al valore dei beni venduti, di cui hanno favorito l'aggiudicazione ai grandi proprietari, che si sono associati in vere camorre per manipolare le aste a proprio beneficio. Pagando cifre insignificanti si sono assicurati la proprietà di estensioni immense, che hanno aggiunto a quelle già sconfinate di cui non si curavano che per la riscossione del canone annuale dal gabellotto. «I soli ricchi potevano amicarsi - Sonnino rievoca, al primo capitolo della terza parte del volume, le forme in cui si sono svolte le aste-, e alcune volte organizzare le camorre, che dominavano assolute nelle aste. Il modo stesso in cui erano fatti gl'incanti rendeva impossibile ogni lotta contro quelle coalizioni, che avevano per mira di accaparrarsi i beni a modico prezzo, o di lucrare sull'asta, facendosi pagare forti somme dai compratori. Se qualcuno non si sottoponeva alle esigenze della camorra, questa spingeva in su e senza limiti il prezzo dell'asta, e sapeva di non correre con ciò nessun pericolo. E difatti mandava a offrire agl'incanti qualche nullatenente, il quale rimasto padrone del podere lo sfruttava quanto più possibile, tagliando e abbattendo le piante che vi potevano essere, per pagare le prime spese dell'incanto: il Demanio poi doveva spesso aspettare due anni d'ineseguito pagamento per potersi riprendere il terreno...È triste il pensare di quale enorme ricchezza è stato defraudato lo Stato, senza che per questo si giovasse né all'agricoltura né alle classi bisognose, ma contribuendo soltanto a diminuire nelle menti di quelle popolazioni ogni rispetto per la legge, ogni concetto di equità e di onestà! E più triste ancora è il considerare gli effetti di quella censuazione, fatta a rompicollo, quando si abbia in mente tutti i benefici che si potevano ritrarre da quelle proprietà per la salute economica e morale di quel1e provincie...Ma non potevasi forse colla vendita di una parte delle terre, trovare i capitali per dotare le altre, e per costituire un fondo di prestito ai contadini proprietari - un fondo simile a quello che istituì l'Inghilterra colla legge del 1870 per gli affittuari Irlandesi?» Nelle forme in cui si è svolta, la liquidazione della manomorta ecclesiastica si è risolta in un errore altrettanto tragico sul piano finanziario, su quello agrario e su quello civile: cedendo quelle terre a prezzi più consoni, ma con pagamenti differiti, lo Stato avrebbe conseguito il duplice obiettivo di acquisire, seppure in un arco di tempo più ampio, somme senza paragone maggiori, e di insediare in Sicilia una folta schiera di piccoli proprietari, il ceto che costituisce il nerbo, sottolinea Sonnino, di qualsiasi società democratica. Senza ricavarne nemmeno il controvalore reale ha destinato quelle terre, invece, a estendere ulteriormente il dominio di una classe le forme di conduzione dei cui possedimenti dimostrano, senza necessità di appello, la rapacità e l'ignavia. Imponendo, insieme, ai ceti popolari di verificare che il cambiamento di governo nessun limite ha imposto alla prepotenza secolare degli antichi padroni. Un errore ulteriore della politica statale nella sfera agraria è stata, dichiara Sonnino, l'emanazione delle norme che, in nome di un'avversione puramente dottrinaria per gli ordinamenti feudali, hanno attribuito ai concedenti di terre in enfiteusi l'incondizionata facoltà di ottenerne il riscatto, una misura dagli immancabili effetti dissuasivi sulla stipulazione di nuovi rapporti enfiteutici, un istituto che se in una società moderna non rappresenta che un relitto giuridico, in un quadro economico tanto lontano da quello di una società moderna quale quello siculo, costituiva l'unico strumento capace di indurre i proprietari di grandi estensioni incolte a concederne frazioni à contadini disposti ad impiegarvi il proprio lavoro bonificandoli e realizzandovi piantagioni arboree nella certezza di poterne goderne i frutti per il lungo corso del contratto.
Giustizia fiscale e sviluppo agricolo. Oltre agli errori perpetrati da una politica finanziaria soggiogata ad esigenze immediate di cassa, e da una legislazione sulla proprietà ignara della realtà della regione, un ostacolo ulteriore al progresso del mondo rurale siciliano deriverebbe immancabilmente, proclama Sonnino, dalla perequazione dell'imposta fondiaria, un provvedimento il cui progetto è al centro del più vivace confronto parlamentare. Il Regno d'Italia ha ereditato dai principati di cui ha riunito i territori una molteplicità di catasti, costruiti secondo i criteri più eterogenei: mentre, infatti, quello austriaco, vigente in Lombardia e in Veneto, deve essere annoverato tra i più funzionali d'Europa, nelle regioni del Mezzogiorno gli antichi diplomi feudali costituiscono l'unica prova dei titoli di proprietà e l'unico fondamento dell'imposizione fiscale. Diversità di catasti significa diversità del trattamento fiscale di cespiti di eguale consistenza ubicati in regioni diverse: costituisce esigenza irrinunciabile di uno stato che si proponga di imporre la medesime legge a tutti i cittadini la formazione di un catasto unitario, che imponga oneri fiscali omogenei alle proprietà di tutte le regioni del Paese. Fautore appassionato dell'idea liberale dello stato di diritto, che postula la rigorosa eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, Sonnino è fervente avversario delle proposte di "perequazione" dell'imposta fondiaria, che ad un'equità fiscale meramente ipotetica assocerebbe, ritiene, danni economici sicuri. Del giudizio che ha formulato lo studioso toscano propone le ragioni con argomentazioni economiche di estremo rigore: per rinnovare il proprio tessuto, sottolinea, l'agricoltura italiana presenta l'urgenza di una mole imponente di miglioramenti fondiari, la cui attuazione impone un ingente flusso di investimenti: a ragione, tuttavia, della maggiore sicurezza degli investimenti mobiliari, in primo luogo dei titoli del debito pubblico, nessun proprietario sarebbe indotto ad investire il denaro nella terra se non fosse certo di poter ritrarre dalla terra un reddito maggiore, una condizione che decadrebbe nel momento in cui il catasto registrasse le condizioni effettive dei fondi, sottoponendo a tassazione il frutto delle migliorie realizzate. Per l'economia nazionale deve reputarsi più vantaggioso, cioè, tollerare le sperequazioni dell'imposta immobiliare che paralizzare, in nome di un'astratta equità fiscale, ogni impulso di rinnovamento agricolo. È un'argomentazione di indiscutibile realismo, seppure in palese contrasto con i principi essenziali del diritto, che nel quadro dell'Italia unificata impongono, per armonizzare il caleidoscopio della proprietà fondiaria, la realizzazione di un catasto moderno, inventario organico del patrimonio immobiliare nazionale. Consente di spiegare la radicale categoricità del giudizio di Sonnino la violenza del dibattito acceso, nelle aule parlamentari, dal progetto di riforma, fiscale presentato da Minghetti due anni prima del viaggio in Sicilia, un progetto privo di qualsiasi misura diretta a prevenire eventuali effetti dissuasivi dei miglioramenti fondiari. Caduto il progetto Minghetti, le esigenze di valutazione obiettiva dei valori immobiliari e di tassazione delle rendite secondo criteri tali da non scoraggiare gli investimenti saranno contemperate nel progetto di legislazione catastale che presenterà al Parlamento, nel 1882, il ministro Magliani, il cui testo verrà perfezionato, dopo la lucida relazione economica e giuridica curata, nel 1883, che, nella continuità della tradizione catastale del Regno lombardo-veneto, dirigerà la realizzazione del catasto unitario al perseguimento congiunto di obiettivi di equità fiscale e di stimolo degli investimenti. Dell'ispirazione della futura legge istitutiva del catasto enuclea i postulati essenziali lo stesso Sonnino nella definizione che propone, nel corso della complessa disamina, della rendita fondiaria, una definizione di cui non è difficile identificare la matrice nel pensiero di Ricardo, al quale ispirerà il proprio lavoro anche Messedaglia.
«L'imposta prediale è per sua natura un'imposta sul capitale; ma ha questo di speciale a differenza di molte altre imposte sul capitale: mentre quelle sono una vera e propria confisca a beneficio dello Stato, di una ricchezza prodotta dal possessore del capitale o da coloro da cui l'ebbe in dono o in via di successione, l'imposta fondiaria invece colpisce una ricchezza che non è frutto del lavoro particolare di nessuno, ma è un effetto della progressiva variazione nella proporzione tra il capitale e la popolazione da un lato, e dall'altro la quantità limitata di quella parte di terra che sia posta in certe condizioni più favorevoli, o contenga in sé delle speciali qualità di fertilità naturale. Questa ricchezza speciale della terra va generalmente aumentando in ogni paese che progredisce; e non vi è quindi in teoria nulla che sia contrario all'equità o all'istituzione della proprietà privata territoriale, nell'aumento progressivo dell'imposta che la colpisce. Le difficoltà qui vertono piuttosto sul modo pratico di ottenere questo aumento dell'imposta sulla rendita fondiaria, senza che essa degeneri in tassa sull'industria agricola...» Una minaccia ulteriore alle pure esigue possibilità di rinnovamento del tessuto fondiario attraverso la suddivisione dei latifondi cerealicoli in poderi ad ordinamento intensivo Sonnino intravvede nella proposta di tassazione degli edifici rurali inserita nel progetto di riforma fiscale di Minghetti. Se la rinuncia ad un cavallo o ad un soggiorno in una stazione termale straniera sarebbe sufficiente perché i grandi proprietari siciliani costruissero ogni anno qualche casa poderale creando altrettanti fondi mezzadrili, l'approvazione della proposta dissolverebbe le eventualità più remote che il costume ad investire nelle proprie terre potesse insediarsi nell'Isola. «Argomento di controversia è stato pure l'ultimo capoverso dell'art. 5 del progetto Minghetti -scrive, nello stesso capitolo, al paragrafo 91-, con cui si determina che le costruzioni rurali saranno soggette all'imposta sui fabbricati, ed esenti da quella sui terreni. Il Basile si mostra favorevole a questa disposizione... Le ragioni pro e contro hanno un certo valore; ma è indubitato che nella attuale scarsezza di convenienti fabbricati rurali, tanto per abitazione dei contadini come per gli usi agricoli, il disposto dell'art. 5 presenterebbe il pericolo d'impedire le nuove costruzioni. E la questione delle case coloniche, e specialmente nelle provincie meridionali che tanto ne difettano, è questione sì grave e che interessa talmente, oltreché l'agricoltura, la sicurezza pubblica nelle campagne, la moralità e il benessere delle popolazioni, che ogni ostacolo frapposto ad un miglioramento delle condizioni presenti non può essere considerato che come cosa improvvida e pericolosa...» La proposta di tassazione delle case rurali non sarà reinserita, peraltro, dal ministro Magliani nel proprio progetto, di cui proprio Minghetti sarà relatore in parlamento.
Un'isola nella storia del Continente. Una realtà umana fatta di miseria e di prevaricazione, un quadro agrario di pratiche rudimentali, di contratti primordiali, eppure un clima propizio quanto pochi, nel Continente, per produzioni di elevato pregio commerciale, tanto numerose da potersi comporre in una gamma di ordinamenti ai cui cicli sarebbe connaturale una forma di conduzione che legasse stabilmente il contadino alla terra, stimolandone la dedizione al lavoro, assicurandogli, attraverso la partecipazione al frutto della propria fatica, condizioni di vita degne di un uomo, moltiplicando, insieme, la ricchezza dell'Isola e quella del Paese: è la drammatica contraddizione che prende forma dall'analisi dell'agricoltura e della società rurale della Sicilia di Sidney Sonnino, una contraddizione al cui superamento si oppone, lo studioso toscano ne è lucidamente consapevole, l'arrogante ignavia della nobiltà terriera, la rapacità degli intermediari, la potenza della delinquenza mafiosa, le forze dell'arretratezza alla cui virulenza ha prestato il proprio contributo il Governo nazionale con le proprie scelte improvvide, alle quali altre sono destinate ad aggiungersi, specchio di una classe politica ignara della realtà dell'Isola quando non interessata alla conservazione dei privilegi e della prevaricazione che vi dispiegano il proprio imperio. A conclusione dell'articolata indagine geografica, storica ed economica che ha sviluppato nel volume, nell'ultimo capitolo della terza parte, la Conclusione con la quale chiude il proprio lavoro, il futuro capo del Governo italiano propone una spiegazione dello iato storico che separa la società siciliana dalle società europee, una diagnosi che, a oltre un secolo dalla propria stesura, a tre lustri dall'impressionante serie di assassinii che eliminò quanti, autorità governative, regionali e magistrati, si opponevano alla mafia, impone, immutata, la propria verità impietosa: «Si deplora in generale che la rivoluzione francese non abbia fatto sentire il suo soffio vivificatore in Sicilia -scrive al paragrafo 127-, e il pensiero è giusto, ma quel che è quasi più ancora da deplorarsi è che la Sicilia abbia iniziato le sue riforme liberali sotto l'influenza inglese in un momento in cui in tutta Europa risorgeva più potente lo spirito di reazione, e il medioevo sembrava dover rivivere. L'atmosfera era già viziata, quando i petti siciliani si allargarono ai primi respiri di libertà, e le maggiori riforme civili furono introdotte nell'Isola per opera di un Borbone, in tempo di completa reazione. Che-meraviglia dunque se le oppressioni di classe su classe si mantennero! se nel 1860 vi trovammo con leggi moderne, costumi e tradizioni medioevali!» «E quel che trovammo nel 1860 – Sonnino prosegue la propria argomentazione nel paragrafo successivo-, dura tuttora. La Sicilia lasciata a sé troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari, e ce ne assicurano l'intelligenza e l'energia della sua popolazione, e l'immensa ricchezza delle sue risorse. Una trasformazione sociale accadrebbe necessariamente, sia col prudente concorso della classe agiata, sia per effetto di una violenta rivoluzione. Ma noi, Italiani delle altre provincie, impediamo che tutto ciò avvenga. Abbiamo legalizzato l'oppressione esistente; ed assicuriamo l'impunità all'oppressore. Nelle società moderne ogni tirannia della legalità è contenuta dal timore di una reazione all'infuori delle vie legali. Orbene, in Sicilia colle nostre istituzioni, modellate spesso sopra un formalismo liberale anziché informate a un vero spirito di libertà, noi abbiamo fornito un mezzo alla classe opprimente per meglio rivestire di forme legali l'oppressione di fatto che già prima esisteva, coll'accaparrarsi tutti i poteri mediante l'uso e l'abuso della forza che tutta era ed è in mano sua; ed ora le prestiamo man forte per assicurarla, che, a qualunque eccesso spinga la sua oppressione, noi non permetteremo alcuna specie di reazione illegale, mentre di reazione legale non ve ne può essere, poiché la legalità l'ha in mano la classe che domina.» È un giudizio storico alla cui cruda lucidità non è possibile opporre riserve o obiezioni. Isola nella geografia del Continente, la Sicilia non è meno un'isola nella storia d'Europa, nel cui corso ha indugiato immota durante il secolo di progresso scientifico e di rinnovamento istituzionale dal quale ha preso forma la società moderna, il Settecento. A metà dell'Ottocento rispetto alle società che sono state investite dal moto propagato dalla Rivoluzione francese registra un ritardo di ampiezza secolare. Realizzata senza alcuna partecipazione di forze locali, l'introduzione delle istituzioni dello stato moderno non ha prodotto alcun mutamento degli assetti sociali, ha eretto simulacri di un diritto inapplicabile, la cui presenza inane moltiplica le contraddizioni della società isolana, offrendo strumenti di nuova efficacia alla perpetuazione del costume di prevaricazione cresciuto nella degenerazione del sistema feudale. Sono le constatazioni che si impongono a chi abbia penetrato, fino al crepuscolo del Ventesimo secolo, le regole che governano, in Sicilia, in modo particolare nelle sue campagne, i rapporti economici e sociali. Dopo le istituzioni dello stato di diritto, dei paesi moderni l'Isola ha acquistato molti degli elementi più appariscenti, primo fra tutti una funzionale rete viaria: gli itinerari che i tre studenti pisani percorsero, nella primavera del 1876, spendendo giornate interminabili su carreggiate fangose, possono essere compiuti, oggi, in poche ore, su autostrade che vantano alcuni dei ponti più arditi della rete stradale del Continente. Quelle autostrade attraversano campagne, collegano borghi in cui dietro le vestigia esteriori della civiltà moderna la violenza detta ancora la propria legge insindacabile, in cui le istituzioni dello Stato sono larve incapaci di imporre l'ordine del diritto alla trama dei rapporti che si realizzano secondo una legge che non è quella dello Stato. La frattura secolare che separava, nel 1876, la società dell'Isola da quella dell'Europa moderna permane, profonda, forse incolmabile. È solo l'esistenza di quella divaricazione a consentire, a chi osservi lo scenario agricolo siciliano, di spiegare come, nonostante l'apparente floridezza, lo spazio che separa l'agricoltura dell'Isola dai mercati europei, ai quali dirige, tra difficoltà che nessun intervento pare capace di superare, la gamma delle produzioni favorite da un clima, come ha percepito Sidney Sonnino, singolarmente propizio. Imponenti investimenti pubblici hanno assicurato all'agricoltura siciliana tutti gli strumenti dell'agricoltura moderna, dalle macchine agli apparati di irrigazione, dai laboratori scientifici ai grandi impianti di conservazione e di trasformazione dei prodotti: la permanenza di una rete di rapporti arcaici tra quanti partecipano ai cicli produttivi ha impedito che alla modernità dei mezzi tecnici si unisse quella dei sistemi organizzativi, necessaria per imporre i frutti della terra siciliana ai consumatori nazionali e stranieri. Non è compito dello storico stabilire se l'accoglimento della proposta di Sidney Sonnino, la diffusione nell'Isola della mezzadria, avrebbe innescato un processo di rinnovamento dei rapporti contrattuali capace di colmare il ritardo secolare. L'osservatore del quadro agrario italiano rileva che le aree nelle quali era fiorita la mezzadria hanno vantato, nel crepuscolo del Ventesimo secolo, il tessuto organizzativo più dinamico tra quelli proposti dal quadro nazionale: superata dalla trasformazione degli equilibri economici, la mezzadria aveva lasciato, prezioso retaggio ereditario, un tessuto di proprietà contadina la cui vitalità ha animato, nella seconda metà del Novecento, la vitalità di regioni agricole che si imponevano come modelli di efficienza produttiva ed economica. Se l'analisi storica non può determinare quali possibilità sussistessero, nell'ultimo quarto dell'Ottocento, di trasferire tra dossi e valli della Sicilia la mezzadria toscana, la storia dell'agricoltura italiana nel Novecento impone di identificare nella mezzadria la matrice, dove fosse radicata, di una lunga stagione di prosperità agraria. Una stagione forse conclusa: nella cornice radicalmente nuova dei mercati planetari dell'alba del Terzo millennio le radici della prosperità antica, fossero le più solide, non possano assicurare il dinamismo presente senza l'impulso di una strategia politica fondata sull'analisi più penetrante del contesto internazione, condotta con determinazione e lungimiranza. Dagli ultimi lustri del Novecento ogni impegno per un'autentica strategia agraria è stato reputato, in Italia, impegno superfluo da governanti convinti che la preoccupazione per l'approvvigionamento alimentare costituisse la tediosa incombenza dei ministri ducali di secoli remoti, impegno superfluo per gli arbitri di una moderna società industriale. Nell'estinguersi, per l'assenza di ogni strategia agraria, della floridezza delle aree di antica vitalità produttiva e mercantile, la Sicilia ha realizzato l'inserimento nel contesto nazionale al quale pareva fosse incapace di unirsi: all'alba del Terzo millennio gli agrumi siciliani dimostrano la medesima incapacità di conquistare i mercati esteri del Parmigiano reggiano, emblema della più dinamica tradizione agricola padana. Nel corso di un cinquantennio di straordinario progresso l'intraprendenza locale ha sopperito, nelle aree privilegiate, all'assenza di una strategia agraria nazionale, fino a quando, di fronte ai mercati planetari, che è impossibile affrontare senza un disegno altrettantom plaentario, le regioni di antica prosperità hanno conosciuto condizioni identiche a quelle di antica inefficienza e di pluridecennale dissipazione: l'assenza di capacità di governo ha conseguito l'obiettivo invano auspicato per oltre un secolo, l'unificazione, nel progressivo decadimento, di quelle che una locuzione efficace definì "le cento agricolture d'Italia".
LA QUESTIONE MERIDIONALE SECONDO EUGENIO BENNATO.
La questione meridionale secondo Eugenio Bennato, da " Il quotidiano della Basilicata". “Ho scelto di fare questo tipo di musica, perché ho creduto nella superiorità dei cantori del sud rispetto ai divi della musica leggera”. A parlare è Eugenio Bennato cantautore e musicista straordinario che a differenza del fratello Eduardo, con il quale lo scorso 31 dicembre in piazza plebiscito a Napoli per la prima volta ha diviso il palcoscenico in uno spettacolo storico, ha scelto una via difficile nell’ombra di un sud dimenticato. Il 13 dicembre scorso è uscito l’ultimo lavoro discografico, “Questione Meridionale”, un album che parla anche della Basilicata, come ha sempre fatto il cantautore napoletano innamorato del sud con le sue storie e suggestioni sui briganti. Per “Il quotidiano della Basilicata”, Eugenio Bennato si intrattiene per un’intervista sul suo nuovo lavoro e sul sud.
Maestro, hai dovuto scrivere un libro per dire una volta per tutte che “Brigate se more” non è un antico canto ma una sua composizione scritta insieme a D’Angiò del 1979. Quanto “Questione meridionale “si lega al libro e a questo pezzo diventato un inno?
«Io composi insieme a Carlo D’angiò questo pezzo insieme ad altri sul brigantaggio e poi l’argomento lo lasciai un po’ andare. “Brigante se more” poi si è mossa da sola, è diventa un inno di milioni di ragazzi del sud. Due anni fa ho deciso di ritornare, mentre scrivevo il libro, sull’argomento. Per parlare di un sud che si sta muovendo e si scrolla di dosso i suo complessi di inferiorità generati da una storia raccontata in maniera incompleta».
“Brigante se more” lo hai detto tu, è un inno ed è l’unico pezzo vecchio del tuo nuovo album. Con che spirito questo pezzo è stato inserito in “Questione meridionale” cantato tra l’altro da Pietra Montecorvino?
«E’ l’unico flash back a me stesso che ho voluto fare in questo disco per ricordare che quando ho scritto “Brigante se more” cominciò una stagione di grande attenzione per questi temi prima sconosciuti. Tutti i pezzi di questo album si inseriscono a quella scintilla primitiva che è “Brigante se more”. Poi è legata alla straordinaria interpretazione di Pietra che in questo periodo sta facendo e uno spettacolo sulla musica napoletana con Raiz,” Passione” nel quale, e ne sono molto fiero, hanno inserito “Brigate se more”».
Dopo il tuo libro ma specie dopo questo album, in molti affiancano i tuoi pezzi e la sua figura a movimenti filo- borbonici ed autonomisti. Quale è il suo parere?
«Per quanto riguarda il “Partito del sud “, devo dire che mi hanno chiamato per chiedermi di utilizzare uno dei mie titoli per il nome di un partito. Io ho risposto che potevano tranquillamente farlo perché è un diritto di tutti, non ritengo che un autore nel momento in cui dice una frase ne diventa anche proprietario. E’ la stessa storia di “Brigante se more” una canzone che ho scritto io ma appartiene a tutti. Per il resto, è un tipico esempio della superficialità con cui si scatenano alcune voci, dobbiamo rassegnarci tutti alla stupidità che naviga via internet. Se avessero letto il mio libro si renderebbe conto che ho scritto un opera intera per difendermi dalla smanie neo-borboniche che hanno tentato di cambiare le mie canzoni. Io rivendico di essere libero nelle mie scelte, di non essere legato a nessuna ideologia tanto meno quella neo-borbonica».
Perché hai detto che i festeggiamenti dell’unità d’Italia sono ridicoli?
«Sono festeggiamenti che non hanno portato nessuna novità. Soprattutto non si è colta l’occasione per fare una cosa importante cioè quella di prendere atto che ci fu una guerra spietata, raccontata a suo tempo da Nitti e Gramsci. Si continua a spiegarla secondo dei canoni sicuramente superati dalla storiografia seria. Un esempio per tutti, Pontelandolfo distrutta dall’esercito piemontese per rappresaglia attende ancora le scuse. Scuse che invece sono state fatte dal governo americano agli indiani di Sand Creek. Sarebbe stato necessario almeno il rispetto per la verità».
Quale è la tua versione della “questione meridionale”?
«Per me lascia il suo significato politico e prende quello poetico. Nel senso che tutta la musica che ho sempre amato è un fatto di sud, è una questione meridionale. Rivolto in positivo questa definizione che ha sempre avuto un connotato negativo e dico che i grandi movimenti musicali ma oserei dire anche umani, vengono dal sud.
Questo è un album davvero importante che ha un valore musicale molto forte. “Questione meridionale” forse è il tuo album più pesante musicalmente più del disco “Che il mediterraneo sia” del 2001. Secondo te è così?
«“Questione meridionale” è un album sicuramente più completo. Ci sono dieci canzoni nuove che si ricollegano l’una all’altra. E soprattutto viene in un momento in cui io sto vivendo un rapporto con il pubblico molto intenso. Ai miei concerti ci sono migliaia di affezionati, direi che è un dialogo con il pubblico, anche internazionale. Ci sono dei momenti, gli ultimi che ho scritto in cui mostro cosa succede quando “Taranta Power” arriva in Marocco, in Turchia o Tunisia. Una risposta di pubblico molto intensa che manifesta anche quanto questa sponda sud del mediterraneo si stia muovendo, riprendendosi la democrazia».
In “Mille” uno dei pezzi nuovi ad un certo punto lei fa riferimento ai “garofani strappati”. Può essere un riferimento al tuo primo album con i Musicanova, “Garofano d’ammore” del 1977?
««Probabilmente sì. Ma è un’espressione che si rifà molto alla cultura popolare. I mille garofani potevano essere mille rose, ma i garofani ci appartengono di più. Devi pensare che molte delle cose che scrivo, oltre che a raccontare è importante che suonino bene musicalmente, spero di esserci riuscito in questo album».
Hai dedicato un pezzo a Ninco Nanco che è diventato addirittura più leggendario dello stesso Generale Crocco. Come mai? In molti accostano Ninco Nanco, per somiglianza a Che Guevara.
«Ninco Nanco ha avuto il privilegio di essere ammazzato, Crocco ha finito i suoi giorni in galera. Il personaggio è molto più romantico. Ninco Nanco ha due fatti importanti, uno il suo volto di straordinaria potenza e poi il nome molto musicale che sembra un fumetto e invece e un brigante. Io quando faccio un disco scrivo una storia, sicuramente Ninco Nanco come volto somiglia a Che Guevara ma io non ne parlo nel pezzo. Ninco Nanco è il simbolo di una repressione indiscriminata: ammazziamo i briganti per spostare l’attenzione dai fatti veri. I fatti veri sono lo spostamento dell’economia dal sud al nord».
Nel pezzo “Balla la nuova Italia” tu fai un esplicito riferimento ad un brigante moderno del nord, Fabrizio De Andrè. Si riconcilia con questo pezzo il sud al nord?
Io non sono un antinord. Tra l’altro devo dire che Fabrizio De Andrè è un idolo del popolo della taranta e questo è un fatto incredibilmente significativo, aldilà del dialetto. I ragazzi che vanno ai grandi festival della musica della taranta hanno un amore sconfinato per De Andrè».
Due le eroine nel tuo disco. Michelina De cesare la brigantessa e Neda uccisa nelle proteste dopo le elezioni iraniane. Quanto sono simili queste due donne vissute in epoche diverse, in luoghi distanti?
Innanzi tutto la bellezza del volto. Entrambe uccise a ventisette anni. Michelina de Cesare diventa un’icona del sud che ha combattuto, morta combattendo ed è incredibile che la storia non l’abbia mai raccontato. Neda è morta ammazzata da lontano ma rappresenta la miccia che ha innescato la primavera araba: il sovvertimento dei tiranni».
Sei direttore artistico del “Lucania Etno-folk “di Satriano di Lucania. In questo modo il sud e la Basilicata si dimostrano sconfitti ma non vinti?
«Il sud non è stato vinto perché i briganti siamo noi. Oggi c’è un grande orgoglio del sud, quindi in un certo senso qualcosa non ha funzionato nel tentativo di cancellare. La Basilicata da sempre trascurata è in grande fermento. È la regione più misteriosa e lo è stato anche per me all’inizio quando ho iniziato, quando scrissi “Brigante se more. Vedevo la grande dignità di questo popolo così ignorato. Spero che il festival di Satriano si innalzi dal punto di vista degli investimenti perché i festival si fanno con le istituzioni che lo appoggiano. Esistono gli elementi in Basilicata capaci di farsi parte del grande movimento di una musica che viene dal sud».
Cosa è la Bellezza?
«La Bellezza è il punto di equilibrio tra tradizione e attualità».
“Brigante se more”: Storia di un inno popolare moderno, scrive il 9 agosto 2015 Germana Squillace su "Vesuvio Live". “Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti.” Antonio Gramsci, uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia, scrisse, nel 1920, queste poche ma concise parole nella sua rivista “L’Ordine Nuovo”. È questa stessa verità che il musicista napoletano Eugenio Bennato ha voluto raccontare quando ha scritto “Brigante se more”. La canzone nasce come colonna sonora dello sceneggiato televisivo Rai, ispirato al libro di Carlo Alianello “L’eredità della priora”, trasmesso nel 1980 su Rai Uno. Bennato la scrisse nel 1979 in collaborazione con Carlo D’Angiò con cui aveva creato il gruppo musicale Musicanova e con cui, negli anni Sessanta aveva fondato la Nuova Compagnia di Canto Popolare insieme con Roberto De Simone e Giovanni Mauriello. Il regista Anton Giulio Majano chiese ai due musicisti di scrivere il brano più importante dello sceneggiato: un canto di battaglia che potesse rappresentare l’operato dei briganti e potesse essere percepito come loro inno. Inizialmente Bennato e D’Angiò scrissero una ballata romantica estremamente triste che non piacque a Majano. Cantava di un melograno che spuntando fuori stagione, ad agosto, rappresentava un terribile presagio di morte. Il secondo tentativo vide la nascita di “Brigante se more”, uno dei canti popolari più famosi degli ultimi decenni della musica italiana. Per un periodo sono stati messi in discussione i natali di questo brano e online è uscita una versione avente due frasi differenti: “nun ce ne fotte d’o rre Burbone ma a terra è a nostra e nun s’adda tucca’” era diventato “nuje combattimmo p’o Rre Burbone a terra è a nostra e nun s’adda tucca’; mentre “e si murimmo menàte nu fiore e na bestemmia pe sta libertà” era stato cambiato in “e si murimmo menàte nu fiore e na preghiera pe sta libertà”. Le variazioni erano accompagnate da una spiegazione secondo cui “Brigante se more” di Bennato era un riadattamento di una canzone popolare del XIX secolo. Il musicista ha deciso anche di scrivere un libro intitolato “Brigante se more – Viaggio nella musica del Sud” per spiegare le origini di questa splendida canzone e per rivendicare la sua paternità: “Evidentemente – spiega Bennato in un’intervista a “Il Sannio Quotidiano” – abbiamo assorbito la lezione della musica popolare a tal punto da farlo sembrare un canto vero. Un brano che ha portato alla luce un argomento tabù della nostra storia, perso nella memoria poiché sui briganti non si sa nulla. Si sono perse tutte le tracce di ciò che cantavano sulle montagne quando si nascondevano poiché, di ogni singolo caso, sono state cancellate le documentazioni”. Indubbiamente i due musicisti hanno avuto il merito di racchiudere in un unico testo un sentimento comune che ha reso questa canzone un po’ di tutti i meridionali che non hanno dimenticato coloro che dovendo scegliere se essere “briganti o emigranti”, non scelsero la strada più facile.
Eugenio Bennato, “Brigante se more:
Avimmo pusato chitarre e tammuro
pecchè sta musica s'addà cagnà
simme brigante e facimme paura
e c'a scuppetta vulimme cantà.
E mò cantamme sta nova canzona
tutta la gente se l'adda 'mparà
"nun ce ne fotte do rre burbone
'a terra è 'a nosta e nun s'adda tuccà.
Tutt' e paise da baselecata
se sò scetate e vonno luttà
pure 'a calabria s'è arrevotata
e stu nemico facimme tremmà.
Femmene belle carrate lu core
si lu brigante vulite salvà
nunn'ho cercate scurdateve 'o nomme
chi ce fa 'a guerra nun tene pietà.
Chi ha visto 'o lupo e s'è mmiso appaura
nun sape buono qual è 'a verità
'o vero lupo ca magna 'e criature
è 'o piemuntese c'avimma caccià.
Ommo se nasce brigante se more
ma fino all'ultemo avimma sparà
e si murimme menate nu sciore
è na jastemma chesta libertà.
Writer(s): Carlo D'Angio
MIMMO CAVALLO E POVIA: I NUOVI BRIGANTI.
Povia abbraccia la "Questione Meridionale". L'artista ha fatto tappa al Covo dei Briganti. E' poi online il video di Cavallo "Siamo Briganti", scrive mercoledì 9 settembre 2015 "Otto pagine". E’ da pochi giorni online il video di Mimmo Cavallo girato “n’goppa a Maronna”, sulle Surte di San Giorgio del Sannio e San Martino, e nel locale di Nino De Filippo, il Covo dei Briganti. Il video del brano ispirato al brigantaggio meridionale e dal titolo inevitabile, “Siamo Briganti”, ha avuto come sfondo esterno i ruderi di un’antica chiesa, a Terranova, sulla cui genesi ci sono diverse ipotesi, e che di certo, nel presente, non si trova in ottime condizioni di conservazione. Ad arricchire però questo percorso artistico-musicale volto a restituire la verità storica sul periodo dell’Unità d’Italia ci ha pensato anche Povia, che pochi giorni fa, (ormai bazzica spesso nel Sanno, ha infatti qui tanti amici e amiche, l’ultima sua apparizione è stata al mercato continuato di Apice) in visita al locale, ha confidato di aver abbracciato la Questione Meridionale e filoborbonica, chiedendo allo stesso gestore del Covo dei Briganti di aiutarlo a girare un video in zona...«E’ stato l’incontro con lo scrittore napoletano Gennaro De Crescenzo – spiega Nino- ad avere suscitato nell’artista l’interesse per il Sud». Povia ha dunque tutto il materiale necessario per comporre un pezzo sulla Questione Meridionale, se lo vorrà, contando anche sul conforto del rapporto-choc fornito dallo Svimez (l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), che ha consegnato, pochi settimane fa, un’immagine drammatica del Mezzogiorno, che in questi anni ha fatto anche peggio della Grecia.
Povia e la satira che cambia vento…, scrive il 17/08/2017 “Il Giornale”. “Mentre fissi il lampadario, ti fregano il salario. Ma non è mica colpa loro, c’è un disegno molto chiaro, il potere veterano con la scusa del razzismo vuole fare fuori l’italiano”. Pioggia di critiche social per Giuseppe Povia, il cantante vincitore del Festival di Sanremo che ha pubblicato su Facebook il nuovo brano dall’eloquente titolo “Immigrazía”. Forse aveva ragione Povia – che continua la sua battaglia contro ogni forma di oppressione sociale e di distorsione causata del politicamente corretto – intanto la polemica sui social impazza. E per quelli che pensano che la satira può stare solo da una parte? Il vento, a quanto pare, sta cambiando anche per loro. Evoluzione della specie: dal politicamente corretto al polemicamente corretto. Buttiamola in caciara, ma almeno buttiamocela. “Me so rotto li cojoni e dico che: era meglio Berlusconi”. Parola “del vecchietto di 80 anni, un convinto comunista con la falce ed il martello, Che Guevara sul cappello, stalinista, leninista e marxista nel cervello”, quello col vino rosso giusto. No, in realtà parola di Povia, che detto così pare santo. E ci sarebbe da santificarlo il cantautore italiano, già vincitore di Sanremo, già fortemente incazzato contro speculatori, speculazioni e soprattutto contro questa Europa un po’ puttana, un po’farsesca. Perché? Perché l’ha fatta fuori dal vasino del politicamente corretto, perché l’ha detta tutta, perché, nel farlo, ha preso un’altra direzione. Se, da che mondo è mondo, assecondare il vezzo artistico, conciliando la necessità di esprimersi con quella di tirare a campare – anziché a Campari, per non pensarci -, nella serie A della musica italiana corrisponde a ingraziarsi il mercato e l’egemonia culturale imperante, giusto per non calpestarle i crismi siliconici, Povia la fa grossa e, finalmente, sanamente, fortemente, libera. Povia l’ha fatta controcorrente e un po’ gaberiana – Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? –. Siamo lontani dal cantautorato impegnato di De Gregori ne “Il Cuoco di Salò”, ma ogni tanto è bello sentir cambiare il ritornello.
Sentite qua: Ogni tanto la satira morde anche la sinistra, ebbene sì. Una scanzonata botta di oggettività in faccia, lontana dai mugugnati sermoni militanti incomprensibili. Da queste parti, se il massimo della rivoluzione in musica è nell’antiberlusconismo di Caparezza, nell’antidestrismo di Jax, nell’anti sistematicità tatuata e stereotipata del pentastellato Fedez – ancor più figaccio e con il 90% in più di furbizia commercial/militante -; se il massimo del diletto musicale sta nel conformismo verso il mondo nuovo, verso il progresso da inseguire e idolatrare come un dio, verso l’utilitarismo e il multiculturalismo, verso l’estrema tolleranza, a costo di rimetterci noi stessi, allora in questo caso siamo ben oltre. Una continua cazziata sonata e cantata contro la morale, contro un minimo di buon senso, buon gusto e amor proprio. Che palle, si direbbe, che palle come il democristiano Celentano che la morale la trasformava in canzonetta nazionalpopolare che ha fatto e rifatto la storia di questa Patria un po’ statica e provinciale – La coppia più bella del mondo o Chi non lavora non fa l’amore – come la plastica sui divani della zia o che ti allieta la serata revival. Ecco che, allora, la musica fa discutere se si fonde con l’impegno; la musica deve far discutere, recuperando, talvolta, una dimensione di narrazione, di analisi della realtà. Soprattutto se tratta dei tempi e della società in un momento in cui tutto sembra non tangere, ogni sacrificio pare essere necessario al conseguimento del progresso, dello snaturamento, della distruzione di un’identità prossima e riconoscibile, verso una massificazione senza fine. La musica fa discutere, Povia fa discutere, da sempre, almeno non gli si può dare del militante improvvisato o del paraculo polemista. “La posizione pro-eutanasia di Eluana Englaro portata a Sanremo nel 2010 con “La verità”, ad esempio, dopo la posizione anti-ideologia gender portata al Sanremo dell’anno prima con “Luca era gay” o con il tour del 2015, iniziato in chiave tricolore, e poi virato in chiave neo-borbonica. La nazionalista “Siamo Italiani” e la neo-borbonica “Al Sud” sono incluse entrambe nel suo ultimo album appena uscito, “Nuovo contrordine mondiale”, assieme a “Era meglio Berlusconi”. E pure in quest’ultima la stessa Lega Nord, di cui era stato definito simpatizzante, viene irrisa in modo analogo a grillini e Pd”, come ricorda Stefanini sul Foglio. La crepetta nel politicamente corretto la apre volentieri, Povia. Ed ecco che bimbiminkia – e rappaminkia, e fricchettoni, leoni da tastiera e fannulloni, creduloni, banche e usurpatori, mercanti e lobotomizzati – anche detti eterni accontentati, quelli per la Rivoluzzzione1!!, per la Libbbertà, quelli per cui l’Itaglia fa sempre schifo – sono messi al bando in numerose sessioni video sulla sua pagina Facebook, in un lavoro che accantona l’obiettivo commerciale e atterra nelle lande. Gira che ti rigira l’omologazione comincia a stare stretta a qualcuno, finalmente, come la cravatta al matrimonio della nipote, magari ad Agosto: comincia a stringerti il collo e poi ti fa perdere i sensi. Povia non si vende. Ma Giuseppe non è di destra – È del centro storico, dice lui. E a noi piace questa idea -, figurarsi nazionalista – né lui, né il cartello con su scritto Chitemmuort’ Garib’a’che lo accompagnò sul palco -, non è leghista – Salvini non è al governo, non si può perdere tempo dietro a lui, sempre come dice lui -. Povia è Povia ed è incazzato nero – sicuramente non rosso, dai – con Bruxelles, con l’Europa servetta dell’alta finanza, senza più carisma, né memoria. Eclettico, goliardico, sfumato tra Gaber e Rino Gaetano, Povia menestrella quel che non si può proprio dire, quella parte sfigata di una società fragilissima e libertina – e fighissima! -, ghettizzata, che non si piega all’appello dell’egemonia culturale vigente, che dopo radical non ha scritto chic. Ogni tanto è bello sentir cambiare il ritornello. Anche se per poco o quasi per gioco, è bello.
Povia contro Garibaldi «smonta» la storia d'Italia. Il cantante a Sasso di Castalda accende il dibattito: L'unità? Truffa ai danni dello Stato, scrive Massimo Brancati il 18 Agosto 2017 su "La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dai bambini che «fanno oh» ai piccioni innamorati. Melodie accattivanti e testi che hanno fatto presa. Da qualche anno ai margini del grande show business musicale, il cantautore Povia cavalca l’onda della polemica per restare sotto i riflettori. Lo ha fatto nel 2008 con il suo brano «Luca era gay» (nella canzone raccontava di un uomo diventato gay a causa della sofferenza per la lontananza del padre), e quest’anno con «Immigrazia», schierandosi apertamente contro le politiche dell’accoglienza. Ora la polemica affonda le radici nientemeno che nel passato del Belpaese. Ed è scoppiata a Sasso di Castalda, dove l'artista - che oggi si esibirà ad Albano di Lucania - ha tenuto un concerto durante il quale ha riesumato la bandiera dei Borboni, ergendosi a paladino del revisionismo storico. Ha parlato dell'unità d'Italia in termini negativi, etichettandola come truffa ai danni del Sud. E su Garibaldi ha sparato a zero, definendolo criminale e mercenario al pari di Cavour e dei vari Savoia. Nulla di nuovo all'orizzonte, intendiamoci. Su questo tema, infatti, si sprecano libri e riletture. E i leghisti di casa nostra inzuppano il biscotto del populismo. Ma l’uscita di Povia è andata oltre il palco di Sasso, riecheggiando nella piazza virtuale di Facebook. Ci ha pensato una insegnante lucana, Maddalena Rotundo, a rendere virale la polemica, postando un inequivocabile commento sulla foto del cantante che srotola la bandiera borbonica: «con quella pulisciti il c...». Povia ha pubblicato questo commento sulla sua pagina catalizzando, com’era prevedibile, like e commenti a favore da parte dei suoi fan. Un tiro al «piccione» (per restare in tema musicale) nei confronti di Rotundo: «...156 anni di "sudditanza psicologica" pesano su alcune menti bacate»; «sei un grande!!! In giro ci sono troppi utonti e bimbiminkia!»; «grande Povia, sempre in alto il nostro amato vessillo». A bilanciare i commenti ci hanno pensato due giornalisti lucani, Giuseppe Fiorellini («stima per Maddalena Rotundo. Ha usato toni accesi per avviare una discussione che invece di incanalarsi su parametri di civiltà è diventata una sorta di linciaggio da stadio, il tutto per un po’ di pubblicità a buon prezzo» e Angelomauro Calza («tu non canti in difesa del Sud, canti per soldi. Rotundo è preparata e non predica verità o presunte tali come fai tu»). L’insegnante non ha incassato critiche senza reagire: «Garibaldi qui non è venuto affatto, i nostri antenati lucani, a Corleto, Potenza e poi negli altri centri lo precedettero cacciando il debole presidio borbonico. Povia manca di rispetto al suo pubblico raccontando cose imprecise e ideologicamente deformate, da una posizione di privilegio senza che nessuno possa portare un contraddittorio». Forse sarebbe meglio lasciare agli storici, quelli forgiati da anni di studio, l’analisi di un periodo così determinante per il nostro Paese. Sono solo canzonette, cantava Bennato. Povia lo dovrebbe sapere: più melodie e meno polemiche per far parlare di sé.
Il coraggio di un uomo libero: Giuseppe Povia contro il sistema. Povia, un cantautore senza paura: da Luca era gay alla canzone denuncia sul massone Garibaldi, scrive il 27 maggio Mary Hopkins su "Un mondo di mare". Povia, dopo aver composto la canzone “Luca era gay”, si guadagnò l'appellativo di "omofobo" dalla lobby LGTBI, solo per aver cantato la storia di una persona che cambia e supera la sua attrazione per lo stesso sesso. E ora lancia Al Sud, una canzone, che è un omaggio al Regno cattolico delle Due Sicilie e alla Storia dimenticata del Sud Italia, che una volta era prospero e potente, mentre ora povero e assistito. Inoltre fa il nome di un uomo, che la storia ufficiale presenta come intoccabile: Giuseppe Garibaldi (1807-1882), massone anticlericale, uno dei principali artefici dell'unità d'Italia e della distruzione del Meridione e dello Stato Pontificio. E Povia, appunto, canta la Storia di questo Meridione.
Povia è nato a Milano nel 1972 (anche se è originario della Puglia), e già dai suoi primi passi nella carriera musicale cerca di portare nelle sue canzoni impegno e autenticità, senza perdita di poesia, da un lato, e commercialità dall'altro. Nel 2003, per esempio, ha vinto la quattordicesima edizione del premio del Comune di Recanati (oggi Premio Musicultura) con la canzone “mia sorella”, trattando temi come l'anoressia e la bulimia, ricevendo elogi da alcuni dei più grandi poeti italiani del momento come Alda Merini, Fernanda Pivano e Dacia Maraini.
Nel 2005 ha partecipato fuori concorso al Festival di Sanremo con la canzone “I bambini fanno Ooh” che rimase per 20 settimane in cima alle classifiche, vendendo più di 210.000 copie. La canzone è stata tradotta in spagnolo, e ha ricevuto dalla Sony un riconoscimento come un soggetto musicale più scaricato sui telefoni cellulari (mezzo milione di download). E' stato adottato anche come tema di Rai International e per una campagna a sostegno dei minori, vittime della pulizia etnica nel Darfur (Sudan). Nel 2006 ha vinto la 56esima edizione del Festival di San Remo con “Vorrei Avere Il Becco”. Nel 2007 si è esibito al Family Day di Roma contro l'approvazione delle unioni di fatto. Nel 2009 si è classificato secondo nella 59 ° edizione di Sanremo con una canzone giudicata trasgressiva da una parte della politica: Luca era gay, che è diventata un inno di speranza per le persone che cambiano attrazione per lo stesso sesso. Chi non trova bene in una determinata condizione, ha il diritto e l'obbligo di cercare di trovare una strada per stare bene, o almeno provarci.
Nel 2011 ha pubblicato un CD dedicato ai bambini. A partire dal 2012 ha cominciato a fare un Tour con lo slogan Siamo italiani. Nel 2013 ha lanciato un progetto nelle scuole e nelle università che lo ha portato a contatto con seimila giovani a trattare i temi sociali delle sue canzoni …
E proprio con la canzone al Sud, che pone senza mezzi termini i danni che l'Unità d'Italia ha procurato al Meridione, eliminando le strutture politiche del cattolicissimo Regno delle Due Sicilie. Qualcosa che è stato fatto con un obiettivo preciso come affermato dallo storico Maurizio Di Giovine, "il processo di unificazione politica della penisola italiana è il risultato di un grande intrigo internazionale guidato da Inghilterra, il cui obiettivo finale era quello di distruggere i regni cattolici per isolare il papato e infine distruggere il primato della Chiesa ". Il Regno di Napoli (o Due Sicilie) era il principale ostacolo. Nella canzone, Povia ripete il nome di Garibaldi, un massone responsabile della rapina effettuata al Sud tramite l'unità d'Italia; esalta invece la carità e l'amore del re Francesco II e della sua consorte Maria Sofia di Baviera, che curarono i loro soldati, e anche i nemici feriti, durante la guerra di aggressione. Francesco rifiutò come sacrilega la proposta di dividersi lo Stato Pontificio, fatta dal conte Camillo Cavour (1810-1861), che viene considerato un padre dell'unità d'Italia insieme agli atei e anti cattolici Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini (1805-1872). Con l'unità d'Italia tutti i cittadini dell'ex Regno delle due Sicilie furono condannati ad una emigrazione forzata.
Nel Sud Italia è molto viva la memoria del cattolico “Regno delle Due Sicilie”, e c'è anche un forte risveglio della memoria. Povia si è avvicinato negli ultimi anni al movimento neo-borbonico. Il 23 aprile un nutrito gruppo di persone ha sfidato pioggia e vento e si è riunito ad Anagni (Frosinone), basso Lazio, per il concerto in cui Povia presentò il suo nuovo album “Nuovo Contrordine Mondiale”. All'avvenimento era presente anche il professor Gennaro de Crescenzo, presidente dei “neoborbonici”, che Povia ringraziò sventolando le bandiere delle due Sicilie. Come comunica l'Agenzia Faro, Povia è consapevole del fatto che tutti questi impegni pubblici hanno un costo enorme in tempi e a volte sono anche asfissianti, ma accetta la sfida con disinvoltura. Egli stesso dice: "Sono sempre stato appassionato di questi problemi e quando ho capito di essere sulla strada giusta, mi sono reso conto che la mia carriera non sarebbe stata coronata dal successo. Una sciocchezza ragionevole, no?». S. Brosal
"AL SUD" DI POVIA: UNA CANZONE, OLTRE UNA CANZONE...La prima volta che incontrai Povia pensavo, in auto e ascoltando i suoi pezzi, ad un brano "sospeso" se un giorno avesse voluto e potuto parlare di Sud, scrive Gennaro De Crescenzo. Sospeso tra verità e favola, tra sogno e realtà, tra poesia e ironia, tra rabbia e amore, malinconia e coraggio ma, soprattutto, sole e colori. Ecco: tutto questo lo troviamo nel brano e nel video appena pubblicato da Giuseppe Povia, "AL SUD". E il tutto, prima di qualsiasi giudizio, ha una premessa fondamentale: mia figlia (7 anni) già lo conosce a memoria e questo supera qualsiasi giudizio se abbiamo (veramente) a cuore la diffusione di verità e orgoglio. Vestito da emigrante (sa di che parla: è nato a Milano ma è pugliese), viaggia e ci fa viaggiare, come con gli occhi di un bambino, nel grande libro della storia dimenticata e ritrovata, tra vecchie foto e quadri dei primati borbonici ("c'era una volta... ma poi venne garibaldi") di quando "al Sud nessuno emigrava, la gente si amava, si lavorava", Pietrarsa, Mongiana, il Volturno e Gaeta, Ferdinando e Francesco II, in mano quei fili che chi partiva teneva stretti insieme a chi restava fino a quando la nave che si allontanava non li faceva spezzare. Giuseppe ascolta, sa ascoltare (e devo ringraziarlo per gli affettuosi ringraziamenti a me, a Salvatore Lanza e ai neoborbonici) ma, a differenza di tanti di noi, "raccontatori" di verità&orgoglio, Giuseppe trasforma i nostri racconti in una poesia semplice, in musica e immagini. E lo fa con il tratto che chi lo conosce ritrova subito: la dolcezza dell'antico Napoletano-Duosiciliano. Sono stati tanti e bellissimi i brani "meridionalisti" nel nostro mondo (e penso, tra i tanti, ad Eugenio Bennato, a Mimmo Cavallo o ad Eddy Napoli) ma quasi sempre ci prevalgono (giustamente) denuncia e rabbia, come lo stesso Giuseppe evidenziava davanti ai nostri caffè. Con "Al Sud" tocchiamo anche altre corde ed in un momento più che mai importante per la nostra terra e per la nostra gente sempre più consapevole e fiera dopo il lavoro di tutti questi anni realizzato da neoborbonici e non. Manifestazioni, convegni, i nostri libri, quelli di Pino Aprile, di Di Fiore, di Patruno o di Del Boca (o gli stessi saggi accademici dei Daniele, Malanima, Fenoaltea, Davis, Tanzi, De Matteo o Collet che qualcuno dovrebbe leggere magari prima di attaccare Povia) sono sintetizzati con grande semplicità in poche parole e in poche note dedicate "a tutti gli emigranti del mondo". Da quel Garibaldi "capo d' 'e mariuole" a (dati e studi aggiornati alla mano) a quella armonia perduta in quel Sud che era "ricco e very good" e dove "c'è sempre una festa e, nel bene e nel male, è tutto un altro sole", come in una antica e nuova consapevolezza o verso una nuova dimensione umana e affettiva ("e noi dobbiamo riunire il mondo al Sud"), allora, che si può ritrovare, che stiamo ritrovando e che ritroveremo se gli amici e gli artisti come Povia continueranno a darci una mano e se noi daremo una mano a loro.
PS. Non mancheranno gli "attacchi" dei soliti 4 o 5 (sono dati reali) che, senza conoscerlo e magari senza neanche aver ascoltato questo brano (dice cose belle o brutte? Giuste o sbagliate? Utili o inutili da far sapere magari ai ragazzi? Questi dovrebbero essere i temi...) andranno in giro per fb a postare commenti carichi di frustrazioni personali politicheggianti. A loro andrebbe rivolta una domanda banale: cosa ci chiede Povia? Niente: qualche notizia storica, clic (milioni quelli dei suoi precedenti video!) e la diffusione dei suoi brani e, se volete (ma non siete obbligati), siccome di mestiere fa il cantante, si autoproduce coraggiosamente senza case discografiche internazionali e senza l'aiuto dei media (di certo non felici neanche per “Al Sud”), l'acquisto online del suo disco o un salto (noi ci saremo con le nostre bandiere) al suo evento per la sera di sabato 23 aprile ad Anagni. E allora ci vediamo online sulla sua pagina fb o al concerto e, intanto, da Napoletano, da meridionale, da neoborbonico e da innamorato della nostra terra e della nostra gente, grazie di cuore, Giuse'!. Gennaro De Crescenzo
Al Sud testo – Povia
C’era una volta il Regno delle Due Sicilie, che era tutto il Sud Italia, dall’Abruzzo e dal basso Lazio in giù, compresa la Sicilia, potenza industriale e militare, il sud era ricco, ma poi venne Garibaldi, fece l’Unità d’Italia e il sud divenne povero e cadde a picco.
C’era una volta una nazione, che si chiamava meridione
il suo re era Ferdinando II di Borbone
non esisteva emigrazione, non c’era disoccupazione
con i suoi pregi e i suoi difetti
c’era una volta il meridione.
C’era una volta
ma poi venne Garibaldi
c’era una volta
a rubare oro e soldi
c’era una volta
ma la vera storia è che prima, prima
dell’Unità d’Italia
Al sud, nessuno emigrava
al sud, la gente si amava
al sud, si lavorava
prima, questo prima
dell’Unità d’Italia.
Ferdinando morì e lasciò il trono al figlio Francesco
che sposò Maria Sofia, una ragazza di Baviera
sempre uniti nelle battaglie
dal Volturno a Gaeta
aiutavano i soldati feriti
compresi i nemici
ma quei giorni segnarono la fine del regno
e di un patrimonio lasciato al mondo.
La prima ferrovia
la prima cattedra in economia
le miniere di zolfo
la prima flotta mercantile e militare
Federico II
lingua italiana, scuola siciliana
la scienza, la filosofia
le tasse più basse, le industrie
Mongiana, Pietrarsa, Castellammare
eccetera, eccetera, eccetera.
C’era una volta
ma poi venne Garibaldi
c’era una volta
e rubò soldati e soldi
c’era una volta
ma la vera storia è che prima, prima
dell’Unità d’Italia
Al sud, nessuno emigrava
al sud, la gente si amava
al sud, si lavorava
prima, questo prima
dell’Unità d’Italia.
A tutti gli emigranti del mondo
che hanno lasciato nel sud
l’anima, la terra e tutto il cuore
molti non sanno che il sud era ricco e very good
sull’Italia apparse il War Sehr Gut
prima, si ma prima, si ma prima
dell’Unità d’Italia.
Al sud, nessuno emigrava
al sud, la gente si amava
al sud, si lavorava
prima, questo prima
dell’Unità d’Italia.
Al sud, c’è sempre una festa
al sud, l’aria è diversa
al sud, nel bene e nel male
solo, sole, sole, sole
è tutto un altro sole.
Dall’Unità d’Italia, milioni di emigranti nel mondo, che dalle navi in partenza, lanciavano un gomitolo di lana ai loro cari rimasti a terra. La nave si allontanava, il gomitolo si srotovava, finché si spezzava.
E noi dobbiamo riunire il mondo al sud…
Al sud, nel bene e nel male
solo, sole, sole, sole
è tutto un altro sole.
Mimmo Cavallo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Cosimo Cavallo, detto Mimmo (Lizzano, 1º gennaio 1951), è un cantautore italiano. Emigrato a Torino con la sua famiglia numerosa, torna nella sua terra di origine per coltivare la passione per la musica. In seguito si trasferirà a Roma dove formerà un gruppo musicale. L'incontro che segna il suo corso artistico è quello con Antonio Coggio, grazie al quale pubblicherà i suoi primi due album con la CGD. Nel 1980 l'esordio con Siamo meridionali ottiene un certo riconoscimento da parte degli addetti ai lavori, ottenendo un importante riconoscimento al Premio Tenco. Geniale e sferzante il suo Siamo meridionali diventa un inno di battaglia destinato a “storicizzarsi”. L'anno successivo parteciperà al Festivalbar con Uh, mammà!, che rimane il suo brano più conosciuto, che per molto tempo rimase l'unico oggetto di cover, dalla band Fratelli di Soledad nel 1996. Il secondo disco è un insieme di canzoni nelle quali il cantautore meridionale esprime tutto il suo lato critico e graffiante, ma anche le sue indubbie qualità artistiche che spesso gli valgono l'accostamento a Rino Gaetano. La canzone fa anche da titolo al suo secondo album, i cui brani Mimmo riesce a far conoscere attraverso la trasmissione televisiva Mister Fantasy. Parteciperà inoltre a numerose trasmissioni televisive che accrescono la sua popolarità nel giro di pochi mesi. Tuttavia emergono incomprensioni con il mondo discografico e una certa idiosincrasia con il cosiddetto show business, tali da costringerlo a cambiare scuderia ed a pubblicare, stavolta con la Fonit Cetra, il suo terzo lavoro, che vede la luce nel 1982 e che s'intitola Stancami, stancami musica. In precedenza, l'ultima produzione con la CGD era stata la sigla del programma La storia d'Italia a fumetti curato da Enzo Biagi, intitolato Ma che storia è questa. Successivamente comporrà sigle televisive e colonne sonore di film, tra cui Quasi quasi mi sposo Renzo Arbore e Luciano De Crescenzo. Il terzo album conferma il suo stile ironico e pungente, la sua libertà espressiva, tesa a sonorità rock, senza dimenticare lo stile della canzone d'autore, anche se il suo marchio di fabbrica risiede soprattutto in una certa ruvidità linguistica con la quale denuncia alcune contraddizioni della nostra società, dando voci a realtà scomode fino ad allora mai illustrate in un disco e raramente in libri e programmi, dimostrandosi libero da ogni convenzione e da ogni "padrone", fino a diventare una figura atipica del cantautorato italiano, che risente dell'eredità artistica di Edoardo Bennato, Rino Gaetano e in parte del teatro canzone di Giorgio Gaber. La supervisione artistica della "scuderia Coggio" è un marchio di garanzia dei suoi primi dischi, dove si segnalano interventi di Mia Martini, e dove, tra i cori, fa capolino un'ancora sconosciuta Fiorella Mannoia, per la quale Mimmo scrive la musica di Caffè nero bollente che le vale il debutto al Festival di Sanremo nel 1981. Altri autori si affideranno a lui per avere nuove canzoni: oltre alla già citata Mia Martini che canta Guarirò guarirò, è Gianni Morandi che canterà ben tre suoi brani in due differenti album: Mi manchi in Immagine italiana del 1984, Donna bimba mia e Tornare a casa in Le italiane sono belle del 1987. Inoltre successivamente scriverà canzoni per Alberto Cheli (Schola Cantorum), Ornella Vanoni, Syria, Loredana Bertè, Giorgia. Nel 1988 pubblica il suo quarto album Non voglio essere uno spirito, seguito quattro anni dopo dall'autobiografico L'incantautore, che vale al cantautore lizzanese la partecipazione ad Un disco per l'estate col singolo Le donne che amano troppo. Entrambi gli album usciranno con l'etichetta DDD, la stessa che vide l'esordio di Eros Ramazzotti. Dal 1990 al 1994 il cantautore si concentra soprattutto sulla realizzazione di brani per altri artisti. Nel 1992 vince il "premio Rino Gaetano" come canzone d'autore. Nella sua attività di compositore, Mimmo esprime soprattutto la sua vena romantica, che comunque non è del tutto assente nelle canzoni incise per sé: a proposito di sentimenti, sarà la sua Viva l'amore, sarà presentato da Mia Martini, alla gara canora di Canale 5 Festival Italiano nell'autunno 1994, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa; per lei il cantautore aveva scritto altri brani tra i quali Danza pagana, Dio c'è, Il mio oriente, Buio. Fu proprio insieme a Mimmo Cavallo appunto che Mia Martini fece le sue ultime apparizioni ed i suoi ultimi concerti: il legame tra i due artisti, consolidato negli anni, era molto profondo, e la scomparsa di Mimì, unita a una profonda sfiducia per il mondo della discografia italiana, lo ha persuaso ad un ritiro prolungato dalle scene. Mantenendo contatti professionali con Antonio Coggio e sporadicamente realizzando qualche concerto dal vivo soprattutto al Sud Italia, torna in sala di incisione nell'album della sua conterranea Mariella Nava Questa sono io del 2002, nel ritornello di St'amuri (in dialetto salentino). Un pubblico di ammiratori silenti, che non hanno smesso di seguirlo in questi anni di silenzio artistico, ha atteso un suo ritorno discografico. La casa discografica Warner, nel 2005, ha pubblicato una raccolta con alcune sue canzoni dei primi tre album, raccolta che è stata giudicata unanimemente male assemblata, priva di alcuni suoi brani significativi, soddisfacendo quindi soltanto in parte le richieste degli ammiratori stessi che speravano nella ristampa integrale su CD dei primi lavori, giacché anche i restanti due sono fuori catalogo da tempo. Il ritorno sulle scene è preceduto, nel 2011 da Vedo nero che scrive per Zucchero, il quale la include nel suo album Chocabeck e diventa uno dei successi radiofonici dell'estate 2011. Nello stesso anno scrive la canzone Gloria gloria per Al Bano, che la include nel suo album Amanda è libera. Questo nuovo fermento artistico sfocia nella stesura dei testi dello spettacolo Terroni - Centocinquant'anni di menzogne (tratto dal libro Terroni di Pino Aprile), spettacolo di teatro canzone in cui si esibisce con Roberto D'Alessandro. Lo spettacolo ha visto la prima a Roma, il 21 marzo 2011 al teatro Quirino realizzando il tutto esaurito, sancendo di fatto il ritorno dell'artista che ne ha pubblicato i brani nel suo sesto album. Dal 2010 in avanti Mimmo Cavallo presenta le sue composizioni annuali nel programma televisivo "MilleVoci" d Gianni Turco.
Siamo meridionali, parola di Mimmo Cavallo, scrive Simonetta Santamaria. Ricordate la canzone di Zucchero Vedo Nero, “come disse la marchesa camminando sugli specchi”? Un’ironica risposta che nella mia cerchia di amici si usa molto: be’, oggi sono fiera di essere colei che intervisterà il genitore di questa, e mille altre canzoni storiche del panorama italiano e, ancor di più, meridionale. Sto parlando di Mimmo Cavallo, signori. Il mitico autore di Uh, mammà! con la quale partecipò al Festivalbar del 1981 e della stessa Siamo meridionali, brano di esordio nel lontano 1980 che gli valse a prima botta una menzione speciale al premio Tenco. In effetti da ragazzo ambiva a essere un piccolo Tenco… scriveva roba diversa, triste e dall’interiorità tormentata, perché non aveva mai percepito l’essere meridionale come una deminutio, neppure in quell’universo piemontese dove si era trasferito da bambino. Ma poi cresci, e ti accorgi delle cose storte. E allora ecco che ti parte l’embolo, ti sale la scimmia sulle spalle e cominci a scrivere canzoni che risalgono alle tue radici, quelle dello splendido Salento e del sud in generale. Il sound acquisisce quel timbro blues, ma anche folk, e rock, e i testi smettono di raccontare tormenti interiori per parlare di tormenti storici, di guerre ingiuste, di usurpatori, di finti alleati, di invasori, di briganti/soldati, di un’unità d’Italia che ha distrutto un regno ricco di storia e cultura, usurpandone fino all’ultima pietra, riducendo il popolo a credere di essere davvero nullatenente, inferiore. Questo, in sintesi, è ciò che si percepisce dalle sue canzoni; non solo, ma soprattutto. Sentiamo cosa ci dice lui:
Mimmo, essere un artista del Sud: cosa è significato allora e cosa significa ora. Hai avuto la fortuna di entrare in contatto con molti artisti famosi e di conoscere il tuo mentore e produttore, Antonio Coggio: vivere a Torino ti ha in qualche modo agevolato il cammino o lo è stato più essere meridionale?
MC: Non so quale sia il ruolo di un artista, né tantomeno riesco ad immaginare un artista vincolato a un ruolo. Ognuno di noi produce qualcosa e sarà poi il mercato che editerà quel prodotto grazie a un incontro, al momento storico, al caso, ecc… io non sapevo di essere meridionale e di essere un artista del sud. Alla fine degli anni 70 il sud con tutte le sue istanze andò “di moda”. Era il suo momento diciamo ed io, con tutte le mie canzoni, lo avevo in un certo senso anticipato, quasi presagito. Le mie canzoni, tra ballate e ironia, parlavano di un Sud invitto anche se sopraffatto dalla politica, dall’economia e dalla storia e dai luoghi comuni. Incontrai Coggio in RCA a Roma. Un incontro casuale che dette il via al nostro lunghissimo sodalizio. Coggio era affascinato dal quel mio mondo musicale, dai riferimenti geografici e mitici, dal mio vissuto primario tanto ancestrale quanto originale. “Siamo Meridionali” fu il risultato dello scontro tra quel mondo mitico, adolescenziale, formatosi in Salento e la stridente nuova realtà del nord (Torino).
Edoardo Bennato, Rino Gaetano, quell’impronta rock e ironica che strizza l’occhio anche alla Nuova Compagnia di Canto Popolare; miscelare l’italiano col dialetto come a voler sottolineare un’appartenenza di cui andar fieri senza fare del rozzo sudismo o nordismo. Secondo Mimmo Cavallo natura, folklore e povertà sono tutti elementi di una musica superiore. La sofferenza ha storicamente generato il meglio.
MC: Non sono così masochista da ritenere che la sofferenza sia una roba positiva che genera il meglio. Intanto “meglio non soffrire”. È certo però che il blues e successivamente il jazz sono mondi musicali nati dalla sofferenza. Diciamo che la povertà (come la sofferenza) è sicuramente un male ma che può rivelare anche degli aspetti inaspettatamente positivi. La povertà, ad esempio, riesce a conservare (come la cenere, l’ambra) certi usi, costumi, suoni, riti, racconti, miti che possono essere estremamente importanti da un punto di vista antropologico e culturale.
Molte tue canzoni sono, come tu stesso le hai definite, acido sonico urticante, tu canti per un Sud Invictus… Il Sud potrebbe quindi essere una valida risposta a un’Europa nordcentrica se solo si sradicassero i luoghi comuni che ci affliggono e ci affossano. La musica, la tua musica, credi che potrebbe far breccia nel senso civile e nella memoria storica di chi ci considera solo un fanalino di coda?
MC: Ridare voce al Sud, la verità. Questo e solo questo è tutto il senso, lo sforzo la tensione a cui aspiro. La verità su un Sud che non sa di sé. Dobbiamo tornare ad essere un’onda unica per provocare quel maremoto culturale a cui ambiamo. Purtroppo, ora come ora, siamo ancora rigagnoli, capillari. Le ragioni di questa frammentazione sono tante, complesse ed è difficile combattere contro i luoghi comuni e le falsità specie se queste ultime sono motivate da interessi economici. Il rischio è che il polipo si cucini nella sua stessa acqua. C’è una volontà a non far crescere il Sud. Un Sud sempre sotto scacco, dunque. Tutto questo fa parte di una mentalità politica di un nord nano e cieco che muovendosi per proprio tornaconto non si accorge che è il Sud il volano necessario per far ripartire il paese. Si chiama “controllo sociale attraverso l’economia” ed è nata, questa “filosofia”, nel 1861: “nani su iddi e vonnu a tutti nani”.
Hai definito il Sud più tollerante, femmineo. Una bella immagine della nostra terra, che si avvita a perfezione su quella più scomposta e sanguigna della taranta, tipica della tua terra il Salento. Spiegaci la differenza che tu hai sottolineato tra tarantismo e tarantolismo.
MC: In genere la figura materna è tollerante. La figura paterna, invece, rappresenta l’autorevolezza e purtroppo molte volte l’autoritarismo. Tutto ciò ha un’origine storico-culturale. In tempi remoti, intorno al periodo minoico (età del bronzo) statuette di terracotta da grossi fianchi e grandi seni rappresentavano divinità femminili che alludevano chiaramente alla prosperità. Erano tempi in cui non vi erano dei della guerra e le città non avevano conseguentemente fortificazioni e il femmineo dominava. Alla fine della civiltà minoica arrivarono dalle steppe del nord popoli aggressivi, portatori di un dio della guerra. Le cose cambiarono repentinamente. Le città si fortificarono ma rimase, persistendo, in tutto il mediterraneo un elemento di venerazione verso la dea madre (a tal proposito invito a visitare la “menade dormiente” a Taranto) quasi come fossile di una remota inconscia tradizione (la venerazione di un dio femminile). Il fatto che il fenomeno della taranta si sia poi conservata nel nostro territorio (Salento marginale, povero) è prova che certe poetiche possono, a condizioni particolari, sopravvivere e rinnovarsi. Nel nord del Salento, tra l’altro, il rito apotropaico per disinnescare il veleno del morso è rimasto una coreutica prima di intervento religioso. In questo senso può essere visto come un residuo di riti pagani. Per quanto riguarda poi la differenza tra tarantismo e tarantolismo ricordo che quest’ultimo è il fenomeno del morso del ragno, mentre il tarantismo rappresenta essenzialmente l’elemento simbolico, il mito di Arakne che ci parla di Dioniso riportandoci a quel mondo prima dell’invasione dorica che ha lasciato, in tanta parte del mondo, tracce di sé.
Abbiamo prima citato Zucchero ma Mimmo ha scritto brani per tantissimi artisti da botto come, giusto per citarne alcuni, Fiorella Mannoia, Gianni Morandi, Ornella Vanoni, Loredana Bertè, Syria e l’indimenticabile Mia Martini. Con lei Mimmo ha avuto un sodalizio artistico e un legame quasi spirituale davvero forte, anche dopo la sua scomparsa: è stato ospite all’Anteprima Festival Mia Martinilo scorso 27 dicembre al Teatro Bibiena di Mantova e altre iniziative sono in itinere. “Sentivo la sua sofferenza, quella ricerca di radici che comprendevo”, ci ha spiegato. Una su tutte, ha duettato con lei nella canzone Ninetta, un vero capolavoro di poesia.
Hai avuto il privilegio di essere protagonista della scena musicale in quanto cantautore in primis, ed esserlo attraverso i tuoi brani cantati da altri: quale versione di Mimmo Cavallo ami di più? Hai ancora la dipendenza da palco che dichiarano di avere molti artisti, come una droga da cui non ci si riesce a disintossicare?
MC: Il cantautore è coincidente con l’autore, almeno nel mio caso. Non ho mai scritto canzoni “per altri artisti” ma le collaborazioni sono nate attraverso un rapporto di amicizia e stima reciproca. Il palco mi manca anche se una certa mia pigrizia mi dispone a stare più dietro le quinte che in prima linea.
E con questo ci congediamo, per il momento, da Mimmo Cavallo ma non dalla sua arte. Perché se è vero che c’è un ritorno alla cosiddetta musica meridionalista, lui è e resterà sempre in testa al corteo, pronto a sventolare la bandiera. Ripulita da stemmi invasori.
Simonetta Santamaria, è scrittrice di thriller e horror. Giornalista, irriducibile motociclista, amante dei gatti e delle orchidee.
Mimmo Cavallo – Uh, mammà! (testo)
“Uh, mammà!
Stanno già arrivando
uh, mammà!
Non è vero niente
figlio mio, non ti agitare
eppure sento che sparano
Uh, mammà!
Son fratelli a noi
ci vengono a liberà
so’ fratelli a noi
so’ fratelli a noi
so’ fratelli a noi
ci vengono a liberà
(so’ fratelli a noi ci vengono a liberà)
Stanno già morendo
uh, mammà!
Muoiono i liberatori
per poterci liberà
ma mamma
sparano su di noi
Uh, mammà!
Lo so figlio mio
ma lo fanno per necessità
tieni a mente sempre
so’ fratelli a noi
so’ fratelli a noi
so’ fratelli a noi
ci vengono a liberà
Ci stanno occupando
uh, mammà!
Il fatto è temporaneo
poi ci dovrebbero lasciare
e hanno aggiunto alla bandiera
uno stemma blu
uh, mammà!
E non sei più contento
mò teniamo un colore in più
E scrivo una canzone
uh, mammà!
Bravo sfogati
figlio mio che questo
lo puoi fare
e scrivi una canzone evasiva
uh, mammà!
Ma non metterci opinioni
fai una musichella d’invasione
Tieni a mente sempre
so’ fratelli a noi
so’ fratelli a noi
so’ fratelli a noi
ci vengono a liberà
so’ fratelli a noi
so’ fratelli a noi
so’ fratelli a noi
ci vengono a liberà
E scappo via da casa
hu, mammà!
Che vai a fà
là sopra i monti
se neanche sai sparà
quelli mò si mettono d’accordo
Uh, mammà!
E’ destino della vita nostra sopportà
oh mamma ciao
so’ fratelli a noi
oh mamma ciao
so’ fratelli a noi
ci vengono a liberà
oh mamma ciao
so’ fratelli a noi
ci vengono a liberà”.
“Nel 1981 io avevo già scritto Uh Mammà, che presentava in una certa luce i Piemontesi che scendevano ad occuparci. Erano però aspetti difficili da trattare a suo tempo; la mia Casa Discografica mi faceva partecipare, mio malgrado (io ero vicino a certa sinistra estrema che comunque già in quell’epoca non mi convinceva completamente), a manifestazioni musicali politicizzate (era il periodo di Craxi), pertanto non c’erano le condizioni per portare fino in fondo queste considerazioni come invece oggi si può fare. In definitiva a me piaceva, e piace ancora, la musica; io ubbidivo alle indicazioni della casa discografica e quindi razionalizzare questi temi era fuori dall’ordine del giorno”. (Mimmo Cavallo, intervista, “Il Sud alla riscossa” di Vittorio Formenti, 30/01/2013)
Testo Siamo Meridionali:
Siamo meridionali
e abbiamo stati tutti quanti abituati male
sospettate di noi, sospettate
fate fate pure, fate come vi pare
siamo meridionali
dovete costruire le centrali nucleari
stiamo qua noi approfittate di noi
che fate non ne approfittate
siamo mezzi marocchini e che vuoi
teniamo l'africa vicino
e stampiamo creature brutte, nere, arricciolate
ci vengono naturalmente affumicate
siamo meridionali
e teniamo tutti quanti la terza elementare
approfittate di noi che siamo na "razza e mmerda"e simm' abituati a perde'...
ghetto! allora e' un ghetto!
ghetto! oh no no no, ghetto!
ghetto! ma ci va stretto...
salvateci dal ghetto!
siamo meridionali
siamo fatti alla maniera tradizionale
carddinali e vescovi mezzi bianchi e mezzi neri
e quelli che non son preti? so' carabinieri!
sentie come parla mammà va!...
abbiamo nati a 'nu paise meridionale
si ce date aiuto ce basta nu' mese mpariamo tutti quanti 'o piamontese neh!
nui meridionali stamm' dappertutto
se ci danno una mano ci pigliamo tutto
simm neri e brutti, inutili "nei"e rumpimm' e palle peggio degli ebrei
nui meridionali sozzi comm' e ragni
coltiviamo pomodori dint' e vasch' e bagni
la fatica non ammazza chi la odia e chi la apprezza
e a nui meridionali ci puzza a vocca' pecche'
siamo meridionali
e teniamo 'na resistenza eccezionale
digiuniamo tutto il mese e chi se ne importa
campamm' cu' e canzune e all'anima e chi t'ammuorte
ghetto! allora e' un ghetto!
ghetto! oh no no no, ghetto!
ghetto! ma ci va stretto...
maledetto!
siamo meridionali...
... e stiamo bene uguale...!
e stiamo bene uguale senza neanche una lira
e già la polizia arresta chi respira
so chiacchiere che dio si è scordato di noi
noi stiamo bene uguale lo scrivono i giornali
e stiamo bene uguale in questa condizione
disperatamente alla ricerca di un nuovo padrone
fa bene alla psiche stare come gli animali noi stiamo bene uguale, noi stiamo bene uguale,
il sud e' una famiglia parastatale!
ghetto! allora e' un ghetto!
ghetto! oh no no no, ghetto!
ghetto! ma ci va stretto... ghetto!
BRIGANTI, TERRORISTI E PARTIGIANI.
Il Risorgimento come la lotta di liberazione. UN DISONORE!
Preciso solo che si tratta dei soldati e non delle persone che, invece che Partigiani, la storiografia savoiarda definì "Briganti". Che volete... La storia, come al solito, si ripete ma, con il suo ripetersi, comporta il prolungarsi delle ingiustizie per generazioni. E come si sa, la Storia la scrivono sempre e comunque i vincitori.
In che senso il Risorgimento è stato disonorato? Nel senso che ci sono state persone semisconosciute che hanno atteso gli eventi e poi ne hanno approfittato per regolare poi conti personali.
La storia si impara a scuola, ma troppo spesso la storia è un’altra. Fin da piccoli ci raccontano che le vicende dell’Unità d’Italia sono costellate di eroi, atti di coraggio e dimostrazioni di lealtà e abnegazione. Ma è così vero che nel periodo in cui la nostra identità nazionale si è forgiata tutti furono ammirevoli patrioti?
A oltre 150 anni dall’Unità, lo sguardo non ideologico di Lorenzo Del Boca si posa sul nostro passato e ci mostra come l’Italia sia nata male. E non soltanto per il modo affrettato di raggruppare regioni e tradizioni distanti tra loro, ma perché, confusi con quelli che rischiavano la vita per la nazione, si mescolava tutta una genia di arraffatori e ladri la cui principale preoccupazione era arricchirsi in fretta, di truffatori e violenti che giustificavano le proprie azioni in nome del più alto ideale di patria.
Risorgimento disonorato raccoglie le testimonianze più vere, e talvolta scomode, della nostra storia. Dalla morte di Ippolito Nievo, custode della cassa dei Mille in quanto “unico onesto”, vittima con tutta probabilità di un attentato, ad Alfonso La Marmora, che rase al suolo due quartieri di Genova; da Nino Bixio, che a Bronte fece fucilare persino lo scemo del villaggio, alla cruenta conquista di Gaeta del generale Enrico Cialdini, che sparò 500 colpi di mortaio al giorno contro i borbonici indifesi che in teoria doveva “liberare”. E poi l’ammazza-preti Callimaco Zambianchi, la tangente “tricolore” per le ferrovie di Giuseppe Mazzini e le “importantissime missioni” dell’agente segreto Filippo Curletti. Tutti avvenimenti, questi, di un’Italia poco raccontata, che, spogliati dell’abituale mitizzazione romantico-risorgimentale, risultano, oggi più che mai, fondamentali per comprendere le lacerazioni del nostro presente. Piuttosto che vivere ai limiti della umana dignità, uomini e donne del Sud lottarono per riscattarsi da una sorte infame e scelsero di morire in piedi anziché vivere in ginocchio.
Il Brigantaggio: non delinquenti, ma partigiani, scrive il 17 marzo 2015 Domenico Bolledi. "Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati. Noi promettiamo anche con l’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo". (Marco Monnier, Notizie e documenti sul brigantaggio nelle province napoletane, Barbero, Firenze, 1862, pp. 73-74).
Secondo l’enciclopedia Treccani, il brigantaggio altro non è che un “fenomeno, diffuso soprattutto in fasi di squilibrio sociale e politico, per il quale bande di malfattori, riunite e disciplinate sotto l’autorità di un capo, attentano a mano armata a persone e proprietà. Il nome proviene dai briganti, in età medievale soldati avventurieri a piedi, che facevano parte di piccole compagnie mercenarie”. Se questo articolo seguisse i canoni ordinari della storiografia nazionale, poco altro ci sarebbe da dire. I briganti furono dei delinquenti e la loro distruzione, per opera delle forze sabaude, permise la nascita dell’Italia come noi la conosciamo. Tuttavia la storia dell’Unità d’Italia studiata nei libri di scuola, come purtroppo anche all’università è incompleta o per meglio dire errata. Questo lo si sa da tempo eppure tutto tace, nascosto da una secolare coltre di connivenza tra storici e politici. E nell’abissale silenzio di ciò che avvenne in quella fase da tutti osannata come “Risorgimento”, è necessario fare luce su quello che sono stati i briganti, partigiani ottocenteschi che combatterono per la libertà contro il dispotismo sabaudo, e quello che è il Brigantaggio, un fenomeno che si interseca con la storia del mezzogiorno contemporaneo e con la questione meridionale tutt’ora drammaticamente attuale. Il Brigantaggio si sviluppa storicamente come fenomeno politico in appoggio ai Borboni, per poi trasformarsi nei primissimi anni post-unitari come forma di protesta sociale nei confronti di quell’unificazione nazionale, contemplata da Cavour e Garibaldi, che viene vista dalle popolazioni meridionali come l’ennesimo atto di forza di una potenza straniera nei loro confronti. Se al momento del voto plebiscitario che segnava l’annessione del Regno delle Due Sicilie alla monarchia piemontese, in tanti erano a favore, convinti che ciò segnasse l’inizio di una nuova epoca di libertà, pronti ad affrancarsi dalle catene di un sistema sociale ed economico ancorato a modelli feudali da tempo obsoleti, il voltafaccia della classe dirigente, schieratasi in massa a favore dei Savoia con l’obiettivo evidente di mantenere i propri averi e consolidare le proprie posizioni di potere, spinse la popolazione a mobilitarsi. Quando il 13 febbraio 1861, re Francesco II parte per l’esilio, si registrano immediatamente i primi disordini. Se all’inizio questi sono condotti solo da nostalgici fedelissimi dei Borboni, successivamente si registra l’ingresso sulla scena dei contadini, che ribellandosi al nuovo dominio, si ritirano sui monti dando vita a squadre di briganti. L’obiettivo del brigantaggio è duplice: da un lato colpire i ricchi proprietari terrieri conniventi con il nuovo regime, dall’altro attaccare l’esercito piemontese. La risposta sabauda è violenta ma al contempo inefficace: violenta perché sin da subito le perdite tra le fila dei briganti sono innumerevoli (si parla di oltre mille morti nel solo 1861), inefficace perché la rivolta sarà tutto fuorché effimera.
Nel 1863, su iniziativa del governo italiano, viene istituita una Commissione Parlamentare d’inchiesta presieduta dal deputato Giuseppe Massari. Nella relazione finale viene indicata come causa prima e unica del brigantaggio, la miseria delle popolazioni dovuta all’oppressione borbonica. La rivolta dei briganti secondo lo Stato era quindi dovuta alle condizioni di povertà in cui il popolo era stato ridotto dai Borbone e non per colpa dalla repressione piemontese. La relazione porta alla promulgazione della “Legge Pica” che autorizza lo stato d’assedio nei paesi in cui si registra l’attività dei briganti. Il risultato è catastrofico: negli anni della rivolta oltre cinquanta tra villaggi e paesi vengono rasi al suolo, innumerevoli sono gli stupri e le violenze sulla popolazione quanto i processi farsa e le esecuzioni sommarie. Tra le fila dei borbonici si registreranno oltre 250 mila morti, mentre per i piemontesi saranno più di 20 mila i caduti sul campo di battaglia, dal cui computo vengono esclusi tutti coloro che vennero fucilati per diserzione o tradimento. Uno dei pochi meriti della storiografia nazionale è il riconoscimento che questa guerra civile costò più vite di tutte le guerre risorgimentali messe assieme. Verso la fine del tremendo decennio, il Brigantaggio, decimato e incattivito, andò perdendo la spinta ideale che lo aveva animato e le bande rimaste si diedero, allora sì, ad atti di malavita, istigate anche dalla condizione di estrema povertà nella quale le regioni meridionali erano cadute e dalla nascita del latifondo, che toglieva ai contadini ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa. Solo da quel momento in poi, la repressione piemontese prese il sopravvento: il Brigantaggio fu debellato definitivamente e i Meridionali andarono a cercare una nuova vita nelle Americhe, avviando un fenomeno del tutto sconosciuto fino nel Regno delle Due Sicilie. Nel 1861, infatti, si contavano soltanto 220mila italiani residenti all’estero; nel 1914 erano 6 milioni. È inquietante, se si pensa che la popolazione dell’ex Regno napoletano era composta da 8 milioni di persone. – L’esercito sardo aveva avuto la propria vittoria, ma non così il regno d’Italia: i briganti non erano distrutti, avevano trovato un’altra forma di resistenza, l’emigrazione. (Giovanni Turco, Brigantaggio, legittima difesa del sud. Gli articoli della “Civiltà Cattolica” (1861-1870), Il Giglio, Napoli, 2000, p. 187)
Da: Lorenzo DEL BOCA [Noto Giornalista piemontese, è nato in quel di Romagnano Sesia] e, in uno dei suoi saggi, conclude quanto vi riporto. RISORGIMENTO DISONORATO. Il lato oscuro dell’Unità d’Italia. Edizioni UTET (2011) [Ultimo capitolo in cui descrive e commenta eventi relativi all'assedio della roccaforte di Gaeta]. "Il generale Cialdini dovette ricorrere al terrore. “Farò fucilare tanti della guarnigione quante sono state le nostre vittime”. Pensava a una rappresaglia. “I beni del comandante e degli ufficiali verranno confiscati. Non conoscerò più in voi i militari ma i vili assassini e per tali l’Europa vi terrà”. Non che le minacce facessero paura ma, ormai, era inutile resistere. Dopo quasi nove mesi, il 13 marzo, alle 7 di mattina Gennaro Fergola consegnò la piazzaforte, e lo fece con orgoglio indomito. “Cediamo alla superiorità dei mezzi, non al valore dei vincitori”. Distribuì ai più valorosi la croce di Francesco II e a ciascuno un brandello delle bandiere, fatte a pezzi, per evitare di consegnarle ai nemici. Si presentò a Cialdini e offrì la spada. Il vincitore non apprezzò: “vada agli arresti e deponga la sua arma che non merita che io la tocchi”. Parola del bombardatore di Gaeta, dell’affamatore di Messina, del coniglio in fuga da Custoza. Era un momento molto rischioso per la guarnigione che si arrendeva, ma il coraggio che non mancò durante l’assedio non fece difetto nemmeno al momento della capitolazione. “Guardi - replicò secco Fergola - questa è la spada di un soldato onorato! Noi subiamo la sorte dei vinti... ma voi abusate della vostra vittoria”. Gli ufficiali vennero imprigionati e sparpagliati per le carceri di Reggio, Milazzo, Gonzaga e Castellaccio e considerarono che le piccole angherie dei colleghi facessero parte del bottino di guerra. La maggior parte di loro venne processata perché - secondo l’accusa - al momento della proclamazione del regno d’Italia avrebbero dovuto adeguarsi al nuovo corso per non incorrere nel reato di ribellione. Davanti ai giudici si difesero pronunciando una specie di parola d’ordine. Erano orgogliosi di aver fatto quello che avevano fatto. Li assolsero - come poteva essere diversamente? - e li congedarono, costringendoli a ritirarsi a vita privata che, almeno all’inizio, fu angustiata da perquisizioni e controlli costanti della polizia. Erano irriducibili, pericolosi, che andavano sorvegliati e tenuti anche un po’ sotto pressione. Per un paradosso della storia, i valorosi che avevano mantenuto fede al loro giuramento e che si erano battuti con orgoglio li mandarono a casa perché i loro meriti non servivano, mentre la marea dei vigliacchi che si era venduta anche maldestramente ottenne un posto di comando nell’esercito italiano che andava componendosi. Fino a quel momento non esistevano fatti d’armi significativi da ricordare come pretesto di mirabili imprese. C’è da meravigliarsi se, da allora in avanti, è andata anche peggio?"
Il Risorgimento disonorato. Lorenzo Del Boca, Utet Libreria, pagg.148, Euro 18,00.
IL LIBRO – Quanti ladri? E quanti truffatori? È nata male l'Italia... non soltanto per il modo affrettato di mettere insieme regioni e tradizioni spesso troppo distanti fra loro ma perché, confusi con patrioti che, sinceramente, credevano di rischiare la vita per un ideale di patria, si è mescolata una genìa di arraffatori la cui unica preoccupazione era arricchirsi. In fretta. Rubavano nel Piemonte e rubavano nelle regioni meridionali appena conquistate. Rubavano nei mesi della repubblica Romana e rubavano agli albori dell'unità d'Italia. Ippolito Nievo cui era stata affidata la cassa dei Mille "perché unico onesto" tenne bilanci rigorosi che era disposto a portare in parlamento. Finì in fondo al mare, vittima, probabilmente, di un attentato. Questioni di soldi attraversano l'epoca gloriosa del Risorgimento che la tradizione storica ancora presenta come un'epoca disinteressata, animata soltanto dagli immortali ideali di Patria. Il Risorgimento venne giustificato dal desiderio di rendere l'Italia indipendente dalla tirannide degli austriaci e dai tanti "tirannelli austriacanti" a cominciare dal Borbone "re bomba" che, nel 1848 non era andato troppo per il sottile per domare le insurrezioni nel regno delle Due Sicilie. Il pulpito di dove veniva la predica era affollato da Lamarmora che rase al suolo due quartieri di Genova; da Bixio che, a Bronte, fece fucilare anche lo scemo del villaggio; e da Cialdini che riuscì a sparare 500 colpi di mortaio al giorno per conquistare Gaeta, affollata da borbonici che non avevano possibilità di difendersi e che, in teoria, lui era accorso a "liberare". C'è una storia che si impara a scuola ma la storia è un'altra.
DAL TESTO – “Il banco di Sicilia, alla fine del 1859, si era rivolto agli architetti perché era necessario rinforzare il pavimento che, nonostante la blindatura, non era sufficiente per sostenere il peso dell'oro depositato. Lingotti a tonnellate. Con i nuovi governanti quella spesa non fu necessaria. “Giuseppe Garibaldi, appena entrato nella città che aveva occupato, si fece consegnare 2.178.818 dei 5 milioni che erano custoditi. Lasciò un pezzo di carta: «per ricevuta di spese di guerra». Era inteso che il nuovo stato avrebbe dovuto restituire il prestito e rimettere i conti in ordine. Quel foglietto autografo rimase negli archivi dell'istituto: per qualche decennio, nella contabilità alla voce "avere" e poi, quando gli amministratori si resero conto che non sarebbe tornato a casa nulla, destinato nei fascicoli "storici", a testimonianza del contributo speso per l'unità d'Italia. “Anche gli altri tre milioni (scarsi) vennero prelevati con la stessa disinvoltura e identiche giustificazioni anche se, di queste cifre, non esistono le registrazioni di chi si impossessò del denaro e quanto ne agguantò. Troppe mani trafficarono nei bilanci delle tesorerie. Ippolito Nievo aveva un'idea delle spese che vennero sostenute ma finì in fondo al mare con la documentazione che le certificava.”
L’AUTORE – Lorenzo Del Boca, laurea in filosofia, giornalista e saggista, presidente della Federazione nazionale della Stampa (dal 1996 al 2001) e presidente dell'ordine dei giornalisti (dal 2001 al 2011). Il suo interesse di storico si è incentrato sul periodo del Risorgimento e delle guerre mondiali che ha affrontato con irriverenza e, spesso, in polemica, con la vulgata tradizionale, agiografica e retorica. Per Utet ha pubblicato Il segreto di Camilla. Un processo per spionaggio davanti al tribunale speciale fascista (2005) e Grande guerra, piccoli generali. Una cronaca feroce della Prima guerra mondiale (2007).
INDICE DELL’OPERA - Il pugnale dei patrioti - Capitolo primo. Callimaco Zambianchi: l'ammazza-preti (La cassa con i soldi, i portasigari e un paio di pantaloni "molto lisi") - Capitolo secondo. L'assassino Vincenzo Cibolla e i poliziotti che lo proteggevano («Il bottino delle rapine andava diviso con alcuni funzionari della polizia») - Capitolo terzo. L'agente segreto Filippo Curletti "incaricato di importantissime missioni" (Il linciaggio del colonnello Anviti e l'assassinio del generale Pimodan) - Mani sporche - Capitolo quarto. L'apostolo Giuseppe Mazzini e la tangente "tricolore" sulle ferrovie (Le mazzette distribuite ai deputati e la commissione d'inchiesta "insabbiata") - Capitolo quinto. Il poeta-soldato Ippolito Nievo cassiere dei Mille perché "unico onesto" (Morte annunciata di un garibaldino sul bastimento evaporato nel mare) - Capitolo sesto. L'oro di Napoli nelle tasche dei lestofanti (La camorra, l'"incapacissimo" e tangenti sui restauri del Parlamento) - «Guai a vinti!» - Capitolo settimo. Alfonso La Marmora: generale "bombardatore" (Una pioggia di fuoco su Genova: la città tramortita dalle cannonate) - Capitolo ottavo. Nino Bixio a Bronte con il pugno di ferro (L'orologio in mano e la pistola accanto per condannare a morte anche uno scemo) - Capitolo nono. Il generale Enrico Cialdini che non faceva economia di bombe (I 101 giorni di assedio sotto una tempesta di fuoco) – Bibliografia - Indice dei nomi
Quante cose non sapevo sul Risorgimento! Nel 2011, anno dei festeggiamenti per il 150¡ dell'Unità d'Italia, sono usciti diversi nuovi saggi storici sul periodo cruciale che va dal 1848 al 1861. Questo volume è senz'altro tra i più interessanti.
In che senso il Risorgimento è stato disonorato? Nel senso che ci sono state persone semisconosciute che hanno atteso gli eventi e poi ne hanno approfittato per regolare poi conti personali. La prima parte dell'opera ("Il pugnale dei patrioti") racconta di Callimaco Zambianchi di Forlì, Vincenzo Cibolla di Torino e Filippo Curletti, romagnolo come Zambianchi. Il libro è ancora più sorprendente nella seconda parte ("Mani sporche"), dove tratta dell'omicidio di Ippolito Nievo e di due affari sporchi. Nei libri di scuola non si fa luce sul misterioso naufragio in cui Nievo perì. Di lui se ne parla come patriota, letterato ed, en passant, di tesoriere dei Mille. Ma fu proprio per questo suo incarico, che svolse in maniera indefessa e trasparente, che fu eliminato. Gli altri due scandali di cui si parla sono le tangenti pagate dalla ditta "Adami e Lemmi" per avere la concessione delle Ferrovie del Sud (che ottennero anche tramite una lettera di raccomandazione firmata da Giuseppe Mazzini) e la spoliazione delle casse del Banco di Napoli (la banca centrale del Regno delle Due Sicilie): furono prelevati tutti i 443 milioni di lire, che finirono in mani private: spese, prebende, regalie. I protagonisti della terza parte ("«Guai ai vinti!»") sono il generale Alfonso La Marmora, responsabile nel 1849 del bombardamento di Genova; Nino Bixio, che nell'agosto 1860 represse con violenza una rivolta a Bronte (CT) e condannò consapevolmente degli innocenti; Enrico Cialdini, a capo dell'assedio della fortezza di Gaeta, che ottenne il suo scopo ma ricevette anche una lezione di moralità e di senso dell'onore da parte dei militari borbonici.
La brutale verità. Il lato oscuro dell'Unità d'Italia e il brigantaggio postunitario, scrive Michele Carilli. L’anno scorso al profluvio di manifestazioni e pubblicazioni celebrative (e assai poco scientifiche) sull’Unità d’Italia si è opposta anche una nutrita pubblicistica che ha cercato di fare giustizia della valanga di retorica rovesciata in ogni occasione (addirittura le singole partite di Coppa Italia erano abbinate ad un episodio risorgimentale!). Il volume che ha riscosso maggior successo è stato sicuramente Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali del giornalista Pino Aprile, che aveva però il pregio/difetto di essere un pamphlet. Con La brutale verità Michele Carilli cerca di correggere il tiro dando alla luce un prezioso libretto che ripercorre le vicende dell’Unità d’Italia, evitando ogni tipo di retorica: se non c’è traccia (e, trattandosi di uno scritto serio, non ci sarebbe potuta essere) di esaltazione dell’impresa dei Mille e delle sue conseguenze, manca parimenti ogni nostalgismo revisionista. Al contrario, la situazione dell’Italia dal 1860 al 1865 (l’autore si concentra in particolare sulle vicende del brigantaggio post-unitario) viene ripercorsa “sine ira et studio”: il risultato è una pubblicazione agile, scritta con un linguaggio accessibile a tutti, mai faziosa e allo stesso tempo piena di notizie, abbastanza esauriente, precisa. Insomma, un ottimo vademecum che – anche in considerazione del suo prezzo contenuto – meriterebbe di circolare il più possibile: visto il taglio non fazioso è adottabile nelle scuole, può costituire un buon regalo per un amico che non ha tempo e modo di approfondire, ma che non si lascia convincere dal carattere indubbiamente partigiano di altre pubblicazioni. Comunque, nonostante lo stile pacato, il giudizio dato sulle modalità dell’Unificazione è inequivocabile: si trattò di una annessione in piena regola, di un’aggressione militare che coronò un progetto assai meno ambizioso (la semplice espansione del Regno di Sardegna al Lombardo-Veneto e alla Toscana), con promesse tradite di eliminare il latifondo (lo aveva fatto Garibaldi, ma il risultato fu che le grandi proprietà, anzi, si rafforzarono) o di evitare lo stato d’assedio (lo aveva sostenuto Cavour, ma la promessa fu ampiamente disattesa, provocando una guerra civile che in pochi anni mieté più vittime della quarantennale guerra in Irlanda del Nord). Carilli fotografa la “brutale verità” (riprendendo una sconsolata espressione di Napoleone Colajanni), ma questa fotografia può essere più utile di cento grida da comizio.
Briganti e Partigiani, scrive l'1 giugno 2011 Gianfranco Budano. C’è un significato nascosto dietro ogni parola, e dietro ogni parola si cela spesso un ossimoro e un’intera storia non raccontata, una vicenda misconosciuta dai più, fatta di soprusi, di ingiustizie, di eccidi, di stragi, di falsi eroi, una verità diversa, scomoda da raccontare agli Italiani di oggi, questi Italiani pigramente distratti dalla prosopopea sulla falsa unità, nei fatti ancora di là da venire. Ci si chiede quale storia sia nascosta dietro la parola briganti, cosa c’è dietro al semplice appellativo di otto lettere impropriamente, artatamente utilizzato da frotte di mediocri storici negli ultimi centocinquant’anni, e perché mai ancora oggi, dopo così tanto tempo, stentiamo a guardare in faccia la vera, reale identità di costoro, di quei ragazzi che a ben riflettere potremmo chiamare col giusto appellativo: Partigiani. Occorre fuggire dalle finte ipocrisie, dalle false interpretazioni delle vicende post-unitarie: uno storico dev’essere testimone critico del passato, deve saper leggere la reale natura dei fatti indagando le pieghe del tempo; la politica deve rimanere fuori dalla sfera indagatrice del ricercatore, così com’è acclarato essere necessario in altri ambiti apparentemente più importanti. Perché dico ciò? Perché se lo storico abdica al proprio ruolo di testimone equilibrato, di attento cultore della verità, il danno generato diviene di vasta portata. Ciò detto, è appena il caso di chiederci quale sia stato il danno generato dalle frottole narrate agli Italiani dal 1861 a oggi. Credo doverosa questa premessa prima di affrontare serenamente lo spinoso argomento; è quanto mai opportuno aprire un dibattito, a oggi ancora sopito, ma che tanto fuoco cova sotto la cenere del tempo. Lo spunto mi viene dalla breve lettura di una recensione al film Li chiamarono briganti di Pasquale Squittieri, un lavoro ambientato in un meridione infiammato dalle insurrezioni popolari seguite all’annessione sabauda, in un Sud che si ribella fornendo la giustificazione alla sanguinaria repressione dell’esercito piemontese. Ve ne propongo un breve passo tratto da Wikipedia: Il film fu penalizzato dalla critica e registrò un incasso irrisorio al botteghino (75 milioni di lire), dovuto anche all’immediato ritiro dalle sale cinematografiche ed è introvabile sia in supporto VHS che DVD. I motivi della sospensione non sono ancora chiari, sebbene i detrattori parlano di censura. Lo scrittore Lorenzo Del Boca disse al riguardo che “per ammissione unanime dei commentatori, è stato boicottato in modo che lo vedesse il minor numero di persone possibile”. Il film è visto da una parte della critica come un’agiografia di Crocco e una visione troppo sanguinaria di personaggi come Cialdini. Il Dizionario dei film a cura di Morando Morandini lo giudicò “Isterico più che epico. Un’occasione mancata di controinformazione storica.” Il critico Stefano Della Casa lo definì “Un film interessante proprio perché fuori dal tempo”. Lo scrittore Nicola Zitara si espresse positivamente, giudicandolo “un racconto epico e appassionante”.
Quando ho segnalato questo film all’amico Maurizio Madaro, che sta girando un documentario sul cosiddetto Risorgimento, avevo dimenticato che il film di Squitieri era stato girato alla fine degli anni ’90 e non sapevo che solo pochi anni fa, ovvero nel 1999, era stato ritirato dalle sale cinematografiche e reso irreperibile in qualsiasi formato. Pensateci un po’: per quale motivo è stata compiuta un’azione di questo tipo? Per quale strana ragione un film, quand’anche si trattasse realmente di un’opera revisionista, avrebbe dovuto essere censurato e reso introvabile? Per quale motivo doveva essere boicottato? E da chi? Passi l’assunto assurdo che la storia sia sempre scritta dai vincitori; è pur vero, tuttavia, che la vera storia viene a volte correttamente riscritta dai posteri, gli unici in grado di possedere quell’equilibrio che solo la lontananza temporale dagli eventi può donare, ma allora perché ai Meridionali la verità ancora non deve essere concessa? Chi si permette ancora oggi di negarci questo diritto? Si ha paura forse di togliere il velo di muffa che ricopre argomenti scabrosi, quali i diversi eccidi perpetrati ai danni di interi villaggi trattati più alla stregua di nemici da educare, popolazioni su cui scaricare una rappresaglia cieca, più che di fratelli da riunire sotto la stessa bandiera. Capite adesso lo sconforto, la paura, il disorientamento provato dalle popolazioni afghane, piuttosto che irachene, quando finti amici perdono il senso della ragione scaricando una rabbia cieca nei confronti di cittadini inermi: uomini, donne, vecchi, bambini?
Si tratta in fin dei conti degli stessi identici orrori perpetrati nei confronti dei nostri avi, da falsi eroi cui ancora oggi vengono dedicati onori e piazze, commemorazioni e fiori. Nulla per i nostri partigiani, non una via, non una piazza, non una commemorazione, non un fiore e, quel che è peggio, non la memoria. E’ giunto il momento di riparare al danno, non perché quei ragazzi ne abbiano bisogno, siamo noi ad averne necessità, perché è grazie al loro sacrificio e alla loro memoria che potremo costruire un futuro più giusto per le generazioni a venire. Iniziamo col dare il corretto appellativo ai nostri eroi, cominciamo a scrivere “Carmine Crocco, partigiano”, e a dedicargli piazze, strade, vicoli e giardini, in ogni città d’Italia, non in onore all’odio, ma per il rispetto dovuto alla verità dei fatti, un rispetto propedeutico alla vera unione fra Italiani, sempre che la si voglia. In assenza di rispetto ogni discorso diventa vano. E’ un concetto che i politici italiani, e quelli meridionali in particolare, dovranno tenere in debita considerazione; non venga più in mente a nessuno di allacciare alleanze con movimenti o partiti di matrice razzista, privi di una prospettiva unitaria ed equilibrata. Non ci devono essere scuse per coloro che continueranno a sacrificare le popolazioni meridionali sull’altare dei propri interessi. Lo tengano bene in mente coloro che a destra, come a sinistra guardano con favore alleanze e apparentamenti con movimenti di matrice territoriale.
Partigiani e terroristi ma è la storia che fa la differenza. Fa una certa impressione scoprire che il termine "terrorista", oggi appioppato ai tagliagole dell'Isis, veniva usato dai nazifascisti per bollare i giovani arruolati in pianura nei...scrive il 22 dicembre 2014 Luciano Salsi su "La Gazzetta di Reggio". Fa una certa impressione scoprire che il termine "terrorista", oggi appioppato ai tagliagole dell'Isis, veniva usato dai nazifascisti per bollare i giovani arruolati in pianura nei Gap (gruppi di azione patriottica) con un marchio ancora più infamante dell'epiteto "bandito" che compariva in italiano e in tedesco negli editti contro i partigiani della montagna. In effetti i gappisti erano particolarmente odiati e temuti perchè furono la punta di lancia della Resistenza, capace di condurre azioni offensive che, per quanto isolate, mettevano a nudo la vulnerabilità del nemico e ne limitavano la capacità operativa, soprattutto nelle ore notturne. A questi "terroristi" la rivista di Istoreco, RS Ricerche Storiche, dedica l'apertura del suo numero 118. E' un estratto della tesi di laurea "Gruppi di azione patriottica e la guerriglia nei centri urbani durante la guerra di liberazione", curata da Mariachiara Conti e discussa a Bologna nello scorso anno accademico. La sua pubblicazione ha avuto subito una risonanza al di là della cerchia degli abituali lettori, risvegliando l'aspra polemica sui delitti compiuti dagli ex-partigiani nel dopoguerra. Infatti Massimo Storchi, correlatore della tesi, ha scelto di corredare l'articolo, sulla rivista, con un documento di straordinario interesse, che però ha fatto sussultare qualcuno: il resoconto autobiografico dell'esecuzione di un caporione fascista scritto da Cesarino Catellani, il gappista che due anni dopo, a guerra ormai finita, assassinò il parroco Umberto Pessina, per la cui uccisione Germano Nicolini scontò da innocente dieci anni di galera. Catellani vi racconta come il 3 maggio 1944, insieme ai compagni Ottavio Morgotti, Attilio Manicardi e Gino Turci, riuscì ad uccidere a colpi di pistola il triumviro federale di Correggio, Quirino Codeluppi. L'ex-gappista firmò la dichiarazione e la consegnò a Istoreco nell'aprile del 2000, poco prima di morire. "Si tratta - spiega Storchi - di una testimonianza preziosa, perchè rara, di quella fase storica. E' uno dei pochissimi racconti diretti delle azioni dei Gap descritte ampiamente nella tesi. L'abbiamo pubblicata senza commenti per tale motivo, a prescindere dagli eventi successivi, di cui Catellani fu protagonista". Un commento, a dire il vero, Istoreco lo riporta riproducendo a fianco l'articolo del Solco Fascista in cui si parla di "vile attentato" e "odioso delitto" commesso contro un "uomo di purissima fede, conosciutissimo e stimato da tutta la popolazione". Sono accenti simili a quelli usati trent'anni fa per bollare le imprese delle Brigate Rosse e oggi per i terroristi islamici. Tuttavia se ne può trarre un'altra elementare considerazione: le stesse azioni, condotte con metodi sostanzialmente identici, possono essere giudicate in maniera opposta. Sarebbe impossibile valutarle positivamente o negativamente prescindendo dagli ideali e dai fini per i quali sono messe in atto. Luciano Salsi
Partigiani come terroristi, scrive "Il Tempo" il 3 Ottobre 2010. I lettori troveranno in questo libro molti nomi di persone sconosciute. Donne e uomini privi di una storia pubblica, scomparsi senza lasciare traccia di sé. Sono persone uccise nel corso della nostra guerra civile. E quasi tutte schierate da una parte sola: quella fascista, raccolta sotto le bandiere della Repubblica sociale italiana, come militanti, combattenti, semplici simpatizzanti, o ritenuti tali da chi gli ha tolto la vita. Ma i lettori dei Vinti non dimenticano leggeranno anche di tanti altri morti che non erano schierati con nessuno. Come i triestini, i goriziani e i fiumani deportati e fatti sparire dalle milizie comuniste jugoslave soltanto perché intendevano restare italiani. (Dalla Nota al lettore - Come celebrare il 25 aprile? - La storia dal basso). All'inizio di un altro weekend di lavoro a Firenze, dissi a Livia: «Adesso è venuto il momento di inoltrarci nei territori dove la resa dei conti sui fascisti sconfitti durò più a lungo nel tempo e fu più brutale. Per questo» aggiunsi, «sarebbe utile precisare da dove siamo partiti: un punto di vista non convenzionale sulla Resistenza, diverso dall'agiografia di comodo che di solito viene spacciata per storia vera.» «Sono d'accordo» convenne Livia. «Ma cerchi di non esagerare.» «In che senso esagerare?» «Nel senso di lasciarsi prendere dal suo gusto per la polemica. Ormai penso di conoscerla bene, caro Giampa. Posso chiamarla così? Lei mi ha detto che questo abbreviativo lo usava sua madre Giovanna. Mi piace Giampa! Suona bene, è sintetico e veloce, dunque adatto ai nostri tempi frenetici.» Livia proseguì: «La sua vis polemica è molto cresciuta in questi anni, dopo l'uscita del Sangue dei vinti. I detrattori che si è trovato contro le hanno fatto un gran regalo e adesso dovrebbero mangiarsi le mani. Ma le consiglio ugualmente di contenere la spinta a ingaggiare battaglie. La utilizzi con misura, le gioverà.» «Consiglio accettato» risposi a Livia. «Allora proverò, con misura, a dirle la mia sui primi passi della Resistenza o della guerra civile, considerata dal punto di vista dell'antifascismo. Per servirmi di un'immagine poco militare, parlerò dell'alba di una fase storica. E aggiungerò subito che fu un'alba quasi tutta rossa. Intendo il rosso delle bandiere comuniste. «Comincerei con qualche dato sui territori di cui le ho parlato prima. Sono quelli del Nordovest italiano, ossia il Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Per queste tre regioni le cifre accertate dal gruppo di Michele Tosca parlano chiaro. Dopo la fine della guerra, in Piemonte vennero uccisi 3611 fascisti o presunti tali, in Lombardia 2995, in Liguria 1722. Il totale fa 8328. Se ci aggiungiamo le 3905 vittime dell'Emilia-Romagna, la regione dove è stata ammazzata più gente, si arriva a 12.233 morti. Ossia a più della metà dei 20 mila fascisti accoppati in Italia quando la guerra era già conclusa.»
Dissi a Livia: «Se invece osserviamo tutto l'arco temporale della guerra civile italiana, a partire dal settembre 1943, le vittime fasciste, sia civili che militari, sono state nel complesso 46 mila. Devo precisarle che si tratta di persone identificate con un nome e un cognome. Poi ci sono i morti rimasti sconosciuti che fanno aumentare di non poco il totale. Naturalmente, da questo consuntivo sono esclusi i militari tedeschi caduti in Italia e le perdite di altri reparti stranieri che combattevano a fianco della Germania sul nostro territorio». «Lei vorrebbe spiegare ai lettori come è iniziato questo bagno di sangue. È così?» mi domandò Livia. «Sì. Mi sembra opportuno, anche se lo faremo in modo estremamente sintetico. Anche noi abbiamo parlato e parliamo molto di quanto accadde durante la guerra civile. Ma di solito lo facciamo a partire dalla primavera del 1944 in poi, quando tutti presero a sparare tutti i giorni. E invece bisogna iniziare dalle avvisaglie, quelle dell'autunno-inverno 1943. Perché è in quella fase che emerge il connotato primario della lotta partigiana, il suo Dna: il terrorismo.» «Il terrorismo?» si stupì Livia. «Sì. Del resto, non saprei in quale altro modo chiamare una tecnica sanguinaria, ma efficace: gettare nel panico il nemico e annientarlo sparando contro singole persone, quasi sempre indifese. Ricorda come si muovevano le Brigate rosse negli anni Settanta e Ottanta? Bene, è la stessa tecnica. Del resto, i killer delle Br si consideravano gli eredi dei terroristi comunisti della guerra civile. E con ragione, penso io. «Ma prima di arrivare ai delitti del 1943, è opportuno dire qualcosa sul clima politico di quel tempo. Per cominciare, bisogna accennare a una verità che gli agiografi della Resistenza dimenticano sempre. In quell'autunno erano ancora molti gli italiani che avevano fiducia in Mussolini…» (...) «Nell'autunno 1943» continuai, «avevo 8 anni e mi ricordo bene certe discussioni in casa mia. Nessuno era fascista, anche se qualcuno si era iscritto al Pnf perché doveva farlo in quanto dipendente pubblico. Ma tutti temevano la reazione dei tedeschi. Avevano visto che erano bastati quattro o cinque paracadutisti con l'elmetto a pentola per rastrellare i soldati sbandati rimasti in città e rinchiuderli nelle caserme. E poi avviarli alla prigionia in Germania. (...) «E dei primi Comitati di liberazione che cosa mi racconta?» domandò Livia «Che contavano molto poco, per non dire quasi nulla. Certo, ne facevano parte uomini coraggiosi e da ammirare. Tutti sapevano bene che cosa stavano rischiando. Come minimo, la deportazione nei campi di sterminio tedeschi. Eppure i Cln sorsero quasi dappertutto, anche nei piccoli centri. Quella fu la prima generazione dei Comitati. Ed era fatale che risentisse della debolezza dei partiti politici di cui erano l'emanazione. (...) «Per tutto questo, i comunisti italiani non vivevano in mezzo a un deserto, come accadeva ai democristiani, ai socialisti, ai liberali e agli azionisti. Il Pci poteva contare sul potere sovietico, una parete d'acciaio alla quale appoggiarsi, uno scudo in grado di proteggerlo. La strategia di Mosca, quella di espandersi nel resto dell'Europa, era diventata la strategia del Pci. (...) Il regime fascista aveva commesso un errore che si sarebbe rivelato fatale dopo il 25 luglio: a Ventotene era stato mandato mezzo vertice del Pci clandestino. Non parlo di Togliatti che viveva tranquillo a Mosca, coccolato da Stalin. Parlo di Luigi Longo e di Pietro Secchia, che in seguito avrebbero guidato i partigiani comunisti in tutta l'Italia occupata. Con loro c'erano Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Giovanni Roveda, Girolamo Li Causi e Battista Santhià, l'operaio meccanico piemontese che era stato con Antonio Gramsci nel quotidiano “L'Ordine Nuovo”». (Dalla Parte Quarta, capitolo 18: Gappismo, Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa).
Giampaolo Pansa. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giampaolo Pansa (Casale Monferrato, 1º ottobre 1935) è un giornalista, saggista e scrittore italiano. Nativo di Casale Monferrato, dopo gli studi classici si iscrisse alla Facoltà di Scienze Politiche presso l'Università degli Studi di Torino, dove ebbe come docente Alessandro Galante Garrone. Si laureò con una tesi intitolata Guerra partigiana tra Genova e il Po. Sposato con Lidia, nel 1962 ha avuto un figlio, Alessandro, ex amministratore delegato di Finmeccanica.
Carriera giornalistica. Agli inizi degli anni sessanta entrò nel quotidiano torinese La Stampa. L'elenco delle sue collaborazioni è il seguente.
Con quotidiani:
1961-1964: La Stampa (direttore Giulio De Benedetti). Uno dei suoi servizi più noti del periodo fu sul disastro del Vajont; 1964-1968: Il Giorno (direttore Italo Pietra), si occupò delle cronache dalla Lombardia;
1969-1973: La Stampa, inviato da Milano (direttore Alberto Ronchey). Scrisse per il quotidiano torinese sulla strage di piazza Fontana;
(dopo una breve parentesi al Messaggero di Roma come redattore capo) 1º luglio 1973- ottobre 1977: inviato per il Corriere della Sera (direttore Piero Ottone). Durante il periodo al Corriere Pansa scrisse con Gaetano Scardocchia l'inchiesta che contribuì a svelare lo scandalo Lockheed;
novembre 1977-1991: La Repubblica, inviato speciale (direttore Eugenio Scalfari). Nell'ottobre 1978 assunse la vicedirezione. Riprese a scrivere per il quotidiano romano nel 2000 come editorialista;
con settimanali:
1983-1984: crea la rubrica «Quaderno italiano» su Epoca (direttore Sandro Mayer);
1984-1987: crea la rubrica «Chi sale e chi scende» su L'Espresso (direttore Giovanni Valentini);
1987-1990: crea la rubrica «Bestiario» su Panorama, (editore Mondadori, direttore Claudio Rinaldi, Pansa fu condirettore);
1990- settembre 2008: il «Bestiario» prosegue su L'Espresso (direttore Giulio Anselmi, poi Daniela Hamaui).
Nella carriera di Pansa hanno avuto un ruolo preponderante i giornali del Gruppo L'Espresso (la Repubblica e L'Espresso), con i quali Pansa ha collaborato ininterrottamente dal 1977 al 2008. Negli anni della sua collaborazione alla Repubblica, Pansa è stato tra i rappresentanti della linea editoriale vicina alla sinistra di opposizione, senza risparmiare critiche anche al Partito Comunista Italiano. Sono note inoltre alcune sarcastiche definizioni che Pansa ha dedicato a politici italiani, come quella di "Parolaio rosso", per Fausto Bertinotti o quella di "Dalemoni", allusiva al cosiddetto "inciucio" tra Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi ai tempi della Bicamerale. Pansa non fu tenero neanche con i colleghi giornalisti: nel 1980scrisse su la Repubblica un articolo intitolato «Il giornalista dimezzato», in cui stigmatizzava il comportamento, da lui giudicato ipocrita, dei colleghi che, a suo dire: "cedeva[no] metà della propria professionalità al partito, all'ideologia che gli era cara e che voleva[no] comunque servire anche facendo il [proprio] mestiere".
Il 1º ottobre 2008, trovandosi in contrasto con la linea editoriale, lasciò il Gruppo Editoriale L'Espresso. Da allora ha scritto sui seguenti giornali:
ottobre 2008-dicembre 2010: Il Riformista (direttore: Antonio Polito);
settembre 2009-luglio 2016: Libero, dove nel gennaio 2011 ha portato il «Bestiario» (direttore: Maurizio Belpietro (2009-2016), Vittorio Feltri (2016-in carica);
settembre 2016: La Verità (il nuovo quotidiano fondato da Belpietro).
Romanzi e saggi storici. La sua attività ha avuto come principale interesse la Resistenza italiana, già oggetto della sua tesi di laurea (pubblicata da Laterza nel 1967 con il titolo Guerra partigiana tra Genova e il Po). Nel 2001 Pansa pubblica Le notti dei fuochi, sulla guerra civile italiana combattuta tra il 1919 e il 1922, conclusa con la presa del potere da parte del fascismo. Nel 2002 esce I figli dell'Aquila, racconto della storia di un soldato volontario dell'esercito della Repubblica sociale italiana. Comincia poi il ciclo «dei vinti», cioè una serie libri sulle violenze compiute da partigiani nei confronti di fascisti durante e dopo la seconda guerra mondiale: Il sangue dei vinti (vincitore del Premio Cimitile 2005), Sconosciuto 1945, La Grande Bugia e I vinti non dimenticano (2010). Pansa recupera fonti come Giorgio Pisanò e Antonio Serena e racconta molte storie personali di cosiddetti "vinti" con metodo già descritto da Nicola Gallerano e in una forma che è stata definita un misto fra romanzo storico, feuilleton e pamphlet per il gruppo delle sue sei opere principali sulla resistenza. Nel 2011 pubblica Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri, in cui ritrae l'Italia degli umili tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX attraverso la storia dei propri nonni e genitori.
Le polemiche. In particolare per Il sangue dei vinti, Pansa è stato oggetto di critiche in quanto avrebbe "infangato" la Resistenza utilizzando, a detta dei detrattori, quasi esclusivamente fonti revisioniste di parte fascista accuse che Pansa ha sempre respinto con decisione, sostenendo di aver utilizzato fonti di diverso colore politico e di aver spesso descritto i crimini che certi esponenti fascisti avevano commesso ai danni dei partigiani prima di essere a loro volta uccisi. Durante la presentazione dei suoi libri in alcune occasioni Pansa è stato oggetto di contestazione da parte di centri sociali di estrema sinistra che accusano l'autore di revisionismo. In un caso ci sono stati tafferugli tra gruppi di sinistra e di destra, entrambi presenti all'evento. Tali episodi sono stati condannati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal presidente del Senato Franco Marini. Vi è stato anche chi, come Galli della Loggia, ha giudicato positivamente il lavoro di Pansa, chiedendosi però come mai l'Italia si permetta di far luce sui crimini ignorati della sua storia solo quando sono gli intellettuali di sinistra a renderli noti al grande pubblico. Anche lo storico Sergio Luzzatto, dopo una iniziale perplessità su Il sangue dei vinti, che comportò da parte sua anche dure prese di posizione, dichiarò in seguito che nelle sue opere «nulla si inventa» e c'è «rispetto per la storia». Il libro successivo, La Grande Bugia, è dedicato proprio alle reazioni suscitate da Il sangue dei vinti. Anche quest'opera è stata oggetto di critiche. I gendarmi della memoria ha chiuso il trittico aperto da Il sangue dei vinti: è un atto di accusa contro quanti, a suo avviso, non accettano alcuna forma di ripensamento o di autocritica su quel periodo.
Biografia di Giampaolo Pansa da Massimiliano Bonino.
Casale Monferrato (Alessandria) 1 ottobre 1935. Giornalista. «La mia patria morale è da sempre la Resistenza ma non accetto la retorica falsa secondo la quale di qui c’erano tutti i buoni e di là i cattivi. La sinistra che afferma ancora questa grande bugia reca danno solo a se stessa».
«Mio padre aveva trascorso l’infanzia nella miseria: penultimo di sei ragazzini orfani, figli di un bracciante a giornata. Morto di colpo mentre zappava il campo di un altro: Giovanni Pansa, classe 1863, di Pezzana, provincia di Vercelli. Mia nonna, Caterina Zaffiro, classe 1869, anche lei vercellese di Caresana, non aveva voluto affidare i bambini alla carità pubblica. E li aveva tirati su da sola, con la ferocia di una leonessa. Per farli mangiare, andava a rubare. Il suo motto diceva: la roba dei campi è di Dio e dei santi, dunque pure di una disgraziata come me».
«Papà e mamma erano arrivati soltanto alla quarta elementare lui e alla quinta lei. Per poi andare subito al lavoro: come guardiano delle mucche e come piccinina in una pellicceria».
Laureato in Scienze politiche con una tesi su La guerra partigiana tra Genova e il Po (trasformata poi in un libro, Laterza 1967), vinse il premio Einaudi (500.000 lire) e fu chiamato alla Stampa, dove entrò l’1 gennaio 1961, praticante alla redazione Province.
La sera del 22 novembre 1963, dovendosi fare il giornale sull’attentato a Kennedy, il direttore Giulio De Benedetti piombò nella redazione Esteri: «Questa cronaca non va bene, non va bene assolutamente. Riscriverla per la seconda edizione». Subito dopo: «Anzi, no. Voi degli Esteri siete troppo stanchi». Il direttore si girò, e alle sue spalle c’era la redazione Province. «Lei e lei. Rifatela voi due, questa cronaca». I due erano Giuseppe Mayda e Pansa: «Seguite voi due questo fatto anche nei prossimi giorni, fino a che il nostro inviato non sia giunto sul posto». Tirarono avanti fino al quarto giorno, quando arrivò a tutti e due una lettera del segretario di redazione Fausto Frittitta che diceva: «Il direttore mi incarica di comunicarLe la sua soddisfazione per il servizio da Lei svolto sull’assassinio del presidente Kennedy». Seguiva l’annuncio di un aumento di stipendio.
Pansa dice di aver imparato in questi primi anni le cinque regole che sono alla base di un giornale ben fatto: redazioni ridotte al minimo indispensabile; giornalisti pronti a far tutto; rapidità; unico giudice il direttore, dittatore assoluto; se si fa bene, si sia premiati e se si fa male si sia puniti.
Al Giorno dal 1964, al direttore Italo Pietra che gli chiedeva se preferisse fare l’inviato in Vietnam o a Voghera rispose: «A Voghera». Pietra: «Risposta esatta. Se avessi detto Vietnam non ti avrei preso». Nel 1968 tornò alla Stampa (direttore Ronchey).
Dal 1972 redattore capo al Messaggero, si trovò male anche per l’ostilità della redazione, nel 1973 andò al Corriere della Sera come inviato: colpo più clamoroso l’intervista a Enrico Berlinguer del 1976 in cui alla domanda se non temesse di fare la fine di Dubcek (il segretario del Partito comunista cecoslovacco che nel 1968 aveva tentato di liberalizzare il suo paese ed era stato spazzato via dai carri armati sovietici) ebbe per risposta: «No, perché sono da questa parte dell’Occidente e, con la protezione della Nato, mi sento più sicuro».
Nel 1977, dopo le dimissioni del direttore Ottone, lasciò il Corriere per Repubblica.
A Repubblica (è questo il periodo in cui lo si vede ai congressi dei partiti col binocolo perché non vuole farsi sfuggire nessun tic degli oratori) cominciò presto a fare il vicedirettore con Gianni Rocca e contribuì allo straordinario successo (in copie e peso politico) del giornale. Alla fine degli anni Ottanta inaugurò su Panorama (direttore Claudio Rinaldi) la rubrica “Bestiario”, poi portata all’Espresso di cui diventò condirettore. Incarico che ha lasciato il 30 settembre 2008 per passare al Riformista, fino al 2010, quando passa a Libero dove porta il suo “Bestiario”.
Ha scritto molti libri, tra cui: L’esercito di Salò (Istituto della Resistenza e poi Oscar Mondadori, 1970), Comprati e venduti (Bompiani 1977), Ottobre addio (Mondadori 1982), Carte false (Rizzoli 1986), Intervista sul mio partito (a Luciano Lama, Laterza 1987), Lo sfascio (Sperling 1987), Questi anni alla Fiat (intervista con Cesare Romiti, Rizzoli 1988), Il Malloppo (Rizzoli 1989) ecc. Dopo che Rizzoli rinunciò alla pubblicazione de L’intrigo, giudicato troppo contrario a Berlusconi (in quel momento oltre tutto Berlusconi distribuiva con la Rizzoli Sorrisi e Canzoni), passò a Sperling & Kupfer, per poi tornare a Rizzoli nel 2008.
Gli ultimi libri hanno ripreso il vecchio tema della Resistenza, visto però dalla parte dei perdenti. La grande bugia (Sperling & Kupfler, 2006), I tre inverni della paura (2008), I vinti non dimenticano (2010), La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (2012), Bella ciao - Controstoria della Resistenza – (2014). Grandissime vendite e grandissime polemiche. Su Il sangue dei vinti (Rizzoli, 2003): «Vergognoso, non revisionista ma falsario» (Aldo Aniasi), «Una vergognosa operazione opportunista» (Giorgio Bocca), «Libro vergognoso di un voltagabbana» (Liberazione), «Una cinica operazione editoriale» (Sandro Curzi). Ernesto Galli Della Loggia: «Che cosa gli rimproverava la sinistra più conservatrice e aggressiva, quella, come lui la chiama, degli “uomini di marmo”? Semplicemente di aver rotto il tabù delle migliaia di fascisti (o presunti tali, o addirittura, in più di un caso, di antifascisti perfino) brutalmente fatti fuori dai partigiani all’indomani del 25 aprile». Giorgio Bocca dopo aver lettoLa grande bugia: «Io sono d’accordo coi francesi, robe simili vanno proibite per legge».
«Molti leader di sinistra sono persone mediocri, arroganti, boriose. Afflitte soprattutto da un vizio: l’ignoranza. Una malattia diffusa che li fa essere infastiditi da tutto ciò che non rientra nei loro poveri schemi culturali. Quando uscì il mio Sangue dei vinti i tipi sinistri non erano in grado di smentire i fatti che raccontavo: ma divennero furibondi perché incrinavo un tabù, quello della Resistenza, che li aveva aiutati a campare per tanti anni. Coprendo la verità con il mantello della retorica interessata e di bugie senza vergogna».
«Dopo una vita trascorsa nel giornalismo schierato, de sinistra, Pansa ha maturato negli ultimi anni, specie per come sono stati accolti i suoi libri sulla guerra civile tra partigiani rossi e repubblichini dai Torquemada ex e post del pensiero unico, un giustificato disamore per la sinistra, forse antropologicamente superiore a ogni altra tribù nazionale ma con un QI politico e un respiro culturale, sia detto senza offesa, di poco superiore a quelli del paramecio, organismo unicellulare e magari, non mi stupirei, anche un po’ trinariciuto». (Diego Gabutti) [Iog, 17/4/2012].
Da ultimo anche un paio di libri fortemente critici verso i giornalisti: Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli 2011) La Repubblica di Barbapapà (Rizzoli 2013, «Barbapapà è il soprannome che la redazione di Repubblica diede ad Eugenio Scalfari»).
«Sono un umorale, un ingenuo, a volte m’incavolo, spesso sbaglio. Ma non ho mai scritto una riga per calcolo o fatto polemiche per opportunismo».
«Ha il giornalismo nel sangue, anzi in Italia ne è uno dei capiscuola e officia i riti di questo mestiere con un suo scrupolo particolare. Alle 8,30 del mattino ha già letto dieci quotidiani, si devono a lui metafore entrate nel linguaggio comune come la definizione di “Balena bianca” per la Dc» (Maurizio Caprara).
«Le cattiverie di Pansa sono leali, mai subdole, e non cancellano un’indulgenza di fondo verso gli attori della commedia umana. Il “Bestiario” cerca di applicare a modo suo il principio costituzionale del giusto processo» (Claudio Rinaldi).
Antiberlusconiano («con giudizio», dice lui). «In passato ho creduto in Prodi. Ora ho perso anche l’ultima illusione». Nel maggio 2007 annunciò che non sarebbe più andato a votare. Frequenti bastonate alla sinistra estrema, tra i suoi bersagli preferiti Bertinotti, ribattezzato “Il parolaio rosso”.
Come al solito i comunisti, così come per la resistenza, per il risorgimento stravolgono la realtà, nonostante la verità sia palese, a sinistra ci si ostina a negare l'evidenza.
Gli assurdi attacchi di Povia a Garibaldi, scrive Antonio Lerra il 27 agosto 2017 su "La Repubblica". «È una vicenda che è stata poco discussa e poco meditata», caratterizzata, come mai in precedenza, «da grande pressione» ed ora da «approfondire». È quanto sottolineato, in una recente intervista, dal presidente del consiglio regionale della Basilicata, Franco Mollica, a spiegazione dell’approvazione, con la sua astensione, il 7 marzo scorso, dell’ormai ben nota mozione volta all’istituzione della giornata della memoria per «le vittime dell’Unità d’Italia», presentata dal M5s in tutti i consigli regionali del Mezzogiorno d’Italia e da tempo al centro di ampie discussioni, con diffuse e crescenti “prese di distanza”. Si tratta, infatti, di un’operazione politico-culturale non solo di «chiaro indirizzo neoborbonico e di profilo antiunitario», ma che, facendo leva sul disinvolto «uso politico della memoria» - come ha già qui puntualmente evidenziato Aurelio Musi - giunge alla «falsificazione della storia», che – è bene ricordarlo – essendo una scienza richiede specifiche, rigorose, competenze e professionalità, delle quali dovrebbero tener conto, ancor più in una fase come l’attuale, le rappresentanze istituzionali, ai vari livelli. Tanto più in una regione, quale la Basilicata, intensamente impegnata, anche con qualificati progetti, in direzione dell’esercizio, per il 2019, della funzione di baricentro culturale europeo. Ma, dove persistono, in parallelo, reti di “iniziative pseudoculturali”, caratterizzate da disinvolti rapporti con la storia, in particolare rispetto al processo di “costruzione” dell’Unità d’Italia. Si pensi soltanto ad iniziative spettacolari come “la storia bandita”, imperniata sui briganti quali “alfieri della libertà”, quest’anno “impreziosita” dall’intervento del giornalista Pino Aprile, e, da ultimo, ai concerti del cantante Povia addirittura “conditi” da assurdi “attacchi” a Garibaldi ed all’Unità d’Italia (!). E ciò non lontano dal capoluogo Potenza, città medaglia d’oro del Risorgimento (ove l’Unità d’Italia fu proclamata ancor prima che Garibaldi mettesse piede in Calabria), ed in una regione, la Basilicata, che partecipò attivamente e in prima fila, nell’insieme delle sue espressioni sociali e professionali, lungo i vari snodi del Risorgimento, dalla ventata repubblicana del 1799 al 1860-61, solido e compartecipato punto di approdo del Mezzogiorno d’Italia nello Stato Unitario. L’Unità d’Italia è un “prezioso bene comune”, da salvaguardare e valorizzare, tanto più da Sud ed in una fase, quale l’attuale, caratterizzata, sul piano politico- istituzionale, da fragilità di ancoraggi ideali e programmatici. In considerazione di tutto ciò, la Deputazione Lucana di Storia Patria ha nei giorni scorsi accompagnato la richiesta di “riconsiderazione” della citata mozione approvata dal consiglio regionale con l’annuncio di una serie di iniziative scientifico-culturali, in sede e sul territorio, dal titolo Incontri con la Storia. Il Mezzogiorno e la Basilicata per l’Unità d’Italia.
L’autore è docente ordinario di Storia moderna presso l’università della Basilicata.
Povia: “L’Unità d’Italia? Una storia da allocchi!”, scrive il 15 giugno 2015 Rosanna Gaviglia su "Vesuvio On Line". Il coraggio di denunciare, la voglia di far aprire gli occhi contro una dittatura finanziaria europea e mondiale travestita da democrazia con la speranza che un giorno tutti possano prendere coscienza di come gira il mondo e ribellarsi: è per questo che il noto cantautore Giuseppe Povia ha deciso di scrivere una canzone-denuncia intitolata “Chi comanda il mondo?”. Rimanendo in tema, nelle ultime ore lo stesso Povia ha pubblicato un video in cui ha sintetizzato la storia del Regno delle Due Sicilie, della Spedizione dei Mille e della colonizzazione che man mano ha distrutto sempre più i paesi del Sud privilegiando quelli del Nord Europa: “Il Regno delle Due Sicilie era quello che comprendeva tutto il meridione ed era quel regno che dal 1130 fino al 1060-61 dominava quella che poi hanno chiamato Italia. Il Regno delle Due Sicilie è stato conquistato perché la solita finanzia finanziò le varie famiglie che erano già ricche e che a loro volta finanziarono i vari generali che rimasero a guardare quando arrivò Garibaldi. Tutt’ora ci fanno credere che con sole mille persone quest’ultimo avrebbe potuto sconfiggere milioni di persone che abitavano nel Regno. Una storia da allocchi. Dopo la conquista si formò l’Unità d’Italia e cominciò la deindustrializzazione del Sud Italia a favore del Nord Italia. Da allora il meridione è sempre più povero e lasciato a sè stesso”. Alla fine del video, Povia invita tutti a riflettere ed iniziare insieme una rivoluzione culturale: “Diffondere il brano “Chi comanda il mondo?” contro questa distinzione razzista che c’è tra Nord e Sud”.
A Ciano e Povia la cittadinanza onoraria di Casalduni, scrive Antonio Ciano il 18 luglio 2016. Il Comune di Casalduni il 23 di luglio, ha deciso di assegnare la Cittadinanza Onoraria, al sottoscritto, umile ricercatore storico e al Cantante Povia. Onorato per l’attenzione del Comune in questione. Venti anni fa scrissi il libro” I Savoia e il massacro del Sud” nel quale ho descritto l’infame atto avvenuto a Pontelandolfo e Casalduni, in Provincia di Benevento. Il 14 agosto del 1861 quando i bersaglieri del Colonnello Negri e del Maggiore Melegari, su ordine del generale Cialdini incendiarono i due paesi; uccidendo chiunque trovarono sulla loro strada. Violentarono donne, le legarono e le violentarono davanti ai loro genitori. Per Pontelandolfo e Casalduni, ho scritto pagine belle; pagine di popolazioni eroiche che combattevano contro i nostri invasori. I nostri partigiani, chiamati Briganti dai piemontesi. li ho chiamati Partigiani, come i partigiani del Nord che avevano cacciato quella feccia immonda ( I Savoia) dall’Italia. I primi e i secondi combatterono contro il nemico Comune: il regno dei Savoia, fatto passare dai vincitori per costruttori dell’Italia unita. I morti superano il milione. I nostri padri costretti ad una emigrazione biblica che nemmeno gli ebrei avevano subito; le nostre ricchezze derubate, le nostre banche asservite a quelle del Nord, le nostre infrastrutture inesistenti. Molti di Noi, ricercatori storici, hanno dovuto sostituirsi agli storici di Regime, ancora oggi ancorati a quella storia edulcorata del copia ed incolla, tramandata ai posteri dalle varie massonerie e dal Potere. Quel libro mi è costato una denuncia, denigrazioni degli stolti, 20 anni fa eravamo pochi assertori di quella storia negata dai più. Eravamo come quattro amici al bar, ma non ci siamo arresi. Come i briganti del 1800, siamo andati a spulciare gli archivi, siamo andati nei tribunali di Latina e di Roma a difendere la libertà di stampa, abbiamo dato al mondo i crimini commessi dai Savoia. Qualcuno dei nostri denigratori è andato all’Archivio di Via Lepanto di Roma, ma non ha divulgato le nefandezze commesse dalla truppaglia piemontese. Oggi, Pontelandolfo e Casalduni, sono note in tutta Italia, molti comuni stanno intestando strade e piazze a chi ha subito danni e incendi, a ragazzi uccisi, impiccati, considerati Briganti. Noi stiamo frequentando archivi secretati per anni, parliamo di città incendiate. Ne abbiamo trovate oltre un centinaio. Solo nell’Ascolano e nel Teramano. Il generale Pinelli ne ha incendiate 36. Nel ringraziare il Sindaco di Casalduni dott. Pasquale Iacovella, il Presidente della Pro loco, Nicola Bove per l’onore attribuito al sottoscritto e al cantante Povia, vorrei ringraziare anche Pino Aprile, Lorenzo del Boca e Fernando Riccardi per la loro presenza, come ringrazio tutti gli altri invitati.
L'Anpi non vuole il concerto e il sindaco nega il patrocinio, Povia: "Questa è mafia". Bufera sul concerto che il cantante dovrebbe tenere alla parrocchia di San Lorenzo Martire a Trezzano sul Naviglio il prossimo 23 settembre. Il Comune ha accolto l'appello dell'Anpi e ha negato il patrocinio, ma il cantante non ci sta: "Questa è mafia e dittatura", scrive TODAY il 26 agosto 2017. Il Comune di Trezzano sul Naviglio nega il patrocinio dell'amministrazione al concerto di Povia previsto per il prossimo 23 settembre nella parrocchia di San Lorenzo Martire e il cantante non la prende bene. Nei giorni scorsi, il presidente dell'Anpi della provincia di Milano aveva invitato il Comune "a dissociarsi in qualsiasi modo dall'evento", auspicando "un ripensamento da parte del parroco". Per l'Anpi, Povia "rappresenta una figura profondamente divisiva su molteplici temi tra i quali l'accoglienza, la solidarietà, l'unità del nostro Paese e le problematiche relative alle vaccinazioni".
Un appello che è stato accolto dal sindaco di Trezzano, Fabio Bottero, che su Facebook ha annunciato: "Il Comune ha deciso di non concedere il patrocinio all’evento organizzato il 23 settembre dalla parrocchia: non ci sarà quindi alcun sostegno. Ringrazio l’Anpi per avermi dato informazioni sul signor Giuseppe Povia: non rientrava nei miei cantanti di riferimento in passato e sinceramente pensavo che ora si fosse ritirato – ha spiegato – Ho parlato personalmente con il parroco spiegando che l’amministrazione non sostiene questo concerto e non condivide le posizioni espresse pubblicamente dal cantautore. Di certo non intendo chiedere e non ho chiesto alla parrocchia di non tenere l’evento”. Immediata la replica di Povia all'Anpi: "Comunisti dell’Anpi vogliono annullarmi il concerto del 23 settembre, minacciando e insultando la chiesa! Questa è mafia e dittatura! Ascoltate con le vostre orecchie, poi diffondete e aiutatemi a smascherarli! Tanto lavorerò ancora per poco. È bello essere libero ma è costoso, faticoso e spesso come oggi, mi rende triste. Cari “partigiani”, i neo-nazi(comun)isti, siete voi”.
Povia, insulti all'Anpi per il concerto annullato: «Minorati mentali». Il cantautore, dopo che è stata cancellata la data del 23 settembre a Trezzano sul Naviglio, su Facebook posta messaggi ingiuriosi. E dopo il concerto a Latronico il presidente dell'Anpi Potenza invita le autorità locali a prendere le distanze, scrive il 3 settembre 2017 "Il Corriere della Sera". Continua la polemica fra il cantautore Giuseppe Povia, con posizioni vicine all'estrema destra e alla Lega, e l'Anpi. Dopo la denuncia del presidente dell'Anpi di Milano, Roberto Cenati, che aveva accusato l'artista di essere vicino ai neofascisti, il Comune di Trezzano sul Naviglio ha deciso di annullare il concerto in programma il 23 settembre. Il cantante sta proseguendo il suo tour in altri Comuni italiani - gli ultimi a Latronico (Pz) e Fontanelle (Av) - e su Facebook posta le foto dei suoi concerti, con espressioni insultanti nei confronti di chi lo ha osteggiato: «quei minorati mentali-web dei partigiani Mini-Mind dell'Anpi o Arci (mi meraviglio che ancora gli diano voce)», «i mini-mind dell'Anpi o dell'Arci che fanno di tutto per boicottarmi concerti e ci riescono. Poi si indignano se li chiamo minorati mentali-web. Sono dittatori». Dopo la pubblicazione degli insulti su Facebook, il presidente dell'Anpi di Potenza, Gabriele Nicodemo, ha evidenziato che le frasi, «nel qualificare l'estensore, si commentano da sole e non occorre aggiungere altro». Tuttavia, «è mio dovere, di cittadino e di democratico, prima che statutario - ha aggiunto Nicodemo - non solo difendere la rispettabilità dell'Associazione che ho l'onore di rappresentare a livello provinciale, ma di ricordare quotidianamente i valori ed i principi fissati nella nostra Carta costituzionale che certamente non sono quelli espressi dal cantante: principi e valori che tutti, Povia compreso, siamo chiamati a rispettare». Sulla vicenda il rappresentante dell'Associazione dei partigiani ha inviato anche una nota al parroco della parrocchia S. Egidio Abate di Latronico, al Comitato festeggiamenti «S. Egidio», al sindaco di Latronico, e al Vescovo di Tursi-Lagonegro, rivolgendo loro un invito «a prendere le distanze dalle dichiarazioni del cantante» e «suggerendo di voler raccomandare agli organizzatori delle feste civili in occasioni di ricorrenze religiose, maggiore cautela nella scelta di cantanti, gruppi musicali ovvero artisti vari dello spettacolo, che siano eticamente e democraticamente coerenti con i suddetti eventi».
Ma anche a sinistra si denota il diverso.
Fiorella Mannoia e l'orgoglio meridionale sul palco: "Il Sud derubato e saccheggiato", scrive il 29/03/2015 Salvatore Remorgida su "Infooggi". "Prima o poi la verità viene fuori". E così, fra un brano e l'altro della sua esibizione che fonde musica e parole in armonie, Fiorella Mannoia ha voluto introdurre un momento di condivisione con i suoi fans, in quel di Catanzaro, di un pensiero. Un pensiero che stride con la storia letta ed insegnata ai più, verità ribelle di un orgoglio meridionale represso ma mai sopito, che la Mannoia ha voluto raccontare alla sua platea. Il riferimento corre a 150 e qualche in più anni fa, epoca in cui il popolo d'Italia, dall'Alpe in Sicilia, ridente tutto si fondeva in un'unica speme. O forse rideva perlopiù qualcuno, mentre altri vedevano soffocata la propria indipendenza, secondo la dichiarazione d'amore al Sud che la cantante nata a Roma rivolge ad una platea che più meridionale non si può. Facendo riferimento a Terroni, libro di Pino Aprile che racconta ciò che non sarebbe stato raccontato sull'unificazione del Regno d'Italia, Fiorella Mannoia si esprime così: "Ho scoperto da questo libro che il nostro Sud non era un Sud povero e straccione in attesa di essere liberato, unificato, non lo era per niente". Anni di storia studiata sui banchi di scuola, di eterne e chissà quanto arcaiche questioni meridionali, non risponderebbero al vero, per quanto è vero che la storia la scrivono i vincitori sui vinti. E vinto fu il Regno delle Due Sicilie, avamposto mediterraneo d'Europa di eccellenze e prosperità: "il nostro Sud era ricco, moderno più degli altri Paesi europei e di fatto è stato saccheggiato, depresso, derubato", continua la Mannoia. Che poi volge lo sguardo verso una visione del mondo più ampia, intercettando quel filo conduttore comune, intriso della sofferenza recondita di chi è abituato ad essere sempre considerato Sud di qualche altro Nord, palla al piede di una locomotiva che se non corre è sempre per colpa dell'ennesimo meridione, fratello minore che non vuol crescere. "Il nostro Sud", continua Fiorella, "ha diviso lo stesso destino che ha il resto del Sud del mondo: e i briganti non erano dei delinquenti ma erano dei resistenti. Io tutto questo l'ho scoperto in questo libro e poi lo sguardo si é allargato a tutto il Sud del mondo che purtroppo ha lo stesso destino, il latinoamericano e quale continente, il continente più depresso, il più derubato, il più saccheggiato, il continente africano. Allora ho registrato questo disco e c'è messo dentro un po di tutto". E ha dedicato cinquanta secondi della propria popolarità per lanciare il messaggio alla coscienza d'ogni meridionale che, svilito e e svuotato nell'anima, s'accontenta d'esser considerato una questione. In effetti, innegabile è il fermento che negli ambienti culturali meridionali sta via via creandosi su una revisione della storia non scritta (ma testimoniata) della nascita del Regno d'Italia, progressivamente considerata da tali ambienti, non come una vera e propria unificazione bensì come un'occupazione piemontese. E quanto quest'idea stia scatenando di pari passo un orgoglio identitario forte ma comunque costruttivo, lo testimonia la nascita di MO!, lista civica guidata dal giornalista napoletano Marco Esposito che correrà alle prossime regionali campane, e di altri numerosi circoli culturali che mirano alla riscoperta di ciò che andrebbe perso sul regno borbonico. Da qui a posizioni anche più estreme di indipendentismo, ma sempre con un tema portante: la rinascita del Sud attraverso la forza che il Sud può trarre da sè stesso. Forza che nasce dalla consapevolezza d'esser stati magni, culla dell'ingegno e della cultura classica della Magna Grecia, grandezza che s'è tramandata fino ad un secolo fa, neppure troppo lontano. Quando il Regno delle Due Sicilie era lo Stato più industrializzato dello stivale, con la seconda flotta mercantile europea seconda solo a quella inglese e la terza flotta militare, il più basso tasso di mortalità infantile d'Italia, uno Stato sociale che vantava le prime legislazioni italiane contro la tratta degli schiavi e contro il vassallaggio e, Napoli, si fregiava di un Albergo per i poveri. Il tutto nello Stato pre-unificazione primo per ricchezza (445,2 milioni di oro nelle Due Sicilie, su un totale di 670 milioni) e per progresso tecnologico e industriale, in cui punte di diamante erano la prima ferrovia italica Napoli-Portici, il primo Osservatorio Sismologico del mondo, ed il complesso metalmeccanico calabrese di Mongiana, rinomato in tutta Europa. Grandezza svilita e denigrata da luoghi comuni spesso generalizzati impropriamente, perché per ogni mafioso che non fa onore a questa terra ci sono, invece, altri mille padri di famiglia che compiono il gesto eroico di crescere i propri figli in una landa abbandonata, ora e non prima, a sè stessa. Quando l'Italia si accorgerà che il Sud non è solo un'annosa questione ma una risorsa, potrà, solo allora, scoprirne la sua immensa ricchezza.
Tremonti: “Vogliono che l’Italia faccia la fine che i piemontesi hanno fatto fare alle Due Sicilie”, scrive il 6 febbraio 2017 "Vesuvio On Line". “L’Italia colonizzata come il Regno delle Due Sicilie”. E’ così che Giulio Tremonti spiega l’attuale situazione economica in Europa, ed i giochi di potere dell’UE: un’Europa germanocentrica, con l’Italia fanalino di coda. Questa, la tesi di fondo degli euroscettici, tra cui appunto Tremonti. L’ex ministro dell’Economia durante i governi Berlusconi, ha parlato con Lucia Annunziata durante la trasmissione In 1/2 ora. “Sta avvenendo la schiavizzazione delle banche – spiega Tremonti – vogliono farci fare la fine che i piemontesi hanno fatto fare al Regno delle Due Sicilie. Si è aperta una frase sovranista. Non vuol dire chiudersi, ma difendere ciò che hai. Lo stanno facendo USA e Germania, dobbiamo farlo anche noi. Non possiamo continuare a farci portare via la nostra roba. Non possiamo fare la fine del non-povero Regno delle Due Sicilie”.
Giornata Memoria vittime Unità d’Italia, M5S: “No censure e strumentalizzazioni”, scrive Marcello Greco il 12 agosto 2017 su "Tag press". Continua la polemica intorno alla Giornata della Memoria delle Vittime meridionali dell’Unità d’Italia. M5S: “Le censure ricordano periodi fin troppo bui della nostra storia”. La Regione Puglia, nello scorso luglio, ha istituito la Giornata della Memoria delle Vittime meridionali dell’Unità d’Italia, scelta come data per la commemorazione il 13 febbraio, anniversario della fine dell’assedio di Gaeta (avvenuto nel 1861). L’iniziativa ha ricevuto un consenso trasversale ed ampio in Consiglio regionale e si allinea con una nuova coscienza della storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, dovuta all’emergere di documenti storici che portano a rileggere i fatti sotto una luce diversa. Questa scelta però è stata, però, fortemente osteggiata da più parti. Si può comprendere come la questione sia molto divisiva, pur essendo accaduta nel diciannovesimo secolo, poiché va ad intaccare gli stessi fondamenti della storia d’Italia e della nazione italiana può portare al ribaltamento della reputazione di alcuni personaggi storici i cui nomi sono sulle principali strade e piazze d’Italia, oggi considerati eroi ma che potrebbero passare ad essere considerati criminali di guerra.
Riccardo Galli, su Blitz Quotidiano, definisce “sudiste” le vittime di quella carneficina e parla di “delirio storico e vergogna politica”, frutto di “ignoranza storica” e finalizzata a ottenere qualche voto in più. Alessandro Laterza, su Corriere, parla di disinformazione e accosta la “giornata della memoria sudista” (così definita in senso dispregiativo) al revisionismo storico di tipo fascista promosso da alcuni politici in anni recenti. L’istituzione Giornata Memoria vittime Unità d’Italia, secondo Laterza, criminalizza la fondazione della nostra nazione. Altri giornalisti gli fanno eco, parlando di ricerca del consenso, neoborbonismo, populismo, parola quest’ultima molto in voga di questi tempi. Eppure leggere e rileggere i fatti storici, verificare e raccontare quello che effettivamente accadde durante il Risorgimento, da cui il sud uscì con le ossa rotte, depredato, impoverito, arretrato e messo in mano alle mafie, farebbe bene a tutti, senza aver paura di perdere le fondamenta della nazione e senza ricorrere a inutili campanilismi. Non è nascondendo la storia e dando vita ad una nuova forma di negazionismo che si difende la nazione. Alle critiche verso l’iniziativa della Regione Puglia ed in particolare ad una petizione lanciata per abolire questa appena nata giornata commemorativa, ha replicato il Movimento 5 Stelle pugliese. “Abbiamo seguito con immenso interesse – si legge in una nota stampa – gli interventi di questo mese sulla “Giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia”. Un dibattito quasi sempre corretto nei toni nonostante i punti di vista divergenti. Tuttavia oggi dispiace dover leggere in una nota ufficiale dei promotori di una petizione contro questa Giornata, frasi fuorvianti come “a cura di movimenti neoborbonici appoggiati dal Movimento 5 Stelle” pronunciate dagli stessi che hanno organizzato una conferenza stampa chiedendo, giustamente, che non si facesse un uso strumentale della storia.” “L’impegno contenuto nella nostra mozione – prosegue – era già inserito nel programma elettorale M5S delle elezioni regionali 2015, che è stato supportato da oltre 310.000 persone; la stessa mozione è stata poi appoggiata da quasi tutto il Consiglio Regionale e non solo dal M5S, ed aveva ed ha ancora come principale obiettivo l’apertura di un dibattito su un argomento al quale fino ad oggi nessuno aveva dato spazio e nel quale ognuno è libero di dare il proprio contributo. E l’obiettivo è stato certamente raggiunto. “Vorremmo dunque invitare tutti, soprattutto coloro che hanno compiti pedagogici nei confronti delle future generazioni, a non temere il dialogo ed il confronto che sono il sale della democrazia; le censure, quelle sí, ricordano davvero periodi fin troppo bui della nostra storia. È una problematica – spiegano i pentastellati – che riscontriamo purtroppo su tutta una serie di argomenti: è come se in Italia esistesse un gruppo di detentori di verità assolute che non solo non intendono mettere in discussione alcune tematiche, il che sarebbe anche legittimo, ma pretendono che non se ne parli neppure.
A questo punto si rivolgono direttamente agli oppositori della giornata commemorativa: “Credete fosse davvero questa quella democrazia per la quale i nostri antenati, di cui parlate in convegni e nelle vostre aule universitarie, si sono battuti?” “In ultimo non si può non notare – concludono – come sia un po’ imbarazzante la richiesta di finanziamenti al presidente della Regione perpetrata da una parte di questa scarna élite contraria a questa Giornata della Memoria. Dunque l’alternativa a una Giornata della Memoria a costo zero che vuole dare dignità a tutte le voci sarebbe la richiesta di finanziamento di una visione unilaterale del racconto storico con i soldi di tutti?
D’altro canto desideriamo ringraziare di cuore tutti coloro, giornalisti, professionisti, docenti e semplici cittadini che si stanno interessando e che stanno intervenendo, contribuendo a dare finalmente il giusto spazio ad un dibattito talmente importante e delicato.” A rileggere con spirito critico la storia della Questione meridionale e del Risorgimento non sono stati un manipolo di politici mossi dall’intento di ridare lustro a qualche ideologia politica, ma persone dal grosso spessore culturale a cui di certo non si può rimproverare di non conoscere la storia. Vogliamo ricordare anche la nostra conterranea Rina Durante, scrittrice e giornalista scomparsa nel 2004, che ha avuto il merito di aver recuperato testimonianze storiche delle tradizioni salentine, del Tarantismo, della cultura locale, dei disagi sociali delle classi e degli individui più poveri.
Unità d’Italia: un’altra storia. "Il testamento di Don Liborio", volume pubblicato da Edizioni Giuseppe Laterza, possiede una carica emotiva di non poco conto. L’autore Umberto Rey propone un testo che insinua dubbi e che provoca profonde crepe nel tradizionale nozionismo che intere generazioni hanno studiato sui libri scolastici, scrive Antonio Longo su " Puglia in" il 13 marzo 2017. Un inconfessabile segreto tenuto celato per centocinquant’anni. Un “dietro le quinte” della storiografia ufficiale in grado di destabilizzare equilibri ritenuti ormai radicati e consolidati. Che la storia venga scritta dai vincitori appare un principio assodato e poco contestabile. Che i vinti si tramutino in ombre sfuggenti e poco definite è altrettanto evidente. Che fatti ed eventi legati all’Unità d’Italia appaiano in parte controversi e di non facile lettura è dimostrato dalle differenti e non univoche interpretazioni fornite da studiosi ed analisti del tempo che fu. “Il testamento di Don Liborio”, volume pubblicato da Edizioni Giuseppe Laterza, possiede una carica emotiva di non poco conto. L’autore Umberto Rey propone un testo che insinua dubbi e che provoca profonde crepe nel tradizionale nozionismo che intere generazioni hanno studiato sui libri scolastici. I contenuti dell’opera, che fungeranno da canovaccio per la messa in scena dell’omonima pièce teatrale il cui debutto è in programma il 18 e 19 marzo al Teatro Angioino di Mola di Bari con lo stesso Rey nel doppio ruolo di regista ed attore, propongono al lettore una verità alternativa rispetto a quella tramandata dalla storiografia. Un sogno, anzi un incubo, che al risveglio lascia un senso di inquietudine, amarezza, sconcerto. Corre l’anno 1866 e proprio il giorno di Natale a Patù, provincia di Lecce, si svolge un, per certi versi paradossale, incontro tra Fulvio Bedin famoso scrittore, storico e docente universitario torinese di metà ‘800, di fama internazionale, e l’ex Ministro degli Interni e della Guerra del Regno delle due Sicilie, ed in futuro deputato del neonato Regno d’Italia, il politico professor Liborio Romano, alla presenza del notaio Cosimo Margiotta. Un sempre più coinvolgente pathos caratterizza l’incontro tra i tre gentiluomini. Per Don Liborio, idealista e attanagliato dalla rabbia e dallo sconforto per essere stato strumentalizzato durante gli eventi che portarono all’unità dell’italica penisola, si tratta di un vero e proprio sfogo catartico, in grado di liberarlo, seppur in parte, dalle angosce e dai fantasmi che lo tormentano. Un testamento storico, politico, morale in cui si intrecciano giochi di potere, intrighi internazionali, violenze e morte, inganni, promesse mai mantenute. Manovre tenute segrete per ridisegnare gli equilibri geopolitici nel Vecchio Continente. E mentre il notaio prova a tutti i costi a gettare acqua sul fuoco per ridimensionare le sconvolgenti confessioni dell’amico, Bedin stenta a credere alle proprie orecchie e pian piano diventa autentico pubblico ministero che cerca di scavare più a fondo possibile per giungere alla verità. Una verità certamente “scomoda” ma attraverso cui si possono meglio decifrare fatti, personaggi, scenari che, ancora ai nostri giorni, pongono in netta inferiorità sociale ed economica il Sud Italia rispetto al resto del Paese. In quell’ormai lontano, solo cronologicamente parlando, 1860 si trattò di vera liberazione oppure di vera e propria invasione? Una domanda che merita una risposta. Certa, senza se e senza ma. A prescindere dai personali ideali e dai convincimenti politici di ogni individuo.
La «conquista» del sud e il vittimismo dannoso. L’istituzione da parte della Regione Puglia di una «giornata della memoria» per i morti civili negli anni della repressione del brigantaggio, scrive Giovanni Belardelli il 8 agosto 2017 sul nordista ""Il Corriere della Sera". Sta facendo discutere la mozione approvata dal Consiglio regionale della Puglia in cui si chiede l’istituzione di una «giornata della memoria» per ricordare l’uccisione di civili di cui si rese responsabile l’esercito italiano negli anni della repressione del brigantaggio (ne ha scritto Alessandro Laterza sul Corriere del 6 agosto). Se fosse ispirata solo dalla volontà di richiamare l’attenzione su un aspetto drammatico della nascita dello Stato italiano, la mozione potrebbe avere anche un fondamento. Ciò che la rende assurda è però l’intenzione filoborbonica, evidenziata dalla scelta della data: il 13 febbraio perché in quel giorno del 1861 si arrese Gaeta, ultimo bastione dell’ex re delle Due Sicilie. In realtà, dietro l’iniziativa dei consiglieri regionali pugliesi si intravvede la ripresa di un’idea che ha attraversato l’intera nostra storia unitaria: quella secondo la quale per il Sud il Risorgimento consistette in null’ altro che in una conquista militare, seguita da un assoggettamento politico e da uno sfruttamento economico di tipo coloniale. I mali del Mezzogiorno risalirebbero appunto a questo dato originario e avrebbero un solo colpevole: i «conquistatori» piemontesi e in generale il resto del Paese. È una tesi infondata fin dalla sua premessa che vede un Meridione il cui promettente sviluppo economico sarebbe stato bloccato dalla brutale conquista settentrionale. Osservò proprio uno storico nato nel Mezzogiorno, Luciano Cafagna, che al momento dell’unificazione il Piemonte e la Lombardia avevano tassi di analfabetismo poco oltre il 40 per cento, mentre tutte le regioni del Sud si attestavano su livelli extraeuropei, fra l’80 e il 90 per cento. E uno dei maggiori storici italiani del secolo scorso, il siciliano Rosario Romeo, pur non negando affatto i caratteri di imposizione autoritaria che l’unificazione ebbe per un’ampia parte della società meridionale, aggiungeva però che si trattava di un esito storicamente positivo se si voleva evitare che il Mezzogiorno scivolasse nell’area del sottosviluppo mediterraneo. Ma una volta richiamata la poca fondatezza delle tesi di questo meridionalismo antirisorgimentale, ci si deve pur interrogare sulle ragioni per le quali esse sembrano aver ottenuto in questi ultimi tempi una nuova e ampia diffusione. Una diffusione testimoniata dal gran successo di libri come «Terroni» del giornalista Pino Aprile ma anche, appunto, da iniziative politiche locali come quella pugliese o come l’analoga mozione approvata mesi fa dal Consiglio regionale della Basilicata (mentre mozioni del genere sono state presentate in quasi tutte le altre regioni meridionali). Probabilmente a determinare il successo attuale di queste posizioni sta il fatto che esse sono del tutto in sintonia con quella propensione dietrologica e complottista cui la Rete dà un enorme spazio. Non a caso, praticamente dietro ogni mozione sulla giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia troviamo come promotore un esponente dei Cinquestelle, cioè della forza politica che ha fatto del complottismo e dell’accoglimento di tutte le cosiddette «verità alternative» — dalle scie chimiche degli aerei all’inesistenza dello sbarco sulla Luna — uno dei suoi cavalli di battaglia. Il motivo principale è però un altro e ha a che fare con il vittimismo consolatorio implicito in una spiegazione che attribuisce l’origine dei mali del Sud alla prepotenza o allo sfruttamento del Nord. È un vittimismo che dura da quando è nato lo Stato italiano: già Gaetano Salvemini ricordava, oltre un secolo fa, come un elemento preponderante nella percezione che i meridionali avevano del Risorgimento fosse il «sordo rancore verso quelli del Nord, una coscienza indeterminata e profonda di esser vittime della loro rapacità e prepotenza». È sconcertante che una parte importante della società meridionale, di certo il suo ceto politico presente nei consigli regionali, di fronte ai tanti problemi irrisolti del Mezzogiorno sia ancora ferma a questa posizione vittimistica, ritenuta forse utile a giustificare la più antica delle (false) soluzioni: la richiesta allo Stato «conquistatore» di politiche risarcitorie basate sull’erogazione di denaro pubblico.
Giorno vittime sudiste unità d’Italia: delirio storico e vergogna politica, si accanisce Riccardo Galli il 7 agosto 2017 su "Blitz quotidiano". Giorno vittime sudiste unità d’Italia, una giornata per commemorare e onorare “i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana”. Questa giornata della memoria è stata chiesta con apposita mozione dal Consiglio Regionale della Puglia. Con l’assenso del presidente Michele Emiliano, l’entusiastico appoggio di M5S e il voto di tutte le forze politiche in Consiglio, sparuti e individuali voti contrari. Analoghe iniziative sono in cantiere in altre aule e corridoi e pensatoi di Regioni meridionali. Scrive Alessandro Laterza sul Corriere della Sera che “questa iniziativa indica con molta chiarezza il drammatico degrado in cui versa la politica italiana”. Non esagera di un millimetro: la giornata in memoria delle vittime meridionali dell’Unità d’Italia è insieme un delirio storico e una vergogna politica. Le giornate della memoria attengono a fatti storici quali l’Olocausto su scala mondiale o su scala nazionale la pulizia etnica tramite foibe o la decimazione di un’etnia come gli armeni. Chiedere una giornata della memoria dei caduti meridionali sotto il piombo degli unificatori d’Italia è equiparare la formazione dello Stato unitario a crimine contro l’umanità. Quindi letteralmente i consiglieri regionali che hanno votato quella mozione non sanno di che parlano, la loro ignoranza della storia è strutturale. Anzi, della storia se ne fregano. La disprezzano come ogni cosa che costi la fatica di essere studiata e non prometta immediata remunerazione, fosse pure mancetta, di consenso. Non sanno quello che dicono, ma sanno quello che fanno: titillano, eccitano “il localismo livoroso e miope chi ci affligge a tutte le latitudini (sempre Laterza)”. E questo dà l’esatta misura dello spessore culturale e civile di un ceto politico di cui Michele Emiliano è rappresentante di spicco. Nella mozione poi la autentica perla della data indicata per la giornata della memoria dei morti sudisti di unità d’Italia: il 13 febbraio. Cioè il giorno in cui cadde la fortezza di Gaeta e fu sconfitto l’esercito borbonico. Quindi, se le parole hanno un senso, commemorare quella che si ritiene una sconfitta ad opera di un esercito invasore e straniero. Straniere le truppe che sconfissero i borbonici? C’erano circa 25 mila garibaldini in gran parte meridionali. Domanda ancora Laterza “esecrabile collaborazionismo di massa’”. Quindi la nazione meridionale oppressa e invasa da esercito straniero che commette crimini contro l’umanità viene secondo la storia dei “mozionisti” rappresentata dai briganti. E come si ascolta con chiarezza nell’intervento in aula con cui M5S ha appoggiato la mozione vi era un’età dell’oro della gioventù e dell’orgoglio meridionali spezzata e infranta dall’occupazione sabauda. Delirio, autentico delirio storico. Ma in fondo ormai l’incompetenza tronfia che si fa opinione dominante e addirittura scienza rivelata è quasi la norma. E anche la vergogna politica e civile di un ceto politico opportunista che ammicca e scodinzola di fronte a qualunque presunta occasione di farse un selfie con la pubblica opinione, anche questa indecente sconcezza è la regola o quasi.
La ciliegina è posta da un editore pugliese che non si batte per la causa meridionale, che scrive su il Corriere della Sera del 06 agosto 2017, pagina 26.
Non ha senso la giornata della memoria sudista, scrive l'editore Alessandro Laterza. Il 4 luglio 2017 il consiglio regionale della Puglia ha preso in esame una mozione presentata dal M5S intitolata «Istituzione di una giornata della memoria atta a commemorare i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana». La mozione, approvata da tutte le forze politiche con pochi voti contrari e con il pieno assenso del governatore Michele Emiliano, impegna il governo regionale «a indicare il 13 febbraio come giornata ufficiale in cui si possano commemorare i meridionali che perirono in occasione dell’unità nonché i relativi paesi rasi al suolo»; «ad avviare, in occasione di suddetta giornata della memoria, tutte le iniziative di propria competenza al fine di promuovere convegni ed eventi atti a rammentare i fatti in oggetto, coinvolgendo gli istituti scolastici di ogni ordine e grado». Questa iniziativa, promossa — pare — anche in altre regioni meridionali, indica con molta chiarezza il drammatico degrado in cui versa la politica italiana. Non entro nei dettagli su cosa sia stato il brigantaggio e la repressione del brigantaggio nel drammatico decennio postunitario. Durante il quale — secondo una stima ragionata — sarebbero periti circa 10.000 briganti; circa 5.000 militari e guardie nazionali (queste ultime rigorosamente meridionali); circa 5.000 civili (in gran parte ad opera delle bande brigantesche, pur con l’apporto delle 13 vittime accertate nella durissima rappresaglia dell’esercito regio a Casalduni e Pontelandolfo, nel Beneventano). Il grado di disinformazione è tale che possiamo risparmiarci la bibliografia, a partire dalla copiosa pamphlettistica «sudista» e «antisudista». Veniamo dunque ai temi politici.
1) Richiedere l’istituzione di una «giornata della memoria» — osservazione che devo a un giovane storico tarantino, Salvatore Romeo — significa mettere un capitolo controverso della storia d’Italia sullo stesso piano del genocidio nazista degli ebrei; o al più rinviare alla «giornata del ricordo» dedicata alle vittime delle foibe e della «pulizia etnica» che colpì gli italiani di Istria. In sintesi significa disegnare la formazione dello Stato unitario come il frutto di un crimine contro l’umanità. Questa ridefinizione simbolica dell’unificazione nazionale è concettualmente infondata e politicamente irresponsabile.
2) Fissare la «giornata della memoria» al 13 febbraio, vuol dire rimandare al giorno in cui — dopo oltre 100 giorni di durissimo assedio — cade la fortezza di Gaeta, ultimo baluardo della resistenza di Francesco II, re delle Due Sicilie. In altri termini, l’ingresso del Sud nella compagine nazionale è identificato come la sconfitta militare da parte di una potenza straniera alla quale è seguita la resistenza «nazionale» dei briganti all’invasore. Solo un dettaglio, in merito: nell’ultima battaglia campale perduta dall’esercito borbonico, sul Volturno, le truppe «straniere» erano costituite da 20/25.000 garibaldini (un po’ più dei Mille sbarcati a Marsala, o no?), nella stragrande maggioranza meridionali. C’eravamo anche noi del Sud, dunque, con le «forze d’invasione». Un’epidemia di esecrabile collaborazionismo?
3) A supporto della mozione pugliese vengono addotti argomenti che si stenta a credere siano stati impiegati, se non ci fosse la testimonianza di un resoconto stenografico. La capogruppo M5S, elogiando la pubblicistica antisabauda, afferma: «Quello che è successo è stato un risveglio della coscienza, assolutamente. Tantissimi giovani — e non solo giovani — hanno imparato a valorizzare il loro territorio e ad amarlo, perché qualcuno ha spiegato loro che non è vero che siamo fannulloni, non è vero che non ci piace fare nulla, non è vero che siamo stati sempre così. Siamo stati un popolo che ha motivi di essere orgoglioso della sua storia». Dunque — sembra di capire — giovani e meno giovani meridionali scoprono grazie al rivendicazionismo sudista di non essere da sempre fannulloni e sfaticati (dunque lo sono?) e di ritrovare il proprio orgoglio nel recuperare presunti fasti borbonici e, perché no? le eroiche figure dei capibanda Carmine Crocco e Ninco Nanco. Una visione culturale del Sud pasticciata e autoassolutoria, nel passato come nel presente.
Per concludere. Qualcuno ricorderà l’infortunio in cui incorse nel 2000 la Regione Lazio guidata da Francesco Storace. Con evidente nostalgia del «libro di stato» di fascistica memoria, si cercò di imporre nelle scuole il repertorio del «revisionismo» allora in voga: a partire dalla negazione della Resistenza come valore fondante della Costituzione repubblicana. Andò male. E tuttavia, sia pure nella edulcorata versione di una sagra neoborbonica mascherata da «giornata della memoria», il tema ritorna nella iniziativa del consiglio regionale pugliese. Modi ambigui e strumentali di proporre un «uso pubblico» della storia molto sui generis. Se le amministrazioni regionali ritengono utile approfondire o discutere questo o quel capitolo della storia nazionale, è forse più utile promuovere e finanziare dottorati di ricerca universitari per arricchire le nostre conoscenze; riordinare e digitalizzare gli archivi comunali per colmare le tante carenze informative; sollecitare e sostenere corsi di aggiornamento per docenti tenuti da storici qualificati. Contribuendo a rafforzare la cultura storica e critica dei cittadini. Risparmiandoci il localismo livoroso e miope che ci affligge a tutte le latitudini e ci ha regalato tra l’altro il «lungimirante» referendum autonomista lombardo-veneto.
LA STORIA INEDITA DEL FIGLIO DI GARIBALDI: QUELLO CHE LE CASE EDITRICI DEL SUD NON SCRIVONO.
Pino Aprile: ’’I peggiori libri contro il Sud li hanno pubblicati le case editrici meridionali’’, scrive Leandro Verde su "Il Metapontino" l'1.10.2014. Appuntamento culturale di notevole livello la settimana scorsa all’Itcg Manlio Capitolo di Tursi, dove c’è stato un incontro pubblico con Pino Aprile. Tanti gli studenti frequentanti gli ultimi due anni di corso che hanno riempito l’aula magna “N. Marrese” per ascoltare l’autore di Terroni e Il Sud Puzza. Accanto a lui c’erano il prof. Giovanni Lasalandra, in rappresentanza dell’associazione Non Solo 58 che ha organizzato l’evento, e il dirigente scolastico Lucia Lombardi. Al termine, abbiamo rivolto alcune domande al noto giornalista e scrittore che con i suoi libri sta risvegliando le coscienze e portando avanti una battaglia politica e culturale a favore del Sud.
D. Cosa ha il nostro Sud e cosa gli è stato sottratto in questi anni.
R. Il Sud ha tutto, ha veramente tutto per essere una terra ricca, felice, serena, e per lunghi periodi lo è stato davvero. Dopodiché, è discutibile il modo in cui è stata fatta l’Unità d’Italia, e che si arrivasse a questo non c’erano dubbi, come non c’è dubbio che debbano cadere tutte le frontiere in Europa e questa debba diventare un Paese unico. Come non c’è dubbio che sia un bene che sia caduto il muro di Berlino e che la Cina si sia aperta al mondo, perché le frontiere creano contrasti, scontri, la guerra. Sono la dichiarazione di diffidenza per un altro. Detto ciò, il modo in cui questa Unità è stata fatta, ha privato il Sud della sua storia e del suo futuro e ancora oggi la politica dello Stato italiano è una politica di rapina ai danni del Sud di denigrazione, di impoverimento in senso economico, culturale e demografico. Adesso i meridionali, in numero sempre più grande e con profondità sempre maggiore, acquisiscono consapevolezza di questo e si muovono per impedire che si continui, volendo recuperare non solo il nostro passato, la memoria di quello che volevano che dimenticassimo, e il diritto a costruirci un proprio futuro, non costruito, magari di plastica, portato da fuori e imposto. Dunque, non un futuro in quel senso minoritario, che assegna al Sud un ruolo subordinato. Non ci vogliamo stare più: è finita!
D. Quando c’è stata l’Unità d’Italia, dicono che il Sud era ricco e probabilmente il Nord di meno. Adesso è come se la clessidra si fosse invertita. Secondo lei in futuro ci sarà la possibilità di ripristinare quell’ equilibrio che è venuto meno negli ultimi anni?
R. Gli studi più seri, non quelli che vengono citati da chi vuole che il Sud resti subordinato, dicono tutti, e sono studi italiani e stranieri, che non c’era differenza tra Nord e Sud a quel tempo. E ciò non significa che fossero ricchi. Sia il Nord che il Sud a quel tempo, rispetto ad altri paesi come la Francia e la Gran Bretagna, erano indubbiamente più poveri. La differenza dov’era: la distribuzione di quella povertà, o ridotta ricchezza, chiamiamola come volete, di quel che c’era, mentre al nord produceva una colossale migrazione, il che vuol dire che per gli ultimi della terra c’erano poche possibilità, a parte quella di andarsene via, nel sud d’Italia c’erano dei volani sociali come gli usi civici, gli enti di assistenza delle potentissime congregazioni ecclesiastiche. Che erano molto ricche, secondo alcune stime avevano, se ricordo bene, da 1/4 a 1/3 della ricchezza, e però quelle aziende davano lavoro, assistenza: solo a Palermo ogni giorno 5mila persone mangiavano, si vestivano con questi centri, chiamiamola Caritas, perché era qualcosa del genere. Negli usi civici chi non aveva terra poteva lavorare terre non sue e tenersi il frutto del proprio lavoro, raccogliere legna e riscaldarsi, prendere funghi, verdure, ecc. non si arrivava a scendere l’ultimo gradino che ti porta a maledire la tua terra e ad andartene. Infatti l’emigrazione, sconosciuta al sud per millenni, è cominciata solo venti anni dopo l’unità d’Italia. Quando i meridionali si sono resi conto che non c’era nessuna speranza.
D. La soluzione di questo problema, dunque, è in chiave tutta politica o ci possono essere altri tipi di soluzioni?
R. Le soluzioni, le azioni, sono sempre politiche, in questo caso non c’è che una via: equità e reciprocità. E’ inutile girarci molto attorno, la questione meridionale ce l’abbiamo sotto i piedi, nel senso che se io voglio prendere l’autostrada non ce l’ho qui, se voglio prendere il treno, non l’alta velocità, non ce l’ho qui, se voglio prendere l’aereo non ce l’ho qui, non ho un “bip” qui. E siccome quello che è stato fatto nel resto d’Italia è stato fatto anche con i soldi miei di qui, mi chiedo perché sono stato escluso, perché il sud non ha le infrastrutture del nord, perché tutte le scelte dei governi, comprese quelle scellerate ultime del governo Renzi, Letta, Monti, dei governi Berlusconi a trazione leghista, sono tutte a danno del Sud? Si tolgono i soldi per le strade alla Calabria e alla Sicilia e si abbuona l’Ici a tutta l’Italia; si tolgono i soldi per le scuole terremotate del sud e si spendono per le scuole del nord, che così diventeranno ancora più ricche e più belle; si tolgono i soldi alle università del sud per darle a quelle più ricche del nord, con criteri che gridano vendetta essendo da apartheid, non dichiarata ma efficientissima, di più di quella del Sud Africa. E tutto questo non è roba di 150 anni fa, è cosa di ogni giorno, che va avanti da 150 anni.
D. Lei è un apprezzato meridionalista, sicuramente tra quelli contemporanei, i suoi libri hanno riscosso un notevole successo e anche di vendite. Però mi viene spontaneo chiederle perché li ha pubblicati con una casa editrice (la Piemme) che ha sede in Corso Como a Milano e che fa parte del gruppo Mondadori, dunque di Berlusconi. Non c’erano altre case editrici al Sud?
R. Perché non sono razzista. Quando faccio questi discorsi non dico che dobbiamo, per così dire, sconfiggere i settentrionali, invece dobbiamo sconfiggere una politica che è al servizio di una economia del Nord che ha come alleato al Sud il crimine e un ceto politico gregario, da truppe cammellate, da coloniali diciamo. Questo è un sistema di potere già denunciato da Salvemini, non ho inventato niente. La Piemme è la mia casa editrice da più di vent’anni, alcuni anni fa la Mondadori ha preso la maggioranza delle azioni e quindi è diventata di sua proprietà, ma a me questo non fa nessuna specie. Quello che voglio, che controllo, il mio discrimine è: ho la libertà di agire come voglio, di scrivere quello che voglio, di vedere i miei libri seguiti come si deve normalmente senza favori ne sfavori come deve fare una casa editrice? Se la risposta è sì la casa editrice può essere a Timbuktu, a Oslo o a Oakland per me è la stessa cosa. L’idea che le case editrici meridionali possano essere interessate a questa cosa è falsa, i peggiori libri a sostegno della subordinazione del Sud li fanno le case editrici meridionali. E soprattutto le maggiori, che sono arrivate a rifiutare libri del genere che scrivo io (non i miei, perché la casa editrice ce l’avevo da sempre), che poi sono stati pubblicati da case editrici settentrionali. Alcuni autori si sono rivolti a me e mi hanno detto che le grandi case editrici del sud non avrebbero pubblicato i loro libri; io ho parlato poi con qualche amico e, siccome erano buoni libri, li hanno pubblicati, ma al nord. I peggiori libri degli ultimi anni, contro l’equità e il diritto alla reciprocità del Sud, li hanno pubblicati case editrici meridionali.
Un esempio. Edizioni Laterza di Bari.
I prigionieri dei Savoia. La vera storia della Congiura di Fenestrelle. Mercoledì 10 Ottobre 2012. Barbero ricostruisce la storia della Congiura di Fenestrelle e demolisce il mito neoborbonico del "lager dei Savoia". Alessandro Barbero racconta in I prigionieri dei Savoia la vera storia di Fenestrelle ma anche la storia di come quegli avvenimenti, già di per sé abbastanza drammatici, siano diventati nell’Italia del Duemila materia di un’invenzione storiografica e mediatica. La sera del 9 novembre 1860 una colonna di soldati in lacere uniformi turchine, disarmati e sotto scorta, marciava lungo la tortuosa strada alpina che risale la Val Chisone, nelle montagne piemontesi, verso la fortezza di Fenestrelle, costruita a 1200 metri di altezza sul livello del mare. Erano prigionieri dell’esercito borbonico catturati per lo più alla resa di Capua il 2 novembre, trasferiti per mare da Napoli a Genova dove erano approdati il giorno prima, poi trasportati in treno fino a Pinerolo e ora avviati a piedi, giacché non c’era altro mezzo, alla fortezza. Esausti per l’interminabile marcia, arrivarono a Fenestrelle per tutta la notte, a drappelli sbandati. Uno di loro morì appena giunto; nei giorni seguenti ben 178 su 1186 vennero ricoverati in ospedale, e altri quattro vi morirono. Il 6 luglio 2008, sotto una pioggia battente, un gruppo di aderenti e sostenitori dei Comitati Due Sicilie, in parte convocati via chat o per email, salì a Fenestrelle e inaugurò una lapide che dice testualmente: «Tra il 1860 e il 1861 vennero segregati nella fortezza di Fenestrelle migliaia di soldati dell’esercito delle Due Sicilie che si erano rifiutati di rinnegare il re e l’antica patria. Pochi tornarono a casa, i più morirono di stenti. I pochi che sanno s’inchinano». Duccio Mallamaci, coordinatore per Piemonte e Calabria del Partito del Sud, tenne, interrompendosi a tratti per la commozione, un discorso in cui definì Fenestrelle un campo di sterminio come Auschwitz o Belzec, e affermò che 8000 uomini vi erano morti di fame e di freddo; in tutto, aggiunse, furono 40.000 i prigionieri meridionali sterminati nel Nord. Al discorso seguì una messa in latino, officiata da un prete francese fatto venire per l’occasione. Tutti i fatti che abbiamo raccontato fin qui sono veri: tanto la risalita della colonna dei prigionieri la notte fra il 9 e il 10 novembre, quanto la manifestazione del 6 luglio 2008. Quasi tutto quello che venne detto in quest’ultima occasione a Fenestrelle è invece menzogna e mistificazione, così come menzognera è la lapide che incredibilmente l’amministrazione del forte ha consentito di esporre. Questo non significa che chi è salito a Fenestrelle quel giorno piovoso d’estate porti la responsabilità della mistificazione: molti e forse tutti erano convinti che quello che dicevano e ascoltavano fosse vero. Nell’Italia di oggi, almeno quando si parla del passato, le menzogne più grossolane si trasformano facilmente in verità per tanta gente in buona fede. Questo libro tenta di ricostruire ciò che veramente accadde ai prigionieri napoletani trasportati al Nord, e in genere agli ex-soldati borbonici caduti nelle mani delle autorità vittoriose. Il lettore vedrà che la ricostruzione è per lo più estremamente minuziosa, anche quando si tratta di questioni che normalmente non meriterebbero tanto sforzo: come, per esempio, stabilire il giorno esatto in cui un certo reparto capitolato a Gaeta venne trasportato a Capri o ad Ischia, quanti giorni vi rimase, e quale rancio ricevettero gli uomini in quei giorni. È una conseguenza necessaria del fatto che intorno a tali questioni è stata sollevata negli ultimi anni una cortina di interrogativi fumosi e di sospetti gratuiti, che può essere smantellata solo attraverso un’aderenza scrupolosa ai fatti dimostrati. Questa, dunque, è la storia di ciò che accadde veramente a Fenestrelle, ma anche a Torino, a Napoli, a Milano, a Gaeta e in altri luoghi d’Italia, fra 1860 e 1861, quando l’esercito delle Due Sicilie venne sconfitto in una guerra non dichiarata, i suoi uomini fatti prigionieri o sbandati, e poi, in gran parte, trasportati al Nord per essere arruolati contro la loro volontà nell’esercito italiano. Ma è anche la storia di come quegli avvenimenti, già di per sé abbastanza drammatici, siano diventati nell’Italia del Duemila materia di un’invenzione storiografica e mediatica: tanto più ignobile in quanto rivolta a un’opinione pubblica frustrata e incattivita, in cerca d’un riscatto qualsiasi da una realtà poco edificante come quella che ha presentato negli ultimi anni il nostro paese.
Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, pp. VII-IX
15 agosto 1863, la legge Pica: permise all’Italia lo sterminio delle genti del Sud, scrive il 14 agosto 2017 Antonio Gaito su "Vesuvio Live". Nell’agosto del 1863 le armi avevano smesso di rimbombare da tempo anche a Gaeta e a Civitella del Tronto, ultimi baluardi borbonici. Il trono che era stato di Carlo d’Angiò, Alfonso il Magnanimo e Carlo III di Borbone fu assimilato da quello di Casa Savoia. Il Regno delle Sicilie non esisteva più già da un paio d’anni. Il presente era così diverso e lontano da quel passato, il quale aveva reso in maniera unica Napoli e il Mezzogiorno protagonisti della grande storia, che tutto appariva caduco, invivibile ed impensabile fino a qualche mese prima. In questo mondo nuovo, sorto dalle ceneri di un’età irripetibile, c’era però chi voleva continuare ad ancorarsi ardentemente a quel tempo. C’era chi non aveva esitato a mettere in discussione tutto, anche la propria vita, affinché quel passato potesse esistere ancora. Uomini innamorati della propria terra, identità e libertà, per la storiografia dominante: briganti. L’Unità d’Italia era divenuta realtà, ma nel Mezzogiorno d’Italia si continuava a combattere. Malgrado la disparità di risorse, mezzi ed uomini, erano proprio i briganti a creare numerosi grattacapi all’esercito italiano con azioni di guerriglia ed avventurose scorribande in molti paesi con l’intento di portare la popolazione locale alla ribellione. Col passare del tempo un numero sempre maggiore di persone si aggregò al movimento di resistenza postunitario e la cosa preoccupò le autorità competenti. Già nell’estate del 1862 re Vittorio Emanuele II aveva proclamato lo stato d’assedio per le regioni dell’Italia meridionale, al fine di reprimere il fenomeno. Non ottenendo risultati soddisfacenti, a distanza di dodici mesi, si decise di promulgare la legge Pica. Era il 15 agosto 1863. Il provvedimento fu emanato in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto albertino, garanti dell’uguaglianza di tutti i sudditi davanti alla legge, ed introdusse il reato di brigantaggio. Per i colpevoli di tale crimine era previsto il giudizio dei Tribunali Militari che sorsero in tutte le regioni meridionali. Le pene previste erano la fucilazione, lavori forzati a vita o lunghi anni di carcere. È stato notato che alla sospensione dei diritti costituzionali, la nuova disposizione governativa introdusse misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi. Veniva giustificato il concetto di responsabilità comune. La legge diede, in sostanza, un potere abnorme all’autorità militare su quella civile. Se su qualcuno ricadeva il sospetto di essere brigante, o era semplicemente il parente di un sospettato, veniva fucilato senza processo e senza possibilità alcuna di dimostrare la propria innocenza. Moltissimi furono i soprusi e le prepotenze arbitrarie; intere famiglie vennero arrestate senza motivo, uomini assolti dai giudici continuarono a marcire in carcere e così via. Anche in Parlamento, viste le ingiustizie che si erano verificate, si sollevò un forte ma inconcludente dibattito. La legge Pica non faceva nessuna distinzione ed affrancava i militari, e i loro fucili, da ogni tipo di vincolo morale e giuridico. Il brigantaggio, movimento dagli ideali politici e legittimisti, venne ufficialmente assimilato al più becero banditismo. Si pensi che nel breve lasso di tempo nel quale la legge speciale fu in vigore eliminò, tra esecuzioni ed arresti, 14000 briganti o presunti tali. Malgrado la durezza del provvedimento il governo non ottenne i risultati sperati. I briganti continuarono a lottare, con eroica ostinazione, la loro guerra ineguale contro l’esercito italiano fino al 1870.
Longobardi: I briganti calabresi e la storia mai scritta, scrive "TirrenoNews" Lunedì, 14 Marzo 2016. Winston Churchill scrisse che "In tempo di guerra la verità è così preziosa che bisogna nasconderla dietro una cor tina di bugie". Sottintendeva, forse, che in tempo di pace, quindi, la verità dovesse essere saputa?. E’ probabile ma sappiamo che non è sempre così, soprattutto se non si lotta per cercarla ed affermarla, questa verità!. Lo conferma anche Arrigo Petacco ne “La nostra storia” quando ha detto che “Quando comincia una guerra, la prima vittima è la Verità”. Ma, poi, ripetendo il pensiero aristoteliano ha affermato che “Quando la guerra finisce, le bugie dei vinti sono smascherate, quelle dei vincitori, diventano Storia”. Eh, già Goering a Norimberga disse che “La storia la scrivono i vincitori”. Insomma una delle cose più difficile da conoscersi è la verità. Per conoscerla occorre cercarla e diffonderla. Ci è sembrata questa la ragione prima del convegno svoltosi in Longobardi nei giorni scorsi e nel corso del quale si è tentato di riaffacciare alla nostra attenzione la “VERA” storia dei briganti calabresi che subirono, insieme al meridione, l’eccidio da parte dell’esercito dei Savoia. Ben al di là dei passionali interventi dei relatori (Mannarino, Calderazzo, Parrotta, Santacroce, Cefalì, Gaudio) il convegno ha voluto contribuire a tenere viva la fiammella della dignità di un popolo, quello meridionale. E non cercate la verità dagli storici perchè tanti di loro sono piegati al potere! Pochi sono quelli che hanno l’onestà di raccontare che “gli inglesi mollarono il re di Napoli, la mafia e la camorra scesero in campo con Garibaldi e il re sabaudo, così come sarebbero scese in campo con gli americani che risalivano la penisola dalla Sicilia. (da “I conti con la storia di Paolo Miele). Ogni tanto la verità emerge grazie a chi ha l’onestà di raccontarla! Parliamo di Eugenio Scalfari che ebbe ad affermare che l’Unità d’Italia fu un’occupazione militare e non un’unione politica: «Non fu Unità! Fu occupazione piemontese, e se l’avesse fatta il Regno di Napoli, che era molto più ricco e potente, sarebbe andata diversamente. La mentalità savoiarda non era italiana. Cavour parlava francese. E gli italiani quel nuovo Stato l’hanno detestato.» Parliamo di Anita Garibaldi (pronipote di Giuseppe) che ebbe ad affermare, davanti ad uno sbigottito Bruno Vespa, che Ricciotti Garibaldi, secondogenito “dell’eroe dei due mondi”, tornato dall’ Inghilterra dopo gli studi "Mio nonno tornato a Caprera, si indignò talmente tanto dello sfruttamento del Meridione da parte della nuova Italia, che andò a combattere con i Briganti". Vediamo qualche nostro lettore storcere il naso vinto da uno “schizzinoso ribrezzo” per una storia non scritta, ma lo invitiamo a ricredersi. I briganti falcidiati a migliaia non furono delinquenti ma eroi. Ed al contrario i supposti eroi della Unità d’Italia appariranno nella loro vera efferatezza. Il revisionismo storico porterà alla verità che diventerà poi patrimonio comune della gente. Solo così la nostra dignità di popolo meridionale sarà salva.
Intervista ad Anita Garibaldi, discendente di Giuseppe Garibaldi, all'interno della trasmissione Porta a Porta del 5 maggio 2010 condotta da Bruno Vespa. Nell'intervista viene rivelato un fatto poco noto: il figlio di Garibaldi, Ricciotti (nonno dell'intervistata), dopo aver assistito allo sfruttamento degli abitanti dell'ex Regno delle Due Sicilie si allea con i Briganti (i partigiani del Regno delle Due Sicilie).
Unità d'Italia: la storia inedita del figlio di Garibaldi, scrive il 03/06/2010 Valerio Rizzo su "Info oggi". Lanciata circa un mese fa da Anita Garibaldi, la pronipote dell’Eroe dei due Mondi, durante la trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa, sta facendo il giro del Web. Stiamo parlando di uno scoop storico che, se confermato dai documenti, potrebbe riscrivere una pagina ancora oscura del Risorgimento italiano: quella del Brigantaggio che da più parti, ormai, viene vista come una “lotta partigiana” con connotati di una vera e propria “guerra civile”. La discendente di Giuseppe Garibaldi afferma che il figlio, Ricciotti Garibaldi, abbia combattuto nelle file dei Briganti contro l’Unità d’Italia, e, di fronte a un Bruno Vespa sbigottito, sostiene: “"Mio nonno tornato a Caprera, si indignò talmente tanto dello sfruttamento del Meridione da parte della nuova Italia, che andò a combattere con i Briganti". Il fatto storico a cui fa riferimento è quello del territorio di Castagna, in provincia di Catanzaro, in cui operava un gruppo di briganti capeggiati dal garibaldino Raffaele Piccoli, che combatteva contro i bersaglieri e le forze piemontesi. Guerriglia andata avanti fino al 1870 coinvolgendo anche il comune di Filadelfia (VV). Fatto sta che la verità sul periodo storico che va dal 1860 al 1890 è ancora contorta e piena di contraddizioni, ma soprattutto pare che alcuni documenti siano ancora “secretati”. Da più di 30 anni, storici minori e cacciatori di documenti inediti stanno scandagliando gli archivi statali e comunali e ormai i tempi per affrontare l’argomento delle verità storiche pare essere maturo e molti accademici stanno andando al di là delle retoriche tavolette risorgimentali dei “buoni e i cattivi”. Lo stesso Giuseppe Garibaldi affermò, in una lettera ad Adelaide Cairoli del 1868, “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esser preso a sassate, essendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”.
Lo sapevi che il figlio di Garibaldi combatté contro suo padre? Il figlio di Garibaldi, vergognatosi per il genocidio condotto dal padre contro i popoli del Sud Italia, si schierò dalla parte dei Briganti. Anita Garibaldi, la pronipote del criminale al soldo degli inglesi che unificò l'Italia a suon di violenza verso i popoli del Sud, allora ricchissimi economicamente, durante la trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa, racconta un fatto inedito, che certamente non troveremo sui libri di storia scolastici scritti dai vincitori per un popolo senza memoria. La discendente di Giuseppe Garibaldi afferma che il figlio, Ricciotti Garibaldi, abbia combattuto nelle file dei Briganti (volontari del popolo che si unirono insieme per tentare di difendere le proprie terre e i propri diritti dall'esercito guerrafondaio di Garibaldi e l’Unità d’Italia. Nell'intervista condotta da Bruno Vespa, Anita Garibaldi afferma: “"Mio nonno tornato a Caprera, si indignò talmente tanto dello sfruttamento del Meridione da parte della nuova Italia, che andò a combattere con i Briganti". Lo stesso Giuseppe Garibaldi affermò, in una lettera ad Adelaide Cairoli del 1868, “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esser preso a sassate, essendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”.
Intervista di MADYUR del 10 novembre 2010. “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Una presa in giro per i giovani”. Anita Garibaldi è la pronipote del combattente che unificò l’Italia porta avanti i valori che lo animarono.
Lei ha vissuto tra Stati Uniti, Gran Bretagna , Svizzera, Francia, Inghilterra, ma negli ultimi anni è tornata in Italia per battersi con la Fondazione Giuseppe Garibaldi in difesa dei valori che spinsero il suo progenitore all’Impresa de i “Mille”. Cosa l’ha convinta ad impegnarsi?
“La validità e l’universalità ancora oggi dei valori che lo spinsero ad imbarcarsi. C’è bisogno che si parli ancora di lui e degli uomini come lui, perché il messaggio è ancora attuale. Specie in un periodo storico come questo e alla vigilia del 150°esimo anniversario dall’Unità d’Italia”.
Storica, giornalista, scrittrice , personaggio politico. Come preferisce definirsi?
“Giornalista. Sono sempre stata curiosa di tutto quel che succede nel mondo”.
Quando ha cominciato? E di cosa si occupava?
“Negli anni 70. MI occupavo di politica, la mia vera passione. Da sempre. Anche oggi, io vorrei cambiare l’Italia”.
E da cosa comincerebbe?
“Beh, innanzitutto comincerei dal primo articolo della Costituzione. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Una presa in giro per i giovani”.
E cos’altro farebbe?
“Meno tasse, meno burocrazia e più trasparenza. Me ne accorgo nel confronto con l’estero. L’Italia è soffocante. Andare alle poste, certificare un cambio, aprire un’impresa. Ore di attesa, pile di pratiche da compilare. Poi biognerebbe tagliare il numero dei deputati”.
Vedo che nl dna è rimasto il gene rivoluzionario dei Garibaldi…
“Sì, quello non manca”.
Mi racconti uno dei primi ricordi d’infanzia collegati a suo trisnonno.
“Quando d’estate andavamo in vacanza nella villa di Caprera. Ricordo gli armadi, erano ancora pieni di camicie rosse di flanella che mio trisnonno cambiava tre volte al giorno. Un’estate, con mio padre, ne prendemmo alcune e le tagliammo in tante fettuccine per usarle come esca per le aragoste. Le aragoste sono attratte dal rosso. Ma non lo dica, lo sapessero gli storici si pietrificherebbero”.
Cos’altro ha ereditato da Garibaldi.
“L’amore per il mare, per la navigazione”.
E di cosa è più fiera?
“Dei miei cinque figli. Io non ho tesori e loro sono il mio investimento nel futuro. La certezza di tramandare il sangue dei Garibaldi”.
Dove è nata?
“A Lugano. L’infanzia però l’ha trascorsa tra la Svizzera Roma e Caprera”.
Fratelli o sorelle?
“Sono figlia unica. Per questo ho voluto una famiglia numerosa”.
Il suo cognome l’ha avvantaggiata?
“Molto poco. Ho dovuto faticare per essere riconosciuta per quel che facevo. Sa quante volte mi hanno detto “E’ un piacere conoscere la pronipote di Giuseppe Garibaldi”. Come se io non esistessi. A volte invece, mi è capitato di essere guardata e trattata con disprezzo da persone che neppure mi conoscevano. Persone che mi vedono come un simbolo dell’Italia e che mi odiavano per questo. Come nell’ultimo concorso di Miss Italia”.
Cosa è successo?
“Dovevo salire con le garibaldine e la bandiera tricolore sul palco per la premiazione della miss. Era già stato tutto deciso. Il giorno prima avevamo girato un servizio andato in onda a Porta a Porta ad un’ora prima non c’era stato nessun problema. Poi l’intervento del capostruttura Rai Antonio Azzalini che si è messo a inveire, e le risparmio il turpiloquio, impuntandosi perché “quel tricolore sul palco non salirà mai” e mandando via in malo modo le garibaldine. Il giorno dopo si è giustificato dicendo che non era in scaletta. Ma mi hanno fatto il trucco. Non mi stupirei se fosse arrivata qualche telefonata”.
Lei e la sua fondazione è sempre stata molto attiva nel promuovere il ruolo della donna. Cosa ne pensa della donna in Italia?
“Non ha ancora imparato ad essere soggetto e se lo fa spesso diventa cattiva, aggressiva, simile agli uomini peggiori. Non dovrebbe esserci una guerra tra sessi. Però la politica non aiuta. Tutti parlano di voler aiutare la famiglia, ma chi vuole lavorare e avere figli non può farlo”.
Se lei oggi avesse 18 anni cosa farebbe?
“Andrei per mare, vorrei girare il mondo per capire”.
Naviga anche su internet?
“Sì, sto imparando, mi serve per coordinarmi con i volontari della fondazione. Abbiamo centinaia di volontari con gruppi in tutta Italia e all’estero. Ma preferisco navigare sul mare reale che in quello virtuale”.
E dei Rom cosa ne pensa?
“Bisogna dargli gli strumenti per integrarsi, la scuola prima di tutto. Ma se vogliono vivere di espedienti vanno mandati via. D’altra parte ci sono anche tanti italiani che si arrangiano allo stesso modo. E allora cosa dovremmo fare, mandare via anche gli italiani?”
E della scuola di Adro?
“E’ inaccettabile, la scuola deve essere di tutti. Allora perché non mandarli a scuola col burqa?”
Un augurio per il 150esimo anniversario dall’Unità d’Italia?
“Il nostro è un Paese di vecchi. Diamo spazio ai giovani”.
La testimonianza della discendente in linea diretta dell’eroe dei due mondi e di Ana Maria de Jesus Ribeiro Da Silva, passata alla storia ed entrata nel mito con il nome di Anita, scrive Guendalina Di Sabatino su "Noi Donne" il 27 Novembre 2011. Anita Garibaldi discende in linea diretta dall’eroe dei due mondi e da Ana Maria de Jesus Ribeiro Da Silva, passata alla storia ed entrata nel mito con il nome di Anita. L’erede privilegiata del patrimonio ideale del Risorgimento è nata a Lugano, è vissuta e ha compiuto gli studi in Italia, in Francia e Inghilterra dove si è laureata in Scienze Politiche. Subito dopo è partita per il Sud America dove ha svolto importanti ricerche documentaristiche in Messico, Uruguay e Brasile. Un ritorno alle proprie radici: storia di libertà e indipendenza dei popoli oppressi. Storia di affinità elettive e storia d’amore. Infatti, proprio in Brasile, a Laguna, l’esule Giuseppe Garibaldi conobbe, e s’innamorò a prima vista, della giovanissima rivoluzionaria Ribeiro Da Silva. Anita Garibaldi-Hibbert, 5 figli e 13 nipoti, ha lavorato in Italia e all’estero. È ricercatrice, giornalista, scrittrice. Impegnata nella difesa dei diritti umani, Ufficiale al merito della Repubblica italiana, componente per diritto ereditario materno della prestigiosa ed esclusiva associazione Colonial Dames of America, è donna di tempra speciale come la sua genìa femminile che racconta nel bel libro Nate dal Mare (Il Saggiatore, 2003). Coraggiosa e determinata, la madre Speranza Mc Michael nata a Filadelfia, moglie di Ezio, nobili radici genealogiche nella rivoluzione americana, ha salvato molte famiglie ebree dalle persecuzioni nazifasciste. La nonna, l’inflessibile londinese Costanza Hopcraft, moglie di Ricciotti, filantropa senza sosta, fondò e allestì ospedali allevando 15 figli. Mito eterno la bisnonna Anita, morta in battaglia per l’Italia unita, riposa sul Gianicolo scolpita su cavallo rampante. Energia del romanticismo giovane la Garibaldi-Hibbert ha vissuto la propria avventura politica prima negli Stati Uniti e in Inghilterra, poi in Italia dove è stata dirigente nazionale del P.S.I. e candidata alle elezioni politiche del 1986 nel collegio di Velletri con un successo elettorale di 37.000 preferenze. Per la promozione dei valori risorgimentali nel 1999 ha fondato l’Associazione Nazionale Garibaldina di cui è presidente, e nel 2009 ha creato la Fondazione Giuseppe Garibaldi coinvolgendo numerose associazioni e movimenti in Italia e all’estero. In occasione delle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, in settembre ha partecipato alla manifestazione organizzata dalle province di Pesaro-Urbino, Perugia e Arezzo per chiedere che l’unione del Paese venga consolidata completando i lavori della Superstrada Fano-Grosseto e della Galleria della Guinza non ancora aperta al traffico. Un’opera, quest’ultima, di importanza strategica per collegare i versanti dell’Adriatico e del Tirreno.
«Una manifestazione indimenticabile! Ottocento giovani hanno portato in corteo un tricolore lungo 1.861 metri attraverso Borgo Pace, San Sepolcro e San Giustino, il punto in cui Marche, Umbria e Toscana si toccano, rievocando lo storico percorso di Garibaldi e Anita nel luglio del 1849 in ritirata da Roma; lei, al sesto mese di gravidanza e ammalata, morì di lì a poco. La trasmissione dei valori dell’epopea risorgimentale ai giovani è fulcro della sua rigorosa, appassionata e attenta attività intellettuale. Ad esempio agli inizi di novembre a Marcinelle per il 150° con i discendenti e i sopravvissuti alla tragedia del terribile 8 agosto 1956, quando persero la vita 262 lavoratori delle miniere; 136 erano italiani. Non dobbiamo dimenticare che l’accordo tra il governo italiano e quello belga prevedeva che il primo mandava duemila operai la settimana e il secondo spediva 300-400 chili di carbone per ogni minatore. Esseri umani come merce di scambio. È terribile! La stessa assenza di tutele è vissuta oggi da molti immigrati in Italia. E le discriminazioni. Anche per questo, quando parlo ai ragazzi, prendo spunto da Garibaldi che ha combattuto per quei valori basilari della nostra democrazia e per quei diritti inviolabili e inalienabili sanciti nella Costituzione italiana per i quali non bisogna mai smettere di lottare».
Il Risorgimento sta scomparendo lentamente dall’insegnamento scolastico.
«Purtroppo è del tutto assente nella scuola elementare, è collocato al terzo anno della scuola media e al quarto degli istituti superiori. Data la vastità dei programmi, i nostri studenti finiscono per conoscere l’unificazione italiana e le radici della nostra identità nazionale all’età di tredici anni. Abbiamo scritto una lettera al Ministro Gelmini chiedendole per cortesia di reincludere lo studio del Risorgimento almeno nelle scuole elementari, ma non abbiamo avuto nessun esito».
Perché ha fondato il movimento Mille donne per l’Italia?
«Per mantenere vivo l'impegno di rinnovare il nostro Paese nella cultura sociale e politica, la proposta di legge per la democrazia paritaria, è un esempio. Cinquantamila firme raccolte per assicurare che nelle liste elettorali il 50% dei candidati sia di genere femminile. Le donne non sono ancora introdotte bene nella società italiana, credo che ci sia ancora un pregiudizio. A volte credo che dipenda soprattutto da loro, rispetto a ieri mi pare che si propongono come oggetto, come oggetto di sesso molto spesso, e non come soggetto di azione e di professionalità».
Considera la secessione leghista una seria minaccia per la nostra Nazione?
««Non è una proposta credibile, né in Italia né all’estero. È segno di debolezza di un partito in crisi che vuole ricondurre i suoi elettori ai tempi della Padania nascente».
I GARIBALDI…
Ecco come Garibaldi e famiglia rinnegarono l’Italia, combattendo coi briganti, scrive l'1 settembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". “… il felice regno (delle due Sicilie). Felice! poteva chiamarsi, giacché con tutti i vizi, di cui era incancrenito, il suo governo occupavasi almeno che non morissero di fame i sudditi … Si sa quanto solerte era il governo borbonico per far mangiar a buon mercato il pane ed i maccheroni … occupazione che disturba poco la digestione di coteste cime che governano l’Italia. Giù il cappello però, esse le cime hanno fatto l’Italia ed avranno fra giorni una statua in Campidoglio, non so di che roba”. Sono queste parole scritte dal pugno di Giuseppe Garibaldi in persona, scritto nell’arco di tre anni, dal 1870 al 1872, nel testo intitolato “I Mille”. In questa opera egli ammette di aver scritto le sue precedenti memorie in modo troppo romanzato, rimproverandosi di non aver steso un’opera valida dal punto di vista storiografico, quindi utile ai posteri, una mancanza cui vuole porre riparo proprio attraverso questo libro. In tale volume Garibaldi si scaglia ripetutamente contro Vittorio Emanuele II e il Governo, che egli, significativamente, definisce sabaudi piuttosto che italiani, e ciò perché si è reso conto che dietro l’appoggio di Cavour e del sovrano piemontese all’azione dei Mille non vi erano gli ideali, bensì calcoli e convenienze materiali. Egli sostanzialmente si pente di aver messo da parte la diffidenza verso i sabaudi, con cui non era mai andato d’accordo che non gli erano mai piaciuti, si pente di aver messo da parte il suo essere repubblicano, per consegnare il Mezzogiorno al Piemonte, per “aver unito l’Italia con l’aiuto del diavolo” (in questo caso per “diavolo” si potrebbe intendere, oltre ai piemontesi, anche tutta quella schiera di uomini corrotti e poco raccomandabili che favorirono la conquista delle Due Sicilie, quali ad esempio Liborio Romano, che cercò l’appoggio della camorra e dandole un potere che ancora oggi soffoca la Campania, oltre alle altre organizzazioni criminali). Prova della scarsa affinità tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II è una lettera tra costui e Napoleone III, dove il piemontese ribadisce il fastidio che gli dà Garibaldi, che egli arresterebbe per la terza volta se non fosse per una crisi di Governo. Giuseppe Garibaldi, dal canto suo, sottolinea la codardia e la corruzione degli uomini al servizio di Vittorio Emanuele II e Cavour, attenti a quanto facevano i Mille solo per prendersene i meriti. In merito ai Siciliani ed ai Napoletani (termine con cui intende gli abitanti del Mezzogiorno intero) il capo dei Mille afferma: “E questo governo sedicente riparatore, fa egli meglio degli altri? Egli poteva farlo! doveva farlo! Ma che! nemmen per sogno; coteste ardenti e buone popolazioni che con tanto entusiasmo avean salutato il giorno del risorgimento e dell’aggregazione alle sorelle italiane, sono oggi….. sì, oggi ridotte a maledire coloro che con tanta gioia un giorno chiamaron liberatori!“. Si tratta dello stesso concetto espresso qualche anno prima, in una lettera all’amica Adelaide Cairoli: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio”. Un vero e proprio pentimento, l’enorme assunzione di una enorme responsabilità che gli pesava sull’animo, perché cosciente che invece che liberatore egli è stato una marionetta nelle mani di avidi soggiogatori. Forse, tuttavia, la circostanza più importante, e d’altra parte pochissimo nota, è che un figlio di Giuseppe Garibaldi, Ricciotti, dal 1865 combatté al fianco dei briganti per scacciare i Piemontesi e formare la Repubblica, tentando in questa maniera di riscattare la figura del padre di fronte ai posteri. Un fatto che ha raccontato a Porta a Porta Anita Garibaldi, della quale Ricciotti è il nonno e, dunque, Giuseppe è il bisnonno, e che dichiara di possedere i documenti a prova delle sue affermazioni.
Ricciotti Garibaldi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Ricciotti Garibaldi 24 febbraio 1847 – 17 luglio 1924. Nato in Uruguay, trascorse l'infanzia tra Nizza, Caprera e l'Inghilterra. Quarto figlio dell'Eroe dei due mondi, venne così chiamato in ricordo di Nicola Ricciotti, fucilato dai borbonici nel corso della spedizione dei Fratelli Bandiera. Sposò l'inglese Costanza Hopcraft, con la quale tentò sfortunate imprese commerciali in America ed in Australia. Fu eletto membro della Camera dei deputati del Regno d'Italia dal 1887 al 1890. Dopo l'unità d'Italia, Ricciotti andò a vivere assieme al padre sull'isola di Caprera. Qui conobbe Bakunin che fu ospite di Garibaldi per quattro giorni a Caprera nel 1863. Dal 1865 si stabilì a Napoli, iniziando a propagandare idee repubblicane e libertarie. Nel marzo 1864, assieme al fratello Menotti, il giovane Ricciotti accompagnò il padre nel suo viaggio in Inghilterra, durato circa due mesi, in quella che fu la sua prima comparsa pubblica. Arruolatosi nelle Guide a cavallo del corpo dei volontari garibaldini, prese parte nel 1866 alla terza guerra d'indipendenza. Ricevette il battesimo del fuoco durante la battaglia di Bezzecca, guidando una carica contro gli austriaci e portando la bandiera del reggimento. L'anno successivo, sempre a seguito del padre, partecipò al fallito tentativo di conquistare Roma, combattendo il 26 ottobre 1867 alla conquista di Monterotondo e nella Battaglia di Mentana al comando di uno squadrone di Guide a cavallo. Nel 1867 Ricciotti, con Raffaele Piccoli, Giuseppe Foglia e Antonio Miceli aderì ad un movimento filo-repubblicano guidato in Calabria da un vecchio garibaldino, l'avvocato Giuseppe Giampà, che aveva dato nascita al foglio politico "La luce calabra", propugnante fortemente l'ideale repubblicano. Il movimento sostenne, tra il 6 e 7 maggio 1870, il tentativo di fondare la repubblica libertaria, di ispirazione bakunista di Filadelfia, nei territori compresi fra Filadelfia, Maida, Curinga che, tuttavia, venne stroncato incruentemente dall'arrivo delle truppe del Regio Esercito con l'arresto dei principali capi dopo pochi giorni. Ricciotti, sfuggito all'arresto, tentò un'ultima difesa occupando temporaneamente Monterosso Calabro, prima che il movimento venisse definitivamente disperso a seguito di uno scontro a Cortale; quindi si nascose a Cortale presso il massone e liberale Antonio Cefaly che lo convinse a desistere dal proseguire la lotta. Sebbene l'attività del piccolo movimento repubblicano si fosse esaurita presto, l'episodio ebbe echi giudiziari e parlamentari rilievanti. Nell'ottobre 1870, seguendo il padre, partecipò alla Guerra franco-prussiana, combattendo nei Vosgi, dove occupò Châtillon comandando la 4ª brigata di volontari garibaldini e conquistò a Pouilly, durante la battaglia di Digione, la bandiera del 61º reggimento tedesco Pomerania, l'unica bandiera prussiana persa durante la guerra, terminata con la sconfitta francese. Alla firma dell'armistizio franco prussiano, la municipalità di Lione gli offrì il comando della guardia nazionale cittadina, incarico che rifiutò su suggerimento del padre, memore delle incomprensioni avute a Montevideo comandando come straniero truppe patriottiche, portandosi a Parigi per osservare lo svolgersi delle vicende della Comune di Parigi (1871). Il suo impegno rivoluzionario proseguì quando Giuseppe Garibaldi ruppe definitivamente con Mazzini, prendendo posizione favorevole verso la Prima Internazionale dei lavoratori e nel novembre 1871 Ricciotti era a Londra dove visitò Karl Marx e nella sua casa incontrò anche Engels. La sua popolarità fra circoli operai e anarchici aumentava e, dopo la morte di Giuseppe Mazzini, assieme a qualche mazziniano ed a qualche garibaldino, fondò, nell'agosto 1872, riunendo 300 persone al teatro Argentina, l'associazione dei Franchi cafoni o "associazione dei Liberi Cafoni", denominazione con richiami contadini, e probabilmente di ispirazione bakuniana con cui avrebbe voluto riunire i democratici italiani per organizzare la "democrazia pura". Il nome dell'organo di stampa del movimento: "Spartacus" è indicativo dei propositi rivoluzionari dell'associazione, che tra i suoi obiettivi poneva quello del suffragio universale. L'associazione ben presto assunse i caratteri di associazione di ideali socialisti finendo in poco tempo per essere disciolta dalla questura romana. Nel 1874 si sposò con l'inglese Constance Hopcraft trasferendosi per 7 anni Australia dove nacque il figlio Peppino. Nel 1897 combatté in Grecia nella battaglia di Domokos, dove i garibaldini si sacrificarono lasciando sul campo, tra gli altri, il deputato repubblicano Antonio Fratti, per coprire la ritirata all'esercito greco, e nel 1912 a Drisko, al comando di un corpo di camicie rosse, combattendo in difesa della Grecia contro l'Impero Ottomano. Convinto interventista, non partecipò direttamente -ormai non più giovane- alla prima guerra mondiale, animando, tuttavia, il fronte interno. Successivamente, nei primi anni del dopoguerra, manifestò il suo appoggio all'impresa dannunziana, offrendosi per supportare con i suoi uomini l'estensione al Montenegro delle vocazioni espansionistiche dei legionari fiumani. Aderì al fascismo, ricevendo personalmente Benito Mussolini, conosciuto durante il periodo irredentista, in occasione di una sua visita a Caprera il 2 giugno 1923.
Peppino Garibaldi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giuseppe Garibaldi, detto Peppino Garibaldi (South Yarra, 29 luglio 1879 – Roma, 19 maggio 1950), è stato un generale e agente segreto italiano. Nato con il nome di Giuseppe Garibaldi in onore del nonno Giuseppe Garibaldi, ma conosciuto come Peppino Garibaldi, fu il primogenito di Ricciotti Garibaldi. Studia al collegio tecnico di Fermo, ma a 18 anni, nel 1897, fugge per unirsi al padre e combattere per la libertà dei popoli della Grecia che si erano ribellati all'Impero ottomano, combattendo valorosamente a Domokos. L'anno dopo si diploma e decide di partire per l'Argentina stabilendosi nella capitale e lavorando come tecnico nella Società Elettrica Buenos Aires y Belgrano. Successivamente si sposterà a New York, a Montevideo e a Gualeguay. Nel 1903 andò a combattere in Sudafrica al servizio dell'Impero britannico (sua madre, Costanza Hopcraft, era inglese) contro i Boeri. In seguito partecipa alla rivoluzione in Venezuela contro il dittatore Julián Castro e guerreggia in Guyana e in Messico. Dopo delle esperienze lavorative in Romania e a Panama, torna in Messico a combattere contro il dittatore Porfirio Diaz durante la Rivoluzione messicana. Prende parte alla fase Maderista della Rivoluzione, nella quale riveste un ruolo importante, ricevendo il grado di Colonnello (unico straniero a ricevere un grado così alto), al pari degli altri grandi capi rivoluzionari messicani che combattono contro il Porfiriato, e comanda tra le sue truppe la <Legione Straniera>, dove saranno inquadrati quasi tutti i volontari stranieri accorsi in Messico per unirsi alla Rivoluzione.
Nel 1912 andò a combattere in Grecia col padre ed i fratelli. Dal 1913 al 1915 abitò negli Stati Uniti. Rientrò in Europa per combattere nella prima guerra mondiale. Peppino Garibaldi si recò a Parigi dove creò una Legione Garibaldina, che doveva battersi in favore della Francia, alla quale aderì con entusiasmo la gioventù repubblicana, e ne fecero parte anche veterani delle precedenti campagne di Grecia e Sudafrica, mazziniani e sindacalisti. Assunse il comando della Legione Garibaldina, operante nelle Argonne, inquadrata come IV reggimento della Legione straniera francese, col grado di tenente colonnello dell'esercito francese. La Legione Garibaldina indossò la camicia rossa. Il 26 dicembre 1914 combatté nei pressi di Bolante una sanguinosa battaglia da cui i volontari della Legione uscirono vittoriosi, ma nella quale perse la vita il fratello di Peppino, Bruno. La seconda battaglia della Legione Garibaldina nelle Argonne avvenne il 5 gennaio 1915 a Four de Paris, dove la Legione subì gravi perdite tra cui un altro fratello di Peppino, Costante. A metà marzo 1915 la Legione Garibaldina venne sciolta ed i suoi componenti spediti sul fronte in Italia. Nel giugno dello stesso anno Peppino intanto entrò, spinto da Guglielmo Miliocchi e Giuseppe Evangelisti di Perugia ed assieme ai fratelli, nella loggia massonica a Perugia. Quando l'Italia entrò in guerra andò al combattere sul fronte italiano con la brigata Cacciatori delle Alpi, con la quale fu poi inviato in Francia, nel 1918 con il II Corpo d'armata con il grado di colonnello brigadiere, segnalandosi per coraggio e capacità di comando. Finita la guerra, fu nominato generale di brigata nel Regio esercito. Rinuncia alla carriera militare per intraprendere attività commerciali tra gli Stati Uniti e Londra senza però avere successo. Nel 1922, decide di entrare in politica, opponendosi a Benito Mussolini e al Partito Nazionale Fascista. Le sue idee non sono chiare e guida delle confuse azioni antimussoliniane, con l'appoggio di Domizio Torriggiani, Gran Maestro della Massoneria Italiana e del fratello Ricciotti. Fallita la manifestazione del 4 novembre 1924 a Roma con i gruppi di "Italia Libera", con il fratello Sante, Luigino Battisti (figlio di Cesare Battisti) e l'ex bersagliere Randolfo Pacciardi. Trasferitosi in Francia nel 1925, insieme al fratello Ricciotti e Sante iniziò ad organizzare la legione garibaldina. In seguito Ricciotti jr entrò in contatto con il vice questore Francesco La Polla il quale reclutò i due fratelli come agenti del governo italiano[1]. Fu organizzato un piano che prevedeva un falso attentato contro Mussolini e l'organizzazione di un'azione militare contro la Spagna assecondando l'ignaro Macià. L'obiettivo era di costringere il governo francese a prendere posizione contro i fuoriusciti italiani gettando su questi ultimi discredito e provocare attriti tra la Spagna e la Francia. La polizia francese svolse le sue indagini evitando le pressioni che pur arrivavano da parte di alcuni politici ed individuò Ricciotti come agente provocatore così il 4 novembre 1926 arrestò Macià e il 5 anche Ricciotti jr a Nizza. Peppino allora partì per New York dove rimase fino al 1940. Gli anni negli Stati Uniti saranno oscuri e dovrà condurre una vita modesta. In questo periodo si sposa con l'americana Maddalyn Nichols, sarà un matrimonio lungo e felice. Con l'aiuto della sorella Giuseppina e del fratello Sante torna in Italia nel 1940 per rivedere l'anziana madre Costanza (che morirà un anno dopo il 9 novembre 1941). Il fratello Ezio vorrebbe che si unisse a lui nel sostenere i Gruppi d'Azione Nizzarda che chiedevano il ritorno di Nizza all'Italia, ma Peppino si rifiuta. Dopo l'armistizio dell'8 settembre viene arrestato dai tedeschi e rinchiuso a Regina Coeli. Finita la guerra, conduce una vita riservata, con l'amata Maddalyn e muore a Roma il 19 maggio 1950 all'età di 70 anni.
GIUSEPPE (Peppino) GARIBALDI (JR) nipote di Giuseppe Scrive Eredità di Garibaldi. Figlio maschio primogenito di Ricciotti e Costanza -dopo la morte di un primo Giuseppe nel 1875, Peppino è colui che porta, nei progetti del padre, le speranze di una dinastia garibaldina. Nasce il 29 luglio 1880? a South Jarra, in Australia in quanto alla sua morte, si dichiarano 70 anni. Peppino racconta la sua prima infanzia in un libro di memorie scritto tra le due guerre, "A toast to rebellion",. Vi appare una vita "sacrificata" alla reincarnazione del mito, ma anche un tentativo del giovane Peppino per costruirsi un destino in proprio. In sintesi: allievo del collegio tecnico di Fermo, fugge per arruolarsi col padre nella spedizione del 1897 in Grecia. Qui conquista la sua fiducia ed i suoi primi gradi. L'anno successivo è diplomato a Fermo, e decide di partire per Buenos Aires in incognito. Ma appena giunto in Argentina, è invitato all'inaugurazione del monumento a Garibaldi che è stato eretto nella capitale. Riesce per qualche mese a farsi dimenticare occupando un modesto impiego in una ditta commerciale di New York, ma in occasione di una visita del padre e della madre, è incaricato dell'accoglienza ufficiale. Declina la richiesta del padre per un ritorno continuando a lavorare nell'edilizia, a Montevideo, Gualeguay. Decide poi di partecipare alla guerra fra boeri e inglesi ma dalla parte dell'Inghilterra perché sua madre, Constance Hopcraft, è inglese. Commette così un errore che gli sarà a lungo rimproverato. Finalmente nel 1902 riesce a farsi notare da Lord Kitchener, e ne condivide l'epopea fino alla pace del 31 maggio. Parte allora per la Rodesia alla ricerca della mitica Valle degli Elefanti. La spedizione fallisce. Sulla via del ritorno in Italia, è derubato dalle sue poche sostanze Decide di ripartire di nuovo per New York, poi a Caracas, dove è scoppiata una rivoluzione. Guerreggia in Guyana, in Messico. Un amico di Ricciotti, il Principe Baldassare Odescalchi lo assume sulle sue tenute, affidandogli la gestione dei cavalli, ma Peppino non riesce ad integrarsi e a stanziarsi. Ci si accorge anche che non ha compiuto il servizio di leva, e sarebbe incarcerato se non gli fosse riconosciuta provvidenzialmente la campagna di Grecia del 1897 (valida anche per l’Italia con la spedizione di Creta). Trova ora un impiego in una compagnia petrolifera in Romania poi compie una missione per il Ministero degli Esteri a Panama, dove si lavora alla costruzione del canale. Menotti Jr, il figlio lo chiama presso di se in Cina, ma Peppino cede di nuovo alla tentazione dell'avventura e torna in Messico a sostenere il Presidente Madero assediato da Porfirio Diaz. Madero trionfa, affida a Peppino la missione di negoziare per lui prestiti a Londra. Peppino torna in Messico con il fratello Ricciotti Jr per sostenere di nuovo Madero, che questa volta è sconfitto. Siamo nel 1911. E' il momento in cui Ricciotti Garibaldi chiama i figli a combattere in Grecia. Peppino affianca di nuovo il padre durante una breve campagna, assieme ad alcuni fratelli, sorelle infermiere, volontari italiani e non solo. Torna di nuovo a New York, ed infine arriva in Francia per porsi alla testa delle Legioni Garibaldine nel 1914. Rimasto lontano dall'Italia quasi ininterrottamente da quindici anni, mal si adatta al comando di una Legione volontaria inglobata nella Legione Straniera francese. La legione garibaldina, detta anche 4° reggimento della legione straniera, combatterà poi nelle Argonne fino a marzo del 1915. Successivamente fu tenente colonnello e comandante nella Brigata Alpi inviata in Francia nel 1918. Combatterono con lui in Francia nella legione il capitano Ricciotti jr., il tenente Sante, il sottotenente Bruno e l'aiutante Costante. Il prestigio del nome, marzialmente portato da sei dei figli di Ricciotti, la morte dei fratelli Bruno e Costante, valgono alla Legione un ruolo che raggiunge nel mito quello delle grandi campagne garibaldine. Peppino è presente nelle manifestazioni che culminano a Quarto con D'Annunzio nel maggio 1915 alla vigilia della Grande Guerra. Peppino e i fratelli superstiti si vedono riconoscere rapidamente nell'Esercito regolare italiano i gradi portati nella Legione e si distinguono sul Col di Lana. Peppino entra in guerra con il grado di T. Colonnello. Con Ricciotti jr e Sante, rimane al Fronte per la durata della guerra. I fratelli Menotti jr ed Ezio si dividono invece tra il Fronte ed incarichi diplomatici. Finita la guerra, è nominato Generale di Brigata !!! nell'Esercito regolare. Rinuncia alla carriera militare e cerca tra gli Stati Uniti e Londra di lanciarsi in attività commerciali, ma senza successo. Dal 1922, si butta decisamente in politica, confidando di potersi porre come alternativa a Mussolini. Ma le sue idee non sono chiare. Riesce solo a compromettersi in confuse azioni antimussoliniane, appoggiandosi a Domizio Torriggiani, Gran Maestro della Massoneria Italiana ed al fratello Ricciotti. Fallisce la manifestazione del 4 novembre 1924 a Roma con i gruppi di "Italia Libera", che lo trova, con il fratello Sante, a fianco di Luigino Battisti, figlio di Cesare Battisti, di Randolfo Pacciardi (l’ex bersagliere poi antifascista di Spagna). Peppino riprende la strada di New York. Torna brevemente alla fine del 1926 sperando di potere portare con se negli Stati Uniti il fratello Ricciotti espulso dalla Francia, ufficialmente per detenzione di armi, in verità per manovre dei servizi segreti del Duce. I due fratelli non sono più graditi né in Italia né in Francia. Si aprono per Peppino anni bui negli Stati Uniti, rischiarati solo da un matrimonio, che sarà molto felice, con Maddalyn Nichols, una giovane americana appartenente ad una famiglia importante. Peppino deve tuttavia condurre vita modesta, e ricorre all'aiuto della sorella Josephine (Giuseppina), del fratello Sante, per tornare in Italia nel 1940, quando, con le consuete manovre, il fratello Ricciotti tenta di riunire la famiglia sotto l'egida di Peppino per pesare sulla situazione interna italiana. Ricciotti tuttavia fallisce con Sante, che non abbandona la Francia e le sue posizioni politiche, fallisce con Ezio che continua a sviluppare le proprie ambizioni (fasciste) in Italia. Peppino, che può così rivedere l'anziana madre – (Constance muore il 9 novembre 1941) - riceve un incarico lucroso da Mussolini, con l'appoggio del fratello Ezio, ma non sostiene i Gruppi d'Azione Nizzarda di quest'ultimo (ritorno di Nizza a Provincia Italiana). Arrestato dagli occupanti tedeschi, rinchiuso a Regina Coeli, solo la liberazione di Roma lo salva da una fine tragica. Dopo la guerra, conduce vita riservata, sempre con Maddalyn al fianco, e muore a Roma il 19 maggio 1950. Peppino e Maddalyn non hanno avuto figli. La rinascita recente della casa fondata da Ricciotti Garibaldi a Riofreddo si accompagna di studi sulla vita e l'opera del figlio più giovane di Giuseppe ed Anita. Dalle prime ricerche che riguardano soprattutto l'origine della casa e la vita che vi condussero Ricciotti e la moglie Costanza Hopcraft, l'interesse si é allargato alla riscoperta di tutti i figli di Giuseppe ed Anita venuti con loro dal giovane Uruguay: il primogenito Menotti e la moglie Francesca Italia Bidischini dall'Oglio, e Teresa, sposa di Stefano Canzio. La loro vicenda si colloca in un filone assai vivace della storia d'Italia, quella dei seguaci del Generale Garibaldi. Luoghi e gente della loro vita, impegni e responsabilità di questi "garibaldini" speciali, sono parte di un mito che, arricchito da migliaia di altri garibaldini e da tante sfaccettature ideali, ha assunto una dimensione mondiale.
I Garibaldi: figli, nipoti e le donne di casa, scrive Fortunino Matania.
Figli. Menotti Domenico Menotti Garibaldi, nasce il 16 settembre 1840, a San Simon, Mostardas, stato del Rio Grande do Sul, Brasile, da Giuseppe e Anita (Anna Maria Bento Ribeiro Da Silva). Nome dato in omaggio al patriota modenese Ciro Menotti (+1831); sposò Italia Bidischini dall'Oglio e si stabilì a Roma.
Teresa (1845-1903), detta Teresita, moglie del Generale garibaldino Stefano Canzio, si stabilì a Genova ed ebbe 12 figli;
Rosa, chiamata Rosita, morta all’età di 2 anni a Montevideo;
Ricciotti (Montevideo, 1847- Roma,1924), nome in ricordo del patriota Nicola Ricciotti, fucilato con i Fratelli Attilio ed Emilio Bandiera il 25.7.1844 nel Vallone di Rovito - Cz). Partì per l’Australia con la moglie Constance Hopcraft poi visse a Roma dove morì all’età di 77 anni. Ebbe 13 o più figli di cui Giuseppe e Irene Teresa morti in tenera età in Australia; Arnaldo nato a Roma, e sopravvissuto un anno è sepolto al Verano. Nel 1897 guidò un Corpo di volontari e combatté contro i Turchi in Tessaglia e di nuovo nel 1912 sempre contro i Turchi.
Nipoti: Giuseppe (Peppino) Garibaldi Figlio maschio primogenito di Ricciotti e Costanza - dopo la morte di un primo Giuseppe nel 1875...
Bruno e Costante Garibaldi Bruno e Costante 10 e 11° figlio sono morti ambedue sulle Argonne (Francia). Se sicure sono le date della loro morte, lo sono meno le date delle nascite. Bruno e Costante si dovettero accontentare delle indicazioni ricevute dalla madre, che iscriveva i figli nella propria Bibbia alla nascita, senza altre formalità. Né la tomba del Verano, che raccoglie le salme dei genitori e dei figli, rivela la verità. Infatti, al momento della sepoltura furono commessi alcuni errori nelle iscrizioni. Bruno risulta nato il 19 gennaio 1892, ma la data di morte riportata è quella di Costante. Un atto nel registro di Roma del 1938 indica la nascita il 23 marzo 1889. Le date attribuite a Costante, sono invece, per la nascita il 19 agosto 1890, per la morte il 26 dicembre 1914, e la morte è sicuramente quella di Bruno. Bruno è l'ultimo al quale tocca l’esilio formativo economico all’estero. Costante, infatti, finita la scuola a Roma nel 1903, frequenta la scuola industriale di Fermo. Nel 1910, lavora nelle acciaierie di Terni e nel 1913 vi occupa la posizione di perito. La vera linea di frontiera anagrafica tra i figli di Ricciotti sarebbe passata tra Bruno e Costante, nonostante la lieve differenza d'età, se fossero sopravvissuti alla guerra, proprio per via della diversa esperienza imposta in gioventù. I fratelli si ritrovano in Francia, salvo Menotti che non può lasciare in tempo la Cina. A Nimes, dove sono concentrati i volontari, Costante si distingue nell'organizzazione dell'intendenza per i volontari, e la segreteria del battaglione. Bruno invece ha raggiunto i fratelli Peppino e Ricciotti a New York, dove si sono recati dopo l'intervento in Grecia del 1913, e con loro raggiunge Londra, dove tenta di raccogliere contributi per la Legione garibaldina, poi la Francia. Nell'inferno del Bois de la Bollante, muore Bruno. Costante muore a Courtes Chausses. Ambedue sono dichiarati "Morts pour la France". Il rientro delle salme diventa occasione di scontro fra interventisti e non. Bruno e Costante hanno avuto molti riconoscimenti, sia dalla Francia che dall'Italia. Non riuscì il tentativo di fare attribuire ai due giovani la Medaglia d'Oro al Valore Militare, ma essi furono distinti da due targhe di bronzo rappresentanti i loro volti, apposte sul monumento a Garibaldi a Parigi, e da un gigantesco monumento posto in Argonne nei luoghi della battaglie. Ulteriormente, nel cimitero del Père Lachaise a Parigi, un monumento fu eretto in omaggio al sacrificio dei combattenti stranieri nella grande guerra. A Roma, i giovani ebbero l'onore di raggiungere il padre sul Gianicolo, con i loro busti che affiancano il suo e rivolti al nonno. All'altro lato del monumento il busto di Menotti, solitario, è ugualmente rivolto al padre. Più oltre, incontriamo anche Stefano Canzio Garibaldino e sposo di Teresa, sua figlia.
Bruno è mandato ad undici anni a studiare preso l'Istituto metodista (religione della madre) di Canterbury, in Inghilterra, e segue su indicazione del padre una specializzazione in tecniche dell'agricoltura. Il suo primo lavoro si svolge presso un'azienda di lavorazione della canna da zucchero a Cuba, dove occupa rapidamente incarichi di responsabilità. Il fatto che vi parta nel 1907 avvalora la tesi della nascita nel 1889, essendo consuetudine del padre di invitare i figli maschi a lasciare la casa paterna a 18 anni. Abbandonato il posto si precipita in Italia per arruolarsi coi legionari.
Costante nato a Roma nel 1891 studia alla scuola industriale di Fermo e si impiega a Terni nelle acciaierie (Nel 1910, lavora nelle acciaierie di Terni e nel 1913 vi occupa la posizione di perito). Allo scoppio del conflitto segue i fratelli e il 6 gennaio 1915 quasi sulle stesse posizioni che avevano visto la morte del fratello pochi giorni prima viene ferito a morte alla gola.
Sante Garibaldi è nato a Roma il 16 ottobre 1885
Menotti Jr Garibaldi e Ricciotti Jr Garibaldi
Ezio Garibaldi ultimo figlio maschio di Ricciotti Garibaldi
Le donne di Casa Garibaldi.
Constance Hopcraft (moglie di Ricciotti). Da “l’Unione Sarda” 7/8/2003 di Francesco Mannoni intervista ad Anita Garibaldi.
«Pessimi padri e mariti. Non fosse stato per le loro compagne gli uomini del parentado non sarebbero riusciti neanche a trovare un lavoro» Ai Garibaldi maschi, fin dalla nascita, era inculcato il fatto che dovevano aiutare gli oppressi, perciò non avevano una professione e non sapevano guadagnarsi da vivere. (in effetti si adattavano molto).
Come ricorda invece Speranza (Hope Mc Michael prima moglie di Ezio), sua madre?
«Come una donna coraggiosa che, per aver aiutato, fino al ’43, tanti ebrei a fuggire - grazie ai suoi rapporti in Vaticano e all’ambasciata - ha avuto anche un grande riconoscimento dalla comunità ebraica. Quando, tanti anni prima, a Nizza incontrò mio padre Ezio, lui era mutilato di guerra e lei una giovane ereditiera americana arrivata con un contingente di infermiere venute ad aiutare i feriti della prima guerra mondiale. Ezio era stato ferito sopra il Col di Lana, mentre i suoi due fratelli Bruno e Costante erano morti nelle Argonne in Francia. Fu un grande amore, il loro. Si sposarono dopo un paio d’anni di fidanzamento e andarono a vivere in Messico dove lei trovò lavoro al marito».
Anche sua nonna Costanza, che sposò Ricciotti Garibaldi, non mancava certo di temperamento…
«Era una giovane dell’alta borghesia londinese abbastanza vicina alla regina Vittoria, e viveva in un ambiente molto raffinato e aristocratico. Incontrò Ricciotti che era scappato da Caprera, dove - lui che era stato educato in Inghilterra - volle ritornare perché sapeva che il padre e il fratello Menotti stavano costruendo la casa….. non riusciva ad ambientarsi in quell’ambiente confuso, pieno di amanti, figli e figliastri che contornavano il padre, oltre ai visitatori che arrivavano continuamente a riverirlo….. per questo decise di tornare in Inghilterra e cercarvi lavoro. Fu in questo momento della sua vita che incontrò Costanza a un ballo, si innamorarono, e dopo tre giorni scapparono insieme. Furono ritrovati dai familiari di lei e "costretti" a sposarsi (2 luglio 1874). Decisero di partire, e andare lontano: dopo sette mesi sbarcarono in Australia».
Un bel cambiamento per una ricca signorina borghese dell’Inghilterra vittoriana…
«Fu un’avventura che l’amore rendeva affascinante. Nei primi sei o sette anni di matrimonio, Costanza, abituata a una vita agiata, dovette affrontare la miseria più nera..…. Mio nonno fece il pescivendolo, il panettiere, lavorò per le amministrazioni locali, e dopo sei anni decisero di tornare perché Giuseppe Garibaldi ormai in fin di vita a Caprera, voleva rivedere i figli e i nipoti. Costanza si inserì bene nella piccola comunità, creò una rete di ospedali, dei quali ce n’è ancora uno a La Maddalena, portando i servizi infermieristici dall’Inghilterra. Era attivissima in tutti i campi: fu lei, ad esempio, ad aiutare il marito a fondare la prima associazione per la tutela degli animali. Inoltre, con i soldi di cui disponeva pensò anche a sistemare tutte le pendenze di Ricciotti, finito in un giro speculativo che aveva a che fare con lo scandalo della Banca di Roma. La famiglia era la sua prima preoccupazione: Costanza si dedicò ai suoi 13 figli, ma adottò anche tre bambine rimaste orfane durante il terribile terremoto di Messina: prese a cuore la loro condizione quando partì come volontaria per aiutare gli sfollati. Sette dei suoi figli maschi combatterono nella Prima Guerra Mondiale e due morirono in trincea. Gli altri, la prima generazione degli aquilotti garibaldini, come lei li chiamava, divennero tutti protestanti (anglicani) e di lingua inglese. Era stata lei, di fortissimo carattere, a garantirne l’educazione».
Se i Garibaldi, prima e seconda generazione, erano personaggi sopra le righe o come si diceva senza arte, ne parte, Costanza da anglicana (inglese) porta un ordine che nasce soprattutto dalla educazione dei figli, che vengono avviati a scuole tecniche e/o a compiti ben precisi, come per le figlie. Se fosse veramente interessata ai problemi italiani lo si può solo parzialmente dedurre dal fatto che di politica non intendeva occuparsi quando nel mondo anglosassone scoppiava il fenomeno delle suffragette. Se oltre l'amore, il richiamo dell'Italia, degli Italiani, della natura ancora selvaggia che caratterizzava il paese abbia influito sulle sue scelte ci sembrerebbe comprensibile e plausibile. Ciò spiegherebbe come ancora oggi l'Italia centrale e insulare sia o sia stata meta di viaggiatori e nuovi residenti provenienti in genere dai paesi nordici e anglosassoni il cui fine non erano solo le bellezze artistiche e storiche.
Costance Rose, Annita Italia e Josephine (Figlie).
Rosa, il cui vero nome è Constance Rose (madre e nonna) è la prima figlia di Ricciotti e Costanza. Nasce in Australia, a South Jarra, il 29 aprile 1876. Rosa, temperamento sensibile dalle grandi doti artistiche, schiva ma distinta e conscia della primogenitura, intrattiene tutta la sua vita un contatto privilegiato con la madre anch'essa dalle doti artistiche indubbie. Rosa era solita eseguire piccoli ma graziosi quadri, specialmente di fiori, da offrire agli amici. La sua arte la porterà a seguire, non più giovane, corsi di disegno e pittura a Roma, mentre la sorella Italia si dedicava all'amministrazione delle risorse di casa. Rosa partecipa anch'essa ad una breve campagna militare, la seconda guerra di Grecia del 1912-13, nel corpo delle infermiere. Non ritiene che questa sia la sua vocazione o il suo dovere, contrariamente ad Italia, e si dedica in seguito interamente ai genitori. A Riofreddo Rosa riserva a se stessa una stanza per dipingere, orna la casa di motivi decorativi, ormai scomparsi, direttamente sulle pareti, e di un dipinto raffigurante la famiglia intera negli anni precedenti la prima guerra mondiale. Rosa, in politica, segue le indicazioni di Costanza, e forse, contrariamente alla sorella Italia, desidera agevolare il fratello Ezio. Veglia anche sulla sorte dell'Ospedale creato da Costanza in un'epoca in cui vi era scarsa assistenza alle popolazioni bisognose a La Maddalena e a Riofreddo, sempre a profitto delle popolazioni locali. Le due sorelle assistono la madre fino alla morte, a Roma, il 9 novembre 1941, ed il Governo attribuisce loro un riconoscimento ed un aiuto per le solenni esequie: per legge del 12.5.1942 n.554 è concessa alle due figlie di Costanza un contributo straordinario di 35.000 Lire. Durante la guerra, Rosa continua ad assistere coloro che ne hanno necessità e, con la sorella Italia, dopo l'8 settembre, i soldati alleati in difficoltà nella zona. Dopo la morte della madre, Rosa ed Italia non si separano più. Il Governo concede loro di mantenere parte della pensione del padre, di cui usufruiva loro madre. Assieme tentano di fare rispettare il testamento di Costanza, che le faceva sole gestionarie della proprietà di Riofreddo, e continuano, come facevano prima della guerra, a curare la proprietà che assicura parte del loro reddito, nonché l'ambulatorio. Assistono il fratello Sante, tornato gravemente colpito nella salute dai campi di concentramento nazisti, ed il fratello Ricciotti nella malattia. Italia si prenderà cura di Rosa, ricoverata all'Ospedale San Giacomo di Roma solo negli ultimi tempi della sua vita. Vi muore il 4 aprile 1958.
Annita Italia Garibaldi, terza di Ricciotti e Costanza, è nata a Brighton, in Australia, il 20 luglio 1878. La sua nascita è trascritta a Roma solo nel 1912, quando chiede di entrare tra le fila della Croce Rossa nella guerra greco-turca del 1912. Nel 1880, la bimba torna in Italia con i genitori, la sorella maggiore Constance Rosa e con il fratellino Giuseppe (Peppino). La sua infanzia e l'adolescenza si svolgono a Roma. Segue attentamente le vicende della vita del padre al quale funge prestissimo da segretaria. Lei e la sorella Rosa vivono a Riofreddo gli anni difficili dell'esilio economico della famiglia lontano da Roma. L’aiuto del paese trasforma una arida proprietà in una piccola ma rigogliosa tenuta ricca d'alberi da frutta e animali da cortile, sede delle riunioni di famiglia e di un'infanzia che ricordano felice. Nella prima guerra mondiale, è infermiera della Croce Rossa sul Carso, poi rinnova l'impegno sul fronte apertosi in Francia dopo la fine della guerra italiana. Soggiorna presso il fratello Sante che intraprende un'attività lavorativa a Parigi, mentre svolge impegni negli Uffici Stampa per la delegazione italiana alla Conferenza della Pace di Parigi. ( è interprete d'inglese diplomata presso la Scuola Metodista di Roma). Segue la firma dei trattati di pace a Versailles e nel 1922 è a Washington per la Conferenza per la limitazione degli armamenti poi alla conferenza dell'Aia ed alla Conferenza di Genova. La sua opposizione al regime è netta in contrasto con parte della famiglia. Alla morte di Ricciotti, nel 1924, decide di viaggiare, quale conferenziera, anche per allontanarsi da Riofreddo e dall’Italia dove il fratello Ezio è podestà. S'impegna nel tentativo di organizzare l'emigrazione italiana negli Stati Uniti ed in Canada. Nel suo nuovo giro di conferenze svolge una forte campagna contro Mussolini. Il suo ritorno é ostacolato per non permetterle di manifestare la sua opposizione al trasferimento da Nizza a Roma delle ceneri d'Anita, la nonna, nel 1932, operazione che conduce autonomamente il fratello Ezio. Da allora deve accontentarsi della attività nella comunità riofreddana, dedicandosi con la madre e le sorelle all'Ambulatorio, oltre che a quello di La Maddalena, alla vita sociale della cittadina (vi introduce il cinema) e alle cure della proprietà di cui segue soprattutto l'aspetto amministrativo. Ostile all'alleanza tra l'Italia e la Germania, intensifica dalla fine degli anni '30 la corrispondenza con il fratello Sante, esule in Francia, e si mette in contatto con gli ambienti repubblicani italiani che fanno capo ad Aldo Spallici. Segue con la morte della madre il contenzioso ereditario, che le vedeva sole curatrici. Alle sorelle è mancato l'appoggio di Sante, deceduto nel 1946 in seguito alla deportazione nei campi di concentramento nazisti, mentre i fratelli Peppino e Ricciotti consumano gli ultimi anni nell'oblio. Italia deve rinunciare alla gestione dell'Ospedale di Riofreddo nel 1959 e muore in solitudine nel 1962. La rinascita della casa di Riofreddo, si vuole anche omaggio della città e della famiglia di Sante, presente tra le vecchie mura, ad Italia ed alla sorella Rosa: esempio di dedizione al dovere verso la tradizione garibaldina, in una versione femminile di grande coerenza.
Dal libro di Anita Garibaldi figlia di Ezio e di Speranza (Hope).... Costanza, cresciuta nell'alta società inglese, .... incontrando a Londra, a un ballo di palazzo, il "piccolo" di casa Garibaldi. Donna dalla tempra d'acciaio (metodista) e dall'inflessibilità vittoriana, mette al mondo 15 figli (nel totale forse conta anche quelli adottati dopo il terremoto di Messina) e segue la lezione dell'amica Florence Nightingale aprendo ospedali e raccogliendo fondi per opere di carità. Sarà lei a raccogliere dalla viva voce dell'anziano suocero i fatti di famiglia che, trasmessi anni dopo alla nipote, sono qui fedelmente riportati.
Giuseppina (Josephine), è nata ultima a Riofreddo il 26 maggio 1895. Ventun anni la separano dalla sorella Rosa, e diciannove da Annita Italia. L'educazione, però é uguale, improntata ai valori della società vittoriana ai quali Costanza non ha mai concesso accomodamenti. Josephine intende invece vivere nel suo tempo. La vita di sacrificio e di dedizione ai genitori che è stata imposta alle sorelle maggiori, e da loro accettata, non le si addice. E' molto vicina al fratello Ezio, dal quale solo un anno la separa: la loro visione della vita è molto più concreta di quella dei fratelli mandati giovanissimi per il mondo, e tornati in Europa per affrontare le guerre. Del fidanzamento tra Josephine e Giuseppe, o Joseph, Ziluca già si parla nel 1919. Giuseppe Ziluca, appartenente ad un'importante famiglia romana, è vedovo e padre di un bambino, Luca, che Josephine cresce assieme ai due figli suoi, Paul e Antony. Sembra che l'opposizione di Ricciotti e Costanza al matrimonio di Josephine sia stata strenue (lo sposerà solo dopo la sua morte nel 1924), così come quella delle sorelle maggiori. Intanto, Joseph Ziluca ha gettato le basi di una solida posizione economica negli Stati Uniti, cosa che non è riuscita a Peppino ed ad Ezio che hanno tentato assieme di stabilirvisi nell'immediato dopoguerra. La vita è rude per tutti gli immigrati, in America. Josephine entra perfettamente nella mentalità americana, ne condivide i valori, ne raggiunge le soddisfazioni. Tutto il suo sforzo è di assecondare il marito nella carriera d'imprenditore, e di mettere i figli in condizione di compiere prestigiosi studi, che li inseriscono nella più affermata società americana. Josephine torna, sembra, solo due o tre volte in Italia a salutare la madre. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, interviene sui fratelli perché Peppino, residente negli Stati Uniti da 16 anni, torni in Italia. Giuseppina, assieme al fratello Sante che vive e lavora in Francia, contribuisce materialmente al ritorno del fratello e della moglie, Maddalyn Nichols. Nel secondo dopoguerra, le relazioni tra i membri superstiti della famiglia si allentano ancora. Josephine interviene tuttavia, per raccomandare alla giovane generazione dei Garibaldi d'Europa un modello di vita impresso ai valori del mondo nel quale lei si è felicemente realizzata. Sempre in dissenso con le sorelle maggiori, ha rinunciato alla sua parte della proprietà famigliare di Riofreddo a favore del fratello Ezio, al quale sopravvive di pochi anni.
LO STATO MAFIOSO. LA MAFIA E’ LO STATO.
Coppola, lupara e codici. Sinergia tra organizzazioni segrete prima con i Borboni e poi con i Savoia, annessori ed invasori nordisti per la sottomissione e devozione ideologica del popolo meridionale che ha creato disamore per l’Italia e odio interregionale tra la popolazione.
Reato di farsa. In questa storia dei secessionisti c'è tutta l'infelicità italiana che condanna lo strapaese del separatismo al pittoresco della commedia, scrive Francesco Merlo il 3 aprile 2014 su "La Repubblica”. Il sardo, il bresciano, il piemontese, il veneto, il forcone, il campano e il siciliano uniti per dividersi. I magistrati di Brescia, oltre che indagare, dovrebbero ripassare i film di Totò, Monicelli e Dino Risi. Qui c'è infatti un malumore vestito da barzelletta più che una secessione armata. C'è l'infelicità italiana che condanna tutto lo strapaese del separatismo al pittoresco della commedia, persino salvandolo dal tragico delle armi, leggere o pesanti che siano. Anche il carrarmato è una ruspa col ringhio, come i motorini con la marmitta segata. E c'è una frase intercettata che inchioda i piani criminali alla maledizione dell'osteria: "Più che tagliare il salame abbiamo bisogno di caricare i candelotti di dinamite". E dove preparavano la rivoluzione i 24 briganti? In un ristorante del Bresciano, la provincia del Garda classico, rosso e sfuso: "Quando l'azione sarà fatta, sarà coordinata mezza Italia. Lo faranno anche i piemontesi, lo faranno anche i sardi, ciascuno nel loro sistema, ma sarà sincronizzato con la nostra, persino la Napulitanìa...". Spesso i giudici sono costretti ad ingabbiare dentro gli articoli del codice anche i comportamenti più disordinati, e a trasformare in capi di imputazione persino certi disturbi che hanno bisogno di essere compatiti più che capiti. Ma non si può sempre normare il fuori norma e prendere sul serio anche la confraternita di tutti i secessionisti, l'unità italiana degli anti italiani: "l'alleanza" la chiamano, l'alleanza dei campanili che è uno scoppiettante ossimoro. Nella geografia sentimentale del separatismo italiano la Sicilia vuole seppellire i piemontesi invasori e annessori, e il Veneto sogna di liberarsi dei campani succhia-soldi...: "abbiamo bisogno degli scoglionati" è invece la comica parola d'ordine dell'Alleanza. Ma gli "scoglionati" sono, per significato letterale, i senza voglia, i disertori, i menefreghisti, gli accidiosi: si può organizzare un esercito di renitenti alla leva e puntare sulla virilità degli svirilizzati? Ecco cosa i separatisti sognavano di dire agli italiani (quali?): "Andatevene dall'Italia e chiedete perdono per 147 anni di crimini, andatevene e vivrete, rimanete e morirete, perché noi instaureremo il terrore, sai come ci divertiremo noi! La mafia anche qua...". Ditemi se c'è più bisogno di curare o di arrestare, di infermieri o di carabinieri per questi separatisti unitari che vorrebbero diventare feroci come i mafiosi pur essendo "scoglionati" e cioè, come direbbe Camilleri, senza "cabasisi". Ma se non ce li hanno, come possono mostrarli? E già litigano sulla bandiera. Propone il padovano: "La nostra è il libro aperto, ma non ha la spada". Replica il bresciano: "Usiamo invece quella con la spada". E ne viene fuori una lunga gag sulla spada e sul libro aperto o chiuso. Poi si passa al carattere tipografico: sarà meglio il gotico o il lombardo? La parola terrorismo, che è ipotesi di reato, evoca in Italia un mondo di torvi assassini, dai brigatisti di via Fani ai killer di Marco Biagi, molto distante dalle "velleità separatiste" di Franco Rocchetta che i cronisti politici romani hanno conosciuto bene, un uomo di marce e di zuffe, ex deputato ed ex sottosegretario, fondatore della Liga veneta ma espulso dalla Lega perché "antipadano", una macchietta del separatismo che i suoi adepti chiamano "il letterato", residuo marginale improvvisamente legittimato e trasformato dalla procura di Brescia nel Bobby Sands italiano. Altri due arrestati, Luigi Faccia e Flavio Contin, sono veterani del putsch-burla, quello dei Serenissimi che nel 1997 salirono sul campanile di San Marco, già allora con un salame in borsa, e issarono la bandiera con il leone di Venezia. Anche all'epoca avevano costruito un carrarmato di cartone, il famoso "tanko Marcantonio Bragadin" targato VT MB che proprio il Contin, ora in galera, riscattò all'asta giudiziaria per 6674 euro e conservò, feticcio e cimelio dell'impresa eroica, nel capanno di casa, il garage della rivoluzione veneta. Il "tanko" è la loro ossessione: "Finalmente è arrivato il pezzo". Chiamano "la cattedrale" il capannone dove lo costruiscono. E se andasse male? "Scriverò un libro come le Br". "Sì, fai casino e finisci in tv". Poi si dividono gli incarichi: "Tu vai al governo e io al Parlamento". E nella serata che chiamano "dell'investitura" fanno indossare a due giovani aspiranti, Tiziano Lanza detto Eddy e Stefano Ferrari detto "il truce", i baschi dell'affiliazione: "Ma devo fare anche dei discorsi?". E c'è chi si assenta per una settimana e chi non può partecipare perché si sente influenzato. Somigliano ai pensionati di Piero Chiara: vino rivoluzione e carte. Hanno una politica estera: "Le basi Nato le lasceremo". Sognano di entrare con la macchina dentro Equitalia e uscire dall'altra parte; di far fuori "tutti i forestieri"; di fondare la Banca Nazionale veneta. Verrebbe voglia di liquidarli con qualche battuta salace se i giudici non avessero arrestato per terrorismo il folclore, lo stato d'animo, la bile sociale. Solo la galera può trasformare Rocchetta e i suoi seguaci nei Robin Hood dell'Italia che in fondo è ancora incompleta.
La Mafia, lo Stato e l’economia capitalista. Da “Lutte de Classe”, n° 128, maggio – giugno 2010. Nonostante la lotta alla mafia e alla criminalità organizzata sia stata da decenni all’ordine del giorno di tutti i governi italiani, probabilmente mafia e criminalità non sono mai state così influenti. La serie di arresti, i processi e maxi-processi, gli annunci di colpi decisivi portati alla mafia con l’arresto di un boss di primo piano, poi di un altro, si spezzano come le onde sugli scogli: la potenza della mafia, o meglio delle mafie si evidenzia dal loro crescente giro d’affari, dal controllo di settori dell’economia e anche dal fatto che evidentemente dispongono di numerose complicità a tutti i livelli del sistema politico. Se i tentacoli della Mafia, come quelli dell’Idra di Lerna, risorgono man mano che vengono tagliati, è perché la Cosa nostra siciliana o la ’Ndrangheta calabrese, la Camorra napoletana o la Sacra Corona Unita pugliese, non solo hanno una vecchia storia ma ricavano dalla società, e più particolarmente dai circuiti economici del capitalismo, gli alimenti in cui trovano sempre nuove forze.
Mafia e Risorgimento. Il fenomeno mafioso e i suoi rapporti speciali con le autorità statali, particolarmente in Sicilia, rimandano alle condizioni in cui, nella seconda metà dell’Ottocento, lo Stato unitario si impose contro la resistenza del Regno di Napoli, detto Regno delle Due Sicilie, che controllava l’isola e tutto il sud della penisola. Se il Risorgimento fu per l’Italia un processo di rivoluzione borghese, fu una rivoluzione borghese incompleta. La Sicilia ha conosciuto lungo tutta la storia l’esistenza di società segrete ed armate che si presentavano come organizzazioni di resistenza all’occupante straniero, oppure di difesa dei poveri contro i potenti, pur intrattenendo con questi potenti relazioni ambigue. D’altra parte, ben prima dell’unità, gli aristocratici siciliani mantenevano uomini armati e milizie private per imporre ai contadini il rispetto dell’ordine feudale, e tra l’altro il pagamento delle tasse e il rispetto dei loro obblighi nei confronti dell’aristocrazia. L’abolizione del feudalesimo nel 1812 non fece altro che rafforzare tale necessità. Non fu la fine della proprietà latifondistica; invece aprì la strada ad un lento processo di disgregazione del sistema fondiario. I latifondisti vissero sempre di più nelle città dando la gestione dei loro feudi ai gabellotti, amministratori il cui compito era prelevare le tasse dovute dai contadini. Con l’aiuto dei campieri, prelevano in particolare la gabella, termine utilizzato in Sicilia per indicare gli affitti dovuti ai proprietari. Contemporaneamente la pressione dei contadini per ottenere il diritto alla terra aumentava, portando nell’ultimo periodo del regime dei Borboni di Napoli a sussulti e anche insurrezioni contadine, a cui i gabellotti risposero ricorrendo ai metodi tradizionali e organizzando le loro proprie bande armate. La nuova borghesia rurale rappresentata dai gabellotti si faceva giustizia da sé, il che non era altro che proseguire le vecchie abitudini dei latifondisti, per conto di questi ultimi ma anche per proprio conto, man mano che gli stessi gabellotti concentravano nelle loro mani una parte della proprietà fondiaria. La borghesia del Nord voleva costituire uno Stato esteso a tutta la penisola, che a sua volta le avrebbe garantito la disponibilità di un mercato dalle stesse dimensioni. Ma il regno di Napoli si appoggiava alle classi possidenti delle regioni del sud, cioè innanzitutto la vecchia aristocrazia proprietaria dei latifondi, alleata ad una borghesia cittadina ancora debole, che solo a Napoli conosceva l’inizio di uno sviluppo. Si tende a ricordare di questo periodo dell’unificazione dell’Italia solo l’avventura eroica di Garibaldi e delle sue mille "camicie rosse" sbarcate in Sicilia nel maggio 1860 per liberare l’isola dal dominio borbonico e conquistarla al nuovo Stato, che doveva essere quello di tutto il popolo italiano. Ma il re di Sardegna e il suo ministro Cavour, che dirigevano il processo di unificazione, utilizzarono Garibaldi entro stretti limiti. Capivano l’interesse di utilizzare l’uomo per dare al processo un’apparenza rivoluzionaria, e così assicurarsi il sostegno della piccola borghesia patriottica. Ma dietro questa facciata, la borghesia e lo Stato del Nord non volevano una mobilitazione delle masse, che avrebbe rischiato di prendere un carattere rivoluzionario e di stravolgere il fragile equilibrio sociale delle regioni meridionali. Al contrario, nei confronti delle classi possidenti di queste regioni lo Stato piemontese cercava il compromesso. Voleva dimostrare che il nuovo Stato unitario poteva essere un miglior protettore, un garante più sicuro del loro dominio sociale di quanto non lo fosse lo Stato dei Borboni di Napoli in fase di decomposizione. Nel 1848 Ferdinando Secondo di Borbone si era ridotto a fare bombardare Messina per mantenere il suo dominio sulla Sicilia. Bisognava dimostrare alle classi possidenti dell’isola che il nuovo potere sarebbe stato almeno tanto duro quanto questo sovrano, che si era conquistato con l’avvenimento di Messina il soprannome di "re bomba". Lo stesso Garibaldi fu ben presto portato a dare questa dimostrazione, poco dopo lo sbarco in Sicilia, quando le masse contadine interpretando il suo arrivo come il segnale della loro liberazione cominciarono a sollevarsi contro l’aristocrazia terriera e ad occupare i grandi demani per proprio conto. Il "rivoluzionario" e le sue mille "camicie rosse" inviate da Cavour si rivolsero immediatamente contro le masse. Garibaldi, che si era proclamato dittatore per conto del re, organizzò la repressione del movimento contadino, con grande sollievo dell’aristocrazia siciliana. Così il passaggio di potere dalle mani dei Borboni a quelle del Regno piemontese, e la presa di controllo di quest’ultimo sulla Sicilia e il Meridione, poterono portare secondo la famosa frase del principe Salina, eroe del romanzo "Il gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a "cambiare tutto perché tutto rimanga com’è". Il dominio di classe dei grandi latifondisti si mantenne, cambiando solo il protettore. Al tempo stesso però questa scelta impediva al nuovo Stato di conquistare una larga base sociale in seno alla popolazione del sud. Lo sbarco di Garibaldi e l’instaurazione dello Stato unitario in Sicilia e in tutto il Meridione non furono la profonda rivoluzione che, sgomberando tutto il campo sociale, avrebbe potuto sconvolgere i rapporti di classe, e tra le altre conseguenze togliere la loro funzione alle bande armate dei gabellotti. Al contrario, il mantenimento della vecchia struttura sociale, il compromesso tra le vecchie classi possidenti e il nuovo Stato, aprivano uno spazio allo sviluppo e al consolidamento di queste bande. Le organizzazioni mafiose poterono imporre la loro esistenza come quella di una specie di potere occulto, necessario intermediario tra la società siciliana e uno Stato unitario troppo distante.
Una forza armata della borghesia siciliana. La stessa origine della parola "mafia" è ancora oggetto di discussione fra gli storici, anche se molti oggi la individuano nella parola araba "muhafiz" che significa "protettore, custode". La storia della mafia siciliana rimane poco conosciuta per l’evidente motivo che si tratta di un’organizzazione segreta, e tale cerca di mantenersi ad ogni costo. Nelle sue ricerche sul fenomeno mafioso alla fine dell’Ottocento, lo storico Salvatore Lupo dimostra come il ceto dei ricchi contadini e dei notabili, e tra l’altro dei gabellotti, riuscì a trarre vantaggio dal contesto sociale per imporre la sua presenza ad un’aristocrazia declinante e al potere di uno Stato che rimaneva senza forti collegamenti con la società. Non esitando a ricorrere alla violenza armata, all’intimidazione e all’assassinio, in un contesto di debolezza dello Stato e della sua autorità, i mafiosi riescono allora ad imporsi come gli intermediari necessari per risolvere i conflitti. Un furto di bestiame, un conflitto sul pagamento di un debito, trovano una soluzione non tanto grazie all’intervento dello Stato e della giustizia, ma nell’ambito di una “componenda”, una transazione in cui il mafioso locale fa da arbitro, non dimenticando di trattenere la sua commissione. Questa specie di tribunale dei conflitti impone tanto più facilmente il suo arbitrato in quanto tutti cominciano a sapere, almeno in seno alla popolazione povera, che chi non lo dovesse rispettare rischierebbe un bel giorno di ritrovarsi cadavere crivellato di pallottole in qualche campo, senza che sia mai possibile trovare un colpevole e neanche un testimone, perché la legge del silenzio, l’omertà, s’impone a tutti. Da parte loro, aristocratici e grandi proprietari, un po’ più rispettati dai mafiosi, non rischiano in generale di subire tali estreme conseguenze. Ma se volessero fare a meno dell’arbitrato mafioso, anche loro potrebbero subire qualche ritorsione, rapina o avvelenamento di pozzi. L’esperienza dimostra anche a loro che è più ragionevole accettare questo arbitrato, che non quello di un lontano potere statale. In due occasioni ancora, dopo l’unità d’Italia, il potere mafioso fu portato ad esercitare una violenta repressione contro la popolazione siciliana. Fu il caso nel 1866, quando l’esercito schiacciò nel sangue l’insurrezione di Palermo, organizzata in parte da elementi del vecchio regime, ma basata su un profondo malcontento popolare. Poi, nel 1891-1894, fece fronte al movimento ben più largo e più cosciente dei fasci siciliani dei lavoratori. Anche se 25 anni dopo Mussolini avrebbe rubato il loro nome, questi fasci siciliani della fine dell’Ottocento ovviamente non avevano alcun rapporto con il movimento fascista. Organizzazioni della popolazione povera, contadini, braccianti, mezzadri, operai, minatori, artigiani, i fasci, nati in tutta la Sicilia, erano l’espressione delle rivendicazioni di questi ultimi e tra l’altro della fame di terra dei contadini, ma erano anche improntati ad uno spirito ugualitario e socialista. L’esercito rispose al movimento dei fasci reprimendo le occupazioni di terra, tra l’altro con l’eccidio di Catalvuturo nel gennaio 1893. Ma di fronte a questo movimento di massa, che divampava in tutta la Sicilia, il governo liberale di Giolitti fu costretto a fare concessioni, prima di essere sostituito alla fine del 1893 dall’ex garibaldino e uomo della sinistra storica Francesco Crispi. Quest’ultimo, obbedendo alla pressione delle classi possidenti siciliane, organizzò una vasta repressione e mandò in carcere i dirigenti del movimento. Quanto alla mafia, anche se a livello locale alcuni dei suoi membri aderirono al movimento dei fasci, il suo intervento fu innanzitutto di aiuto alla repressione. “Lo Stato è una banda di uomini armati” ha riassunto Engels in una famosa formula, indicando così, in una società divisa in classi, la necessità di un potere basato su una forza armata che faccia rispettare questa divisione a vantaggio della classe possidente. Ma nelle condizioni di instabilità della Sicilia post unitaria, la sola forza armata dello Stato italiano si rivelava insufficiente per adempiere a questo compito in modo durevole, e la mafia diventava per le classi possidenti un complemento indispensabile. Le condizioni originali della rivoluzione borghese in Sicilia e in tutto il Meridione, quindi, hanno fatto sì che alla banda armata dello Stato italiano se ne aggiungesse un’altra, occulta ma non meno necessaria della prima al mantenimento dell’ordine borghese. Espressione di una parte della borghesia locale, al tempo stesso rivale e ausiliaria del potere di Stato ufficiale, questa banda, la mafia, divenne un elemento inevitabile della società. Essa stessa aveva bisogno di darsi un’organizzazione, e lo fece sotto il nome di “Onorata società”, sotto la direzione di Don Vito Cascio Ferro, che pare sia stato, alla fine dell’Ottocento, il primo autentico capo della mafia. Fu sotto il suo controllo che la mafia si dette una struttura centrale, un’organizzazione territoriale, definendo i feudi di ogni “cosca”... e un finanziamento sistematico tramite il pizzo, prelievo mafioso sui redditi di ciascuno. L’organizzazione mafiosa avrebbe poi preso il nome di Cosa nostra, reimportando dagli Stati Uniti il nome preso dalla mafia italiana in questo paese. Questa “Onorata società” e i suoi membri, gli “uomini d’onore”, trovarono inevitabilmente delle complicità e anche dei rappresentanti all’interno del potere di Stato. Organizzazione nata in una società ancora precapitalista, seppe poi seguire le evoluzioni economiche e prendere posizione nel mondo degli affari, specializzandosi ovviamente in tutti quelli per cui era necessario fare largamente a meno della legalità borghese.
Mafia e borghesia mafiosa. In Sicilia già alla fine dell’Ottocento si può parlare dell’esistenza di un’autentica borghesia mafiosa. L’assassinio di Emanuele Notarbartolo, nel febbraio 1893, solleva uno scandalo nazionale perché la vittima è un ricco borghese, che è stato sindaco di Palermo dal 1873 al 1876, poi direttore generale della Banca di Sicilia fino al 1890. Ma il mandante dell’assassinio è anche lui un potente notabile, Raffaele Palizzolo, deputato eletto grazie alla rete di clientele politiche a cui dispensa favori. Si conoscono i suoi numerosi conflitti con Notarbartolo, che gli rimprovera i suoi intrallazzi finanziari, conflitti a cui l’assassinio di Notarbartolo da parte di un sicario di Palizzolo permette di porre termine. Nonostante tutto, lo scandalo porta Palizzolo in carcere davanti ai tribunali del Nord, prima di essere finalmente liberato per insufficienza di prove, e di tornare trionfalmente in Sicilia con l’aureola del martirio. Comunque il caso dimostra che la mafia ha già cambiato epoca e che, da organizzazione della borghesia rurale, è diventata anche quella di una parte della borghesia urbana, e dispone di importanti complicità in seno al sistema politico. Messa sotto accusa dalla stampa nazionale, alla quale lo scandalo dà l’occasione di scoprire la sua natura mafiosa, la buona società siciliana risponde ovviamente che la mafia non esiste: è solo un’invenzione della gente del Nord, un nuovo modo per denigrare, ancora una volta, la gente del Sud e i suoi costumi. In seguito, il periodo fascista - cominciato nel 1922 - fu difficile per la Mafia, o almeno per un certo numero di mafiosi. Mussolini voleva dimostrare che la sua dittatura non tollerava che una parte del paese potesse sfuggire al suo controllo. Inviò nell’isola il prefetto Mori, con l’ordine di fare la guerra alla mafia con tutti i mezzi dello Stato. Egli organizzò vere e proprie operazioni militari, portando all’arresto e alla deportazione di centinaia di mafiosi, di cui alcuni si salvarono solo con la fuga, verso gli Stati Uniti in particolare. La repressione del prefetto Mori, che in questa occasione meritò il soprannome di “prefetto di ferro”, fece sparire una parte della delinquenza mafiosa, ma in realtà toccò solo il livello degli esecutori, degli sgherri, delle famiglie che controllavano questa o quella parte del territorio. Non solo il livello più alto dei finanzieri e dei grandi latifondisti non fu toccato, ma essi riuscirono a darsi una rappresentanza in seno al partito e al potere fascisti. Lo stesso “prefetto di ferro” cadde in disgrazia, e in realtà il solito compromesso tra Mafia e potere fu mantenuto, anche se in modo meno vistoso. Passato quel periodo di mezza clandestinità, la Mafia poté risorgere con forza dopo lo sbarco anglo-americano del 1943, che essa facilitò, e la fine del potere fascista nell’isola. Riprese rapidamente il controllo del territorio, con l’appoggio delle autorità d’occupazione, soddisfatte di trovare interlocutori autorevoli e capaci di controllare la popolazione. Una parte della Mafia appoggiò anche un effimero movimento per l’indipendenza della Sicilia, dichiarando che l’isola sarebbe divenuta il cinquantesimo Stato degli USA.
Ma innanzitutto, la Mafia affermò ancora di più il suo potere sulle campagne siciliane, nel momento in cui, con la fine della guerra, il movimento contadino riprendeva a crescere. Sindacalisti contadini e militanti del Partito comunista organizzavano nuove occupazioni delle terre dei latifondisti, la cui influenza si era piuttosto rafforzata nel periodo fascista. Una convergenza si organizzò allora, tra le forze di repressione del cosiddetto Stato Democratico che si stava instaurando e la Mafia. Già nel 1944 a Villalba, feudo del boss mafioso Calogero Vizzini, quest’ultimo diede l’ordine di sparare su un comizio del dirigente comunista Li Causi. L’episodio più famoso fu però la strage di Portella della Ginestra, il 1° maggio 1947, quando la banda di Salvatore Giuliano aprì il fuoco sui contadini riuniti lì per un comizio, facendo una decina di morti. Ma ogni giorno i sindacalisti contadini rischiavano la vita, minacciati dai mafiosi, i quali erano coperti da numerosi complici in seno all’apparato di Stato e fino a Roma. Lo stesso Salvatore Giuliano, la cui banda fu utilizzata dalla Mafia, fu ucciso nel 1950 dal suo luogotenente Pisciotta, il quale a sua volta sarebbe morto in carcere quattro anni dopo, per avere bevuto un caffè avvelenato. In tutti questi casi le complicità risalgono fino al ministro degli Interni dell’epoca, Mario Scelba, uomo forte della Democrazia Cristiana. Grazie a questi omicidi successivi, eliminando testimoni fastidiosi, si riuscì ad evitare di sapere di più su chi li aveva coperti. Così ristabilito “l’ordine”, il periodo che si apre col secondo dopoguerra mondiale sarà favorevole. Gli anni 1950-1960 rimangono famosi come quelli del “sacco di Palermo”, periodo in cui un certo numero di imprese edili, fra le quali quelle del mafioso Francesco Vassallo, fanno affari d’oro grazie alle loro relazioni con tutti i dirigenti democristiani. Nel complesso però è un periodo abbastanza incerto per Cosa nostra, perché negli anni dal 1950 al 1960 il controllo della Mafia sulla società siciliana diminuisce. L’espansione economica di quel periodo, lo sviluppo dell’industria, dei servizi, degli impieghi pubblici, ma anche la massiccia emigrazione verso il Nord per la mancanza di lavoro, consentono infatti a tutta una parte della società di non essere più alle sue dipendenze. In questa società che sembra in progresso “l’uomo d’onore” non ispira più lo stesso rispetto. Anche se Cosa nostra prosegue le sue solite attività, il suo ruolo diminuisce, almeno relativamente allo sviluppo del resto della società. Purtroppo, sarà solo una parentesi.
Da questo punto di vista gli anni ’70 rappresentano una svolta. Mentre il periodo di espansione economica volge alla fine, le attività più parassitarie diventano più importanti. La collusione con i Comuni amministrati dalla Democrazia Cristiana permette di approfittare delle licenze di costruzione e degli appalti pubblici. La Mafia preleva il pizzo sulla maggior parte degli affari, che si tratti dei mercati agroalimentari o della costruzione di una strada. Si può allora verificare che la Mafia e i mafiosi hanno fatto un salto decisivo: la borghesia mafiosa è ormai una borghesia d’affari, radicata nell’immobiliare, nell’edilizia, nei lavori pubblici e nella finanza. Al tempo stesso la Mafia si apre al commercio internazionale, prende una posizione di primo piano nel narcotraffico, la cui espansione diventa mondiale. La sua organizzazione clandestina, la sua pratica delle armi e delle intimidazioni, i suoi collegamenti con le famiglie di Cosa Nostra negli Stati Uniti, sono in questo senso vantaggi importanti. Tuttavia non tutto è semplice in seno a Cosa nostra. L’esistenza di una “Cupola”, una specie di direzione suprema che riunisce le famiglie mafiose, destinata ad arbitrare sulla delimitazione di territori e campi di competenza, evidentemente non basta a risolvere i conflitti. Le guerre mafiose scoppiano quindi periodicamente tra le famiglie, lasciando morti sul terreno. Ogni tanto, anche i poliziotti, o i giudici troppo curiosi, o che credono troppo alla loro funzione, sono minacciati o eliminati. Lo Stato così sfidato è allora costretto a reagire, e i governi a rimettere all’ordine del giorno la lotta alla Mafia, limitando per qualche tempo la sua libertà d’azione o almeno le sue manifestazioni troppo vistose.
Camorra, ’Ndrangheta ed altri. C’è nella storia della Camorra, la mafia della regione napoletana, un certo parallelismo con quella del suo corrispettivo siciliano, anche se è nata in un contesto urbano ben diverso dal contesto rurale dell’isola. Anche in questo caso, la stessa origine della parola “camorra” è ancora discussa dagli storici, che però sembrano ormai preferire un’origine spagnola dalla parola, Guarduña. Sembra comunque che almeno sin dal Cinquecento il nome sia stato dato alle bande di malfattori che imperavano nei quartieri di Napoli, e prelevavano la loro decima. Nel 1820 queste bande si diedero una struttura, costituendo la “Bella società riformata”, nel corso di una riunione tenutasi nella Chiesa Santa Caterina a Formiello, nel quartiere di Porta Capuana a Napoli. Da parte sua il regime regio, che stentava a controllare questa città socialmente esplosiva, incapace di impedire l’esistenza di bande di delinquenti che sfruttavano sistematicamente i quartieri, preferiva tollerarli ed eventualmente utilizzarli. La polizia dei Borboni di Napoli collaborò con queste bande, integrandole anche parzialmente al suo organico e utilizzando la Camorra come strumento di controllo sociale. Lo Stato Unitario, sostituendo dopo il 1860 il vecchio Stato dei Borboni, riprese anche i suoi metodi. Con alti e bassi le relazioni di complicità, di collaborazione o almeno di rispetto reciproco - ognuno lasciando all’altro il suo proprio terreno - si mantennero. L’organizzazione della camorra subì alcune trasformazioni: la Bella società riformata fu sciolta ufficialmente nel 1915. Fino a quel momento, i tentativi per darle un’organizzazione piramidale sul modello siciliano erano falliti. La “Nuova Camorra Organizzata”, lanciata dal boss Raffaele Cutolo negli anni ‘70 come tentativo di resuscitare la Bella società riformata dell’Ottocento, si scontrò con la resistenza dei concorrenti, facendo esplodere una sanguinosa guerra di clan. Oggi ne risulta però una divisione di fatto del territorio tra le varie famiglie. La Camorra è sopravvissuta grazie alla tolleranza dello Stato e perché ha saputo seguire l’evoluzione economica, occupando gli spazi offerti dai traffici di ogni genere e quello dell’economia sommersa, al punto da diventare nel pieno del ventunesimo secolo una potenza, forse ancora più radicata in Campania di quanto lo sia Cosa Nostra in Sicilia. Anche nella storia della ’Ndrangheta calabrese c’è qualche parallelismo con quella della sua corrispettiva siciliana. La parola deriva dal greco andragathìa, (virilità, coraggio) e ha indicato nel corso dell’Ottocento le organizzazioni segrete create dai contadini per resistere al potere dei grandi proprietari. Praticando le estorsioni in risposta alle estorsioni dei ricchi, queste associazioni diventarono semplici associazioni criminali, i cui membri però godevano sempre di un certo rispetto da parte della popolazione. I ceti più ricchi a loro volta si accordarono con esse. Anche in questo caso il potere occulto della ’Ndrangheta poté imporsi come una necessità, accanto ad un potere di Stato distante o assente. Dopo le difficoltà del periodo fascista, i boss locali della ’Ndrangheta poterono riapparire alla fine della Seconda guerra mondiale dopo lo sbarco alleato. Come in Sicilia, le autorità d’occupazione preferirono affidare l’amministrazione di molte città a questi uomini, capaci di esercitare la loro influenza e di controllare un territorio. La ’Ndrangheta è anche l’organizzazione mafiosa che ha conosciuto lo sviluppo più spettacolare in questi anni. Discreta, basata su una struttura familiare e riti di appartenenza e di selezione che la rendono difficilmente penetrabile, ha potuto stabilire il suo controllo sull’economia agricola della regione Calabria. Poi, partita dal sud della penisola, è riuscita a controllare parti notevoli dell’economia del Nord. La Sacra Corona Unita, la mafia della regione pugliese, la Stidda del sud della Sicilia, sono organizzazioni mafiose dalla storia più recente, nate come emanazioni della ’Ndrangheta o di Cosa Nostra, per iniziativa di alcune famiglie di queste due organizzazioni. Tutte queste organizzazioni mafiose ereditano della loro storia caratteristiche comuni. Alcune sembrano solo folcloristiche, come le procedure di adesione alla società segreta, i riti di iniziazione con cui i nuovi membri devono giurare fedeltà alla tradizione, giurare di ubbidire ai capi, accettare in anticipo la sentenza di morte, in caso di tradimento o di rivelazione di segreti dell’organizzazione. Eppure tutto questo risponde, più che al folclore e alla tradizione, a una necessità concreta, trattandosi di costituire società segrete che possano agire efficacemente ai margini della legge, e farsi rispettare, sia dai loro propri membri che da tutti quelli con cui fanno affari. La cosiddetta “cultura” mafiosa si aggiunge a queste necessità. Secondo le sue regole, “l’uomo d’onore” siciliano membro di Cosa nostra deve obbedire a determinati principi: rispettare la parola data, non ammettere il tradimento, punire chi lo pratica, essere giusto nell’arbitrato, accettare il sacrificio di sé per la causa degli “amici”, cioè dell’organizzazione. Questa morale, che si pretende specificamente siciliana, non manca anche di ispirarsi al conformismo cattolico: “l’uomo d’onore” dovrebbe anche essere un buon cristiano, non avere altra ambizione che far vivere bene la famiglia, rispettare le donne e - per esempio - rifiutare di sfruttare la prostituzione o di traviare i giovani. Ma ovviamente questi ultimi “principi” non reggono a lungo quando entrano in contraddizione con gli interessi dell’organizzazione, e tra l’altro con la necessità di affrontare la concorrenza di altre organizzazioni, che non fanno neanche finta di avere questa morale: fra il rischio di lasciare un “mercato” ad altri e transigere con i principi si fa presto a scegliere. Tutta questa cosiddetta morale si ispira necessariamente alla storia della società in cui evolvono le bande mafiose, dando ad ognuna la sua specificità. La sua funzione è di dare una certa coerenza alla banda, ma anche una buona coscienza all’ “uomo d’onore”, e innanzitutto al suo ambiente personale e familiare. Con l’aiuto di questa sorta di ideologia mafiosa, gli appartenenti a questo ambiente possono dichiarare che il mafioso, quando agisce in un modo che la maggior parte della società considera come criminale, non fa altro che difendere la famiglia e gli amici, conformandosi alle regole tradizionali. Certamente si potrebbero ritrovare regole dello stesso tipo nelle bande di delinquenti di tutto il pianeta. Ma fatto sta che questa banda riesce da più di un secolo a vivere in osmosi con una parte della società, e anche con una frazione importante dei ceti dirigenti.
Mafia ed economia. Il ricorso ai metodi d’intimidazione, all’assassinio, e a tutte le risorse che possono risultare da un’esistenza ai margini della legalità, tutto questo facilitato dalla tolleranza o addirittura dalla complicità delle autorità, hanno consentito alle organizzazioni mafiose di riuscire a conquistare un ruolo economico crescente. Si è visto come in Sicilia la vecchia mafia rurale ha saputo diventare un’autentica mafia d’affari, imperando sugli appalti di lavori pubblici e nella costruzione immobiliare, acquistando un ruolo dominante nel commercio internazionale dell’eroina, prelevando il pizzo su gran parte delle attività economiche, e naturalmente stabilendo legami con il mondo finanziario per avviare il riciclaggio del denaro sporco. Secondo alcuni studi il giro d’affari globale di Cosa nostra sarebbe di almeno 20 miliardi di euro, l’equivalente di un quarto del Pil della Sicilia, e aumenterebbe ancora.
In Campania la spartizione del territorio tra le famiglie della Camorra consente loro di controllare gran parte dell’attività economica. Roberto Saviano, oggi minacciato di morte dal clan di Casal di Principe che egli ha denunciato con nomi e cognomi, ha descritto nel suo libro “Gomorra” il ventaglio delle attività dell’organizzazione criminale. Così, a partire dalle attività tradizionali di controllo dei traffici di sigarette o di narcotici, dalla pratica del prestito usurario alla prostituzione e all’immobiliare, dai lavori pubblici al pizzo sulle attività del porto, la Camorra è passata a campi più vasti: il controllo delle imprese d’appalto del settore tessile, impiegando gran parte di lavoratori al nero, e adesso il grande business dello smaltimento dei rifiuti, per cui i rappresentanti di commercio della Camorra girano tutta l’Europa per proporre di far scomparire i rifiuti industriali nella campagna napoletana, a prezzi stracciati ma inquinando gravemente e irrimediabilmente il suolo. La morsa della Camorra sul territorio della regione non ha fatto altro che rafforzarsi. L’aumento della disoccupazione e la perdita del lavoro nell’industria, infatti, non lascia più altra prospettiva ad una parte della gioventù, se non quella di accettare di lavorare per la Camorra, ad un livello che spesso è solo quello di aiutanti o di sgherri. Anche lì il giro d’affari complessivo della Camorra sarebbe di almeno 20 miliardi di euro. Infine la ’Ndrangheta calabrese ha avuto un’estensione più discreta di quella delle sue sorelle siciliana e napoletana, perché più silenziosa e accompagnata da meno regolamenti di conti e assassinii, ma certamente non meno efficace. I fatti di Rosarno, nel gennaio 2010, in cui i suoi uomini hanno organizzato una spedizione punitiva contro i lavoratori immigrati impiegati negli agrumeti, hanno dimostrato in che misura sia una milizia antioperaia al servizio dei proprietari. Ma in realtà essa controlla gran parte del settore agroalimentare, dalla raccolta al trasporto e all’esportazione. Bisogna aggiungere ovviamente l’immobiliare e il racket dei lavori pubblici, illustrato dalle varie inchieste sulle gare d’appalto per l’assegnazione dei lavori dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria alle varie famiglie della ’Ndrangheta. Ma la maggior parte del giro d’affari dell’organizzazione deriva ormai dal controllo che, uscendo dalla sua regione d’origine, ha potuto stabilire sul traffico della cocaina nel Nord, dal quale ricaverebbe il 60% dei suoi redditi. Così, arrivata ad accumulare enormi somme in contanti, la ’Ndrangheta le ricicla investendo nell’immobiliare e creando imprese nel settore edilizio, assicurandosi i mercati tramite la minaccia e il racket, già largamente sperimentati in Calabria per i lavori dell’autostrada già citata. Così una parte della ricca Italia del Nord, intorno a Milano, ormai paga il pizzo ai clan venuti dalla Calabria. Grazie a questo, l’organizzazione sarebbe diventata la più ricca delle organizzazioni mafiose con un giro d’affari che sarebbe di 45 miliardi di euro in Italia. Ma ormai la ’Ndrangheta ha allargato il suo campo d’azione ad altri paesi europei, quali la Germania, la Spagna o la Francia. Così il giro d’affari annuale complessivo dell’insieme delle mafie italiane potrebbe avvicinarsi a 100 miliardi di euro. Anche la Confesercenti, associazione professionale delle medie e piccole imprese, ha stimato il bilancio complessivo delle mafie italiane a 135 miliardi di euro nel 2009, di cui 78 miliardi di utile netto. Un tale giro d’affari rappresenta più del 7% del Pil italiano. Infatti non c’è più traffico nel quale siano assenti, dal traffico di organi a quello delle armi, o addirittura dei prodotti radioattivi, dal settore sanitario a quello dei giochi, dai night allo sfruttamento delle filiere d’immigrazione clandestina.
Mafia e potere politico. Abbiamo visto come, sin dall’inizio del fenomeno mafioso, i rapporti tra quest’ultimo e il potere politico siano stati rapporti di complicità ben più che di confronto. Per la borghesia siciliana la Mafia era ed è rimasta uno strumento del suo dominio di classe, ed è così anche in Calabria e in Campania. Questo implica che, in un modo o nell’altro, essa penetri il potere politico e ne faccia fino ad un certo punto il proprio strumento, o comunque che questi due poteri paralleli collaborino e qualche volta si confondano. La collaborazione esiste prima di tutto a livello locale, laddove i politici possono essere eletti solo se dispongono di una clientela elettorale a cui rendono qualche servizio. La Mafia o la Camorra, con il loro radicamento locale, possono fornire una tale clientela, o al contrario ritirare l’appoggio ai responsabili politici che non sono abbastanza comprensivi, o li possono anche semplicemente fare fuori. Gli scandali scoppiano ogni tanto, quando la collusione diventa troppo pubblica, ma in territorio mafioso è permanente e inevitabile. Era di dominio pubblico, durante il lungo regno della Democrazia cristiana, che questo partito in Sicilia era il partito della Mafia, o comunque quello da essa sostenuto. Il periodo recente, dopo la fine della seconda guerra mondiale, è stato in effetti quello della collaborazione più aperta, fra l’altro sotto il regno dei sindaci democristiani di Palermo, Salvo Lima e poi Vito Ciancimino, anche se d’altra parte lo Stato centrale era portato a combattere le manifestazioni più vistose della Mafia. Aggiungiamo che tra mafiosi e politici borghesi l’anticomunismo e l’antisindacalismo hanno sempre fatto da cemento, i primi tra l’altro essendo in grado di svolgere il lavoro sporco che gli altri non si possono permettere. Al livello dei dirigenti politici nazionali, ovviamente la collusione non è così aperta, ma è evidente che delle relazioni s’intrecciano tra dirigenti dello Stato e dirigenti mafiosi, fosse solo tramite i politici locali più vicini a questi ambienti. Il caso più conosciuto è quello di Giulio Andreotti, che fu sette volte presidente del Consiglio e comunque membro di quasi tutti i governi dal 1954 al 1992, e oggi finisce tranquillamente la sua carriera politica come senatore a vita della Repubblica. Secondo le dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta, questo dirigente della Democrazia cristiana, la cui longevità gli ha valso il soprannome di “inossidabile”, non avrebbe esitato ad incontrare direttamente il capo della Mafia Toto Riina a Palermo nel settembre 1987, incontro che si sarebbe concluso con il famoso “bacio”, segno di fiducia alla moda mafiosa fra i due uomini. Le accuse di collusione hanno dato luogo a processi da cui Andreotti è uscito assolto solo grazie al superamento dei termini di prescrizione. In effetti, i termini del giudizio hanno considerato che la “collaborazione attiva” tra Andreotti e Cosa nostra era stata stabilita. Maggiore capo di Cosa nostra negli anni settanta, Stefano Bontate era in effetti molto vicino a Salvo Lima e Vito Ciancimino, i sindaci di Palermo più compromessi con la Mafia, che inoltre in seno alla Democrazia cristiana erano i migliori sostenitori di Andreotti. Molteplici fatti documentavano quindi la “collaborazione attiva” di cui parla il giudizio. Le cose cambiarono un po’ solo quando, in seno a Cosa nostra, il cosiddetto clan dei corleonesi cominciò a contestare il potere di Bontate. Dopo il suo assassinio nel 1981, fu sostituito alla testa di Cosa nostra da Totò Riina. Questo nuovo “capo di tutti i capi” si dimostrò meno propenso al compromesso, e sotto la sua direzione la collaborazione fra l’organizzazione mafiosa e la Democrazia cristiana divenne più difficile. Eppure, sempre sotto l’influenza democristiana, lo Stato fece un certo numero di gesti in direzione della Mafia, come l’annullamento di alcune sentenze o il visibile abbandono del generale Dalla Chiesa, inviato in missione nell’isola con il titolo di super prefetto, che morì assassinato. In questo contesto, il bacio tra Riina e Andreotti può essere stato un gesto di riconoscimento reciproco fra i due capi. Ci si può anche chiedere, in fondo, quale di questi due era il più mafioso. Recentemente sono tornati a galla alcuni elementi sulla guerra mafiosa dell’anno 1992, durante la quale i giudici Falcone e Borsellino, impegnati nelle inchieste su Cosa nostra, furono eliminati in attentati spettacolari. L’anno cominciò con l’assassinio di Salvo Lima, apparentemente perché in qualità d’intermediario quasi ufficiale tra la Mafia e lo Stato non era riuscito ad ottenere da quest’ultimo le misure di clemenza che aveva promesso ai padrini. Si sa adesso che Toto Riina fece arrivare al governo, sempre tramite Vito Ciancimino, le sue dodici condizioni per porre fine alla “guerra”, condizioni che comportavano innanzitutto l’ammorbidimento delle procedure lanciate contro Cosa nostra. Gli assassinii stavano lì a dimostrare che Riina non scherzava. Ovviamente non si conoscono i particolari del negoziato che ne risultò. Si può solo constatare che tutto questo portò alcuni mesi dopo, all’inizio del 1993, all’arresto di Toto Riina, abbandonato a sua volta dal suo luogotenente Bernardo Provenzano. L’arresto certamente non era casuale, poiché Provenzano fu il successore di Riina e con lui si stabilirono rapporti meno conflittuali. Nel frattempo la Democrazia cristiana, minata dagli scandali, cominciava a scomparire dalla scena politica, ma risulta da alcuni documenti e testimonianze che Cosa nostra aveva ricevuto nuove garanzie: il nuovo partito che sarebbe stato lanciato sotto la direzione di un certo Silvio Berlusconi avrebbe dimostrato comprensione verso gli interessi mafiosi, e Cosa nostra raccomandava di votare per lui. Uno degli amici siciliani di Berlusconi, Marcello dell’Utri, che più tardi sarebbe stato condannato per complicità in associazione mafiosa, se ne faceva garante. Grazie a questo, alle elezioni successive del 1994, in Sicilia il voto per il nuovo partito Forza Italia sostituì senza colpo ferire il voto democristiano, e Berlusconi poté diventare Presidente del Consiglio. Così la Mafia ha evidentemente numerosi canali per influenzare lo Stato, ma anche lo Stato sa trovare i canali per controllare la Mafia, almeno fino a un certo punto. Può per esempio appoggiare un capo-clan contro un altro, oppure decidere di ignorare per anni il nascondiglio di un boss, anche se questo posto non è molto difficile da trovare. Fino al giorno in cui, per un motivo o per un altro, questo accordo tacito s’interrompe e di colpo si trova il nascondiglio del boss, come è successo nel caso di Riina e come poi doveva succedere anche per Provenzano. Questo rapporto ambiguo, nel quale lo Stato e la Mafia si combattono in pubblico ma in realtà si tollerano l’un l’altro, si è mantenuto per anni sotto i governi democristiani e si mantiene oggi sotto Berlusconi, forse con legami ancora più stretti.
Il capitale mafioso. Il giro d’affari delle attività mafiose indicato sopra, e più ancora l’ammontare delle somme, indicano una realtà ancora più preoccupante: esiste un autentico capitale mafioso, il cui tasso di profitto e la velocità di accumulazione superano di gran lunga quelli degli altri capitali. E infatti, se si tratta di 80 miliardi di euro all’anno nella sola Italia, solo una parte di questi guadagni può essere speso in consumi di lusso, acquisto di ville o di auto di lusso. E come si può immaginare, per Cosa nostra come per la Camorra e la ’Ndrangheta, il problema del riciclaggio e del piazzamento dei guadagni è un problema impellente. Esiste quindi in seno alla mafia un dipartimento finanziario, il cui ruolo è innanzitutto di “pulire” il denaro, piazzarlo e reinvestirlo in attività legali o meno. È l’attività a cui si è dedicato tra l’altro il banchiere Michele Sindona, la cui folgorante ascesa negli anni 1960-1970 fu parallela all’espansione degli affari di Cosa nostra. Legato a Salvo Lima, Sindona lo era anche con la Democrazia cristiana e Andreotti, il Vaticano e la sua banca, l’Ior - Istituto delle Opere di Religione, presidiato dal vescovo Marcinkus, e infine il Banco Ambrosiano e il suo dirigente Roberto Calvi. Sindona, che d’altra parte ostentava un anticomunismo a tutta prova, sembra essere stato innanzitutto un pioniere in materia di riciclaggio di denaro sporco tramite i paradisi fiscali, facendone approfittare amici, clienti e altre relazioni, dai padrini di Cosa nostra ai vescovi e ad altri personaggi incontrati nell’influente loggia massonica P2, covo di cospiratori reazionari di cui faceva parte. Tutto questo senza disdegnare di dedicarsi anche alla speculazione finanziaria, per esempio nel 1973 alla speculazione contro la lira. Nel 1979 Sindona fece assassinare l’avvocato Ambrosoli, che stava indagando sui suoi affari. Questo non impedì che Sindona e Calvi, i veri banchieri di Cosa nostra all’epoca, finissero assassinati anche loro, il primo dopo avere bevuto un caffè avvelenato nel carcere dove scontava la sua pena per l’assassinio di Ambrosoli, e il secondo impiccato sotto un ponte di Londra. In questi due casi sembra che la mafia si sia vendicata per la gestione rischiosa dei fondi affidati a questi suoi due banchieri. Nondimeno ciò che si può chiamare "l’accumulazione del capitale mafioso" è poi proseguita. È fra l’altro su questi circuiti finanziari che hanno cercato di indagare i giudici Falcone e Borsellino, assassinati nel 1992 da Cosa nostra. E fatto sta che dopo i casi Sindona e Calvi, che furono in primo piano negli anni 1980, le rivelazioni sui soldi della Mafia sono diventate più rare. Certamente questo denaro qualche volta torna a galla, almeno in parte. Così il governo Berlusconi ha fatto appello nel 2009 al ritorno dei capitali evasi, con la cosiddetta misura dello scudo fiscale: i possessori di capitali erano invitati a rimpatriarli con il pagamento di una modesta tassa del 5%, senza che si chiedesse loro più informazioni sull’origine dei fondi. Così 85 miliardi di euro sono stati regolarizzati, di cui 35 miliardi sarebbero disponibili per l’investimento in Italia, nel caso i loro proprietari lo vogliano. Forse sta lì una parte del Tesoro della Mafia, anche se è evidente che la maggior parte dei soldi sono stati evasi nei circuiti internazionali della finanza, in qualche paradiso fiscale o altrove, sui conti delle maggiori istituzioni finanziarie mondiali. Infatti, da più di vent’anni, la globalizzazione degli scambi finanziari e la soppressione di ogni controllo sugli scambi di capitali hanno aiutato i capitali mafiosi a fondersi nella massa di denaro che ogni giorno circola nelle istituzioni finanziarie del pianeta, senza ormai che sia possibile distinguere il denaro sporco dal denaro pulito, per quanto quest’ultimo esista davvero. Con l’aiuto del segreto bancario, le istituzioni finanziarie, di qualunque si tratti, preferiscono evitare ogni tipo d’inchiesta sui fondi che utilizzano. Il denaro di provenienza illecita che si ritrova sui loro conti è protetto almeno come il denaro che proviene dalle attività lecite o presunte tali.
Dalla delinquenza medioevale a quella del ventunesimo secolo. Certamente le organizzazioni mafiose italiane non sono l’unica "criminalità organizzata" esistente nel mondo. Hanno però ereditato della loro storia una posizione particolare nella società, che ne fa un elemento permanente e spiega la loro longevità. Nel complesso rappresentano probabilmente non più di alcune decine di migliaia di uomini, ma la loro posizione sociale li rende inespugnabili. In Sicilia, ma anche in Calabria e Campania, le mafie beneficiano di un’organizzazione territoriale che, coniugata con i loro mezzi di ritorsione violenta, consente loro di avere un controllo stretto della società, che il potere di Stato non gli contesta. Tanto più facilmente hanno conquistato una posizione dominante in alcuni settori dell’economia. Ne deriva anche una penetrazione in seno agli organi del potere politico, che va oltre la semplice collusione o la corruzione di questo o quel dirigente: si tratta di un’autentica collaborazione, nella quale il potere di Stato e il potere mafioso si completano più che combattersi, aggiungendo i loro mezzi di controllo sociale. L’abbiamo detto: queste organizzazioni mafiose, sorte direttamente dal passato medioevale e feudale, hanno potuto sopravvivere solo perché la rivoluzione borghese italiana, in particolare nel sud, è stata solo una rivoluzione incompleta. Lo sviluppo economico avrebbe potuto ridurle ad un ruolo marginale, se esso fosse stato abbastanza forte da provocare finalmente gli sconvolgimenti sociali che la rivoluzione del 1860 non aveva realizzati. Ma, al contrario, l’evoluzione ha portato al mantenimento del sottosviluppo relativo delle regioni del sud, e con questo a un terreno fertile per le mafie. Quindi sono queste ultime che hanno saputo prendere a loro modo il treno dello sviluppo capitalista. La Sicilia e il Meridione davano loro una base e un punto di partenza, dal quale potevano inserirsi nei traffici mondiali. La loro posizione di organizzazioni delinquenziali, ma ben inserite nella società, era un elemento favorevole per sfruttare gli spazi che il commercio locale e mondiale poteva lasciare alle organizzazioni che agivano ai margini della legalità, utilizzando le armi, l’intimidazione e l’assassinio con efficienza, in modo professionale e senza scrupoli. Dall’intimidazione dei contadini siciliani riluttanti a pagare la gabella, le organizzazioni mafiose hanno potuto passare all’estorsione generalizzata e al racket, alla speculazione immobiliare, prima di prendere una posizione dominante nel narcotraffico, nello smaltimento illegale di rifiuti industriali e in molti altri traffici, senza dimenticare la speculazione finanziaria. Allora, se esiste una compenetrazione dello Stato e dell’economia, c’è anche una compenetrazione dello Stato parallelo mafioso e dei circuiti dell’economia parallela, nazionale e internazionale, fino al livello in cui economia parallela e economia in generale, profitti illeciti e profitti leciti, si raggiungono e si confondono nei canali del sistema finanziario. Chiaramente, se questa economia parallela può fare la ricchezza di alcuni, essa rappresenta nel suo complesso un enorme prelievo sulla società, di cui tende a mantenere il sottosviluppo e l’arretramento, la brutalità e l’incultura. Si capisce che da una generazione all’altra questa situazione abbia suscitato la rivolta di quelli che non si rassegnavano davanti una società che non propone loro un altro futuro, se non quello di sgherro o di sostegno della mafia. Molti militanti hanno pagato con la loro vita l’impegno contro la mafia. Si può ricordare la figura di Giuseppe Impastato, militante dell’estrema sinistra assassinato nel 1978 dalla mafia per averla denunciata pubblicamente nel suo feudo. Ma bisogna anche parlare dei giudici, poliziotti o giornalisti che, convinti di servire così la causa della democrazia, si sono impegnati in prima persona in questa lotta contro la mafia e ci hanno lasciato la vita, come Falcone, Borsellino e molti altri. Purtroppo essi alla fine hanno fatto da alibi ad uno Stato e ad una borghesia che, lungi dal combattere davvero la mafia, vivono in simbiosi con essa e le permettono di esistere. I politici borghesi hanno bisogno di mantenere il mito dell’esistenza di uno Stato democratico, in cui le leggi sarebbero uguali per tutti e in cui l’illegalità non pagherebbe. La "lotta alla mafia" che dicono di condurre, il sacrificio di quelli che la conducono con sincerità e dedizione, permettono - se non di combattere veramente questa organizzazione criminale - almeno di mantenere l’apparenza che venga combattuta. La "piovra mafiosa" era una sopravvivenza della società precapitalista, ma ha ben prosperato in seno alla società capitalista moderna, protetta in realtà dallo Stato e dai politici borghesi. Sta ancora meglio oggi, in un’epoca in cui il capitalismo decadente accentua tutti i suoi aspetti parassitari. Per eliminarla non sarà sufficiente niente di meno che un’autentica rivoluzione sociale, che porrà fine al sistema capitalista stesso. Si è visto a più riprese in passato la mafia collocarsi in prima fila tra i nemici dei proletari, fornendo anche le truppe d’assalto per massacrarli. Ma proprio per questo sarà solo la lotta del proletariato a eliminare questo cancro della società.
La mafia è lo Stato Comunista.
Vittorio Sgarbi sulle scritte di Locri: “lo Stato prende per il culo i calabresi, la mafia si combatte col lavoro non con inutili prediche”. Sgarbi sulle scritte di Locri: “fatte da disperati, non mafiosi. Vogliono lavoro e lo Stato li prende per il culo”, scrive il 23 marzo 2017 Danilo Loria su "Stretto web". Dopo il lungo intervento su Rai 3 su Locri e le scritte “ingiuriose” contro Libera e Don Ciotti, Vittorio Sgarbi ha pubblicato un nuovo video sulla sua pagina facebook, in cui, come al solito ha usato parole sprezzanti e schiette: “la mafia va combattuto assolutamente ma non con prediche ed invettive. Non si può immaginare una manifestazione che piange i morti in un luogo Locri dove ci sono più morti che vivi”. Il critico d’arte prosegue scagliandosi contro Don Ciotti: “il presidente di Libera ha tanti soldi grazie alla confisca ai mafiosi. Lo stato, a mio avviso, prende per il culo la Calabria: risolvano la questione disoccupazione. A mio avviso- è sicuro Sgarbi-sarà stato un disperato e non la ‘ndrangheta a scrivere “Don Ciotti sbirro”: è un grido per chiedere occupazione in un luogo dove non c’è. Don Ciotti invece di fare prediche vada a Norcia a dare le case ai terremotati”, conclude.
Sgarbi: “Ecco perché non c’è uguaglianza tra Nord e Sud. Napoli è sporca, ma… “, scrive il 23 aprile 2017 "Vesuvio live". Sgarbi spiega a modo suo le disuguaglianze tra Nord e Sud dell’Italia, un attacco in piena regola allo Stato e alle istituzioni. “Ecco cos’è la mafia: è lo Stato che non garantisce l’uguaglianza tra una città e l’altra nei servizi che dà soprattutto in materie essenziali come Sanità, scuola e Università”, ha dichiarato in un video sulla sua pagina Facebook. “Lo Stato non garantisce tutto questo, – ha continuato il critico d’arte – mi inquieta perché riflettendo su quello che dovremmo fare per l’Italia, nel Meridione che ha un patrimonio artistico più esteso di quello del Nord dovremmo avere la massima ricchezza e invece abbiamo Bagnoli, l’Ilva, abbiamo la distruzione delle coste, inquinamento dei paesaggi, ovunque sentiamo che il sud è punito, è dominato da una potenza negativa che lo sceglie come luogo dove si manifestano le forze oscure che non è la mafia ma lo Stato. Se uno nasce a Reggio Emilia ha più diritti di chi nasce a Reggio Calabria”. “Tutto ciò che tocca il meridione è decadenza, miseria, paura, insufficienza che è assenza dello Stato dove si intromette la mafia”, ha continuato Sgarbi. Poi si è espresso sulla polemica Napoli e sindaco di Cantù che la definì “Fogna”: “Napoli è vero che è sporca ma è perché è governata male. La regione non mette un po’ di ordine in un luogo dove è stato tra i più grandi della storia. Lo Stato deve essere presente, attraverso i servizi che deve garantire per le tasse che paghiamo, attraverso una vera uguaglianza tra nord e sud”.
Quand'è che lo Stato Italiano ha iniziato a trasformarsi in un mostro divoratore? Scrive Stato Minimo l'8 luglio 2017. La progressione delle tasse in Italia comincia verso il 1975, quando il sistema tributario italiano viene completamente riformato con l’introduzione dell’IVA del 1973 e con l’adozione di un modello di imposizione fondato sull’imposta personale progressiva nel 1974. Nel periodo successivo all’introduzione della riforma tributaria, l’Italia registra l’aumento più elevato della pressione tributaria globale in controtendenza rispetto agli altri paesi industrializzati. La pressione fiscale passa dal 25% del 1974 al 30% del1980, per salire al 35 a metà decennio, in parallelo all’esplosione del debito pubblico. Nel ’92, sull’orlo della bancarotta, sfonda la soglia del 40% per non tornare più indietro e per arrivare nel 2016 ad un insostenibile 44,1% nominale, che depurato dall’evasione schizza al 50,2% per chi le imposte è costretto a pagarle. La mitica «flat tax» annunciata dal Berlusconi del 1994, scritta a chiare lettere nel programma economico firmato Antonio Martino rimane un sogno infranto. Che cosa è accaduto? La politica italiana di fronte alle crisi di competitività, ha scelto di non fare le riforme ma di aumentare la spesa corrente, e di fronte alle crisi del debito pubblico, ha scelto, invece della disciplina fiscale, di aumentare le tasse. Fino alla fine degli anni 80 il nostro paese è cresciuto più degli altri paesi sviluppati poi c’è stata l’inversione di tendenza fino all’arresto della crescita. Questo indipendentemente dalla congiuntura internazionale, quindi la crisi è nostra. Rispetto agli anni Settanta lo Stato oggi preleva dalle tasche dei cittadini italiani 200 miliardi di euro in più: questi dati dimostrano che un’elevata pressione fiscale soffoca la crescita. La spiegazione alla crisi italiana è qui: da quando a partire dagli anni Novanta abbiamo iniziato a caricare l’imposizione sulle imprese, si è frenato il motore dello sviluppo. Le imprese italiane, inoltre, devono sostenere costi di produzione superiori ai principali competitor europei (Francia, Germania, Spagna e Uk). Fatto 100 lo “standard europeo”, le imprese italiane pagano 115 i carburanti, 227 l’energia elettrica, 297 i tempi della giustizia civile, 316 i tempi della pubblica amministrazione. Quindi non solo la tassazione frena la crescita sottraendo risorse ai privati, ma quelle stesse tasse servono, non per infrastrutture, investimenti, ricerca, ma, attraverso la spesa corrente, per costruire una macchina infernale di freno, l’apparato burocratico, che, per affermare la sua (falsa) utilità, è esso stesso ostacolo allo sviluppo: insomma un doppio fardello. E’ per questo che l’Italia ha disperatamente bisogno della ricetta della destra liberale: meno spesa pubblica, meno tasse, più libertà economica.
La vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 23/06/2014, su "Il Giornale". Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.
ITALIANI: POPOLO DIFETTATO.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
CAPITALE MORALE: PER LADY DENTIERA DIRE “TERRONI” NON È REATO. MA LA SECONDINA..., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016. «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Ormai, le retate delle forze dell'ordine portano in galera i moralisti meneghini a lotti di decine. E anche questa volta, è finito dentro il potente leghista Fabio Rizzi, “braccio destro” di Roberto Maroni, presidente della Regione. Regione Lombardia: il che spiega perché è ancora al suo posto e non si e dimesso, come i boati a mezzo stampa avrebbero preteso se presidente e Regione fossero stati da Roma in giù (mica si tratta di due chili di cozze pelose!). Già nell'altra retata di moralisti a mazzetta incorporata, appena qualche mese fa, finì in galera un altro “braccio destro” di Maroni, il suo vice alla Regione, e sempre per appalti nella Sanità. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita». Il che mostra che lady Dentiera cercava già una scusa per darsi latitante all'estero. Ci ha pensato troppo e ora ha tempo per continuare a pensarci in galera. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la secondina? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chini cazzu sugnu eu?». Glielo traduco, è calabrese, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». Vedrà che lei avvia un dialogo sull'etimo del termine, che favorirà la crescita culturale di entrambi. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la cuoca? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chi cazz song'ije?». Glielo traduco, non è proprio napoletano, ma siamo sempre in Campania, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». E poi, buon appetito. Tanto, i denti o la dentiera, non le mancano.
Politica e manette: numeri da record. In Parlamento una richiesta d'arresto ogni 5 mesi. In tre anni e mezzo sono arrivate otto istanze di custodia cautelare nei confronti di onorevoli. Di questo passo potrebbe essere eguagliato il massimo della Seconda Repubblica. Con accuse che vanno dalla mafia al riciclaggio, dalla corruzione alla bancarotta, scrive Paolo Fantauzzi il 10 agosto 2016 su “L’Espresso”. Non sarà il “tintinnare” evocato nel 1997 da Oscar Luigi Scalfaro nel suo messaggio di fine anno, di certo le manette continuano a essere una presenza costante nella vita politica. E la legislatura in corso non fa eccezione. Anzi. Con Antonio Caridi, accusato di essere organico alla 'ndrangheta , sale a otto il numero di onorevoli per i quali è stato chiesto l’arresto. In media, uno ogni cinque mesi. E il parlamentare calabrese è il terzo a finire dietro le sbarre come è già capitato a due deputati: il democratico e adesso forzista Francantonio Genovese e l'ex ministro Giancarlo Galan, pure lui berlusconiano. Nella Seconda Repubblica solo la scorsa legislatura (2008-2013) ha fatto di “meglio”, con 12 richieste: anche in quel caso, in media una ogni cinque mesi. Continuando di questo passo e salvo elezioni anticipate, insomma, l'attuale legislatura rischia seriamente di eguagliare il record. Dimostrando che lo slogan "cambia verso" non sembra affatto riguardare tutti gli aspetti della vita pubblica. Va detto che degli arresti piovuti nell’ultimo triennio in Parlamento, tre sono stati in seguito annullati dal Riesame o dalla Cassazione. Altrettanti sono stati invece negati col voto segreto da deputati e senatori, convinti che dietro le richieste di custodia cautelare avanzate dai magistrati ci fosse il fumo della persecuzione. Anche senza autorizzazione a procedere gli onorevoli restano comunque indagati e a scorrere i capi d'imputazione vengono i brividi: 'ndrangheta, concorso esterno in associazione mafiosa, bancarotta, corruzione, riciclaggio, truffa aggravata, solo per citare i più gravi. Galan, ad esempio, accusato di aver ricevuto tangenti da un milione l’anno per circa un decennio, dopo aver passato appena 78 giorni in carcere è stato mandato ai domiciliari. Poi ha già patteggiato una pena a 2 anni e 10 mesi con l’impegno a restituire 2,6 milioni. Intanto fino a tre mesi fa, quando è decaduto dalla carica, ha continuato a ricevere l'indennità parlamentare e la maggiorazione quale presidente della commissione Cultura: circa 13 mila euro lordi al mese. Poco più di quanto percepisce tuttora Genovese, che è ancora in carica essendo un “semplice” imputato: per lui la Procura di Messina ha appena chiesto una condanna a 11 anni di carcere per una presunta frode alla Regione Sicilia sulla formazione professionale (associazione per delinquere, riciclaggio, peculato, false fatturazioni e truffa, i reati contestati). Niente carcere invece per il forzista Luigi Cesaro: prima che Montecitorio si pronunciasse, il tribunale del Riesame ha detto che non c’erano i gravi indizi di colpevolezza necessari. Ma l’ex presidente della Provincia di Napoli resta indagato per concorso esterno in associazione mafiosa con l’accusa di aver favorito alcune a ditte legate a clan della camorra. Mentre un’altra inchiesta sull’affidamento della raccolta dei rifiuti nell’isola d’Ischia lo vede inquisito per turbativa d’asta e corruzione: la Camera ha appena negato l’uso di alcune sue intercettazioni indirette, sostenendo non fossero affatto casuali. La stessa indagine è valsa una richiesta d’arresto pure per un altro deputato, anche lui forzista e partenopeo: Domenico De Siano, accusato di concorso in corruzione. Mail Senato lo ha salvato appigliandosi a un cavillo, malgrado il Tribunale della libertà avesse respinto il ricorso dell'onorevole e confermato che meritasse i domiciliari. Turbativa d’asta è l’accusa rivolta a Carlo Sarro, pure lui di Forza Italia, per un appalto riguardante alcuni lavori in reti fognarie e idriche nella zona vesuviana: avrebbe fatto in modo da farli ottenere a una ditta vicina alla camorra. Riesame e Cassazione hanno annullato i domiciliari disposti dal gip ma l’indagine va avanti e la posizione del deputato azzurro non risulta essere stata archiviata. Infine ci sono i due senatori alfaniani che tanto hanno dato da fare, soprattutto all’alleato di governo del Pd, per evitarne l’arresto: Giovanni Bilardi e Antonio Azzollini. Quest’ultimo ha prima beneficiato del generoso “no” all’uso di alcune sue intercettazioni captate casualmente nell’inchiesta sui lavori al porto di Molfetta (truffa, l’addebito nei suoi confronti) e tre settimane dopo è stato salvato dai domiciliari coi voti determinanti e l’apparente pentimento del Pd: era accusato di associazione a delinquere e concorso in bancarotta fraudolenta per il crac di una casa di cura. Per la cronaca, l’arresto è stato annullato dal tribunale del Riesame, che però ha confermato la sussistenza di due episodi di bancarotta. Ancora più complessa la figura di Bilardi: accusato di peculato per la Rimborsopoli in Calabria (si sarebbe appropriato illecitamente di oltre 350 mila euro di fondi consiliari), il Senato ci ha messo così tanto prima di votare che alla fine, essendo passati quattro anni dai fatti contestati, il Riesame ha revocato il provvedimento, dopo che la Cassazione aveva annullato con rinvio la richiesta di arresto. Salvato dai domiciliari, adesso il nome di Bilardi è spuntato pure dalle carte dell'inchiesta Mammasantissima, nell’ambito della quale è stato chiesto il carcere per Caridi. Benché non indagato, secondo i magistrati anche il senatore alfaniano risulta essersi speso a favore della ‘ndrangheta.
I nostri politici? Erano già ridicoli nell'800. Burocrati incapaci, politici imbroglioni, intellettuali ignoranti. Carlo Dossi raccontò le miserie del Regno. Peggior delle nostre, scrive Vittorio Feltri, Giovedì 15/10/2015, su "Il Giornale". Il suo nome era Carlo Alberto Pisani Dossi. Troppo lungo per tenerlo a mente. Abbondante anche la sua produzione letteraria: poemi, romanzi, riflessioni eccetera. Poi i taccuini, una moltitudine, riempiti di appunti, e sono questi di cui discettiamo. Adelphi ha provveduto a pubblicarne a chili nelle Note azzurre. Ora a selezionare i passi più significativi allo scopo di dimostrare che l'Italia ottocentesca era identica a quella di oggi, ci si è messo anche Giorgio Dell'Arti, giornalista di spessore e ricercatore indefesso di curiosità culturali. Ha compilato una raccolta di note caustiche del suddetto Dossi (accorcio per semplificare) e le ha pubblicate per Edizioni Clichy in un volume dal titolo esplicito: Corruzioni. Chi comincia a leggerle non cessa più: rimane sbalordito nel verificare che i bei tempi andati sono rimpianti perché esistono solo nella fantasia dei contemporanei. I quali pensano erroneamente di essere peggiori degli antenati mentre, probabilmente, sono addirittura migliori. Non molto, però. L'epoca raccontata a spizzichi e bocconi dallo scapigliato milanese in quaranta anni di attività va dalla fine dell'Ottocento all'inizio del Novecento. È passato un secolo e sostanzialmente nulla è cambiato: gli italiani erano italianucci e tali sono rimasti. Credo che nessuno abbia fotografato i personaggi di quel periodo con la stessa bravura e raffinatezza di Dossi, dotato di un talento sorprendente per chi, come me, lo ha scoperto da poco. La prosa scorre liscia e dilettevole e, talvolta, incanta per la sua modernità. Si ha l'impressione di essere alle prese con cronache della scorsa settimana. Tanto è attuale la materia che le ispira, cioè un Paese la cui prerogativa è la sciatteria più deprimente. Fornisco una prova pescando un brano. «Secondo i bigotti ignoranti la letteratura così detta invereconda od immonda sarebbe un'invenzione dei nostri giorni... Eppure è tutto il contrario. A paragone della letteratura de' tempi passati non ce n'è una più casta, più corretta della presente. Leggete i greci, i latini, i cinquecentisti... quale sconcezza nelle espressioni, che turpiloquio!». È vero. Dossi ha ragione da vendere. È radicata la convinzione che il linguaggio odierno si sia involgarito, zeppo di parolacce ed espressioni da trivio. Sciocchezze. Il lessico semmai si è addolcito, essendo stato tra l'altro introdotto l'obbligo di osservare il «politicamente corretto», che ha reso il nostro frasario abbastanza ridicolo. Alcuni esempi. Lo spazzino siamo costretti, per rispettare la moda, a definirlo operatore ecologico; il sordo, audioleso; l'orbo, ipovedente; il cieco, non vedente. Mi domando come dovremmo chiamare, per coerenza, lo stitico. A parte questa freddura, va da sé che l'umanità non è mai stata elegante. E gli scrittori, anche i più lodati, hanno attinto a piene mani dal vocabolario grassoccio delle bettole. Lo stile triviale ha caratterizzato la storia di alcuni millenni e non è un dato precipuo di quella degli ultimi anni.
Trascurando le questioni estetiche, importanti ma non decisive, affrontiamo un tema che per l'Italia è una costante: il malgoverno e quanto ne consegue. Annota Dossi: «Quando Luigi Luzzatti - altra fama usurpata - è incaricato di missioni dal governo per l'estero, usa farsele pagare da due o tre ministeri. Approfitta della missione per rimontare di vesti e d'oggetti sé e tutta la sua famiglia. Ogni volta, compera nuove sacche e bauli, sempre a conto dello Stato, poi, giunto sul luogo della missione, acquista parapioggia, orologi, abiti ecc. per tutti quelli di casa, sempre a conto, come sopra. Gode di forti diarie e con tutto ciò lascia la nota dell'albergo a carico dello Stato. Il Luzzatti, inoltre, è vanitosissimo. Per un articolo di giornale leccherebbe le scarpe del giornalista laudatore. Ed è per gli articoli di gazzetta, che nonostante la sua avarizia giudaica, cede a ricatti d'ogni genere». Giova rammentare che costui fu ministro di vari esecutivi e perfino presidente del Consiglio. Se ciò che gli è stato attribuito dallo scapigliato risponde a verità, bisogna concludere che la casta imperante nel Terzo Millennio non è figlia di nessuno, ma discende da illustri genitori e anche da nonni che si impegnarono per campare a sbafo. In sintesi, nulla di nuovo sotto il cielo romano nell'anno corrente. Si dice e si ripete che il personale politico precedente a quello in carica fosse culturalmente più provveduto di quello che ci tocca. Ne eravamo persuasi. Ma Dossi ci apre gli occhi. Ecco la sua opinione sul punto: «La Sinistra monarchica al potere (1876-1881) è un partito quasi illetterato. Né Cairoli, né Depretis, né Crispi, né Zanardelli, né Nicotera lasciano alcun libro nel quale il pubblico possa leggere come la pensino. I soli in tutto il partito che sappiano tanto leggere quanto scrivere sono De Sanctis e Marselli... Al contrario, la Destra ha una letteratura, Minghetti, Maiani, Bonghi...». L'accusa di analfabetismo, oggidì è stata rovesciata: i nostri progressisti si autoproclamano intellettualmente più evoluti dell'opposizione. Forse non è così. È un fatto che nella classe dirigente pullulano numerosi cretini dinamici che menano il torrone provocando danni irreparabili. Anche la vituperata burocrazia che ci affligge con la dittatura del timbro ha origini antiche. Un secolo e mezzo fa, sottolinea Dossi, tutti i giovani, «sieno di zappa o di penna, ambiscono un impiego governativo. Basta che un impiegato dello Stato non assassini, non assalti una diligenza... è sicuro di non essere mai licenziato e di arrivare pacificamente alla pensione». Come il decreto di ammissione in carriera viene firmato, il giovine burocrate va sul liscio. E la scena muta. «Cominciano le pretese del nuovo impiegato. Egli ha genitori vecchi, madre inferma, padre imbecille eccetera che vogliono la sua assistenza, quindi chiede un cambiamento di residenza... Lavora meno che può». Più chiaro di così... È una testimonianza profetica, giacché siamo tutti in grado di confermare che, a distanza di tanti decenni, non si è alterata una virgola nel comportamento dei funzionari (di varia levatura) ai quali ci rivolgiamo per il disbrigo di pratiche amministrative. Gli appetiti sessuali dei potenti (e non solo) contemporanei non sono superiori a quelli dei loro avi. Lo garantisce l'autore di cui trattiamo, che ci narra le prodezze sul materasso di Vittorio Emanuele II, «che fu uno dei più instancabili chiavatori. Il suo budget segnava nella rubrica donne circa un milione e mezzo di lire all'anno (una fortuna)» mentre alla voce cibo risultano «non più di 600 lirette al mese». La sproporzione è enorme. Non entro nei dettagli delle regali performance che, comunque, meriterebbero di figurare nel Guinness dei primati. Qualcosa di sconvolgente a confronto del quale il bunga bunga è un esercizio spirituale. Tutto questo, converrà il lettore, è utile per comprendere che gli italiani, a prescindere dalla data in cui sono venuti alla luce, sono ciò che sono sempre stati, gli stessi vizi e le stesse debolezze. Se è consolante apprendere che non siamo caduti più in basso dei nostri padri, non lo è affatto supporre (ragionevolmente) che non guariremo mai. Rassegniamoci a constatare la realtà in cui non ci troviamo poi tanto male, altrimenti l'avremmo modificata.
Vittorio Emanuele sul 2 giugno: "Il referendum 1946 fu incompleto". Il figlio di Re Umberto II attacca: "Molti italiani non poterono votare, ma mio padre dimostrò responsabilità nonostante De Gasperi si proclamò Capo dello Stato con un colpo di mano", scrive Ivan Francese, Giovedì 02/06/2016, su "Il Giornale". Secondo Vittorio Emanuele di Savoia il referendum del 2 giugno 1946, con cui l'Italia divenne una repubblica, non sarebbe stato "completo". Perché - e questa è verità storica - in alcuni territori dell'allora Regno d'Italia non fu possibile votare e perché a molti connazionali prigionieri all'estero non venne permesso l'accesso alle urne. Il primogenito di Re Umberto affida ad un messaggio rivolto "a tutti gli italiani" la sua amarezza in occasione del 70° anniversario della nascita della Repubblica italiana. Non si votò, ricorda il principe, "in alcuni territori italiani ancora non del tutto liberi ed al voto non poterono partecipare molti italiani che, per essersi rifiutati di collaborare con i tedeschi, si trovavano ancora in campi di prigionia all'estero." Inoltre Vittorio Emanuele elogia il senso di responsabilità del padre, quando "il consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi, con un colpo di mano, nominò lo stesso Capo Provvisorio dello Stato". Il Re, "dopo un mese di regno, desiderando una piena legittimazione che gli permettesse di traghettare la Nazione in una rinascita al termine delle dolorose esperienze della guerra, prima della consultazione dichiarò che se la Monarchia non avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti, avrebbe indetto un nuovo Referendum. In quei giorni ed in quelle ore di tensione Egli mantenne un alto senso di responsabilità per le sorti del Paese ed una terzietà che il mondo gli ha riconosciuto." Vittorio Emanuele, infine, vuole celebrare l'abnegazione del Re alla causa d'Italia, che lo portò a rinunciare alla Corona pur di salvare l'indipendenza della Patria: "Pur in assenza di alcuna imposizione, partì di propria volontà per un temporaneo esilio, al fine di smorzare le tensioni di un Paese diviso in due e con le truppe jugoslave di Tito, schierate sul confine orientale, decise ad intervenire in caso di vittoria monarchica. Un esilio durato, poi, per Lui tutta la vita, per me 56 anni e per mio figlio - nato 26 anni dopo il referendum - ben 30 anni".
«Sul Re Soldato c'è un pregiudizio antistorico», scrive Francesca Angeli, Venerdì 17/07/2015, su "Il Giornale". «Un divieto privo di senso». Ignazio La Russa quando era ministro della Difesa si era impegnato personalmente per favorire il ritorno della salma di Vittorio Emanuele III in Italia, in occasione del 150 anniversario dell'Unità d'Italia che cadeva nel 2011. Ma il tentativo si impantanò.
La Russa ritiene fondati i timori di Maria Gabriella di Savoia per la salma del Re Soldato?
«Si tratta di un rischio reale che forse finalmente riuscirà a smuovere le coscienze di chi ancora si oppone al ritorno delle salme dei Savoia, un veto antistorico che non ha più nessuna ragione di esistere».
Chi allora ebbe paura della sua proposta per il rientro delle spoglie?
«Prevalse la tipica pavidità italiana. La preoccupazione per eventuali polemiche da parte di chi non riesce a superare antichi pregiudizi ideologici che oggi suonano assurdi e ridicoli».
Perché ritiene sia doveroso riportare Vittorio Emanuele III in Italia?
«Vittorio Emanuele III è stato Re d'Italia, è una figura che appartiene alla nostra Storia, nella buona e nella cattiva sorte. Le disposizioni transitorie avevano allora un senso che oggi ovviamente non hanno più. Si temevano colpi di coda dopo le polemiche sull'esito del referendum. Ma ora non vedo ragioni plausibili per un simile veto. Certo non è criminalizzabile in sè l'istituto della monarchia e oggi tutti i risentimenti e le tensioni allora comprensibili dovrebbero essersi finalmente placati».
Sono molti i protagonisti del passato con i quali il nostro Paese fatica a chiudere i conti.
«Senza dubbio. A 70 anni dalla sua fine il fascismo è ancora un elemento centrale del dibattito politico. Io me ne stupisco sempre. C'è chi non perde l'occasione per paragonare il Pd attuale al partito fascista e il premier Renzi a Mussolini. Quando si apre questa polemica in Parlamento io intervengo e da “esperto della materia” tranquillizzò i timorosi: il Pd e Renzi non hanno nulla a che fare con Mussolini e il fascismo».
Quindi il nodo è quello? Il legame dei Savoia col fascismo?
«No. Lo stesso Benito Mussolini è stato seppellito in Italia. Posso capire si continui a a dibattere su un'ideologia ma francamente non capisco come si possa ancora dibattere una questione come il rientro di un uomo che fu Re d'Italia».
Se la salma fosse riportata in Italia pensa sarebbe giusto tumularla al Pantheon?
«Assolutamente sì. È quella la tomba della famiglia Savoia dove si trovano Vittorio Emanuele II e Umberto. Quando ero al ministero della Difesa feci questa promessa alla famiglia. Incontrai proprio davanti al Pantheon Vittorio Emanuele con la moglie, Marina Doria e il figlio Emanuele Filiberto e mi attivai per il ritorno della salma e la sua sepoltura. Mi sembrava giusto farla coincidere con i 150 anni ma purtroppo l'occasione andò persa».
Lancerebbe un nuovo appello?
«Potrei farlo soltanto se raccogliessi un consenso trasversale. Sono consapevole che una mia iniziativa in questa direzione altrimenti verrebbe subito strumentalizzata».
Ernesto "Che" Guevara: la verità rossa e la verità vera, scrive “Cumasch”. La storia dovrebbe essere oggettiva, ma in realtà alcuni aspetti vengono da sempre distorti e adattati alle convinzioni ideologiche di chi li tratta. In un paese che si definisce antifascista (ma non evidentemente anticomunista...) certi aspetti "scomodi" del Comunismo sono da sempre ignorati. La Storia ne è piena: i massacri delle Foibe, i massacri dei 20.000 soldati italiani nei Gulag Sovietici su ordine di Togliatti, ecc...La storia di Ernesto Guevara rappresenta forse il più grande falso storico mai verificatosi. Tutti conoscono la storia "ufficiale" del Che. Chi non ha mai sentito parlare del "poeta rivoluzionario?" Del "medico idealista"? Ma chi conosce le reali gesta di questo "eroe"? Da tempo immemore il volto leonino di Ernesto “Che” Guevara compare su magliette e gadgets, in ossequio all’anticonsumismo rivoluzionario. La fortuna di quest’eroe della revoluçion comunista è dovuto a due coincidenze: 1) – “Gli eroi son sempre giovani e belli” (La locomotiva – F. Guccini); come ironizzò un dirigente del PCI nel ’69, se fosse morto a sessant’anni e fosse stato bruttarello di certo non avrebbe conquistato le benestanti masse occidentali di quei figli di papà “marxisti immaginari”. 2) – l’ignoranza degli estimatori di ieri e di oggi. Il “Che”, infatti, viene associato a tutto quanto fa spettacolo nel grande circo della sinistra: dal pacifismo antiamericano alle canzoni troglodite di Jovanotti «sogno un’unica chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Meglio allora fare un po’ di chiarezza sulla realtà del personaggio: Ernesto Guevara De la Serna detto il “Che” nasce nel 1928 da una buona famiglia di Buenos Aires. Agli inizi degli anni 50 si laurea in medicina e intanto con la sua motocicletta gira in lungo e in largo l’America Latina. In Guatemala viene in contatto con il dittatore Jacobo Arbenz, un approfittatore filosovietico che mantiene la popolazione in condizioni di fame e miseria, ma che gira in Cadillac e abita in palazzotti coloniali. A causa dei forti interessi economici degli Usa in Guatemala, viene inviato un contingente mercenario comandato da Castillo Armas a rovesciare il dittatore. Il “Che”, anziché sacrificarsi a difesa del “compagno”, scappa e si rifugia nell’ambasciata argentina; di qui ripara in Messico dove, in una notte del 1955, incontra un giovane avvocato cubano in esilio che si prepara a rientrare a Cuba: Fidel Castro. Subito entrano in sintonia condividendo gli ideali, il culto dei “guerriglieri” e la volontà di espropriare il dittatore Batista del territorio cubano. Sbarcato clandestinamente a Cuba con Fidel, nel 1956 si autonomina comandante di una colonna di “barbudos” e si fa subito notare per la sua crudeltà e determinazione. Un ragazzo non ancora ventenne della sua unità combattente ruba un pezzo di pane ad un compagno. Senza processo, Guevara lo fa legare ad un palo e fucilare. Castro sfrutta al massimo i nuovi mezzi di comunicazione e, pur a capo di pochi e male armati miliziani, viene innalzato agli onori dei Tg e costruisce la sua fama. Dopo due anni di scaramucce per le foreste cubane, nel ’58 l’unità del “Che” riporta la prima vittoria su Batista. A Santa Clara un treno carico d’armi viene intercettato e cinquanta soldati vengono fatti prigionieri. In seguito a ciò Battista fugge e lascia l’Avana sguarnita e senza ordini. Castro fa la sua entrata trionfale nella capitale accolto dalla popolazione festante. Una volta rovesciato il governo di Batista, il Che vorrebbe imporre da subito una rivoluzione comunista, ma finisce con lo scontrarsi con alcuni suoi compagni d'armi autenticamente democratici. Guevara viene nominato “procuratore” della prigione della Cabana ed è lui a decidere le domande di grazia. Sotto il suo controllo, l’ufficio in cui esercita diventa teatro di torture e omicidi tra i più efferati. Secondo alcune stime, sarebbero stati uccise oltre 20.000 persone, per lo più ex compagni d’armi che si rifiutavano di obbedire e di piegare il capo ad una dittatura peggiore della precedente. Nel 1960 il “pacifista” GUEVARA, istituisce un campo di concentramento ("campo di lavoro") sulla penisola di Guanaha, dove trovano la morte oltre 50.000 persone colpevoli di dissentire dal castrismo. Ma non sarà il solo lager, altri ne sorgono in rapida successione: a Santiago di Las Vegas viene istituito il campo Arca Iris, nel sud est dell’isola sorge il campo Nueva Vida, nella zona di Palos si istituisce il Campo Capitolo, un campo speciale per i bambini sotto i 10 anni. I dissidenti vengono arrestati insieme a tutta la famiglia. La maggior parte degli internati viene lasciata con indosso le sole mutande in celle luride, in attesa di tortura e probabile fucilazione. Guevara viene quindi nominato Ministro dell’Industria e presidente del Banco Nacional, la Banca centrale di Cuba. Mentre si riempie la bocca di belle parole, Guevara sceglie di abitare in una grande e lussuosa casa colonica in un quartiere residenziale dell’Avana. E' facile chiedere al popolo di fare sacrifici quando lui per primo non li fa: pratica sport borghesissimi, ma la vita comoda e l’ozio ammorbidiscono il guerrigliero, che mette su qualche chilo e passa il tempo tra parties e gare di tiro a volo, non disdegnando la caccia grossa e la pesca d’altura. Per capire quali "buoni" sentimenti animassero questo simbolo con cui fregiare magliette e bandiere basta citare il suo testamento, nel quale elogia «l’odio che rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Sono queste le parole di un idealista? Di un amico del popolo? Se si, quale popolo? Solo quello che era d'accordo con lui? Guevara si dimostra una sciagura come ministro e come economista e, sostituito da Castro, viene da questi “giubilato” come ambasciatore della rivoluzione. Nella nuova veste di vessillifero del comunismo terzomondista lancia il motto «Creare due, tre, mille Vietnam!». Nel 1963 è in Algeria dove aiuta un suo amico ed allievo, lo sterminatore Desirè Kabila (attuale dittatore del Congo) a compiere massacri di civili inermi! Il suo continuo desiderio di diffusione della lotta armata e un tranello di Castro lo portano nel 1967 in Bolivia, dove si allea col Partito comunista boliviano ma non riceve alcun appoggio da parte della popolazione locale. Isolato e braccato, Ernesto De La Serna viene catturato dai miliziani locali e giustiziato il 9 ottobre 1967. Il suo corpo esposto diviene un’icona qui da noi e le crude immagini dell’obitorio vengono paragonate alla “deposizione di Cristo”. Fra il sacro e il profano la celebre foto del “Che” ha accompagnato un paio di generazioni che hanno appeso il suo poster a fianco di quello di Marylin Monroe. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, ancora oggi sventola la bandiera con la sua effige e i ragazzini indossano la maglietta nel corso di manifestazioni “contro la guerra”. Come si fa a prendere come esempio una persona così? Possibile che ci siano migliaia di persone (probabilmente inconsapevoli della verità) che sfoggiano magliette con il suo volto? In quelle bandiere e magliette c'è una sola cosa corretta: il colore. Rosso, come il sangue che per colpa sua è stato sparso. In un film di qualche anno fa Sfida a White Buffalo, il bianco chiede al pellerossa: «Vuoi sapere la verità rossa oppure la verità vera?». Lasciamo a Gianni Minà la verità rossa, noi preferiamo conoscere la verità vera.
L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI. (1901 - Luigi Capuana, Il Marchese di Roccaverdina, Vallecchi, Firenze, 1972) - "E se c'era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a fare così, il marchese alzava la voce, lo investiva: - Per questo siete sempre miserabili! per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po' il solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!" (p. 45) - "Noi abbiamo quel che ci meritiamo. Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, nel correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino... Vogliamo la pappa bell'e pronta!" (pp. 86-87)
(1913 - Grazia Deledda, Canne al vento, Mondadori, Milano, 1979) - "Che posso fare, che posso io? Tu credi che siamo noi a fare la sorte? ... E tu, sei stato tu, a fare la sorte?" "Vero è! Non possiamo fare la sorte - ammise Efix." (p. 195) - "Sì, - egli disse allora, - siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento." "Sì, va bene: ma perché questa sorte?" "E il vento, perché? Dio solo lo sa." (p. 240)
(1915 - Norman Douglas, Vecchia Calabria, Giunti Martello, Firenze, 1978) - "... qual è il più evidente vizio originario? L'invidia, senza il minimo dubbio." "D'invidia gli uomini patiscono e muoiono, per invidia si uccidono l'un l'altro. Produrre una razza più placida (con l'aggettivo 'placida' io intendo solida e riservata), diluire le invidie e le azioni da esse ispirate, è, in fin dei conti, un problema di nutrizione. Sarebbe interessante scoprire di quanto cupo arrovellarsi e di quanti gesti vendicativi è responsabile quel ditale di caffè nero mattutino." (p. 191)
(1930 - Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano, 1981) - "Glielo aveva detto tante volte di non menar vanto del figlio e di non gloriarsi dell'avvenire, perché l'invidia ha gli occhi e la fortuna è cieca. Signore Iddio, com'è fatta la gente! che non può vedere un po' di bene a nessuno, e anche se non hanno bisogno di nulla, invidiano il pane che si mangia e le speranze che vengono su." (pp. 68-69)
(1959 - Morris L. West, L'avvocato del diavolo, Mondadori, Milano, 1975) - "Eccolo qui, il maledetto guaio di questo paese! La vedi bene anche tu la ragione per cui siamo di cinquant'anni più indietro che tutto il resto d'Europa. Non vogliamo organizzarci, non vogliamo neanche sentire la parola disciplina. Non vogliamo collaborare. Ma è impossibile costruire un mondo migliore con una zuppiera piena di pasta e un secchio d'acqua santa." (p. 111)
(1975 - Giuseppe Fava, Gente di rispetto, Bompiani, Milano, 1975) - "Elena, hai mai pensato... quante volte, dinanzi alle cose che accadono, una sciagura, una malattia... l'essere umano ha un moto di disperazione e si chiede perché... la ragione delle cose voglio dire... nascere, poi soffrire o morire? Solo un attimo di ribellione, perché subito ognuno si rassegna all'idea che è Dio a muovere le cose e deve avere il suo segreto disegno. Così l'essere umano sopporta il suo destino; ma che altro può fare? Pensa che tutto deve necessariamente accadere, anche il dolore e la morte, e di questo fa la sua consolazione..." "E questo cosa c'entra con la miseria? Che c'entra con l'ingiustizia? Sono soltanto due cose umane: perché i poveri dovrebbero subirle?" "Perché quasi sempre il povero pensa che tutte le cose umane siano come la morte: la miseria, l'ignoranza fanno parte di questa fatalità. Altrimenti..." "Altrimenti cosa?" "Altrimenti da migliaia di anni gli uomini avrebbero già dovuto uccidere e sgozzare i potenti e i fortunati ... Di questo paese non ci dovrebbe essere più pietra su pietra." (pp. 163-164)
ITALIA, IL PAESE DOVE L’INVIDIA TRIONFA? Siamo davvero affetti da quella malattia chiamata invidia? Scrive “Plindo”. Perchè la tendenza degli italiani è quella di criticare sempre in negativo l’operato degli altri? Perchè spesso ci limitiamo a guardare solo con estrema superficialità le cose anziché approfondire e cercare di capire? In Italia davvero trionfa l’invidia? Oppure è diffusa in egual modo in tutto il mondo? La difficoltà delle persone ad andare oltre e cercare di capire qualcosa di diverso, è davvero grande. I più purtroppo si soffermano sull’aspetto più esposto dell’argomento senza scendere in profondità, arruolandosi il diritto di criticare e dare suggerimenti senza che nessuno li abbia richiesti. Tutto questo viene spesso si confonde con la libertà di pensiero. La libertà di pensiero non ha niente a che vedere l’invidia. Ed è giustissimo che ognuno di noi abbia la libertà di esprimere ciò che pensa come meglio crede, tuttavia è allo stesso tempo consigliabile informarsi, approfondire e cercare di capire altrimenti si corre il rischio che la nostra libertà di pensiero sia fraintesa per invidia. L’invidia nasce da un confronto tra noi e gli altri ed è sgradevole sia per chi la prova in prima persona che per chi la riceve. L’invidioso è una persona che desidera possedere ciò che altri hanno e che ritiene di non poter avere. Ci sono diverse tipologie di invidia. La prima è quella rabbiosa, la più pericolosa. Spesso chi ne è affetto non prova nemmeno a chiedersi se ha capito bene. Critica impulsivamente a spada tratta qualsiasi cosa, con quella rabbia (e talvolta ignoranza) tipica di colui che ha disperatamente cercato di farcela nella vita senza mai riuscirci realmente. La seconda tipologia di invidia è quella passiva, altrettanto pericolosa. Ne sono affetti quelli che provano un sentimento di invidia forte che però lo dimostrano con l’indifferenza più totale; quest’ultimi non muovono alcuna critica, semplicemente evitano di cooperare per non portare alcun tipo di vantaggio alla persona oggetto di invidia. Il terzo e ultimo tipo di invidia è quella che affligge coloro che inizialmente, per esempio, fanno concretamente parte di un determinato progetto, dopodichè, allontanandosi da questo per le più svariate vicissitudini, lo criticano in maniera feroce, tuttavia, in incognito. Pericolosissimi. E voi in quale tipologia di invidia vi ritrovate?
Se l’eguaglianza trasuda invidia. L’Italia paralizzata e la lezione americana sulla mobilità sociale, scrive Francesco Forte il 6 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Wall Street Journal e Nbc News Poll hanno pubblicato un sondaggio dal quale risulta che la preoccupazione più grande per la maggioranza degli americani intervistati non è la diseguaglianza di reddito in sé, ma la mancanza di mobilità sociale, ossia chance uguali per tutti per andare avanti economicamente. Questa preferenza è molto più marcata tra i repubblicani che tra i filodemocratici: ma comunque solo il 37 per cento di questi ultimi si preoccupa della diseguaglianza più che della mobilità. Fra i filorepubblicani quelli che hanno a cuore la riduzione della diseguaglianza più della mobilità scendono al 15 per cento. Ma il dato che più colpisce è che solo il 34 per cento di coloro che stanno in classi di reddito inferiore ai 30 mila dollari (25 mila euro) annui assegna alla diseguaglianza un’importanza maggiore della mobilità. Le donne che si preoccupano più della diseguaglianza che delle opportunità di modificarla sono solo il 25 per cento contro il 32 degli uomini. Temo che i risultati in Italia siano diversi, data la facilità con cui incontrano più consenso quelli che sostengono la patrimoniale, il reddito minimo garantito, il posto fisso, le imposte progressive, rispetto a quelli che vorrebbero l’ascensore sociale più a portata di mano e la meritocrazia. Forse ciò dipende dal fatto che sino agli anni 50 quasi metà della nostra popolazione viveva di agricoltura e che la maggioranza agognava ad avere un pezzo di terra da coltivare, nel proprio paese, con la casa sopra. Erano stanziali, abitudinari. Invece gli americani avevano il carro dei pionieri, erano mobili; allevavano il bestiame, più che coltivare orti e poderi con la coltura intensiva. Ma c’è anche il fatto che da noi la sinistra politica dall’Ottocento in poi si è imbevuta della lotta di classe, della concezione marxista, per cui il ricco è generalmente uno sfruttatore del lavoro altrui. Va invidiato, tartassato o espropriato, non ammirato e imitato. Non credo che ciò abbia a che fare con l’etica cattolica, in confronto alla protestante, secondo la vulgata di Max Weber. Infatti nell’Italia del Rinascimento la ricchezza era oggetto di ammirazione, assieme alla bellezza. E ciò non solo nei vestiti, nelle carrozze e nelle case dei signori, ma anche nelle cattedrali e nelle vesti dei prelati. Del resto, c’è stata un’epoca, negli anni 80 dello scorso secolo, in cui è sembrato che, insieme al trionfo della televisione, ci fosse anche quello della mobilità sociale, con la riduzione delle diseguaglianze nelle opportunità e la dinamica della competizione al primo posto rispetto alla riduzione delle diseguaglianze nei redditi. Ora abbiamo i No Tav, i No Expo, i No all’abrogazione dell’articolo 18, i No al cambiamento di mansione, di sede, di incarico, di turnazione. La richiesta del reddito di cittadinanza, il bonus in rapporto inverso al reddito e non in proporzione alla produttività, la tutela dall’inflazione per le pensioni minime e in proporzione inversa all’aumento del loro livello, non in base ai contributi versati, e via elencando. A ciò consegue un tasso di crescita del paese che è solo dello 0,6 per cento del pil e un’elevata disoccupazione generale e giovanile. Tu l’as voulu, George Dandin.
Briatore: è l’Italia degli invidiosi. "Da questo Paese si deve fuggire". La scelta dell’imprenditore: "All’estero ammirano chi ce la fa", scrive Leo Turrini il 23 luglio 2016 su “Il Quotidiano.net”.
«Giù le mani da Bonolis! E comunque esiste soltanto una soluzione...».
Sarebbe a dire?
«Lasciarsi alle spalle l’Italia, diventata la patria dell’invidia sociale».
Flavio Briatore non capisce più il Paese delle origini. Lui, sette volte campione del mondo di Formula Uno con Michael Schumacher e Fernando Alonso, non si sottrae al ruolo di simbolo. Di una opulenza mai nascosta, per capirci.
«Io ormai ho rinunciato a comprendere i miei connazionali – sbotta il manager piemontese – Non vi capisco più».
Cosa abbiamo fatto di male?
«Vede, io non voglio scomodare Trump, il discorso nemmeno riguarda la politica. Qui parliamo di una cultura negativa impossibile da estirpare. C’è una differenza enorme tra gli italiani e gli americani, gli inglesi, eccetera».
Quale differenza?
«All’estero ammirano chi ce la fa, chi conquista il successo. Chi diventa ricco per meriti suoi si trasforma in un simbolo positivo».
Da noi invece...
«Ma prenda proprio il caso di Bonolis! A parte il fatto che immagino abbia preso un aereo privato per ragioni di famiglia, mica ha sperperato soldi pubblici. Uno sarà libero di usare il suo denaro come meglio crede o no?».
Beh, non fa una piega.
«Le dirò di più. Basta con questi moralismi da strapazzo. Bonolis è un grande professionista della televisione, uno showman che muove un cospicuo giro d’affari. Ogni sua produzione genera centinaia di posti di lavoro! Di cosa stiamo parlando, mi scusi?».
Forse di niente.
«Eh, bisognerebbe spiegare ai ragazzi che la ricchezza non va detestata. In Italia invece l’invidia sociale si trasforma addirittura in odio. Dovremmo augurarci di stare tutti meglio, ma prevale l’idea assurda che tutti dovremmo stare peggio».
Il trionfo del pauperismo.
«E infatti non se ne può più. Quando ho aperto il Billionaire in Sardegna, mi descrivevano come un nemico del popolo. Ma se spendo soldi miei e rispetto le leggi, di cosa dovrei sentirmi colpevole? Di avercela fatta?».
«Anche i ricchi piangano», recitava uno sfortunato slogan elettorale.
«Appunto. Non sono ottimista perché sradicare un sentimento così profondo non è impresa facile. Infatti io ho preso una decisione ormai venti anni fa e non mi sono mai pentito».
È andato a vivere all’estero.
«Sicuro. Potendo, dall’Italia bisogna andarsene».
Magari con l’aereo di Bonolis. Ma Briatore non tornerebbe nemmeno se lo chiamasse la Ferrari?
«Per carità! Io la Formula Uno non la seguo più da tempo. E comunque anche la Ferrari, per tornare a vincere, deve andare all’estero».
Addirittura.
«O Marchionne apre una base tecnica in Inghilterra o le vittorie se le scorda, si fidi».
L’invidia in Italia …il piccolo decalogo dell’invidioso cronico, scrive Beppe Servegnini (da Il Corriere della Sera, giovedì 16 febbraio 2012, pag. 45). Come attaccare chiunque abbia successo in un Paese di simpatici demagoghi. Una settimana senza Internet, terminata ieri a mezzanotte (questa rubrica è stata dettata). Una quaresima 2.0 che mi ha evitato di commentare due sconcertanti esibizioni dell’Intere una di Adriano Celentano: le prime, diciamo, non me le aspettavo. La quarta figuraccia – candidarci per un’Olimpiade che non possiamo permetterci- è. stata evitata. L’Italia ha bisogno di manutenzione, non di un’altra (costosa) inaugurazione. Un altro tema che avrei voluto discutere in settimana è l’assalto scomposto a Silvia Deaglio, giovane professoressa associata dì medicina presso l’Università di Torino, figlia dell’economista Mario Deaglio e del ministro Elsa Fornero. Non la conosco di persona; mentre, se non ricordo male, ho incontrato due volte il papà e una volta la mamma (che mi ha salutato con una domanda tremenda). Ma ho letto l’appunto di Tito Boeri per lavoce.info - arrivato per fax, sempre a causa del digiuno digitale. Leggo: Silvia Deaglio è quattro volte sopra la media per l’indice H (che misura il numero di lavori scientifici in rapporto al numero di citazioni ricevute). In queste valutazioni internazionali – credetemi – mamma e papà non contano. Tutto lascia pensare che la connazionale sia una giovane donna in gamba. L’astio delle reazioni, tuttavia, mi ha fatto pensare, Affinché sia più facile, in questo Paese di simpatici demagoghi, attaccare indiscriminatamente chi ha successo, ho pensato di stilare il piccolo decalogo dell’invidioso cronico.
1. Chi ha successo ha certamente inlbrogIMo.Altr.ib1ehti avresti avuto successo pure tu. O no?
2. In Italia nulla è metodico, salvo il sospetto.
3. A pensar male si fa peccato, ma si indovina. Senza dimenticare che per il peccato, poi, c’è l’assoluzione.
4· Chiunque ottenga apprezzamento pubblico, dimostra che il pubblico non capisce niente.
5· La mediocrità è un esempio di democrazia applicata. lI merito, una forma di arroganza.
6. Se esiste il minimo comune denominatore, scusate, perché insistere nel dare il massimo?
7· Nella conventicola dell’università italiana, è possibile solo il modello Frati (il rettore della Sapienza dov’è accademicamente sistemata tutta la sua famiglia). II resto è ipocrisia applicata.
8. I genitori di successo possono – anzi, devono – produrre soltanto figli infelici e frustrati. In caso contrario, l’onere della prova spetta a questi ultimi: dimostrate di non avere imbrogliato, marrani!
9· Bisogna diffidare del plauso internazionale. Come si permettono americani, inglesi e tedeschi di farci i complimenti? Cosa contano le università di Columbia e Yale, che oltretutto si chiamano come una casa cinematografica e una serratura?
1o, Quando si tratta di concorsi, incarichi, titoli e promozioni l’importante è fare di tutta l’erba un fascio. E se qualcuno vi accusa per questo, urlategli in faccia: «Fascista sarà lei!”.
Invidiosi o gufi, quando la politica non tollera i diversi. L’eterna abitudine a isolare chi ha opinioni diverse, scrive Mattia Feltri il 24/11/2014 su “La Stampa”. C’è una parte di sinistra, dice il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che «sembra assecondare l’Italia invidiosa». Dunque chi è perplesso o apertamente contrario alle politiche di governo non è che la pensi in altro modo, semplicemente è invidioso: termine contenuto nel vocabolario renziano fra gufi e rosiconi, come il premier è abituato a definire gli avversari. Se è un peccato, lo è doppio. Primo perché non è un linguaggio nuovo: erano «invidiosi», secondo Silvio Berlusconi, quelli che lo attaccavano nei giorni tumultuosi delle olgettine; erano «invidiosi», secondo Roberto Formigoni, quelli che prevedevano sconfitte del centrodestra in Lombardia; erano «invidiosi», secondo l’allora leader dei giovani di Forza Italia, Simone Baldelli, i coetanei di sinistra che deridevano una loro iniziativa (e da cui erano chiamavano «piazzisti», tanto per sottolineare la profondità dell’analisi). Sui gufi c’è da star qui mezza giornata. Erano «gufi» e pure «cornacchie» appollaiati sulla Quercia, secondo il fondatore di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, quelli che si aspettavano la crisi del primo governo Berlusconi, 1994; erano «gufi» (e di nuovo «cornacchie»), sempre secondo Fini, quelli che nel 2004 davano in discesa il suo partito; erano «gufi», secondo Dario Franceschini, quelli che nel 2009 vedevano il Pd in difficoltà nel posizionamento europeo (coi socialisti o coi popolari?); erano «gufi» e «veterocomunisti», secondo Berlusconi, i contendenti di centrosinistra. I gufi da queste parti svolazzano da molto prima che li avvistasse Renzi, e ora che li ha avvistati parlano tutti di «gufi»: Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo, Luigi De Magistris. È un peccato - secondo motivo - perché i rottamatori non hanno rottamato un metodo fastidioso, il metodo di attribuire a chi è in disaccordo secondi fini inconfessabili perché meschini o loschi. Il sostantivo più usato nel ventennio della Seconda repubblica è «malafede». Sono stati dichiarati in malafede Francesco Rutelli da Francesco Storace, l’intero Pds da Maurizio Gasparri, l’intera An da Luigi Manconi, l’intero centrodestra da Luciano Violante, Massimo D’Alema da Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni da Adolfo Urso, Umberto Bossi da Barbara Pollastrini, Giulio Tremonti da Vincenzo Visco, l’intera Forza Italia da tutta la Margherita, l’intero Ulivo da Renato Schifani, Piero Fassino da Giorgio Lainati, i fuoriusciti del M5S dai non fuoriusciti del M5S...Potremmo andare avanti fino all’ultima pagina di questo giornale, ma tocca segnalare che gufi, rosiconi, invidiosi e disonesti sono tutti figli dei coglioni - linguisticamente e psicologicamente parlando - con cui Berlusconi tratteggiò gli elettori di sinistra nella campagna elettorale del 2006. Se qualcuno non è convinto dalle tue ricette, è un coglione. E siccome la vita è un andirivieni da tergicristallo, a loro volta gli elettori di centrodestra erano irrimediabilmente «coglioni» (o, con le attenuanti, «fessi») secondo l’analisi di Dario Fo; Antonio Di Pietro, assecondando le sue attitudini, li iscrisse in un politico registro degli indagati in quanto «complici». Un meraviglioso ribaltamento della logica spinge a escludere di essere un po’ tardo chi non capisce gli altri: sono gli altri a essere tardi. Ci abbiamo messo del nostro anche noi giornalisti, poiché negli anni si sono letti autorevoli commentatori parlare - per esempio - della «dabbenaggine» e della «complicità nella furbizia illegale» degli ostinati sostenitori di Forza Italia, che a sua volta - secondo esempio - prendeva i voti nella «zona grigia dell’illegalità fiscale» (per non parlare delle perpetue e reciproche accuse di servaggio fra star dei quotidiani). Gli evasori votano Berlusconi, in Sicilia chiunque vinca è perché lo ha votato la mafia, in Italia chiunque vada al governo è a ruota dei padroni e della finanza globale. Una così solida indisponibilità a prendere in considerazione le ragioni degli interlocutori non aveva bisogno dell’esplosivo sbarco sul pianeta della politica di Beppe Grillo (annunciato con un benaugurante vaffanculo). Lui ha riunito in una banda planetaria di farabutti, o in alternativa di imbecilli, chiunque non si inebri alle sue sentenze. A proposito, eccone una delle più rilassate: «Il vero gufo è Renzi».
Il secondo vizio capitale degli Italiani: l’invidia. Che si appunta più sui lontani che sui vicini, scrive Nico Valerio. “Essere stati onesti non ci è convenuto”, ragioneranno tra sé e sé i ministri italiani che una volta tanto hanno fatto gli americani dichiarando pubblicamente redditi, proprietà e perfino numero e modello di automobile posseduta. L’invidia generale, il secondo vizio capitale in Italia, dopo l’antipatia, si è appuntata su di loro. Ma è un falso bersaglio. E anche lo stesso tiro con l’arco in questo caso è uno sport sbagliato. E così, ancora una volta l’Italiano medio si rivela. I paesani, si sa (l'Italia è il classico Paese di provincia), sono invidiosi se un loro concittadino, ritenuto a torto o a ragione "uguale a loro", ha più successo o guadagna di più. Ma vista l’ipocrisia sociale del municipalismo e della meschina solidarietà di quartiere o borgo, di solito l’invidia si appunta meno sui vicini di casa, che un giorno potrebbero esserti utili, che sui personaggi lontani e inaccessibili. Come i governanti e i politici, appunto, ma anche gli attori, i presentatori della televisione, i calciatori e qualunque “personaggio pubblico”. Così anziché lodare l’autodenuncia all'anglosassone di redditi e proprietà da parte dei ministri del governo Monti, su internet e sui giornali i concittadini li stanno investendo di ironia, astio, critiche di ogni tipo. Eppure, sono sicuri questi invidiosi che davvero gli piacerebbe la vita che fanno (e hanno fatto, per arrivare a questo punto della loro carriera) quei ricchi ministri “tecnici” (finanzieri, economisti di grido, industriali o avvocatoni)? Conoscendo bene gli Italiani, rispondo di no. Gli Italiani, certo, vorrebbero la pappa già cotta, ma nessun sacrificio per ottenerla. Nessun italiano medio appena benestante resterebbe così a lungo con auto così vecchie come quelle denunciate dai ministri. Dunque è solo pura (in realtà non c’è nulla di più impuro dell’invidia) invidia sociale e personale. Impura, perché anziché impegnarsi a studiare o a fare comunque imprese geniali o cose creative in genere, cioè a misurarsi nella scala del merito individuale, gli Italiani invidiosi invidiano il risultato, fortuito o meno, di quelle altrui imprese: il successo economico. Ovvero, l’ultimo gradino. E’ come se uno scalatore invidiasse un altro soltanto per essere arrivato sul Monte Bianco, senza calcolare tutta la sua preparazione, magari ultradecennale, e comunque l’intera e difficoltosa salita. L’impiegato tipo, in particolare (categoria da cui solitamente vengono le critiche e le invidie maggiori), uomo o donna che sia, che spesso ha scelto o si è accontentato di questo lavoro proprio per la sua manifesta tranquillità, per il minimo potere decisionale e quindi per la quasi nulla responsabilità personale, non può invidiare chi da solo, rischiando e impegnando tutta la propria personalità, coi relativi alti rischi, persegue posizioni elevate in cui proprio le capacità personalissime di giudizio critico e decisionali sono gli elementi che procurano alti guadagni. Un grande errore, perciò, questo genere di invidia lavorativa. E poiché l’invidia ottunde la ragione anche dei pochi intelligenti, gli invidiosi non capiscono che l’autodenuncia dei ministri serve nei Paesi liberali a mettere in luce preventivamente eventuali interessi in conflitto, non a favorire invidie e moralismi da strapazzo. In un sistema liberale è lecito e perfino auspicabile che la gente guadagni e diventi ricca, se lo vuole e può, perché si presume, fino a prova contraria, che c’entri in qualche misura un particolare merito. Ecco perché le raccomandazioni o le cordate di “amici”, e i privilegi in genere sono o malvisti o addirittura puniti severamente. Come atti di “concorrenza sleale” o illecita. Benissimo, quindi, se un concittadino è diventato meritatamente ricco. A patto però che non solo paghi tutte le tasse, ma che abbia (come i liberali ricordano sempre alla borghesia) anche dei doveri, che insomma sia grato alla società per la possibilità insolita che ha avuto, e che quindi sia sempre attento ai bisogni delle classi meno abbienti e povere. E invece alcuni ministri “tecnici” ricchi, non provenendo dalla politica, e non avendo perciò quel minimo di frequentazione diretta dei ceti disagiati o poveri dell’elettorato, sono apparsi insensibili quando hanno scelto di tassare ancor più i ceti medi e bassi, anziché quelli alti (per es., operazioni di finanza, banche, assicurazioni) e di svendere inutili enti o proprietà di Stato. E sono apparsi odiosi quando hanno ironizzato sui “fannulloni” o sugli “impiegati pigri” o sugli “sfigati” che guadagnano 500 o 1000 euro al mese, come se tutti costoro fossero degli incapaci. In realtà la psicologia ci insegna che il vedersi sbarrata ogni strada elevata dal sistema della raccomandazione e delle “amicizie giuste”, spesso ereditate dalla famiglia, può far cadere in depressione e abulia individui anche di valore. Stiano attenti, perciò i neo-politici tecnici o i ministri ricchi a ostinarsi a frequentare solo i pari grado sociale, cioè i ricchi e potenti. Accade invece nei veri Paesi liberali che sono quelli anglosassoni, forse nello spirito antico del calvinismo e luteranesimo (religioni che a differenza del cattolicesimo non vogliono le sfacciate ostentazioni e ritengono successo e soldi una sorta di riconoscimento di Dio), i ricchi, politici o no, per farsi in qualche modo perdonare di aver ricevuto più di quanto hanno dato nella grande partita a poker che è la vita, non solo facciano beneficienza a larghe mani, non solo finanzino premi e fondazioni e istituti di ricerca scientifica, favoriti anche dall’esenzione fiscale, ma svolgano addirittura “lavori socialmente utili”. Come appunto, se ne sono capaci, quello quasi onorifico di aiutare a gestire la cosa pubblica. Ecco, dopo ricchissimi padroni delle ferriere che hanno depredato il Paese pensando egoisticamente solo ai propri interessi economici, fiscali e giudiziari, dopo ministrucoli senza arte né parte che privi di altre occupazioni (tanto meno studi, figuriamoci!) hanno preso la Politica come unica fonte delle loro ricchezze e dei loro privilegi, ci piace immaginare che i super-ricchi del governo Monti stiano svolgendo, pur con gli inevitabili errori e limiti (devono essere votati in Parlamento proprio dai Partiti che hanno combinato o sottovalutato dolosamente il disastro economico) una sorta di anno sabbatico a favore del Paese. E il fatto che qualcuno di loro abbia rinunciato almeno allo stipendio di ministro avvalora questa sensazione del tutto nuova, ma anche un po’ antica, che ci riporta ai tempi dell’800, quando fare politica era quasi un “servizio”, un “dovere civile”. E c’erano deputati ricchi che si impoverivano a causa della politica. “Ma perché i governanti devono per forza essere ricchi?” chiedono i cittadini comuni. E’ vero, ci sono stati parlamentari che al momento di entrare alla Camera o al Senato erano operai o disoccupati, e tuttora non pochi parlamentari italiani hanno come unico reddito lo stipendio. Ma, attenzione, questi sono proprio i famigerati “politici di professione”, quelli più malvisti dal pubblico. Ed anche l’avvocato che smette la professione per fare il deputato, alla lunga diventa un politico di professione. Però lo stipendio in Italia è tale da trasformare un povero in un benestante, e dopo un’intera legislatura, in un ricco. Per i governanti, poi, lo stipendio totale è ancora più alto, anche se di poco. E’ quindi impossibile che chi siede al Governo sia povero. Diversissimo, invece, il caso dei tanti dirigenti o managers di Stato (e anche privati) che dimostrano quotidianamente di non meritare affatto l’alto stipendio guadagnato, e ancor meno la pensione d’oro. In questo caso la critica popolare, pur manifestata con i colori sgradevoli dell’invidia, svolge un ruolo prezioso. Può aiutare a farli vergognare di se stessi.
Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.
Filippo Facci censurato. Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 31 luglio 2016, la furia e lo sdegno: "Il popolo di fessi e cretini". I social network talvolta possono essere divertenti, ma sono quasi sempre dannosi. Amplificano i luoghi comuni, danno voce a chi di norma non ne ha e ciò ha un valore democratico almeno apparente. Non serve combatterli e chiederne l’abolizione. Chi non ha niente da dire di solito è molto ciarliero e si esprime con veemenza verbale nella speranza - vana - di farsi sentire e di avere udienza. La maggioranza dei fruitori dei social è costituita da gente isterica che si sfoga insultando chiunque abbia un ruolo più o meno importante, politici, uomini e donne sotto i riflettori, insomma i cosiddetti vip. I luoghi di incontro telematico sono la versione moderna e ingigantita del bar commercio, dove ciascuno dice la prima scemata che gli viene in testa, raramente verificando l’attendibilità delle proprie sparate. Su Twitter e su Facebook dominano il turpiloquio, l’invettiva e l’ingiuria. Persone anonime si divertono un mondo ad avere accesso alla piazza web che consente loro di sparacchiare giudizi anche temerari, comunque incauti, di sicuro poco ponderati. I social permettono a tutti di porsi in evidenza, anzi di illudersi di contare qualcosa e di orientare l’opinione pubblica. Però sul piano pratico non so fino a che punto le idee della folla che usa internet per farsi notare incidano sulle decisioni di chi ha in mano le leve del potere. Poco, suppongo. Anche perché l’uso del computer in Italia è ancora limitato alle persone giovani che hanno dimestichezza con le tecnologie avanzate. Osservando quanto avviene sui social si ha poi la sensazione che essi siano un moltiplicatore di banalità atte ad incrementare il conformismo. Chi esce dagli schemi più diffusi del pensiero unico, quello di moda, si trova a dover combattere con una massa di disinformati che però, essendo assai folta, si ritiene forte e invincibile. L’esempio più eclatante lo si è avuto in questi giorni. Il nostro ottimo inviato Filippo Facci, per aver scritto articoli documentati e vigorosi contro le violenze islamiste, è stato confinato all’indice da Facebook, escluso dalla community quale elemento indesiderabile. In altri termini, censurato, bocciato quale disturbatore intollerabile di coloro che sono al servizio della divulgazione convenzionale. Facci, giornalista eminente di Libero, come tutti può piacere o no, ma è indubbio che sia un uomo di rara intelligenza e capace di interpretare i fatti della vita in modo originale. Sull’islam egli ha scritto pagine che è da fessi sottovalutare in quanto offrono spunti di riflessione profonda. Ebbene, poiché le sue tesi non rientrano nel calderone delle insulsaggini correnti, i guardiani di Facebook le hanno disinvoltamente oscurate, quasi si trattasse di bestemmie. Ormai siamo a questo punto. Chi non sta con i musulmani, assassini o no, in Italia è sgradito, considerato un reietto, un fascista, peggio, un essere indegno di ospitalità. Fossi in Facci, mi vanterei di essere respinto dai cretini. Libero è suo e lo sarà sempre. Vittorio Feltri
E poi la pietra tombale...
«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», scrive “La Stampa” il 10 giugno 2015. Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno».
Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti", scrive Andrea Purgatori su L'Huffington Post il 06/08/2013. “L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.
Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?
“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.
Mi faccia capire questa storia della maschera.
“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.
Esibizionisti.
“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.
Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.
“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.
Secondo sintomo.
“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.
Cattivo.
“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.
Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?
“La recita”.
La recita?
“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.
Che fanno gli inglesi?
“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.
Torniamo ai sintomi, professore.
“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.
Con la fede non si scherza.
“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.
Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.
“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.
E allora?
“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.
Scherza o dice sul serio?
“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.
Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?
“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.
E lei, perché non se ne va?
“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.
Grazie della seduta, professore.
“Prego”.
Italiani asociali con migliaia di amici su facebook. Psicologia: gli italiani non amano i vicini di casa, scrive il 18 aprile 2016 Grazia Musumeci. Gli italiani razzisti e asociali? In un certo senso sì, soprattutto se hanno a che fare con i vicini di casa. Sarebbe questo l’allarme lanciato da un video-denuncia italiano proposto dalla Nescafé che ha sottoposto alcune persone a un test mettendole a confronto con situazioni sociali diverse, tra cui anche i rapporti condominiali o in generale col vicino di casa. Si è visto che l’italiano medio tende a essere generoso, allegro, socievole e accogliente, ma quando viene messo a confronto con i vicini di casa o di pianerottolo diventa completamente asociale: non saluta, guarda altrove, evita il dialogo, risponde a monosillabi … altro che la torta di benvenuto per i nuovi arrivati, che tanto si vede nei film! E’ la diffidenza che domina nei confronti delle persone o delle famiglie che dovranno condividere una delle nostre pareti. Non ci si fida, se non dopo molti anni e molti tentativi. Il 61% risponde di non avere proprio alcun contatto col vicino di casa, il 57% dichiara di avere contatti solo in ascensore. Sono stati intervistate 1.800 persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni e i più asociali in assoluto sono risultati, come sempre, gli abitanti delle grandi città con Milano, Torino, Venezia e Bologna tra le prime in classifica per “asocialità”. A Roma le cose già migliorano mentre al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se pure qui i vicini si evitano nel 50% dei casi. La diffidenza non ha a che fare con cultura o colore della pelle, la stessa lontananza che si riserva a un immigrato africano la si riserva all’ingegnere italiano del piano di sotto!
Italiani, popolo di «asociali», (ma solo con i vicini di casa). Avvertiti come fastidiosi, persone a cui mostrare distacco senza nemmeno scambiarsi un sorriso e una battuta: sei italiani su dieci li evitano e mostrano caratteristiche asociali nei loro confronti. Un video-esperimento racconta le abitudini sul pianerottolo, scrive Eva Perasso il 14 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. Si chiama asocialità condominiale ed è un comportamento che in Italia è particolarmente diffuso. Non salutare i dirimpettai del proprio pianerottolo, guardare in basso quando si incrociano i condomini per strada, evitare il dialogo persino nello spazio angusto dell'ascensore, fino ad arrivare a non instaurare alcun rapporto - nemmeno il più banale di gentilezza reciproca - anche nel corso di diversi anni passati a condividere tetto, spese e faticose riunioni di amministrazione: ecco i tratti comuni per riconoscere il tipico “condomino asociale”. Accade in Italia: una curiosa ricerca e un video-esperimento commissionati da Nescafè hanno provato a misurare quanto gli italiani siano asociali nei confronti dei vicini di casa e i risultati sono stati poco gentili nei confronti di chi condivide il tetto con altri condomini. Il 61 per cento degli italiani ammette di non voler avere alcun rapporto con i vicini e anzi la diffidenza è alta in alcuni dei luoghi in cui questa relazione si instaura e si mantiene: l'ascensore (la diffidenza qui è pari al 57 per cento), pianerottolo e scale (66 per cento), fino alla chiacchiera dal balcone (evitata dal 41 per cento degli italiani) sono i luoghi più comuni per un incontro e uno scambio, ma anche i più temuti. Il sondaggio web ha coinvolto 1.800 italiani tra i 18 e i 65 anni e ha anche provato a capire le motivazioni di questa diffidenza, che porta all'asocialità condominiale, all'interno di strutture che invece sono (e sono state nei decenni passati nel nostro Paese) altamente sociali per via della condivisione di spazi comuni. Dalla ricerca emerge però chiaramente come la vicinanza fisica non si trasformi automaticamente in atti di solidarietà o in interazione tra le parti. I più diffidenti sono gli uomini (69 per cento, contro il 53 per cento delle donne) e la città dove si instaurano meno rapporti di buon vicinato è Milano, seguita da Torino, Venezia e Bologna. Al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se un buon 50 per cento ammette di evitarli. Il professor Marco Costa, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, commenta i risultati: «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione come luogo di rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti. Quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy». Gli intervistati hanno messo in luce la mancanza di tempo per i rapporti sociali condominiali per via dei ritmi di vita frenetici e la paura della microcriminalità, ma anche un po' di timidezza: un italiano su due dichiara di temere di essere ignorato dal vicino, uno su tre non vorrebbe apparire troppo invadente, molti si giustificano mettendo in campo la loro timidezza. Curiose e divertenti le tattiche messe in atto per evitare di avere rapporti coi vicini, anche quando proprio il contatto sembra ormai irrimediabile: frasi di circostanza e di scuse per non fermarsi a chiacchierare vengono usate da oltre il 60 per cento dei vicini, mentre addirittura 8 persone su 10 ammettono di far finta di non vedere il vicino, chinando spesso il capo sul cellulare. Fino al rifiuto totale dell'interazione: aspettare di trovare l'ascensore vuoto o controllare che nessuno passi per le scale prima di uscire dal proprio uscio sono comportamenti confessati da molti.
Italiani asociali? 6 italiani su 10 non parlano coi vicini di casa, specie nei condomìni. Testa bassa o sguardo altrove: gli italiani sono asociali, specie con i vicini di casa. Un’indagine svela che il 61 per cento ammette di non aver alcun tipo di relazione coi propri vicini di casa e di aver difficoltà a relazionarvisi. Esperti sociologi e psicologi spiegano le ragioni di questa «asocialità condominiale», scrive mercoledì 13 aprile 2016 Luigi Mondo. Giornalista esperto in salute. Ha scritto quasi 50 libri tra saggistica, manualistica e narrativa, tradotti in diverse lingue. Altro che buon vicinato o rapporti sociali ricchi e costruttivi, gli italiani quando si tratta di vicini di casa ci fanno una pessima figura. E poi, magari, sono gli stessi che si vantano di avere un sacco di ’’amici’’ su Facebook. Ben 6 italiani su dieci confessano infatti di non avere alcuna intenzione di approfondire alcun rapporto coi propri dirimpettai. Il capro espiatorio della mancanza di riguardo circa i rapporti tra vicinato sarebbero la frenesia della routine quotidiana (73 per cento) e il poco tempo per socializzare (68 per cento). Si è passati così dal cosiddetto ’’condominio famiglia’’ tipico degli anni ‘50, in cui la maggior parte dei vicini di casa si conoscevano e condividevano i momenti della quotidianità, si è passati ai ’’condomini asociali’’, dove si conosce a malapena il nome dei dirimpettai, evitati o salutati a fatica sui pianerottoli. La palma dei più asociali va agli abitanti delle grandi città del Nord, dove la mescolanza di etnie e provenienze regionali, unitamente ai ritmi lavorativi frenetici, hanno accentuato la diffidenza nei condomìni, che si manifesta principalmente sul pianerottolo di casa e le scale (66 per cento), in ascensore (57 per cento) e sul balcone (41 per cento). Lo sconsolante quadro è emerso da uno studio promosso da NESCAFÉ, che porta alla luce una problematica raccontata dal video-esperimento sociale ’’The Nextdoor Hello’’. L’indagine da cui si è preso spunto per l’esperimento è stata condotto con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su circa 1.800 italiani, uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Il monitoraggio è avvenuto online sui principali social network, blog e forum per capire come sono cambiati nel tempo i rapporti nei condomìni italiani tra vicini di casa. «L’esperimento sociale The Nextdoor Hello è nato grazie all’individuazione di un fenomeno sempre più forte nelle città italiane, ovvero la crescente difficoltà delle persone di comunicare con i propri vicini di casa – afferma Matteo Cattaneo, Marketing Manager NESCAFÉ – L’obiettivo che abbiamo raggiunto è stato quello di dimostrare empiricamente, attraverso un concreto esperimento ’’sul campo’’ raccontato da un video, che è possibile ridurre le distanze venutesi a creare tra dirimpettai anche con un semplice gesto, come offrire una tazza di caffè». Ma perché questa diffidenza per i vicini di casa è sempre più marcata? Secondo il campione di italiani, il motivo principale sta nella frenesia della routine quotidiana che impedisce di approfondire qualsiasi rapporto che non riguardi il nucleo famigliare, le amicizie più strette o l’ambito lavorativo. Di conseguenza si ha a disposizione poco tempo per la socializzazione, scoraggiata ancora di più dall’aumentata percezione di microcriminalità e terrorismo attraverso i media (39 per cento). Quasi un italiano su 2 (49 per cento) teme di essere ignorato dal vicino, mentre il 32 per cento dei monitorati ha paura di risultare invadente e il 29 per cento sostiene di essere troppo timido. «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione soprattutto come luogo di riposo e rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti, come il luogo di lavoro ad esempio – spiega il dott. Marco Costa, professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Bologna – Di conseguenza quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy, la riservatezza e il riposo. In secondo luogo, nella società sta aumentando la mobilità e diminuisce il senso di attaccamento al luogo e anche al vicinato». Il problema è che spesso però il contatto con i vicini di casa è inevitabile fuori dalla porta di casa. Quando questo accade, come cercano di divincolarsi gli italiani che non amano il contatto coi condòmini? Ben 8 su 10 fanno proprio finta di niente (79 per cento), abbassando lo sguardo o facendo finta di scrivere un messaggio con lo smartphone. La seconda ’’via di fuga’’ cui si ricorre di più è la frase ’’Scusa ma sono di fretta’’ (68 per cento), seguita dalla variante ’’Sono in ritardo’’ (64 per cento). Il 45 per cento addirittura evita di utilizzare l’ascensore se già occupato da altri vicini, mentre il 39 per cento si assicura che sulle scale non ci sia nessuno quando esce di casa. «La prossimità spaziale tra vicini di casa è una potenzialità che non porta automaticamente all’interazione e alla solidarietà – spiega il dott. Giandomenico Amendola, professore di Sociologia Urbana nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze – Essa non determina una spinta all’interazione e, men che meno, alla costituzione di solidi rapporti interpersonali. A maggior ragione, in un palazzo abitato da lavoratori, le occasioni di incontro sono inevitabilmente sporadiche e in genere molto rapide e formali. Andando ad analizzare i fattori che agiscono sui rapporti di vicinato, i principali sono l’omogeneità sociale-culturale e il tempo di residenza». Qual è l’identikit del ’’coinquilino asociale’’? Da quanto emerso dall’indagine sono soprattutto gli uomini a essere diffidenti nei confronti dei vicini di casa (69 per cento), contro il 53 per cento delle donne. La fascia di età che raccoglie più persone diffidenti con i vicini di casa è quella tra i 31 e i 50 anni (71 per cento), mentre scende al 60 per cento tra gli over 50 e al 51 per cento tra gli under 30. Il fenomeno è molto più forte tra gli abitanti dei grandi centri urbani del Centro-Nord come Milano (69 per cento), Torino (68 per cento), Venezia (66 per cento) e Bologna (64 per cento). Al Centro si verifica con minore intensità, come a Roma (57 per cento), mentre al Sud abbiamo Napoli (55 per cento) e Palermo (52 per cento). Tra le categorie più ’’asociali col vicinato’’ ci sono i manager (68 per cento), i liberi professionisti (65 per cento), gli avvocati (64 per cento), i bancari (63 per cento) e gli impiegati (62 per cento). «Per abbattere questi muri la ricetta è molto semplice – conclude lo psicologo Marco Costa – Basta creare attività comuni come pulizia dei luoghi condivisi o feste di condominio, occorre cioè creare degli obiettivi comuni in cui i condomini possono riconoscersi. Piccoli gesti come l’offrire un caffè od offrire cibo costituiscono anche attività che permettono d’incontrare gli altri senza la preoccupazione di dover interagire in modo personale, mitigando l’ansia di un contatto personale». Il sociologo Giandomenico Amendola afferma invece che «Tra i principali simboli della socializzazione tra vicini, il caffè ne è un esempio e appartiene alla tradizione nordamericana: l’espressione ’’popping into neighbours for a coffee’’ è infatti tipica dei sobborghi statunitensi contrassegnati da una forte omogeneità sociale. Proprio per ridare forza a questa tradizione di vicinato è nato il movimento dei Coffee Parties». Quali dunque gli effetti positivi della socializzazione tra vicini di casa? Al primo posto la scomparsa dell’imbarazzo nei successivi incontri con i condòmini (61 per cento), fatto che rende le persone più serene e meno timorose di incrociare i dirimpettai negli spazi comuni. In seconda posizione la consapevolezza di avere un appoggio in caso di bisogno (53 per cento); questo si può verificare per esempio quando manca un ingrediente in cucina o in caso di lievi incidenti domestici. Infine, al terzo posto, la maggiore intraprendenza nell’invitare i vicini di casa per condividere un momento di relax (44 per cento), per esempio davanti a un buon caffè.
Claudio Martelli: “Giovanni Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato”. L’ex Ministro di giustizia che volle Falcone con sè al Ministero così racconta: “Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato”, scrive Paola Sacchi. Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.
Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?
«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».
Gli animi di chi?
«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»
Addirittura?
«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»
Oggi suona come roba dell’altro mondo…
«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».
Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?
«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».
Quando?
«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».
Che successe?
«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il Sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».
Eravamo arrivati a questo punto?
«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».
Le più significative?
«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».
Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?
«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».
Faccia un esempio.
«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»
Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?
«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».
Ci ricordi perché.
«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».
Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…
«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».
È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?
«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».
Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?
«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione».
Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Navigo, presidente della Anm, ai politici?
«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri». Intervista rilasciata al quotidiano Il Dubbio.
Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.
Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi ed il sostentamento parassitario fiscale e contributivo. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.
Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, ai primi del ‘900 scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Ogni tema trattato sinteticamente in quest'opera è oggetto di approfondimento analitico in un saggio dedicato.
Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright.
In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, al pari loro si palesa quanto segue. I riferimenti ad atti ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.
Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.
Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".
La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:
può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;
può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;
può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;
non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.
Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa.'''
Da quello che ho capito quello che si teme ancora non è avvenuto. Quindi, mai fasciarsi il capo prima di romperlo. Il credere di essere nei guai ed esserlo, ce ne corre. Quando sarà il momento di difendersi ci vorrà un buon avvocato. Prima nulla si può fare se non attendere gli eventi.
Comunque impara a cavartela da solo, perché quando sei nei guai non c’è nessuno che ti aiuti.
L’Egoismo e la Tirannia non consiste nel vivere come vogliamo noi, ma nel pretendere che gli altri vivano come pare a noi
Pur tuttavia il tempo corre a nostro sfavore.
Se il diritto all’oblio non cancella la storia. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti sul suo passato, scrive Marta Serafini il 21 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il terrorismo non si cancella. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti che riguardano il suo passato. Oggetto di discussione, il diritto all’oblio. Risvolto della questione, la lotta tra il diritto alla privacy e il diritto all’informazione. Già nel leggere le prime righe del provvedimento pubblicato ieri nella newsletter del Garante ci si scontra con la complessità del tema. «XY ha finito di scontare la pena nel 2009 per gravi di fatti di cronaca di cui è stato protagonista tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80», recita il testo. Si parla degli Anni di Piombo, di vicende che ci hanno segnato. Il Garante ha deciso di difendere la storia. Eppure non può divulgare il nome del protagonista. Secondo passaggio: XY ha chiesto la rimozione da Google di articoli e di suggerimenti di ricerca che lo associano alla parola terrorista. Ma sia Big G che il Garante gli hanno risposto picche. «Le informazioni di cui si chiede la “deindicizzazione” fanno riferimento a reati particolarmente gravi», recitano le motivazioni. Non importa dunque che dagli Anni di Piombo a oggi sia passato molto tempo. E non importa nemmeno che nel 2013 la Corte di Cassazione abbia dato ragione a un ex Prima linea che faceva una richiesta del tutto simile. Dal maggio 2014 alle richieste «tradizionali» si sono aggiunte quelle che riguardano Internet. Google, adeguandosi a una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, consente l’esercizio del diritto all’oblio anche in Rete. Da allora 33.633 sono le richieste arrivate solo dall’Italia. E se nel 32,2 per cento dei casi Google le ha soddisfatte, in questo ultimo frangente ha deciso di rifiutare, supportato dal Garante. Però non è sempre andata così. Quando si aprì il contenzioso su Renato Vallanzasca, venne fuori che Wikipedia rischiava di dover far sparire centinaia di voci. Allora Jimmy Wales, cofondatore dell’enciclopedia digitale, tuonò: «La storia è un diritto umano. Nascondere la verità è profondamente immorale». Parole che viene difficile non condividere, soprattutto se si parla di terrorismo. Ma che nell’era di Internet hanno implicazioni da non sottovalutare.
DIRITTO ALL’OBLIO. FINE DELLA STORIA!
Per gente indegna. Umanità senza vergogna e con la memoria corta. Nata, ma per i posteri mai vissuta.
Voi umani, dimenticate il passato. Hitler, Stalin ed ogni piccolo e grande criminale innominabile dai giudici avrà la facoltà di essere innominato.
Intervista al dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Cosa c’entra Lei che non è giornalista con il Diritto all’Oblio?
«Io della Cronaca faccio Storia. Ciononostante personalmente sono destinatario degli strali ritorsivi dei magistrati. A loro non piace che si vada oltre la verità giudiziaria. La loro Verità. Oggi però sono intere categorie ad essere colpite: dai giornalisti ai saggisti. Dagli storici ai sociologi. Perché oggi in tema di Diritto all'Oblio e Libertà di espressione, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale (Prima Da Noi) con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo».
Cosa dice la legge sulla Privacy?
«La nuova normativa, concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca, è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti, o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:
può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;
può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;
può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;
non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili».
Cosa prevedeva la Legge e la Giurisprudenza?
«Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta, ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza. Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)"».
Con la novella di cosa si sta parlano?
«La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia perché cancella la Storia. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio la sfera del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. La Cassazione, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. Spiega Vincenzo Tiani: “La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile.”»
Cosa dice la sentenza Google Spain?
«La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. E su questo che si deve ragionare. I risultati della ricerca devono essere vagliati per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Ciononostante con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:
a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione;
d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento».
Quali sono stati gli effetti?
«Google rende noti i dati relativi al diritto all'oblio fino al 2015 introdotto da una sentenza della corte di Giustizia Ue nel maggio 2014, che garantisce il diritto dei cittadini europei a veder cancellati sui motori di ricerca i link a notizie personali "inadeguate o non più pertinenti". I link rimossi sono 580mila».
Allora sembra essere tutto risolto!
«Per nulla! Siamo in Italia e per gli ermellini nostrani l’interesse pubblico cessa dopo due anni. Spiega Vincenzo Tiani: “Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook?”»
Cosa ha detto la vittima azzannata degli ermellini?
«"Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario – scrive il direttore Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 su “Prima Da Noi”. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati. Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non ‘avere problemi’ nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…".»
Ed allora, quali gli effetti sul suo operato?
«Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi internazionali vigenti sul copyright. Le norme internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore di oltre un centinaio di libri con centinaia di pagine che raccontano l'Italia per argomento e per territorio. A tal fine posso assemblare le notizie afferenti lo stesso tema per fare storia o per fare una rassegna stampa. Questo da oggi lo potrò fare nel resto del mondo, ma non in Italia: la patria dell'Omertà. Perchè se non c’è cronaca, non c’è storia. Ed i posteri, che non hanno seguito la notizia sfuggente, saranno ignari di cosa sono stati capaci di fare di ignobile ed atroce i loro antenati senza vergogna».
Diritto all'oblio e libertà, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, scrive Vincenzo Tiani, Law & Digital Communication l'1 luglio 2016. La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia, suo e nostro malgrado. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio le maglie del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. Il caso. La Cassazione, come riportato dalle parole del convenuto Giornale Online PrimaDaNoi.it, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. La sentenza ricalca l’analoga n. 3/2013 del Tribunale di Ortona. In quel precedente caso, due coniugi erano stati arrestati e poi giudicati innocenti. Il giornale aveva riportato legittimamente la vicenda e, dopo il decreto d’archiviazione per i coniugi, aveva proceduto ad aggiornare l’articolo. Nonostante questo, i coniugi ritenevano lesa la propria immagine in quanto da una ricerca su Google comparivano gli articoli del giornale con la notizia del loro arresto, ma anche quelli della loro innocenza. Anche dopo il parere del Garante della Privacy, favorevole per PrimaDaNoi.it, il giudice ha comunque ritenuto il diritto alla privacy dei coniugi predominante, una volta esaurita la prima necessità di dare la notizia. Anche in quel caso, un diritto di cronaca collegato ad un timer. Ma se ai tempi di quella sentenza il tema del diritto all’oblio era sorto da poco, in seguito al caso Google Spain ancora in corso, in quest’ultima occasione c’erano tutti gli elementi per discostarsi da quella prima sentenza, stando anche il fatto che la materia è delicatissima e in Italia non vige un sistema giuridico dove il precedente è vincolante. Da ultimo, fattore importante anche per la sola richiesta a Google per la de-indicizzazione dal motore di ricerca, in questo caso il processo era ancora in corso e non c’era stata archiviazione come nel precedente. Quali i diritti in gioco. I diritti che ogni giudice in questi casi è chiamato a bilanciare sono due diritti di pari rango come il diritto di cronaca e quello alla privacy. Due diritti riconosciuti anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR). Ciò che stupisce è come gli Ermellini non abbiano tenuto conto della Giurisprudenza, se non italiana almeno europea, che mai in passato ha chiesto la rimozione dei contenuti dall’archivio del giornale, ben sapendo come ciò avrebbe indebolito fortemente la libertà di stampa, fondamentale in una società democratica. Tale scelta della Corte Europea è stata confermata anche in quei casi, come quelli di diffamazione a mezzo stampa, in cui i fatti raccontati nell’articolo erano stati poi smentiti, pur se l’autore aveva sufficienti ragioni e fonti per procedere alla pubblicazione. Perché non appare condivisibile il principio usato dalla Cassazione. La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile. Il diritto all’oblio e Google. Come dicevamo, di diritto all’oblio si è parlato molto negli ultimi 2 anni, da quando la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. Così Google, nella pagina dedicata alle richieste spiega come queste saranno vagliate per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Questo è quanto avrebbe dovuto fare la parte attrice invece di chiedere al giornale e al giudice la rimozione dell’articolo al giornale. Sarebbe bastata una richiesta gratuita a Google. In caso di risposta negativa si sarebbe potuta rivolgere al Garante della Privacy. E invece, nulla di tutto questo. La conferma nelle eccezioni del nuovo Regolamento Europeo. Con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:
a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione;
d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento;
La lesione del diritto di difesa. Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook? Ci auguriamo di no e che PrimaDaNoi.it faccia ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ottenere un ribaltamento della sentenza e ristabilire l’importanza del diritto di cronaca.
Diritto all’oblio. La Cassazione conferma: «cancellare sempre articoli anche se attuali». Le testate on line che rendono fruibile l’archivio violano la legge sulla privacy. L’interesse pubblico? Per un articolo finisce dopo due anni, scrive Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 “Prima Da Noi”. Il giornale on line che ha in archivio articoli viola la legge sulla privacy perchè detiene dati sensibili senza il consenso dell’interessato. Alla fine è arrivata la sentenza della Cassazione che conferma la seconda sentenza del tribunale di Ortona del gennaio 2013 che per la seconda volta in Italia sanciva l’esistenza del diritto all’oblio applicandolo alla cancellazione integrale e totale degli articoli anche dagli archivi dei siti on line. La sentenza si rifaceva integralmente ad una precedente emessa nel 2011 sempre dal tribunale di Ortona che può essere considerata la prima in assoluto in Italia di quel genere. Entrambe le sentenze hanno visto soccombere PrimaDaNoi.it mentre da allora il dibattito su questo controverso diritto è montato fino ad invadere l’Europa e poi gli Stati Uniti. La stessa Cassazione più volte si è espressa in maniera non sempre univoca decidendo caso per caso ma mai si era arrivato ad una decisione tanto drastica. Ancora una volta questo quotidiano è il soggetto soccombente di una sentenza che entrerà nella storia e che apre uno squarcio inimmaginabile sulla fruizione delle notizie e dell’informazione sul web, che taglia di netto la libertà dei giornalisti, limita incredibilmente il diritto di cronaca ma soprattutto dà una mazzata al diritto ad essere informati dei cittadini e a ricercare informazioni.
CHE COSA DICE LA SENTENZA?
La sentenza della Cassazione 13161/16 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) conferma di fatto la sentenza 3/2013 del tribunale di Ortona che aveva stabilito che un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perchè pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria. A nulla era valsa l’eccezione relativa al diritto di cronaca per cui un fatto se è vero non può produrre un danno nè al fatto che la notizia di due anni prima era ancora attuale perchè il processo relativo non era nemmeno iniziato. In quell’occasione scattò una sanzione di 10mila euro e la parte già in primo grado azionò il pignoramento dell’unico mezzo di trasporto del direttore Alessandro Biancardi. Il fatto di cronaca era accaduto nel 2008 ma già il 6 settembre 2010 i titolari del ristorante chiedevano al giornale la cancellazione dell’articolo perchè ledeva l’immagine della loro attività commerciale. Cancellazione rifiutata. Nel frattempo il tribunale di Ortona emette la prima sentenza sull’oblio e ci condanna per un articolo non cancellato ed ancora presente nell’archivio. Il fatto ci induce a cancellare anche l’articolo oggetto del secondo contenzioso ancora in corso a scopo transattivo e per limitare i danni paventati. Il giudice di fatto non ne tiene conto e calcola comunque che il danno è stato procurato dalla data di pubblicazione (2008) a quella di cancellazione (2011) perchè il trattamento dei dati si era protratto oltre lo scopo necessario anche se con finalità giornalistiche. PrimaDaNoi.it, difesa dall’avvocato Massimo Franceschelli, ha proposto ricorso in Cassazione invocando la falsa applicazione della legge sulla privacy e chiedendo la nullità della sentenza perchè i dati sono stati trattati unicamente per finalità giornalistiche e per questo non c’è bisogno di alcuna autorizzazione. Inoltre il fatto del 2008 non poteva beneficiare dell’oblio perchè l’ultima udienza del processo penale sull’accoltellamento si è tenuta il mese scorso (maggio 2016). Si legge nella sentenza della Cassazione: «l’illecito trattamento dei dati personali è stato dal tribunale specificatamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell’articolo di cronaca sul fatto accaduto nel 2008 nè nella conservazione e archiviazione informatica di esso ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico del 29 marzo 2008 e della sua diffusione sul web quanto meno a fare tempo dal ricevimento della diffida in data 6 settembre 2010 per la rimozione di questa pubblicazione dalla rete (spontaneamente attuata solo nel corso del giudizio)». Dunque sarebbe corretto pubblicare e mantenere in archivio ma solo per un determinato periodo che nessuna legge prevede e che questa sentenza stabilisce “congruo” in due anni e mezzo. Trascorso questo tempo l’articolo non solo dovrebbe essere deindicizzato (sempre a carico della testata on line a differenza di quanto stabilito dalla Corte di giustizia Europea nel 2014) ma sparire dal web completamente. «La facile accessibilità e consultabilità dell’articolo giornalistico, superiore a quelle dei quotidiani cartacei, tenuto conto dell’ampia diffusione locale del giornale online consentiva di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale fosse trascorso sufficiente tempo perchè le notizie divulgate potessero avere soddisfatto gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistico». «Il persistere del trattamento dei dati personali aveva determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione e ciò in relazione alla peculiarità dell’operazione di trattamento, caratterizzata da sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati trattati ed alla natura degli stessi, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale». «La Corte di Cassazione», ha puntualizzato l’avvocato Massimo Franceschelli, «ha deciso in senso contrario rispetto al procuratore generale il quale aveva chiesto l’accoglimento del nostro ricorso giudicandolo fondato e spiegando che non potesse applicarsi il diritto all’oblio perchè il processo penale era ancora in corso». In conclusione la Cassazione stabilisce che:
1) Dopo la pubblicazione dell’articolo l’interesse pubblico alla lettura di quella notizia viene meno (qui si dice che bastano due anni e mezzo).
2) Alla richiesta di cancellazione si doveva ottemperare subito perchè trascorso il tempo.
3) Il diritto di cronaca vale all’istante ma non si possono trattare dati sensibili e renderli fruibili al pubblico per sempre perchè dopo un pò prevale la privacy (per mantenerli ci vuole il consenso).
4) Si cancellano anche articoli recenti ed attuali.
Un articolo corretto produce un danno risarcibile per il solo fatto di essere fruibile
IL GOLPE OLTRE IL BAVAGLIO
Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati.
Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non avere problemi nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…. Una cosa la voglio dire chiara e forte: siamo fieri di quello che abbiamo fatto e ci stupiamo ancora oggi, dopo anni di sofferenze e umiliazioni, di come sia ancora forte il nostro senso per la libertà e la legalità. Che non cambia. Siamo fieri di combattere alla stregua dei partigiani di un tempo contro uno strapotere subculturale fascista e totalitario che avvantaggia dittature di ogni tipo e umilia il cittadino qualunque e lo svuota dei diritti fondamentali. Oggi anche il diritto alla conoscenza. Siamo fieri di essere migliori di tantissime persone che rappresentano le istituzioni e che avrebbero l’obbligo di far prosperare questo Paese, far rispettare le leggi, spiegare cosa sia la legalità e la libertà e colpire chi delinque. Tutti dovrebbero avere immenso rispetto per la Costituzione italiana, l’ultimo baluardo per le nostre libertà e diritti, e sulla attività giornalistica è chiara: «La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Questa sentenza invece dice che dopo un pò bisogna essere autorizzati per trattare i dati sensibili e di fatto con la deindicizzazione e la cancellazione degli articoli dal web si applica una censura. Postuma ma sempre censura è. Alessandro Biancardi
BENVENUTI AL SUD.
«I Paesi del Sud? Spendono tutto in donne e alcol». Scoppia il caso Dijsselbloem. Che non si dimette: «Frainteso». Berlino lo difende Dure critiche in Europa e in Italia per le dichiarazioni sui Paesi del Sud che “spendono tutto in alcol e donne e poi chiedono aiuti”, scrive Ivo Caizzi il 22 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Una valanga di critiche e di richieste di dimissioni ha colpito il ministro delle Finanze olandese e presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, per aver accusato in una intevista i Paesi Ue del Sud di spendere «tutti i soldi per alcol e donne e poi chiedere aiuti». Eurosocialisti come il premier portoghese Antonio Costa e il leader del Pd Matteo Renzi gli hanno chiesto di lasciare la guida dei ministri finanziari della zona euro, ottenuta come loro compagno di partito e poi gestita in sintonia soprattutto con la rigidità nei vincoli Ue di bilancio voluta da europopolari tedeschi del Ppe come la cancelliera Angela Merkel e il responsabile delle Finanze Wolfgang Schauble. Anche dal Ppe, comunque, e dalle istituzioni Ue hanno preso le distanze dalle dichiarazioni al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz) così politicamente scorrette. Schaeuble e il premier olandese Mark Rutte hanno prudentemente usato i portavoce per difendere Dijsselbloem. «Non diamo voti di stile su espressioni utilizzate in un’intervista – ha comunicato il ministero delle Finanze tedesco -. Ci aspettiamo, fino a quando questo governo è in carica all’Aja, di avere un presidente dell’Eurogruppo pienamente operativo». Dijsselbloem ha visto crollare il suo partito alle recenti elezioni nazionali. Difficilmente sarà confermato alle Finanze e dovrà di conseguenza lasciare l’Eurogruppo. Conta però di resistere nei mesi stimati necessari per formare il nuovo governo di coalizione all’Aja. «Mi dispiace se qualcuno si è offeso per le mie affermazioni – si è giustificato -. Sono stato diretto e può essere spiegato con la rigida cultura calvinista olandese, con la franchezza olandese. Capisco che questo non sempre è ben compreso e apprezzato in altre parti d’Europa. Apprendo la lezione. Al tempo stesso ritengo di essere apprezzato per il mio stile e per affrontare tutti i ministri con un certo rigore. Se la gente si offende, mi dispiace. Ma non ho intenzione di dimettermi». Per il premier Costa le dichiarazioni alla Faz sono «razziste, xenofobe e sessiste» e «’l’Europa sarà credibile, come progetto comune, solo il giorno in cui Dijsselbleom smetterà di essere capo dell’Eurogruppo e si scuserà chiaramente con tutti i Paesi e i popoli profondamente offesi dalle sue dichiarazioni». Per Renzi: «Gente come Dijsselbloem, che pure appartiene al partito socialista europeo, anche se forse non se ne è accorto, non merita di occupare il ruolo che occupa. E prima si dimette meglio è». Il Partito socialista europeo ha tuonato «vergogna». Per il presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani (Ppe), quelle affermazioni sono «inaccettabili». Il commissario Ue per la Concorrenza, la liberale danese Margrethe Vestager, le ha giudicate «sbagliate». Il presidente lussemburghese della Commissione, Jean-Claude Juncker (Ppe), ha preso le distanze, come il capogruppo tedesco degli eurodeputati popolari Manfred Weber. In Italia il presidente Sergio Mattarella, senza citare esplicitamente Dijsselbloem, ha stigmatizzato le «grossolane definizioni di Nord e Sud d’Europa». L’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi ha colto nelle parole dell’olandese «un grande senso di invidia...». Le dimissioni del presidente dell’Eurogruppo le hanno invocate dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda fino a tutte le opposizioni, dal M5S di Beppe Grillo fino a Forza Italia e alla Lega di Matteo Salvini.
Roma, dietro la festa lo scontro fratricida tra terroni e secchioni, scrive Paolo Delgado il 25 Mar 2017 su "Il Dubbio". La firma dei nuovi trattati Ue in una Roma blindata e in preda alla psicosi terrorismo. Per capire il senso della solenne Dichiarazione che i 27 Paesi dell’Unione dovrebbero firmare domani ci vorrà la lente d’ingrandimento, e anche di quelle potenti. A forza di limare, cancellare, ammorbidire, edulcorare, smussare, annacquare e aggirare, la carta grazie alla quale l’Unione malata dovrebbe ritrovare il vigore dei bei giorni somiglia piuttosto a uno di quei testi bizantini nei quali eccelleva la diplomazia democristiana. Il bello è che anche dopo questo encomiabile sforzo per dire il meno possibile non è affatto certo che tutti i 27 apporranno l’agognata firma. Tsipras punta i piedi e ieri pomeriggio ancora resisteva ai suadenti sforzi di Paolo Gentiloni per convincerlo a firmare. I passaggi sull’ ‘ Europa sociale’ del documento sono scoloriti sin quasi a scomparire, su brutale istanza dei Paesi del Nord. Ma per la Grecia il problema è più terragno: è la richiesta di un sostegno strenuo nella trattativa con i creditori per la revisione del terzo programma di aiuti. L’Fmi pone condizioni capestro, come se non bastassero quelle con cui la Grecia continua a essere sventrata ormai da anni: ghigliottina sulle pensioni, intervento con gli stivali chiodati sul mercato del lavoro, in particolare dando l’estrema unzione alla contrattazione collettiva. «Chiedo il vostro sostegno per proteggere il diritto della Grecia di tornare agli standard del modello sociale europeo», ha scritto Tsipras al presidente della Commissione europea Juncker e al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Il documento però non dovrebbe andare oltre una scialba affermazione sulla necessità di «salvaguardare il ruolo chiave delle parti sociali». Non è certo quel che Tsipras chiede ma l’opinione generale è che alla fine la Grecia si accontenterà. Probabilmente è vero. Tsipras ha già pronto un discorso durissimo. Al termine del quale sarà costretto a piegare la testa. Sino a ieri anche la Polonia negava la firma, e il problema della premier polacca Beata Szydlo è il cuore stesso della svolta di Roma: l’Europa a più velocità. E’ il fronte sul quale la Dichiarazione è stata più rimaneggiata, ogni volta abbassando il tiro. Alla fine non si dovrebbe andare oltre una vaga linea di indirizzo: «Agiremo assieme, a ritmi a intensità diversi ove necessario, ma muovendoci nella stessa direzione e tenendo la porta aperta a quelli che vogliono raggiungerci più tardi. La nostra Unione è indivisa e indivisibile». Basterà alla Polonia, che vede nelle due velocità la minaccia del declassamento? Tutti scommettono di sì ma in realtà neppure questo è detto. In parte dipende dall’irritazione per la conferma di Donald Tusk, anche lui polacco ma ostile alla politica del governo della Polonia, alla presidenza del Consiglio europeo. La Polonia è stato l’unico Paese dell’Unione a votare contro, poche settimane fa, e considera la scelta di confermare comunque Tusk un affronto diretto. Ma soprattutto i dubbi polacchi dipendono dal fatto che la vaghezza del documento è un’arma a doppio taglio. Proprio perché dice pochissimo si espone in futuro a una gamma di possibili interpretazioni e implementazioni vastissima. Ecco perché La Szydlo chiede che la Dichiarazione includa esplicitamente ‘ le questioni che sono le nostre priorità’ e minaccia in caso contrario di non sottoscrivere. Mettendo le mani avanti per tempo, già ieri gli addetti ai lavori facevano sapere informalmente che se pure dovessero mancare un paio di firme non sarebbe una tragedia, ricordando che in fondo 10 anni fa a Berlino la Dichiarazione fu firmata solo dalle istituzioni europee e non dai singoli Stati. Formalmente è vero. Di fatto le cose stanno diversamente, perché dieci anni dopo Berlino l’Unione versa in uno stato quasi comatoso. Oggi verrà messo sotto i riflettori soprattutto il fronte che riguarda i paesi dell’Est e la loro resistenza all’integrazione, cioè all’accettazione delle politiche dettate da Bruxelles, tenendo sotto traccia l’altra grande divisione, quella sul rigorismo e sulla necessità di modificare i trattati. E’ il fronte Nord- Sud che coinvolge direttamente l’Italia e che è forse il più nevralgico, anche se si cercherà di parlarne il meno possibile. Per il governo di Roma, per esempio, il momento cruciale non sarà oggi: è arrivato già ieri con l’incontro tra il vicepresidente della Commissione europea Dombrovskis, un falco, e il ministro dell’Economia Padoan. Colloquio fissato perché l’Europa vuole accertarsi che il governo italiano intenda varare sul serio la manovra correttiva imposta entro il 30 aprile, nonostante le fortissime resistenze del Pd e in particolare di Renzi, ma anche per avvertire e ricordare che misure ben più incisive e dolorose dovranno essere prese dall’Italia nei prossimi mesi. Meglio se già a partire dal Def, che sarà presentato il 10 aprile. Per un’Europa così ridotta, la via d’uscita di un documento volutamente ambiguo e quasi anonimo è già uno smacco. L’eventuale assenza delle firme di due Paesi che mettono plasticamente in evidenza le divisioni, la Polonia sul fronte Ovest- Est, la Grecia su quello Nord- Sud, sarebbe pioggia sul bagnato. In queste condizioni la festa di Roma, attesa come una specie di evento salvifico, rischia di fare notizia soprattutto per le misure di sicurezza da stato d’assedio. Erano già esorbitanti prima dell’attentato di Londra. Poi hanno raggiunto livelli che rasentano l’isteria. Settemila agenti sulle strade ma anche sui tetti di Roma, un migliaio di agenti in borghese, due zone rosse presidiate militarmente, 15 km di transenne e grate antisfondamento disposte un po’ ovunque con 40 varchi strettamente sorvegliati, due giorni di no-fly zone nei cieli della capitale, servizi segreti attaccati ai monitor per pattugliare il web. Con in più un ministro degli Interni che minaccia il pugno di ferro e la tolleranza zero contro i violenti che potrebbero infiltrarsi nei sei cortei autorizzati che si svolgeranno domani. Difficile, anche con le migliori intenzioni, evitare la sensazione di trovarsi di fronte non a una gaia festa di compleanno ma a una mesta cerimonia funebre.
DOVE COMINCIA IL SUD? GENERAZIONE, QUESTIONE MERIDIONALE ED EMPATIE RIBELLI AL TEMPO DELLA MOBILITÀ EUROPEA, scrive Carla Panico il 27 luglio 2016 su "Euronomade".
1. “L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà.” (G. Mazzini). C’è un treno che corre tra gli uliveti pugliesi, attraverso il rosso di una terra riarsa dal sole. È un treno locale, che trasporta per lo più lavoratori e studenti universitari pendolari. È uno dei treni della vergogna, piccolo snodo di un sistema di trasporti che non è di certo un fiore all’occhiello dell’intero Paese, ma che in questo lembo di Italia racconta in particolare una storia di arretratezza, sottosviluppo, mancata modernità. O almeno, questo è il lessico con cui si racconta il Sud. Il destino a cui è corso incontro quel treno è ormai fin troppo noto, è stato raccontato da immagini ed emozioni e da quella rabbia che, poche ore dopo, già disinnescava per mezzo di una narrazione collettiva l’auto-indulgente versione dell’ “errore umano”. A irrompere sulla scena, invece, è stata una montagna di dati: quelli che snocciolano, cifra dopo cifra, la storia del mancato investimento sul Sud, del 98% delle risorse nazionali riversato sul sistema ferroviario del Nord, dei fondi europei finiti chissà dove, dei binari unici, degli infiniti possibili disastri finora incredibilmente evitati, e non di quello che si è verificato. E poi le storie, quelle di chi su quei treni ci viaggia, perché per farlo bisogna, per certo, avere una buona ragione: bisogna avercela per inseguire i ritmi meridiani delle strade ferrate di questo pigro Italian Sud Est. Tutto questo ha un nome: si chiama Questione Meridionale. È un’espressione che si porta dietro un accumulo pesante quanto un secolo e mezzo di storia nazionale italiana. Un’espressione che è diventata fuori moda tante volte, senza mai smettere di essere necessaria: dagli anni ’90, in Italia di “Questione meridionale” si è praticamente smesso di parlare, se non nei termini di una “Questione Settentrionale”, che andava di pari passo con la crescita della Lega Nord. Eppure, davanti a quella foto che ritraeva lamiere contorte come una ferita aperta tra i filari di ulivi, ci siamo accorti che la Questione Meridionale esiste ancora, anche se a subirla non ci sono più i contadini raccontati da Gramsci, ma una nuova classe di Dannati della terra rossa, lavoratori stagionali, migranti, e soprattutto giovani; sono quei pochi che sono rimasti, perché non potevano permettersi di fare diversamente: quelli che rinunciano a continuare a studiare oppure “ripiegano” sulle università del Sud. “L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà”, ammoniva Mazzini; e, certo, in questo ammonimento troviamo quella fede in una progressione necessaria della storia, che si compie nella forma Stato-Nazione. Nell’invenzione della Nazione italiana si annida, seminale, questo inganno di fondo: quello di una modernità a senso unico, messianica quanto ideologica, che, con l’Unità d’Italia, si sarebbe progressivamente irradiata verso le periferie indocili e selvagge, i Sud. A Sud, invece, si è scontata la storia di un sottosviluppo voluto, necessario, funzione dello sviluppo del Nord, che ha trasformato il meridione in bacino di forza lavoro fondamentale all’industrializzazione settentrionale e poi in discarica di stoccaggio dei rifiuti che quell’industria ha prodotto. Di fronte a questo eterno ritorno di un passato irrisolto, è necessario chiedersi che senso abbia, oggi, porre nuovamente a tema una Questione Meridionale. In uno scenario in cui i confini degli Stati-Nazione contano sempre meno, e a fronte di uno spazio europeo che può essere linea di fuga e al tempo stesso campo di esercizio di nuovi colonialismi interni, non ha certo più senso agire all’interno di confini nazionali, nella prospettiva di veder nascere un Sud Italia moderno, capace di raggiungere il Nord. Potremmo, piuttosto, provare ad interpretare in senso opposto a quello modernista la profezia di Mazzini: e se fosse l’Italia intera a essere divenuta Meridione?
2. “Ognuno è il terrone di qualcun altro.” (Il terrone fuorisede). L’industrializzazione rapida e forzata del Settentrione italiano ha prodotto lo straordinario costo umano di un enorme fenomeno migratorio interno, alla metà del secolo scorso: i braccianti del Sud diventavano operai massa al Nord. Il Sud, insomma, pagò il prezzo più alto e decisivo dello sviluppo, mentre il divario economico tra le due aree del Paese tendenzialmente non accennava a diminuire. Nell’epoca post unitaria, a partire dall’epopea del brigantaggio fino ad arrivare alle diffusione pervasiva di fenomeni di occupazione delle terre, le regioni del Sud venivano percepite come una polveriera eternamente sul punto di esplodere, luoghi indocili poiché abitati dal malcontento e dalla consapevolezza del non avere nulla da perdere: trasformare il Sud da “problema” a bacino di forza lavoro a basso costo significava anche espropriarlo del proprio potenziale conflittuale, disinnescare antagonismi potenzialmente contagiosi che minacciavano l’equilibrio sociale necessario al progresso. L’emigrazione al Nord, esplosa in seguito al fallimento delle politiche assistenzialistiche sul Meridione, produsse, però, anche effetti opposti a quelli previsti: l’afflusso in massa nelle metropoli industriali di un numero di meridionali che spesso eccedeva largamente le necessità del mercato del lavoro, e che si muoveva sulla base di reti sociali e relazionali larghe e complesse – tutt’altro che nei limiti dell’occupabilità come risposta alla disoccupazione – produsse l’affacciarsi nel cuore – tutto settentrionale – della storia d’Italia di una nuova soggettività, subalterna e “senza parte” quanto ingovernabile. Operai pigri che rifiutavano il lavoro, disoccupati che vivevano di espedienti riscrivendo il tessuto metropolitano, “terroni” che ebbero un ruolo fondamentale nell’esplodere delle lotte operaie degli anni ’70, come ci è stato raccontato da Alfonso Natella, voce narrante di Vogliamo Tutto. Oggi indagare le nuove forme di divisione sociale del lavoro su base etnica e dei conseguenti fenomeni migratori implica varcare i confini degli stati-nazione: lo spazio in cui si realizzano le classi è – come minimo – quello europeo, come europeo è il mercato, sia finanziario che del lavoro. In questo caso, prendendo in esame un aspetto circoscritto della divisione etnicamente connotata del lavoro nel vecchio continente, possiamo operare delle comparazioni con la mobilità della forza lavoro giovanile interna allo spazio europeo. Parliamo di un mercato del lavoro razzializzato sulla base di un preciso schema di costruzione dell’Unione Europea, incentrato sulla grande finanza e sugli organismi centralizzati che la amministrano, che si dispiega lungo un asse centro-periferia ben preciso. Al centro, si collocano i nord produttivi, austeri che – etica protestante e spirito del capitalismo alla mano – dettano le condizioni di inclusione nell’Europa dei Sud pigri, indolenti, indebitati. In questa ineluttabile dialettica dello sviluppo, tuttavia, uno sguardo meridionalista ci suggerisce di leggere in maniera più interconnessa e reciproca il rapporto tra aree ad alto e a basso livello di modernità che si relazionano all’interno di uno spazio unitario – in questo caso non nazionale, ma sovranazionale. In questo scenario, non sono alcune aree, ma intere nazioni a ricoprire il ruolo di bacino di reclutamento di forza lavoro, largamente ricattabile, ma soprattutto altamente disponibile alla mobilità: è così che migliaia di giovani italiani, spagnoli, portoghesi e greci diventano ogni anno -mediante un processo di differenziazione che si produce già durante la formazione scolastica – lavapiatti a Londra, ricercatori precari a Parigi, stagisti a Berlino e quant’altro. Non a caso, le restrizioni legislative per l’ingresso di stranieri nel Regno Unito, fino all’escalation che ha portato al Brexit, ci raccontano una forma radicale di xenofobia che assume gli stessi significanti del razzismo nostrano – “ci rubano il lavoro, delinquono…” – rivolti, però, ad una classe di giovani Sud Europei impoveriti che sbarcano ogni anno nelle città britanniche. In questo processo di divenire Sud di intere nazioni europee, si compie al tempo stesso una progressiva meridionalizzazione dell’Europa intera: quella che si basa sulla rete di relazioni e scambi messi in circolazione da questa diaspora meridiana giovanile che meticcia l’Europa dall’interno. A che latitudine inizia, quindi, il Sud? Dove si colloca esattamente il confine, quando da Sud un’intera generazione, costretta alla mobilità continua per ricatto del lavoro, invade e contamina con le proprie forme di vita le metropoli nord europee? La Storia d’Italia, storia soprattutto di una questione meridionale eternamente irrisolta e di spostamenti di massa di forza lavoro, ci consegna, forse, una definizione possibile: è Sud un luogo da cui si parte molto più di quanto si arrivi. In questo senso, davanti ai dati statistici – chi arriva nel nostro Paese continua ad essere in numero minore di chi se ne va, a dispetto delle retoriche razziste sull’invasione degli stranieri – la mancata soluzione della frattura Nord/Sud collassa nel paradosso di un divenire Sud dell’Italia intera: oggi la Questione Meridionale ha dimensione europea.
3. “A Sud di nessun Nord.” (C. Bukowski). Quali soggettività nuove si producono in questa articolazione transnazionale che si dà oggi lo sfruttamento capitalistico? Innanzitutto, soggettività frammentate, costrette ad un individualismo forzato, condannate alla solitudine. È il destino che sembra accomunare una giovane generazione diasporica, quasi contagiata dal fatalismo che si attribuiva stereotipicamente al carattere meridionale. C’è, naturalmente, un costo emotivo enorme da scontare nell’andirivieni a cui sono forzate le vite precarie di migliaia di giovani europei, che investe l’intermittenza del lavoro come degli affetti. La sensazione di essere sempre nel posto sbagliato, colpevoli di essersene andati4 e al tempo stesso accusati di lassismo e poco spirito di iniziativa quando troppo “mammoni” per partire, genera fratture profonde nella propria identità e nella possibilità di riconoscersi come soggetto collettivo. Questo attacco è stato portato avanti negli ultimi anni ai danni di una generazione che è la prima ad aver pagato la crisi finanziaria e ad avervi opposto un netto rifiuto, mediante un ciclo di lotte sociali che richiedevano welfare e diritti, ma soprattutto affermavano forme di vita comuni in risposta all’austerità. Tra il 2008 e il 2012 la sponda settentrionale del Mediterraneo è stata attraversata da una pluralità di espressioni di una generazione cresciuta all’interno di reti – tanto di quelle virtuali quanto di quelle tracciate dalle rotte aeree low-cost e dai progetti Erasmus: l’Onda, gli Indignados, le occupazioni delle piazze. Come sempre accade, disinnescare i Sud ribelli ha costituito una priorità per garantire la stabilità del potere: per farlo, il dispositivo coloniale del sottosviluppo, della disoccupazione che diventa ricatto e della conseguente mobilità forzata è stato un meccanismo di facile utilizzo. In questo scenario, la frammentazione e l’esodo di massa di un’intera generazione che aveva animato le lotte sociali nei propri Paesi e ne era uscita sconfitta, ha efficacemente rallentato lo sviluppo di nuovi movimenti. Non a caso si può affermare che, paradossalmente rispetto alla lettura canonica, in questa nuova fase il Meridione ha espresso, soprattutto nella sua dimensione metropolitana, una capacità di tenuta e di risposta organizzativa maggiore delle altre aree dei rispettivi Paesi: ne è esempio la ricchezza dei movimenti sociali che vi si sono sviluppati in questi ultimi anni sui temi ambientali come sulle nuove ipotesi municipaliste – Barcellona, Roma, Napoli. I luoghi già abituati a essere Sud sembrano – paradossalmente – aver subito meno il contraccolpo che questa ondata di meridionalizzazione progressiva ha inflitto nella forma della pacificazione sociale. Eppure, anche in questo caso, la mobilità forzata della forza lavoro – giovane, sud-europea, formata o iperformata – ha prodotto anche delle conseguenze inattese rispetto al suo obiettivo normativo: con la “fuga” non solo di cervelli, ma soprattutto di braccia, gambe, cuori e corpi gettati in pasto al mercato del lavoro europeo, sono entrate necessariamente in circolo anche intelligenze ed esperienze ribelli, che hanno dovuto immaginare nuove forme di connessione e organizzazione completamente diverse da quelle tradizionali. Si sono creati flussi migratori che eccedono gli angusti dettami del mercato del lavoro, che si attivano sulla base di relazioni affettive molteplici, che muovono le persone non solo nella prospettiva di lavorare, ma anche nella speranza di vivere lavorando il meno possibile. Piccole comunità che sfidano il margine dell’integrabilità con il loro muoversi e riversarsi nelle metropoli europee, cercando mezzi di sussistenza di vario tipo ma anche sperimentando forme di vita che sono sistemi di micro-resistenza, per sfuggire, anche se solo in parte, ai meccanismi di cattura che le circondano. E mettendo in circolazione, al tempo stesso, un archivio di saperi di lotta virale, in grado di ibridarsi sui livelli locali: è in quest’ottica che, anche nel più freddo cuore d’Europa, può verificarsi il divenire Sud di una piccola porzione di spazio urbano di cui giovani di diverse nazionalità si riappropriano, sperimentando una pratica di lotta che passa attraverso la condivisione collettiva di una nuova socialità diurna e notturna. Con la Nuit Debout, Parigi ha risuonato dei ritmi delle piazze occupate dagli indignados in Spagna e dei movimenti studenteschi italiani, in beffa alla meteorologia e allo stato d’emergenza. Rifiutare ritmi e tempi dello sfruttamento capitalistico non corrisponde, insomma, a nessun desiderio conservatore e provinciale di chiusura al mondo: come insegna Alfonso Natella, terrone spedito in catena di montaggio, al Nord non è necessario avere un lavoro se c’è sempre qualcuno disposto ad invitarti a pranzo per ascoltare le storie che hai da raccontare.
Perché gli uomini e le donne se ne vanno in giro, si chiedeva Chatwin, invece di starsene fermi in un luogo? Per seguire le vie dei canti, strade che corrispondono a note di un pentagramma in cui ogni melodia, una volta eseguita, evoca un pezzo di mondo e ne rende possibile l’esistenza; e al tempo stesso ogni melodia è un canto che non può essere intonato se non si percorre, contemporaneamente, la strada che esso racconta. Spostarsi, quindi, come condizione irrinunciabile per esistere, perché il mondo esista. Organizzare tale irrequietezza, forse, è la vera sfida politica di questa generazione: trovare il modo di tenersi insieme, di spezzare l’individualismo a cui si viene costretti, come rete di (r)esistenza fatta di empatie e affezioni in grado di contaminare il mondo che si attraversa. Senza sentirsi, per questo, in dovere di non soffrire a ogni sradicamento; ripartendo, invece, dalle proprie fragilità e provando a metterle in connessione: accettare come un segnale di riconoscimento reciproco quella malinconia meridiana generazionale che si rintraccia negli occhi che si incrociano in giro per il mondo o ad ogni ritorno. Del resto, a Sud, si sa, si piange sempre due volte: quando si arriva e quando si parte.
"Benvenuti al Sud", leghismo da ridere. Bisio: "Il nostro film anti-Barbarossa". La commedia di Luca Miniero, ambientata nel Cilento, è il remake del cult francese "Giù al Nord": "La dedichiamo a Vassallo". Alla presentazione si parla di cinema ma anche di politica. Il regista: "Bossi dovrebbe vederlo", scrive Claudia Morgoglione il 27 settembre 2010 su “La Repubblica”. E' una commedia sorridente e divertente Benvenuti al Sud di Luca Miniero, remake italiano dello strepitoso Giù al nord francese con Claudio Bisio protagonista. Ma visto il tema su cui il film è costruito - la scoperta della bellezza di certo modo di vivere meridionale, da parte di una coppia di brianzoli nutriti di luoghi comuni razzisti e paraleghisti - non sorprende che alla conferenza stampa di presentazione cronisti, regista e attori finiscano inevitabilmente per buttarla in politica. Nel giorno dell'ennesima, furiosa esternazione bossiana (in chiave antiromana, stavolta). E a non negare il lato "caldo" del tema affrontato sullo schermo è innanzitutto Bisio, che in un'intervista aveva già definito la pellicola come "un'opera anti-Barbarossa". "Noi qui non parliamo di difesa strenua di un'identità, rispetto alle altre - spiega - affrontiamo invece l'argomento contrario: la curiosità, il gusto della scoperta. Non so come lo prenderanno al Nord. Quanto a certi politici, credo che andando al cinema potrebbero ridere senza nemmeno capirne il sarcasmo: come le signore impellicciate che andavano a vedere gli spettacoli di Dario Fo, e applaudivano senza rendersi conto che il bersaglio di quella satira erano proprio loro. Dedichiamo invece il film ad Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso il 5 settembre". Anche Angela Finocchiaro non risparmia critiche alla mentalità imperante: "L'egoismo e la chiusura sono una parte predominante della cultura italiana: e c'è chi queste cose le fomenta". Più leggero invece il regista: "Io credo che Bossi Benvenuti al Sud dovrebbe vederlo: in fondo perfino lui non farà il leghista 24 ore su 24...". In attesa di verificare l'accoglienza che questo inno alla tolleranza in forma cinematografica avrà al Nord, cominciamo col dire che la pellicola è centrata sul personaggio di Alberto (Claudio Bisio), dirigente delle poste sposato con la nevrotica e sottilmente depressa Silvia (Angela Finocchiaro): insieme formano una coppia - lombarda - convinta che oltre la linea gotica ci siano solo caos, criminalità, comportamenti primitivi, caldo insopportabile, abitanti brutti neri e baffuti (anche le donne). Dopo aver tentato di avere con la frode il trasferimento a Milano, lui viene invece mandato in punizione per due anni a Castellabate, bellissimo paesino antico a picco sul mare del Cilento. L'impatto, per quest'uomo nutrito di paure antimeridionali (tanto da arrivare sul posto con giubbotto antiproiettile), è devastante; poi però scopre l'amicizia e il calore della popolazione. A partire dai suoi impiegati delle Poste: il bamboccione edipico Mattia (Alessandro Siani), la bella Maria (Valentina Lodovini), Costabile piccolo (Nando Paone) e Costabile grande (Giacomo Rizzo). Le cose si complicano quando la moglie annuncia di volerlo andare a trovare in quello che lei crede sia un luogo d'inferno...Come si vede, la trama ricalca fedelmente quella di Giù al Nord; non a caso l'autore nonché protagonista del film francese, Dany Boon, appare anche qui, in un cameo. "Noi due anni fa abbiamo distribuito la pellicola qui in Italia - racconta l'amministratore delegato di Medusa, Giampaolo Letta - e abbiamo capito subito che sembrava un film scritto per l'Italia e per gli italiani. Da qui l'idea del remake, su cui poi ci siamo ritrovati a lavorare con Cattleya". Miniero invece sottolinea che una diversità, rispetto all'originale, c'è: "Lì era quasi tutto giocato sulla differenza linguistica tra i personaggi: noi invece abbiamo sottolineato maggiormente l'incomprensione culturale. Del resto, il primo vero Giù al Nord non è stato il nostro Totò Peppino e la Malafemmena?". Questo sul piano cinematografico. Ma la politica continua a fare capolino. Nel giorno del "Sono porci questi romani" pronunciato da Bossi e nel pieno delle polemiche su fenomeni come la scuola "leghista" di Adro. "Non nascondiamolo, in Italia i conflitti culturali esistono - dichiara Bisio - la questione meridionale è ancora aperta. In questo senso, il mio è un personaggio è esemplare: un vero ignorante, ignora l'esistenza di altre realtà. Nel corso del film, però, lo è sempre meno: conoscere le diversità è l'unico modo per apprezzarle". Più ottimista Miniero: "La Lega esiste solo da una ventina d'anni, io non credo che la nostra identità nazionale possa essere messa in discussione: né dalla scuola di Adro, né da un'eventuale scuola borbonica". Di fronte a queste opinioni, al termine della conferenza stampa, il presidente di Medusa Carlo Rossello tenta di riportare tutti all'ordine, di dettare la linea: "Stiamo parlando di una bellissima commedia nazional-popolare di stampo europeo - ammonisce - non restringiamo il film in una polemichetta nazionale". Peccato però che i principali artefici della "polemichetta" siano al governo del Paese...
C'era una volta la politica da Nord. Nella Seconda repubblica tutto partiva dal settentrione. Adesso l’Italia si rovescia, scrive Tommaso Cerno il 26 agosto 2016 su "L'Espresso". Come nel trono di spade, Roma è un grande ingranaggio. Una ruota dentata che incastra tutto, il Nord con il Sud, e muove lo scacchiere politico. Se il meccanismo era piuttosto arrugginito dai tempi di Gianni Alemanno e Ignazio Marino, dopo la vittoria di Virginia Raggi, cigolio più cigolio meno, torna a girare. E l’effetto che fa, e di cui il Paese non s’accorge, è rivoluzionario: addio vecchio “Regno del Nord”, dove tutto si faceva e disfaceva nella Seconda repubblica. E “Benvenuti al Sud”. Un inedito film è in uscita dopo vent’anni di narrazione identica a se stessa, quella di un settentrione iperattivo, fatto di industria e laboratori elettorali, guidato da più o meno riusciti emuli di Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. E conteso da una sinistra che si “apre” non si capisce bene a che cosa. Un Nord, insomma, produttivo e contrapposto a un Mezzogiorno immobile, sprecone, infestato di guai e nostalgico della Prima repubblica. Tutto finito. Mentre su twitter impazza lo scontro sì-no (consentite lo sbadiglio), le regioni chiave della vecchia politica scompaiono dal mappamondo. Tutto si sparpaglia. Basti pensare al Pd. Vince - è vero - a Varese, ma quasi senza accorgersene. Vince senza bisogno del partito del Nord o del PdR di Renzi. Vince per i guai degli altri, non per i meriti suoi. Con la stessa indifferenza perde a propria insaputa Torino, riavvolge la pellicola del Friuli indietro fino ai berlusconiani del ’94 e, udite udite, a modo suo perde pure Milano. Già. Perché Giuseppe Sala va a palazzo Marino ma grazie a Giuliano Pisapia che erge una diga e frena la fuga a sinistra. Altrimenti a quest’ora guardavamo un’altra partita. Nella noiosa padania Matteo Salvini, poi, vive la crisi più pesante dall’ascesa al soglio del Senatùr. Va in vacanza a Cesenatico, ma sull’arenile è lontano anni luce dalla canottiera bianca dell’Umberto nazionale, che fu capace con i suoi grugniti di fare il bello e il cattivo tempo nella ben più esclusiva villeggiatura di villa Certosa. Detta papale papale, il Nord spompato di oggi fa rimpiangere le estati roventi di Silvio, raccontate fin nei più intimi dettagli, ma dove restava pur sempre – a giorni alterni, magari - un pizzico di politica. C’era ogni tanto un vertice segreto, anche se tanto segreto non era. C’era l’approdo del sommergibile che ricordava Putin, c’erano le riunioni per nottambuli che poi finivano come finivano. Ma almeno c’erano. Qualcuno dirà: al Nord ci pensa Stefano Parisi. Sì, sarà pure l’ultimo baluardo della destra moderata, il tentativo di rimettersi in gioco mentre il sipario scende su Berlusconi e la di lui dinastia. Ma, diciamocelo, pure Parisi annoia come il Nord di questi tempi. È intelligente, perbene, moderno, tutto quello che volete. Ma la sua costituente è fuori dal tempo, non ha ritmo, non convince davvero. Si trascina come questo sole d’agosto. Mentre i cattolici di Cl a Rimini, quelli che ai tempi d’oro del berlusconismo applaudivano Formigoni, fanno il coro per il sì al referendum. Insomma, rifugiamoci nella letteratura e prendiamo atto che la locomotiva del Paese lascia posto alla pianura immobile di Gianni Celati, quella che rispecchia l’anima profonda di un altro settentrione: «Dappertutto quest’aria di attesa che il tempo scorra e passi il giorno, venga un’altra stagione, che non si sente in città». Ci rimane solo il Sud per aggrapparci alla politica d’autunno. Caduti come siamo nell’Evo medio del renzismo, in carenza di feudi sicuri e di europeistico coraggio (ad esempio il coraggio di abbassare l’Irpef anche se - o proprio perché - la Ue nicchia e il ministro Padoan non vuole). A Sud si danza. Stanno allestendo il vero campo di battaglia, popolato di strani, ma suggestivi personaggi. La battaglia è quella per la Sicilia, nuova Roma da espugnare nell’immaginario collettivo. Fra Masaniello e Don Chisciotte, eroi e antieroi, barbari e Borboni che decideranno, piaccia o no, chi governerà domani l’Italia. I Cinquestelle proveranno a vincere, perché dopo la capitale, Palermo sarebbe la prova generale per il governo del Paese. I Dem lo sanno e si giocheranno tutto, fra renzismo purista e “una certa idea di sinistra” fatta di programmi più idealisti, imbevuti di sociale e futurologia, ma improvvisamente in sintonia con i tempi. La strada imboccata da Michele Emiliano che proverà a capire se questo “Frankenstein” si può davvero animare, senza buttare dalla torre il nuovo. La destra, infine, giocherà l’ultima carta, forte di un medagliere a Sud che l’ha vista trionfare per anni. Non sappiamo chi vincerà, ma sappiamo cosa cambierà: la visuale. Le figure chiave della politica e il loro equatore. Come ci racconta Marco Damilano nell'articolo con cui inauguriamo il nuovo spazio di approfondimento de “l’Espresso”: “Ingrandimento”. Un film che comincia, una lente puntata. Addio caro vecchio Nord, dunque, e benvenuti al Sud.
I Trump nostrani spuntano dal Mezzogiorno. Nel caos del pop-populismo al Sud rinasce il caudillo, il Masaniello che sfrutta e trapassa i social per tornare dritto in casa degli arrabbiati, scrive Tommaso Cerno il 22 marzo 2017 su "L'Espresso". Da Michele Emiliano a Leoluca Orlando. Una rivolta italica, che condivide fenomeni di ribellione sociale con il resto d’Europa e d’America. Era il 1992. Nel retrobottega di un’osteria di montagna, dove si mesceva un ruvido rosso, strani e arrabbiati i leghisti dichiaravano guerra a Roma ladrona puntando il dito contro il novello nemico del popolo: la politica. Quel gruppetto di futuri onorevoli (su cui la Dc d’allora non avrebbe scommesso un cent) interpretava invece una rabbia reale. Deflagrata in un istante, ma capace di generare un’onda d’urto ancora non esausta nella sua spinta. Era la rabbia di un Nord satollo. Di soldi e di tasse. Alla vigilia di una crisi che l’establishment si rifiuta di vedere e di cui Roma si fa beffa. A distanza di 25 anni, lo Stivale è rovesciato ma stiamo tornando lì. E se al Nord spuntavano veraci politicanti tutti distintivo ma poco congiuntivo, al Sud rinasce il caudillo, il Masaniello. Che sfrutta e trapassa i social per tornare dritto in casa degli arrabbiati. Da Michele Emiliano a Leoluca Orlando che di questo parallelismo strabico fra Nord e Sud è un archetipo, un partito-persona a caccia di un popolo pronto a seguirlo. Per arrivare a Luigi Di Maio e alla batracomiomachia con Di Battista, giocata su due stili contrapposti: uno si mimetizza con il Palazzo per demolirlo dall’interno, l’altro sta fuori per ferirlo dalla strada. E, last but not least, direbbe Donald Trump, Giggino De Magistris che per celebrare i 25 anni di scontro con la Lega antimeridionalista e ruspante (nel senso di ruspe), ben consapevole che le due forze centrifughe (il Nord allora, il Sud oggi) sono uguali e contrarie, ha sfidato proprio il capo del Carroccio Matteo Salvini in un duello fra populismi, finendo agli scontri di piazza. Eppure crescono. Nutriti dalle polemiche, dalla sciatteria con cui liquidiamo fenomeni complessi nella convinzione dell’Occidente di classificare e spiegare tutto. Invece no. I partiti di governo captano poco di ciò che sta avvenendo alle latitudini popolari. Se poi in Olanda vincono i liberali tirano tutti un sospiro di sollievo. E non scorgono piuttosto la débâcle della sinistra in uno dei Paesi più avanzati al mondo in fatto di libertà e diritti. Per questo la copertina è l’Italia che si rovescia, con il Nord giù e il Sud in alto, testa di una rivolta in forma antropomorfa. Una rivolta italica, che condivide fenomeni di ribellione sociale con il resto d’Europa e d’America. Tanto che affidiamo a Ian Buruma un’analisi su Trump, archetipo di questo caos e termometro del nuovo orientamento postdemocratico: il “pop-populismo”. Le associazioni per i diritti gridano allo scandalo e gli ambientalisti insorgono, i paesi islamici contestano il Muslim ban, ma sulla Fifth Ave a New York gli homeless per intascare qualche dollaro in più indossano la maschera di The Donald. E la gente si ferma e paga. Così come sulla High Line compaiono le installazioni anti-Trump firmate dagli artisti emergenti del West Village, ma poi al supermercato si vende la cioccolata ai bambini con inciso il faccione del miliardario presidente Donald. Lo stesso che ha fatto infuriare tutti alla Trump Tower, perché da quando sta alla Casa Bianca, i suoi inquilini devono passare il metal detector. E via contestando. Eppure alla gente là fuori, in fondo, piace. È il trash che diventa pop. Fenomeno che l’America conosce bene. E che potrebbe contagiare l’Europa. Magari non l’Olanda, ma Italia e Francia sì. E sarebbero guai.
Benvenuti al Sud: è dal Mezzogiorno che nasce la nuova stagione politica. Dal Pd al M5S. Dalla festa dei dem a Catania a quella dei grillini a Palermo. Dalla Sicilia dove presto si vota: una prova generale delle elezioni nazionali. A esponenti sempre più ingombranti come Luigi de Magistris, Michele Emiliano, Luigi di Maio, Rosario Crocetta. La mappa d'Italia si è capovolta, scrive Marco Damilano il 26 agosto 2016 su "L'Espresso". Non è ancora l’operazione Husky, lo sbarco in Sicilia del 10 luglio 1943 delle truppe alleate durante la seconda guerra mondiale, ma poco ci manca. Perché l’isola sta per essere (pacificamente) invasa, per due volte nel giro di un mese. E come nel 1943, si vanno disponendo gli uomini in campo, i generali, i colonnelli, le fanterie: ministri, parlamentari, sindaci, presidenti di regione accompagnati da intere divisioni di assistenti, portavoce, portaborse, giornalisti. Il 28 agosto si apre la festa nazionale dell’Unità a Catania, nei giardini di villa Bellini: per garantire il successo dell’evento il sindaco della città Enzo Bianco ha promesso al Pd nazionale seimila militanti-volontari arrivati da tutta la provincia, le riunioni organizzative vanno avanti da settimane, con piglio militaresco. Il 24 settembre si replicherà a Palermo con i grillini: in cartellone c’è l’incontro nazionale del Movimento 5 Stelle. Anche in questo caso assalto di militanti in grande stile: nel 2012 Beppe Grillo si fece lo stretto a nuoto, ora il suo blog propone ai partecipanti un pacchetto low cost con lo sconto del 15 per cento sugli aerei Alitalia e sui traghetti Tirrenia, come si conviene a un partito che governa le grandi città e che punta a conquistare la sua prima regione. La Sicilia, naturalmente. I due principali partiti fanno festa in Trinacria. Mai successo nella storia repubblicana. In 71 anni la festa dell’Unità è scesa così a Sud solo nel 1976, quando il Pci di Enrico Berlinguer organizzò una storica edizione a Napoli. Per ritrovare una grande manifestazione di questo genere bisogna tornare alla festa dell’Amicizia della Dc, nel 1987 a Palermo, segretario era Ciriaco De Mita. Non fu un’occasione fortunata: è rimasta nelle cronache perché a lungo la procura palermitana cercò di dimostrare che in quei giorni avvenne l’incontro del bacio tra Giulio Andreotti e Totò Riina, approfittando della presenza sull’isola del ministro. Nel 2017 si vota in Sicilia: per la regione e per il comune di Palermo. La prova generale delle elezioni politiche dell’anno dopo, se la legislatura arriverà a scadenza naturale, nel 2018. Ma l’operazione Husky di Pd e M5S, settant’anni dopo la concessione dell’autonomia regionale alla Sicilia che è a oggi il frutto più duraturo dello sbarco anglo-americano, non è solo l’anticipo della campagna elettorale siciliana, è la spia di uno sconvolgimento che costringe a rivedere mappe e cartine tradizionali. Per settant’anni ogni professionista della politica, aspirante leader o analista, doveva come prima cosa imparare a memoria un dogma, come le tabelline delle elementari: le elezioni si vincono o si perdono al Nord. Il Sud, come l’intendenza napoleonica, segue, è filo-governativo, per vocazione o per interesse. Così è stato per il 61 collegi a zero della Sicilia in massa berlusconiana nel 2001. E ancor più per i due grandi referendum della storia nazionale. Nel 1946 le regioni del Sud votarono per la monarchia contro la Repubblica. Nel 1974 per Amintore Fanfani contro il divorzio (con l’eccezione della Sicilia, in cui gli anti-divorzisti raggiunsero comunque il 49,5 per cento). Il cambiamento arrivava dal vento del Nord, la conservazione dal Sud. Nel 2016 la regola potrebbe essere confermata, nel referendum sulla riforma costituzionale di autunno le regioni del Sud potrebbero guidare il fronte del No, e dunque votare per conservare l’attuale Costituzione, ma il segno politico sarebbe l’opposto. Non il mantenimento dello status quo ma un voto contro, il no al governo di Matteo Renzi, la rivolta. Sarà qui, al Sud, che la battaglia sarà combattuta colpo su colpo, come nell’Opera dei Pupi se le daranno di santa ragione. E dire che i dati dell’economia, per la prima volta da decenni, offrono qualche segnale di ripresa. L’istituto Svimez, che un anno fa aveva lanciato l’allarme sul «sottosviluppo permanente» del Meridione (desertificazione industriale, crollo demografico, rischio povertà), nel rapporto dell’estate 2016 cambia verso rispetto alle sue previsioni, «il 2015 è stato un anno eccezionale» perché la crescita del Pil nelle regioni meridionali ha battuto quella del Nord, uno per cento contro 0,7, sono risaliti consumi e investimenti e ci sono stati 94mila occupati in più. «Core ‘ngrato», penserà dentro di sé il premier Renzi, perché a questi risultati non corrisponde un aumento di consenso per il governo, anzi. Dalla Puglia alla Campania alla Basilicata il Sud è una mappa di ribellioni, comitati, i No-Triv, i No-Ilva, i No-Tap, professori che non vogliono accettare il trasferimento nelle regioni del Nord. E sindaci, presidenti di regione, eletti a cariche istituzionali, che si mettono a capeggiare il dissenso. Contro il Pd, fuori dal Pd, ma anche dentro.
Luigi de Magistris, appena rieletto sindaco di Napoli, da mesi si propone come leader del fronte del No, non solo referendario. Raggiunto l’obiettivo del comune «de-renzizzato», a cavallo di ferragosto ha spedito a Palazzo Chigi qualche messaggio di dialogo, a patto che Renzi tolga di mezzo il commissario governativo di Bagnoli Salvo Nastasi. E ha ricominciato a parlare con il presidente campano Vincenzo De Luca, l’unico esponente del Pd meridionale ad avere la piena fiducia del premier, il vicerè in terra di Campania, il solo a non tradire mai sul piano elettorale (a Salerno il suo candidato Vincenzo Napoli ha vinto al primo turno con il 70 per cento, una rarità), in ballo c’è la gestione dei fondi per le Universiadi 2019. Stringere la mano a De Magistris e eliminare Nastasi è un prezzo altissimo per Renzi, ma in cambio il sindaco potrebbe promettere un atteggiamento più moderato quando comincerà la campagna referendaria. Votare No, ma senza porsi alla guida (nazionale) del fronte anti-riforma.
In Puglia le prove di intesa sono già in corso da qualche settimana. Lo scontro tra Renzi e il governatore Michele Emiliano, che è anche il leader del Pd regionale dopo esserne stato segretario, un doppio incarico modello Renzi, aveva sfiorato il punto di non ritorno nei giorni del referendum sulle trivelle, fortemente voluto dal presidente della Puglia. A quorum mancato Renzi andò in tv ad attaccare frontalmente i presidenti di regione «che hanno cavalcato il referendum per una conta interna al Pd. La demagogia non paga». Dopo molti mesi di assoluta incomunicabilità («Matteo non mi risponde al telefono, io devo portare pazienza, sono più vecchio, lui è un ragazzo...», raccontava agli amici l’ex magistrato), Renzi e Emiliano sono tornati a parlarsi. Tregua obbligata per via dei rispettivi incarichi istituzionali, ma fragilissima, come si è visto dopo l’ultimo vertice sull’Ilva di Taranto, in cui Emiliano ha minacciato di fare ricorso alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzione con lo Stato. Sul referendum il governatore si rifugia nella richiesta di cambiamento dell’Italicum e difende la libertà di espressione nel Pd per i sostenitori del No. Un’altra spina nel fianco di Renzi.
De Magistris e Emiliano sono leader che raccolgono un consenso personale e provano a spenderlo sul piano nazionale. Ma devono fare i conti con il soggetto politico che si è già dimostrato in grado di intercettare il voto dell’elettorato: M5S, sempre più a trazione meridionale. Il movimento fondato dal milanese Gian Roberto Casaleggio e dal genovese Beppe Grillo è pilotato da una sorta di corrente del Golfo, quattro componenti su cinque del direttorio sono campani, su tutti spicca Luigi Di Maio nato ad Avellino ma di Pomigliano D’Arco, il candidato premier in pectore. Già nelle elezioni 2013 (ormai lontane) M5S aveva raggiunto le percentuali più alte al Sud e in Sicilia: nelle prime dieci province, sei siciliane. Oggi il meridione è il granaio dei voti del Movimento cavalca ogni protesta e accende ogni polveriera con una presenza capillare che ha ucciso sul nascere la velleità di Matteo Salvini di trasformare la Lega Nord in Lega Italia. M5S è una lega sud, molto più attrezzata a intercettare e rilanciare il voto anti-governativo, senza l’impaccio dell’identità lepenista o il ricordo della Padania. “Sciamaninn a mangiare la focaccia”. Ovvero “Andiamo a mangiare la focaccia”. Il ministro Boschi testimonial in dialetto barese per il lancio della campagna elettorale di Antonio Decaro, deputato Pd e candidato alla successione di Michele Emiliano. Nello spot realizzato dall'agenzia Proforma (che cura anche la comunicazione del premier Renzi) i due politici democratici sono seduti su una panchina a chiacchierare di rottamazione e focaccia. Il video si conclude con la battuta in dialetto del ministro delle riforme.
In Sicilia i sondaggi danno largamente in testa per le regionali dell’anno prossimo, con il leader regionale Giancarlo Cancellieri, ma avanza una candidatura al femminile, modello Raggi-Appendino, la deputata regionale Valentina Zafarana. Uno scenario che ricorda per il Pd il disastro di Roma: c’è un governatore uscente, Rosario Crocetta, sempre più incontrollabile, prima delle vacanze ha infiammato una seduta della commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi con uno show personale. E per la successione si affollano nel Pd i possibili candidati: il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, che da tempo gira in lungo e in largo l’isola, il sindaco di Catania Bianco, il padrone di casa della festa dell’Unità, in caso di vittoria del sì al referendum punta anche a essere il primo presidente del nuovo Senato delle regioni, ma prima dovrebbe essere eletto deputato regionale in Sicilia o farsi confermare sindaco. E gli outisider: l’europarlamentare Michela Giuffrida, l’ex rettore dell’università di Palermo Roberto Lagalla, oggi nel Cnr, un nome in grado di raccogliere consensi trasversali. Nell’isola del ministro dell’Interno Angelino Alfano il centro-destra è un campo di Agramante. Il ritorno in Forza Italia di Renato Schifani anticipa in Sicilia nuove fratture e scissioni e anche questa, in fondo, è una novità: alle poltrone, ai posti di governo e di sottogoverno, non corrispondono più i voti, altrimenti l’Ncd di Alfano sarebbe un partito di massa. Per ora, fino al referendum, l’Ncd siciliano (che equivale a quasi tutto il partito nazionale) resterà con il Pd, poi si vedrà. Prima per Renzi c’è il referendum. Per vincere dovrà ridiscendere la via Appia, come Paolo Rumiz nel libro pubblicato da Feltrinelli, «via femmina» tra «tangenziali, parcheggi, supermercati, campi da arare, cave, acciaierie». E poi andare ancora più a Sud, passare più volte lo stretto, la festa di Catania potrebbe non bastare dove i comitati del sì sono già più di trecento, ma chissà quanti voti spostano. Perché se invece il Meridione dovesse votare per il no, arriverebbero le dimissioni di Renzi e la nascita di un governo istituzionale. A quel punto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella potrebbe affidare l’incarico al presidente del Senato Pietro Grasso. Due siciliani al Quirinale e a Palazzo Chigi. Lo stivale capovolto: benvenuti al Sud.
Sud Side Story, la rivolta del Mezzogiorno. Ieri era la Lega, oggi a ribellarsi è il Meridione, dove muoiono i partiti e nascono i nuovi Masaniello. Da Campania, Sicilia e Puglia ecco gli aspiranti leader che interpretano il populismo in chiave anti Nord, scrive Marco Damilano il 27 marzo 2017 su "L'Espresso". Capitano generale del fedelissimo popolo, si fece chiamare nel 1647 il capo dei rivoltosi napoletani contro gli spagnoli, Tommaso Aniello d’Amalfi detto Masaniello. Non è per nulla spaventato dal paragone Luigi De Magistris, il sindaco che governa Napoli da sei anni, nonostante l’esito infausto di quella rivolta: «Abbiamo qui esperienze che affondano le radici in una storia molto lontana: Masaniello, certo, e poi la Repubblica napoletana del 1799 e l’insurrezione delle quattro giornate contro gli invasori nazisti. Napoli è una città molto sensibile nell’anticipare novità», dice il sindaco seduto nel suo ufficio al secondo piano di Palazzo San Giacomo, trasformato in un parco tematico della napoletanità, e di se stesso. Disegni dei bambini, colori, un altarino che espone alla venerazione in un unico culto la maglietta azzurra del Napoli numero uno con il nome De Magistris e l’effigie di Che Guevara, statue, statuette e statuine, su tutte quella del presepe con il sindaco con fascia tricolore. Il viaggio per capire cosa succederà nei prossimi mesi nel Sud non può che partire da qui. Da Napoli, la capitale del Meridione in bilico tra il crollo finale e la rinascita. La città in movimento del teatro San Carlo, del sabato delle idee promosso dal professor Marco Salvatore, con centinaia di ragazzi che passano il fine settimana a discutere di vino o di politica, della Apple e di Federica, la piattaforma universitaria dei corsi on line promossa da Mauro Calise che ha il primato europeo. La città immobile, in cui «la meridiana ha smesso di contare sul muro le ore di un tempo inutile», come scrive Giuseppe Pesce nel romanzo “La Malanotte”, con una Napoli misteriosa e oscura, impossibile da conoscere. Partire da Napoli e dal suo primo cittadino che prova a capovolgere lo schema della politica nazionale degli ultimi venti anni: il Sud silenzioso e passivo, il Nord galoppante e attraversato da tentazioni secessioniste interpretate dalla Lega. Due settimane fa il capo leghista Matteo Salvini è calato nel Golfo a tenere un comizio a Napoli, rigettato dal sindaco e dalla piazza dei centri sociali, con intervento del ministro dell’Interno Marco Minniti, scontri e devastazione. Ma il no di De Magistris a Salvini in nome del Sud offeso suona come l’anticipo di un nuovo bipolarismo. Quello ideologico destra-sinistra si è estinto già da un pezzo e nel cielo vuoto di ideali si torna alla terra, al territorio. Qualcosa che Salvini dovrebbe trovare familiare. Venticinque anni fa, di questi giorni, Umberto Bossi cercava voti per le elezioni del 5 aprile 1992. E approvò uno spot della Lega in cui si vedevano i morti di mafia e il maxiprocesso di Palermo con i boss nelle gabbie. Fu bloccato prima della messa in onda per ordine della procura di Reggio Calabria perché il filmato turbava «il comune sentimento della morale». «È la lunga mano del regime», reagì il Senatur. «Loro del Sud alle scene di mafia sono abituati...». Le elezioni furono un successo. Era la Lega di Roma ladrona, dei kalashnikov da oliare, dei trecentomila fucili armati nelle valli bergamasche. Nel 1992 con i toni violenti e le canottiere di Bossi rappresentava qualcosa di profondo che la politica nazionale non aveva compreso: la rivolta montante dell’elettorato settentrionale. Oggi succede qualcosa di simile, dalla parte opposta della penisola. Il Sud il 4 dicembre 2016 ha votato in massa contro il governo di Matteo Renzi e per il no al referendum sulla Costituzione: il 68,5 in Campania, il 65,8 in Basilicata, il 67 in Puglia e in Calabria, il 71 in Sicilia, il 72 in Sardegna. La rivelazione di un vuoto politico. Una polveriera che nessun partito nazionale, né il Pd né Forza Italia e neppure il Movimento 5 Stelle, riesce a governare. Una domanda di rappresentanza che aspirano a intercettare i nuovi Masaniello, i capi della rivolta, De Magistris e i suoi fratelli: sindaci, governatori, candidati di liste civiche che polverizzano il voto per i partiti nazionali. E rende legittima la domanda: può nascere da qui un soggetto politico nuovo, una Lega del Sud? «Su un piano storico direi di no, ma oggi la situazione è molto cambiata», risponde il sociologo Isaia Sales, uno dei più attenti studiosi del meridione, già deputato del Pds, consigliere di Antonio Bassolino e sottosegretario nel primo governo Prodi. «Dal dopoguerra in poi il Sud si è caratterizzato come il territorio più fedele all’unità nazionale e più filo-governativo. La politica si occupava del consenso con la Cassa del mezzogiorno. E i rappresentanti del Sud sedevano ai vertici dei partiti nazionali: nella Dc Ciriaco De Mita, la corrente del Golfo, Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino, nel Pci Giorgio Amendola e poi Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Antonio Bassolino. La distanza sociale e economica tra Nord e Sud era mitigata dai partiti nazionali. Ma negli ultimi venti anni questo asse privilegiato si è spezzato. A destra c’è stata l’egemonia della Lega, a sinistra il ricorrente progetto dei demo-leghisti, il Pd del Nord. Oggi il sudismo e il meridionalismo non sono più rappresentati e in questa frattura può succedere di tutto. Il voto del 4 dicembre non è stato politico, ma sociale. La rivolta sociale di un ceto medio intellettuale che si sente impoverito, costretto a spedire i suoi figli lontano da casa. Dal rancore sociale può nascere un sommovimento: un movimento meridionale di stampo nazionale». Girata a De Magistris, la domanda chiama una risposta obbligata. «Non pensi che io voglia costruire la Lega del Sud!», interrompe subito il sindaco di Napoli. «Noi non chiediamo la separazione dall’Italia, vogliamo un’Italia unita con un rafforzamento delle autonomie». Però con la Lega di Bossi delle origini c’è un nemico comune. «Non siamo contro il Nord, siamo contro Roma, intesa come governo nazionale, partiti che hanno perso il contatto con la realtà, il sostegno e il finanziamento a gruppi di potere locali che in alcuni casi hanno sfiorato le collusioni mafiose. Con il governo di Paolo Gentiloni ho ripreso a parlare dopo una battaglia politica durissima. Renzi ha cercato di prendersi la città, di commissariare il Comune estromettendoci dalla gestione dell’area di Bagnoli. Ma nel 2016 ha incontrato una doppia rovinosa sconfitta: prima le amministrative, con la mia riconferma, poi il referendum. Oggi il consenso ce lo abbiamo noi, il popolo è dalla nostra parte. E dobbiamo ripartire da questa voglia di liberazione per costruire un progetto di autonomia». De Magistris sventola il suo libretto rosso, “La città ribelle”, in uscita con scritti di Erri De Luca e Maurizio De Giovanni e ha delegato alla giovane Flavia Sorrentino il compito di scrivere lo statuto giuridico e il manifesto di Napoli città autonoma. Asseconda con abilità le spinte contrapposte della sua variopinta coalizione. Ai neo-borbonici concede la toponomastica, la strada intitolata ai martiri di Pietrarsa, gli operai delle officine che il 6 agosto 1863 furono trucidati dai bersaglieri dello Stato unitario perché difendevano il loro lavoro. Ai centri sociali ha delegato la gestione dei municipi. Qualche giorno fa il ministro Minniti in visita a Napoli si è trovato come interlocutore il presidente della terza municipalità, quella del Rione Sanità, Ivo Poggiani, 32 anni, in rete gira la sua foto con la maglietta bagnata dagli idranti della polizia. La nuova classe dirigente che ruota attorno a De.Ma, il movimento del sindaco: «Io non sono condizionato dai centri sociali e loro non sono guidati da me», giura De Magistris. Tutto avviene fuori dai partiti tradizionali, ridotti al lumicino. «Il deserto della politica ha reso la città laboratorio delle tendenze emergenti della politica nazionale: delegittimazione del ruolo storico dei partiti e personalizzazione della politica. Ma De Magistris è anche l’espressione della difficoltà di trovare, attraverso il voto, risposte adeguate ai problemi della popolazione», scrive lo storico Paolo Frascani in “Napoli. Viaggio nella città reale” (Laterza). Ma il sindaco nega questa immagine: «Siamo un’esperienza politica che nasce dal basso ma che governa. A Napoli il Movimento 5 Stelle si è sbriciolato».
Non è un caso isolato. Lo stesso accade nell’altra capitale del Sud. «Il mio partito si chiama Palermo», ripete il sindaco Leoluca Orlando. Era già in carica nel 1985, con l’Unione Sovietica, le due Germanie, François Mitterrand all’Eliseo e Ronald Reagan alla Casa Bianca, in un sistema bloccato. Guidava da sindaco democristiano una giunta anomala, aperta al Pci e ai movimenti, ispirata dai gesuiti. Lasciò la Dc prima di Tangentopoli per fondare la Rete, da molti considerata erroneamente la risposta del Sud alla Lega. Oggi Orlando è ancora sindaco, il ciuffo a mezzaluna è lo stesso, farà settant’anni ad agosto e si prepara all’ennesima rielezione alla guida di una coalizione dove le liste correranno senza simboli di partito: anche il Pd sarà costretto a camuffarsi, nonostante le umiliazioni subite da Orlando in questi anni. L’avversario del sindaco, Marco Ferrandelli, cinque anni fa era il candidato del Pd contro Orlando, ora il rivale è lo stesso ma corre con il centrodestra, anche in questo caso senza simboli riconoscibili, mascherato da civico. I partiti sono diventati impresentabili. «All’epoca della Rete molti di noi dicevano che bisognava superare la vecchia cultura dell’appartenenza. Resta un’esigenza attuale», spiega Orlando. «Per il resto è cambiato tutto. Un quarto di secolo fa la città era governata dalla mafia e l’antimafia copriva tutti i buchi, oggi la mafia c’è ma non governa più e l’antimafia è diventata una strumentalizzazione. La questione meridionale che io e altri proviamo a rappresentare è la necessità oggi di una narrazione positiva del Sud. Palermo l’ha trovata, la Sicilia e il Sud ancora no. Per questo dopo le amministrative lavorerò per presentare liste alle elezioni regionali in tutta la Sicilia. Un modello per la Sicilia e domani, chissà, nazionale».
L’unico a essere rimasto dentro il recinto di un partito è il terzo tenore del Meridione in rivolta, il governatore pugliese Michele Emiliano, candidato alla segreteria del Pd alle primarie del 30 aprile. I sondaggi lo danno alle spalle di Renzi e del ministro della Giustizia Andrea Orlando, ma al Sud potrebbe sfondare ed è il suo obiettivo. Il progetto di conquistare la leadership meridionale del Pd risale a quattro anni fa, quando Emiliano, all’epoca sindaco di Bari, cominciò a organizzare la sua campagna per le elezioni europee del 2014 come capolista nella circoscrizione Sud. Mesi a percorrere le regioni di un collegio enorme che va dall’Abruzzo alla Calabria, un lavoro buttato nel giro di una sera, quando Renzi decise di candidare cinque donne in testa di lista in tutta Italia, al Sud toccò a Pina Picierno ed Emiliano si fece da parte.
L’inimicizia con Renzi parte da lì e non si è mai spenta. Nessuno può scommettere che dopo le primarie il governatore pugliese resterà nel Pd. Soprattutto se il risultato dovesse consegnare un Emiliano quasi inesistente nel centro-nord ma vincente al sud. «Voglio fondare un neo-popolarismo», afferma il governatore inquieto, in cerca di alleanze. Nel Pd tra i sostenitori c’è il senatore siciliano Giuseppe Lumia, l’ideatore della presidenza di Rosario Crocetta con una lista di appoggio al Pd, il Megafono. Ma Emiliano pesca più fuori che dentro il Pd. Con l’elettorato del Movimento 5 Stelle e con gli ex colleghi sindaci. «Michele mi ha chiamato, non so fino a che punto potrà spingersi restando nel rispetto dei simboli tradizionali», racconta Orlando. Anche De Magistris guarda con simpatia all’operazione: «Se Emiliano diventasse segretario del Pd l’interlocuzione sarebbe sicuramente migliore, ha sempre dimostrato attenzione per le nostre battaglie. Ma la cosa migliore sarebbe che Emiliano si unisse a noi nel nostro progetto». Per farlo dovrebbe uscire dal Pd, naturalmente. Ma intanto i tre del Sud si parlano, si cercano, interloquiscono, costruiscono anche al di là delle intenzioni e ambizioni personali i frammenti di un discorso politico unitario: Orlando è andato un anno fa a fare campagna elettorale per De Magistris e si aspetta che il sindaco di Napoli ricambi la visita a Palermo. E fanno scuola, perché le candidature meridionaliste alle prossime elezioni amministrative si moltiplicheranno. A Taranto, nella città del disastro ambientale e economico dell’Ilva, i partiti nazionali si sono dissolti. Al loro posto, le liste civiche, nella città che già nel 1993 elesse sindaco Giancarlo Cito con la formazione che portava il nome della sua emittente, At6. Oggi in corsa c’è l’imprenditrice Floriana De Gennaro, alla guida del movimento La Scelta: dopo la prima convention, un successo, qualcuno ha dato fuoco agli ombrelloni del suo caffè, per dire il clima. La politica tradizionale si difende come può. Nel Pd il campione resta il presidente della Campania Vincenzo De Luca, l’unico meridionale di peso a parlare alla tre-giorni renziana del Lingotto di Torino, assieme agli esponenti del governo (il ministro Minniti, la vice-ministro dello Sviluppo Teresa Bellanova). Anche De Luca, però, punta ad aumentare il suo peso nazionale facendo leva sul suo potere di leader del Sud: spetta a lui alzare la diga in Campania contro le incursioni di Emiliano che alle primarie punta a fare il pieno degli avversari e il suo impegno a favore di Renzi non sarà gratuito.
La corrente dei giovani turchi fedele a Andrea Orlando è stata spazzata via dal fallimento della candidatura di Valeria Valente a Napoli, con lo strascico dell’inchiesta giudiziaria sui candidati nelle liste a loro insaputa. Resta a guardare, per ora, Antonio Bassolino, l’unico leader meridionale che negli ultimi venti anni è riuscito a intestarsi un modello nazionale, durante il suo primo mandato di sindaco, nel 1993-97. Alla festa per i suoi settant’anni alla città della scienza, una settimana fa, c’era gran parte della classe dirigente napoletana, con la vistosa assenza dei vertici del Pd, compresi gli ex seguaci di un tempo come l’europarlamentare Andrea Cozzolino. In Basilicata c’è lo strapotere dei fratelli Pittella, Gianni, il capogruppo dei socialisti al Parlamento europeo e Marcello, il presidente della regione. In Calabria c’è la giunta Pd di Mario Oliverio e qualche tentativo di rinnovamento, il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà. E la battaglia congressuale nel Pd per bloccare Emiliano sarà furibonda.
Il centrodestra è diviso in zone di influenza, da Raffaele Fitto in Puglia a Gianfranco Micciché in Sicilia, con il ritorno nascosto di Totò Cuffaro, ma non sembra in grado di esprimere una leadership riconosciuta. E il Movimento 5 Stelle, prima lista nazionale in tutti i sondaggi, si presenta nei talk show con il vice-presidente della Camera Luigi Di Maio cresciuto a Pomigliano d’Arco, può contare nel meridione su un granaio di voti, ma la presenza di un soggetto sudista alle elezioni del 2018 potrebbe danneggiarlo. Nella Napoli di De Magistris, nella Palermo di Orlando e nella Puglia di Emiliano M5S fa fatica a decollare: troppo concorrenziali e vicini i rivali. È l’incognita del prossimo anno: ci saranno liste sudiste alle prossime elezioni in grado di rappresentare il Mezzogiorno? Con la legge elettorale proporzionale possono aspirare a conquistare seggi in Parlamento. Sarebbe un cataclisma per gli equilibri nazionali. «Io vedo una rifeudalizzazione dei partiti», osserva Isaia Sales.
«Nella Prima Repubblica i leader meridionali contavano a Roma perché era centrale la questione Mezzogiorno di cui si erano portatori. Ora invece politici come De Luca in Campania sono imprese di ventura che offrono il loro consenso locale a un leader nazionale. De Magistris non è un feudo, vuole portare l’Italia a occuparsi di nuovo del Sud, ma il suo ribellismo ha un limite, non ha un partito organizzato alle spalle, difficile che possa sfondare». «De Magistris è per una sinistra alternativa al Pd, io sono per una sinistra che vuole aiutare il Pd a essere quel partito che non è mai stato», distingue il sindaco Orlando. «Al Sud stiamo costruendo il vero campo progressista di cui parla Giuliano Pisapia, il vero partito democratico, non quello di Renzi». Sulla partecipazione alle elezioni del 2018 De Magistris è prudente: «Non ho nessuna intenzione di candidarmi, il mio mandato scadrà nel 2021. Non sappiamo ancora con quale legge elettorale si voterà ed è difficile dire oggi se faremo liste alle elezioni politiche. Ma di certo la nostra impostazione autonomista andrà rappresentata. Il Pd e Forza Italia sono partiti nazionali, nel Movimento 5 Stelle comanda una società privata, i territori con questa politica sono senza voce». Ed è difficile che il vento del Sud resti senza un Masaniello a incarnarlo.
I POLITICI DEL SUD? PIÙ FAMILISTI CHE POPULISTI, scrive il 27 marzo 2017 Francesco Barbagallo su "L'Espresso". Nel XXI secolo dominato dal capitale finanziario, intrecciato con le tecnologie avanzate dell’informazione nella società in rete, la politica è profondamente cambiata. Sempre più di rado funziona come governo delle comunità locali e nazionali indirizzato verso l’interesse pubblico. Sempre più spesso si presenta come avanspettacolo, messa in scena, racconto di storie senza fondamento (storytelling). Privata di ogni ideale, liberata da qualsiasi legame con l’etica, la politica si è ridotta a una mera gestione di poteri grandi e piccoli, poco attenta all’interesse generale e alla soluzione dei problemi drammatici che attanagliano la gran parte delle persone. «Di solito», scriveva già Gramsci nei Quaderni del carcere, «si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo). […] Il “demagogo” deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente». La scomparsa dei partiti e delle organizzazioni politiche e sindacali, che erano state espresse dal faticoso avanzare della democrazia nell’Europa del secondo Novecento, ha prodotto tra XX e XXI secolo la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica sulla scia dei modelli americani e poi la diffusione dei demagoghi, per lo più accompagnati in questa versione post-moderna da nutriti clan familiari e amicali. Un paese come il nostro, che pratica il familismo e il nepotismo da secoli, non poteva che collocarsi alla testa di questo fenomeno e scalare quindi la vetta anche della poco lusinghiera classifica mondiale della corruzione.
IERI ERA LA LEGA, OGGI A RIBELLARSI È IL MERIDIONE, DOVE MUOIONO I PARTITI E NASCONO I NUOVI MASANIELLO. DA CAMPANIA, SICILIA E PUGLIA ECCO GLI ASPIRANTI LEADER CHE INTERPRETANO IL POPULISMO IN CHIAVE ANTI NORD.
Così la politica, liberata dai lacciuoli dei fondamenti etici e delle pratiche democratiche, è diventato il campo privilegiato dei narcisismi smodati e degli affari di famiglia, sia in senso stretto che in quello figurato dei clan. È questo uno dei rari campi in cui si è realizzata una effettiva unificazione italiana: per il Centro-Nord basti fare i nomi di Renzi, Boschi, Casaleggio e, per il passato, Bossi. Ma qui vogliamo limitarci al Mezzogiorno d’Italia, dove i fenomeni della demagogia e del narcisismo sembrano ormai dominanti nel campo per così dire politico. Così in Campania ci godiamo il protagonismo spettacolare di De Magistris e di De Luca, in Puglia si assapora il trasbordante narcisismo di Emiliano, mentre la Sicilia continua a fruire di un privilegiato quanto ormai immotivato autonomismo con le patetiche comparsate di Crocetta e di Orlando. Veniamo alle ultime gesta dei principali demagoghi del Sud. De Magistris in sei anni non ha fatto praticamente niente di significativo per la città che amministra. Ma ha affidato al fratello, organizzatore di eventi, la direzione di un movimento, denominato modestamente DeMa, che dovrebbe favorire la sua ascesa al governo del Paese. La piattaforma per così dire politica è aperta a tutti i ribellismi, di sinistra e di destra: dai centri sociali ai neo-borbonici. Si passa dall’incredibile giornata della memoria per i briganti meridionali, eliminati proditoriamente dai piemontesi, alla esaltazione di Che Guevara, quello riprodotto sulle magliette giovanili. L’ultima impresa del sindaco di Napoli è stata la riuscita trasformazione del suo interfaccia padano, l’impresentabile Salvini, in un compiaciuto martire della libertà di parola. Al leghismo razzista viene opposto un rivendicazionismo sudista antistatale, in una salsa di compiaciuta autorappresentazione da novello Re Sole: «A Napoli sono il sindaco, dunque sono lo Stato». Più che soddisfatto del potere locale e regionale, esercitato con modalità da sceriffo, De Luca sembra non aspirare al governo del paese. Ha una vecchia consuetudine con gli schermi televisivi della sua Salerno e da qualche tempo si gode una rinomanza nazionale anche grazie alle imitazioni di Crozza. Ha già prenotato per i due figli un posto di deputato e la guida del municipio di Salerno. Alla Regione, da esperto demagogo, ha preferito consulenti tecnici ad assessori autonomi e continua ad affidare incarichi a salernitani di sua personale fiducia.
NEL CAOS DEL POP-POPULISMO AL SUD RINASCE IL CAUDILLO, IL MASANIELLO CHE SFRUTTA E TRAPASSA I SOCIAL PER TORNARE DRITTO IN CASA DEGLI ARRABBIATI. DA MICHELE EMILIANO A LEOLUCA ORLANDO. UNA RIVOLTA ITALICA, CHE CONDIVIDE FENOMENI DI RIBELLIONE SOCIALE CON IL RESTO D’EUROPA E D’AMERICA.
Emiliano sembra affetto da una bulimia di potere. Magistrato in perenne aspettativa, come tanti altri, già sindaco e ora presidente regionale, si candida a segretario del Partito democratico e aspira anche lui al governo del paese. Di recente ha dichiarato che la sua forza politica gli viene dalla famiglia, però anche il suo modello è Che Guevara, sempre quello delle magliette. Con questi campioni, ancora una volta, il Mezzogiorno esprime un ceto politico al di sotto di qualsiasi aspettativa. Non ci si può meravigliare quindi se a Napoli, alle ultime elezioni comunali, ha votato un cittadino su tre. Mentre al referendum, dove si trattava di politica, la partecipazione è quasi raddoppiata. Si parla spesso a vanvera di populismi, mentre il problema è che il ceto politico persegue ormai quasi solo interessi personali e particolari. E la gran parte delle persone, in gravi difficoltà economiche e con misere prospettive di futuro, non trova più chi riesca ad affrontare efficacemente la gravità dei problemi attuali, che contrappone nel mondo l’uno per cento dei privilegiati al 99 per cento dei marginali e degli esclusi.
I VERI RAZZISTI STANNO A SINISTRA, NON AL NORD ITALIA.
All'Esselunga volantino interno contro i truffatori "napoletani". Consigliere dei Verdi campano annuncia una denuncia per istigazione all'odio razziale contro i responsabili del punto vendita di via Feltre a Milano. Il trucco sarebbe quello di far passare sul rullo una bottiglia di scarsa qualità e poi dei colli chiusi con etichette più pregiate e care. La direzione della catena annuncia che il dipendente è stato subito sospeso, scrive Davide Banfo il 10 marzo 2017 su "La Repubblica". Il volantino apparso alle casse di un punto vendita Esselunga (Foto da NapoliToday) E' stato subito sospeso dalla direzione di Esselunga il dipendente del punto vendita di via Feltre che aveva appeso in una zona interna riservata ai dipendenti un volantino per mettere in guardia dai truffatori "napoletani". A sollevare il caso il consigliere regionale dei Verdi campani, Francesco Emilio Borrelli, che ha annunciato l'intenzione di "denunciare per istigazione all'odio razziale e discriminazione i responsabili dell'Esselunga di Milano dove è stato affisso un cartello offensivo nei confronti dei napoletani perché è arrivato il momento di porre un freno al dilagare delle violenze verbali alimentate da politici razzisti come Salvini e i leghisti". All'origine del volantino, come raccontato per primo dal sito NapoliToday, la pratica di alcuni clienti che farebbero passare sul rullo della cassa una bottiglia di vino per controllarne il prezzo e poi far passare alcuni colli già chiusi con etichette molto più costose ingannando in questo modo l'addetto. Nel comunicato, l'azienda si dice "sinceramente rammaricata per quanto accaduto e si dissocia completamente dall'iniziativa, avvenuta - viene sottolineato - su iniziativa di un singolo dipendente". "Non siamo di fronte a sfottò o cose del genere, ma a vere e proprie offese che alimentano i pregiudizi e gli stereotipi di cui siamo vittime da anni e siamo stanchi di continuare a subire e di essere anche presi in giro da gente come Salvini che dopo aver cantato che puzziamo viene a Napoli per prendere qualche voto, approfittando della disponibilità di qualche politicante della peggiore destra" ha aggiunto il consigliere Borrelli per il quale "chi scrive cartelli del genere compie reati e dovrà pagarne le conseguenze penali e civili e il risarcimento economico che riusciremo a ottenere lo utilizzeremo per aiutare le associazioni impegnate contro le discriminazioni". "Questo cartello rafforza ancor di più la nostra convinzione a stare in piazza contro Salvini e tutti i razzisti come lui che ogni giorno infangano i napoletani e i meridionali che sono stati depredati dalle politiche dei leghisti" ha concluso Borrelli per il quale "le precisazioni dell'ufficio stampa di Esselunga che attribuiscono a un singolo dipendente la decisione di affiggere quel cartello appaiono prive di fondamento perché ci pare strano che sia opera di una sola persona e se anche lo fosse perché nessuno, a cominciare dal direttore del supermercato, non l'ha tolto immediatamente?".
Lega, Senaldi a Salvini: "Vuoi fare il terrone a Napoli, meglio pensare al referendum per Veneto e Lombardia", scrive di Pietro Senaldi il 10 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. «Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani». Se c’è un’immagine che Matteo Salvini vorrebbe rimuovere della sua brillante carriera politica è quel coro da stadio intonato la sera della vigilia del raduno di Pontida del 2009 con un gruppo di militanti leghisti dopo un paio di birrette. Un peccato di gioventù padana che, ora che Matteo è diventato grande, rischia di costargli carissimo, perché il video è impresso per sempre nell' incancellabile memoria di internet. Nel tentativo di riconciliarsi con la città, il leader leghista domani sarà a Napoli per una manifestazione in grande stile del suo movimento sudista «Noi con Salvini». Già nel 2014 tentò lo sbarco in città ma fu violentemente contestato. Ora ci riprova e i no global, forse addirittura capeggiati dal sindaco De Magistris, (ex pm!), gli stanno preparando un’altra dura accoglienza malgrado in un’intervista al Mattino, il quotidiano della città, Salvini abbia ribadito ancora una volta le proprie scuse, cercando di sdrammatizzare («Che devo fare di più, mettermi in ginocchio?»). Detto tra noi, non so se basterebbe, anche se la cabala è propizia: domani è l’11, i «suricilli» nella smorfia napoletana, che possono anche significare il cambiamento. Intendiamoci, Salvini fa bene ad andare a Napoli in segno di amicizia. Rientra nel suo progetto di leader nazionale che, dopo aver portato la Lega ai massimi livelli, si è reso conto da tempo di essere più popolare e di avere su scala nazionale più consenso dello stesso Carroccio, che in un certo senso oggi è quasi un limite alle possibilità di crescita di Salvini. Ecco dunque il tentativo di allargare oltre il Nord e il Centro i confini della Lega, puntando tutto sulla propria persona e sui nuovi messaggi leghisti, travasati in «Noi con Salvini»: no euro, no Europa, no immigrati, basta Fornero, giù le tasse per tutti. Come Libero, condividiamo molte idee di Salvini ma non ci illudiamo per questo che lo facciano anche i napoletani. Per 25 anni almeno la storia della Lega è stata tutt' uno con l’antimeridionalismo, che non significa razzismo verso il Sud, come dimostrano i molti leghisti del Nord con i natali nel Mezzogiorno, ma che è stato comunque ferma denuncia e presa di distanza da tutto quello che «giù» non funziona, sia esso vero o anche solo luogo comune. Se «Roma ladrona» era un grido contro la casta più che contro la città, la secessione leghista era uno slogan tirato come un pugno in faccia contro il Mezzogiorno, vissuto come un peso sulle spalle del Paese, che drena soldi senza riuscire a metterli a frutto. Di tutto questo, dagli eserciti di dipendenti pubblici, ai morti ammazzati di camorra, agli sprechi, ai finti invalidi, all' illegalità diffusa, Napoli, la più importante città del Sud, è stata sempre dipinta come la sintesi. Da qui l’espressione «Piagnisteo napoletano» che nei giorni scorsi anche Libero ha utilizzato, non con intenti offensivi ma sommariamente descrittivi dello scontro tra Nord leghista e Sud meridionalista. Auguriamo a Salvini di sbagliarci, ma la sua sfida per conquistare il cuore dei napoletani, benché indispensabile alla sua crescita come leader, ci appare ai limiti del proibitivo. E per giunta anche rischiosa, perché il tentativo potrebbe alienargli le simpatie dell’elettorato leghista storico, in parte rimasto ancora indipendentista. Bossi, da tempo non in buoni rapporti con chi l’ha sostituito, lo sa e provoca di continuo, bocciando ogni apertura al Sud. Come ogni leader che si rispetti, Salvini non teme di prendersi dei rischi per raggiungere l’obiettivo, ma quello di essere contestato domani è davvero molto grosso, anche perché dopo cinque anni di cura De Magistris la città è alle corde, e quindi poco incline alla riconciliazione. Forse il segretario leghista farebbe meglio a desistere e concentrarsi sui referendum per l’autonomia fiscale indetti dal Carroccio in Lombardia e Veneto, molto popolari tra il suo elettorato, anziché lasciarli alla gestione esclusiva dei governatori Maroni e Zaia. Certo sarebbe più semplice. Chi frequenta Salvini rivela che è tutto sotto controllo: i governatori porteranno avanti il piano autonomista al Nord, appuntandosi le eventuali medaglie del referendum, e il segretario si prenderà la parte più difficile, lo sfondamento al Sud, agitando il vessillo anti-europeista e provando a convincere i meridionali che l’autonomia regionale farà bene anche a loro. Tutti insieme appassionatamente. Che il sogno si traduca in realtà però è tutto da vedere. A Napoli dicono «scurdammece 'o passato». Ma ancora più spesso dicono «Accà nisciuno è fesso».
Salvini alla Mostra d'Oltremare, interviene il Viminale: "La prefettura garantisca il diritto a svolgere la manifestazione". I centri sociali occupano la sala della Mostra d'Oltremare a Napoli in cui è prevista la manifestazione con Matteo Salvini. Dopo il blitz dei centri sociali e un vertice in piazza del Plebiscito, i manifestanti liberano la sala congressi occupata. Il leader della Lega: "Vengo lo stesso, non siamo in dittatura". In serata nota del ministro dell'Interno, scrive Antonio Di Costanzo il 10 marzo 2017 su "La Repubblica". Il ministro dell'Interno "ordina" alla prefettura di garantire la convention con Salvini alla Mostra d'Oltremare. Il leader della Lega sarà alle 17 di domani (sabato) nella sala della Fiera occupata oggi in segno di protesta da un centinaio di manifestanti. "Non siamo in dittatura - ha detto Salvini- a Napoli non esiste Stato, comandano i centri sociali. Ma io ci sarò lo stesso, alle 17 alla Mostra d'Oltremare: se non mi faranno parlare dentro, parlerò fuori". Pasticcio istituzionale sulla cinvention del leghista. Gli antagonisti hanno liberato il Palacongressi dopo un vertice in prefettura e la decisione dei vertici della Mostra di annullare la manifestazione con Salvini. Poi il colpo di scena: il ministro dell'Interno Marco Minniti ha dato "precise disposizioni al prefetto di Napoli perché sia assicurato il diritto costituzionalmente garantito dell'onorevole Salvini a tenere la manifestazione programmata domani nel capoluogo campano". Dopo la nota del ministro, il prefetto ha comunicato che la manifestazione “Noi con Salvini” prevista per domani 11 marzo si terrà presso la Mostra d’Oltremare. Gli attivisti della Rete "Mai con Salvini" hanno prima festeggiato la notizia dell'annullamento e poi confermato il corteo contro la manifestazione con la presenza del leader della Lega, Matteo Salvini, in programma al Palacongressi. "Il problema di Napoli sono i leghisti, non clandestini e camorristi? - ha replicato Matteo Salvini - Sindaco, questore, prefetto e governo, non dite niente? Intellettuali, buonisti, democratici e pacifisti, non dite niente? Abbiamo firmato un contratto da 5-6 mila euro con la Fiera di Napoli. C'è stato un comunicato del portavoce dei centri sociali De Vito che la fiera rescinde il contratto con me perchè non ci sono le condizioni. Incredibile. Napoli è nelle mani dei centri sociali, della camorra, dell'illegalità. Io ci vado lo stesso, non siamo a Cuba o in Unione Sovietica". Non basta: "Questi dei centri sociali - ha incalzato il leghista - hanno detto che continueranno a presidiare la fiera ma io ripeto ci vado lo stesso, se non mi fanno parlare dentro parlerò fuori, per rispetto dei tremila napoletani che hanno già mandato la loro prenotazione. Mai capitato in 25 anni di storia che i centri sociali decidano - sottolinea il leader della Lega - Accadesse ad un esponente del Pd o 5Stelle, sarei il primo a dire non esiste. Io vado lo stesso a Napoli. Dov'è il prefetto, il ministro, le istituzioni? Minniti deve intervenire. Non mi è mai accaduto, neanche al Sud". "Le provocazioni le rispediamo al mittente" ha replicato il sindaco Luigi de Magistris su radio Kiss Kiss. Napoli è "contro le politiche discriminatorie dei Mattei di turno, Salvini e Renzi. La storiella di Salvini amico dei napoletani il leader della Lega la vada a raccontare ad altri". Il sindaco ha ricordato di avere "sempre auspicato che la manifestazione popolare dei napoletani contro Salvini fosse pacifica, non violenta, caratterizzata da satira. Invito tutti a sentire gli artisti napoletani che per l'occasione, per il corteo organizzato contro la Salvini, con Gente do Sud". L'annullamento della convention con Salvini alla Mostra d'Oltremare era stato reso noto da Donatella Chiodo e Gennaro Oliviero, presidente e consigliere delegato di Mostra d'Oltremare, che hanno spiegato di aver rescisso il contratto con gli organizzatori della manifestazione: "Restituiremo quanto ci hanno dato, oltre 10mila euro, il costo per un'iniziativa di questo tipo". Poi il colpo di scena con l'intervento del Viminale. "Resteremo qui a oltranza finché la manifestazione non sarà annullata", avevano promesso gli occupanti al mattino. "Ricordiamo che la riunione sull'ordine pubblico in Prefettura ha concesso lo spazio prima citato in opposizione alla volontà della città. A Napoli non c'è spazio per razzisti, sessisti e xenofobi, che vorrebbero utilizzare come palcoscenico la nostra città per meri scopi di campagna elettorale. Il Sud non dimentica le offese razziste ricevute in questi anni, le politiche di austerità votate anche dalla Lega Nord". Ad affiancare la protesta, sono scesi in campo anche alcuni musicisti napoletani: Eugenio Bennato, James Senese, Valerio Jovine, i 99 Posse, M'Barka Ben Taleb e altri artisti, sotto la sigla "Terroni uniti", hanno registrato il brano "Gente do Sud". Enzo Gragnaniello, ospite di una diretta nella redazione napoletana di Repubblica, ha dedicato a Salvini la sua canzone "L'erba cattiva". Ma a protestare contro Salvini non sono soltanto i centri sociali. Anche il Movimento neoborbonico, tutt'altro che schierato a sinistra, scende in campo. E accoglie il leader della Lega citando Eduardo De Filippo e la famosa pernacchia con cui nell'episodio 'Il professore' del film di De Sica "L'oro di Napoli", si accoglieva l'arrivo di un duca. La versione dedicata a Salvini è in un file mp4 rintracciabile su Youtube, che il movimento dei Neoborbonici rende disponibile gratuitamente, sotto il nome di "Suoneria borbonica", a chiunque lo chieda.
Napoli, sindaco e violenti imbavagliano Salvini. Dopo la protesta degli antagonisti, negata la sala al leghista. Lui: «Vado lo stesso». E il Viminale lo difende, scrive Simone Di Meo, Sabato 11/03/2017, su "Il Giornale". Diventa un caso nazionale la visita di quest'oggi di Matteo Salvini a Napoli. Il ministro dell'Interno Marco Minniti ha ordinato al prefetto del capoluogo di assicurare «il diritto costituzionalmente garantito» del leader della Lega a «tenere la manifestazione programmata» presso il PalaCongressi della Mostra d'Oltremare dopo che il management della società comunale ha deciso (e ha comunicato che non farà dietrofront sino a quando non arriverà un ordine ufficiale della prefettura) di revocare l'autorizzazione concessa in un primo momento. Minniti «batte» de Magistris, dunque. Il sindaco di Napoli non aveva mai fatto mistero di voler impedire con tutti i mezzi la convention. «Non abbiamo bisogno di chi sparge odio e violenze - ha detto il primo cittadino - la Lega non è il nuovo, ha governato per anni e vi invito a vedere le leggi che hanno approvato». Infine l'affondo: «Loro vogliono che i soldi vadano in una sola direzione: il Centro Nord. Noi, vogliamo un'Italia e una Europa unita nelle diversità». Immediata la replica dell'europarlamentare: «Pazzesco. A Napoli non comanda lo Stato, ma i centri sociali? Vogliono impedirmi di fare un incontro pubblico, con migliaia di persone già prenotate, costringendo la Fiera a disdire il contratto. Il problema di Napoli sono i leghisti, non clandestini e camorristi?», scrive su Facebook. «Sindaco, questore, prefetto e governo, non dite niente? Intellettuali, buonisti, democratici e pacifisti, non dite niente? Domani (oggi, ndr) a Napoli ci sarò, come previsto, alle 17 alla Mostra d'Oltremare. La Libertà prima di tutto. Vi aspetto, con il sorriso». Le contromisure degli antagonisti e delle reti antirazziste sono già pronte. È previsto infatti un corteo che si snoderà in città in contemporanea con il comizio di Salvini a cui parteciperà lo stesso sindaco. La polemica è scoppiata nel pomeriggio di ieri quando il consigliere delegato della Mostra d'Oltremare Giuseppe Oliviero ha comunicato la decisione dell'ente fieristico di rescindere il contratto siglato con i promotori dell'appuntamento politico. «Alla luce dei fatti emersi oggi - ha detto - e che non potevamo prevedere, e considerato che c'erano le avvisaglie accadesse di peggio, abbiamo preferito rinunciare a 11mila euro che restituiremo piuttosto che averne 300mila di danni». In particolare, Oliviero spiega che «abbiamo voluto tutelare Droni in mostra, manifestazione che si svolgerà regolarmente. Ha prevalso la logica del minor danno». Poi è arrivato il diktat del titolare del Viminale. Gli antagonisti hanno diversificato le operazioni di contestazione. Il Movimento Neoborbonico ha deciso di creare una suoneria per cellulare con pernacchio ispirata a Eduardo de Filippo in una delle scene più famose de L'oro di Napoli, il film tratto dall'omonimo libro di Giuseppe Marotta. Per l'occasione, un gruppo di artisti ha scritto invece il brano Gente do Sud «contro le politiche antimeridionali e antirazziste di Salvini e della Lega». Il leader padano criticato, a sorpresa, anche dall'ex governatore della Campania, Stefano Caldoro: «È bene che continui a fare politica al Nord ha affermato l'esponente di centrodestra, prendendo però le distanze dai violenti continui a prendere consensi al Nord, al Sud non ha proprio ragioni, c'è una contraddizione». Intanto, la città è blindata.
Chi impedisce la libertà di parola non è un democratico meridionalista, ma un bieco comunista reazionario. Proprio quella sinistra che impedisce il revisionismo storico sul Risorgimento e le sue atrocità.
Ricordare i "martiri" del Sud? Il Risorgimento divide ancora. Il M5S vorrebbe una giornata per le vittime della "invasione" sabauda. Ma non c'è accordo tra gli storici, scrive Matteo Sacchi, Sabato, 11/03/2017, su "Il Giornale". Un altro giorno della memoria. Dedicato però ai «martiri del Meridione». È questa la proposta presentata dal Movimento 5 Stelle in diverse regioni del Sud Italia: Abruzzo, Campania, Basilicata, Molise e Puglia. E poi è anche approdata al Senato, dove il senatore M5S Sergio Puglia è intervenuto affermando che: «Il tempo è maturo per fare una riflessione e analizzare cosa accadde alle popolazioni civili meridionali e quanto ancora ci costa nel presente. Nei testi scolastici si fa appena un accenno. Chiediamo la verità». Ma esattamente di cosa si tratta? La data proposta è quella del 13 febbraio. Ovvero quella della fine dell'assedio di Gaeta da parte delle truppe piemontesi nel lontano 1861. Quel giorno la roccaforte borbonica, stretta ormai da terra e dal mare, si arrese dopo 102 giorni (e 75 di bombardamento consecutivo, il fuoco non si arrestò nemmeno mentre veniva trattata la resa). Dopo quel 13 febbraio però non cessò la resistenza al nuovo Stato unitario, soprattutto nelle campagne. Tutti coloro che continuarono a opporsi alle truppe del nuovo esercito italiano vennero semplicemente trattati dal governo di Torino come briganti. I briganti però avrebbero classificato se stessi come patrioti, sebbene nel movimento spesso citato dalla manualistica come «Grande brigantaggio» fossero confluiti anche briganti veri e propri e contadini poveri ben poco politicizzati. Il dibattito sul tema resistenza/banditismo dura tra gli storici ormai da decenni. Ed è un dibattito rovente. È un fatto che la repressione venne portata avanti con metodi militarmente durissimi (si arrivò ad impiegare più di 105mila soldati) e si arrivò ad approvare una legge specifica, la legge Pica, che de facto abrogava le garanzie dello statuto albertino. Ma è altrettanto un fatto che la reazione anti unitaria si trasformò in una guerriglia senza quartiere, in cui gli inviati governativi e i militari venivano uccisi nelle maniere più atroci. Ora l'arrivo della proposta di un giorno della memoria riaccende in pieno il dibattito.
Ne abbiamo parlato con il giornalista Pino Aprile, che con alcuni dei suoi libri (come Terroni e Carnefici, entrambi editi da Piemme) ha contribuito a far partire il dibattito. «È una proposta giusta. Era ora. Cosa è successo durante l'annessione? È successo che un esercito è penetrato in un Paese amico senza nemmeno una dichiarazione di guerra, rubando, stuprando e ammazzando. Per carità, in quegli anni è successo anche altrove... Le unificazioni nazionali hanno prodotto sempre massacri. Solo che noi italiani non ce lo siamo mai detti. Si fa ancora finta che l'annessione del Sud sia stata una parata fiorita attorno a Garibaldi, è stato un genocidio. Uno Stato ricco e prospero è stato spogliato delle sue ricchezze e saccheggiato. Bisogna avere il coraggio di dirlo e un giorno della memoria può essere un buon modo per farlo. Un giorno per piangere le vittime e cercare di unire quello che è ancora un Paese diviso. Ed è un Paese diviso perché una metà è stata brutalmente invasa e saccheggiata e non lo si vuole riconoscere. In altre nazioni i conti con la storia si fanno, la Francia con la Vandea i conti li fa eccome».
Di parere diametralmente opposto lo storico del pensiero politico Dino Cofrancesco: «Cui prodest? Già siamo un Paese disunito e in Europa ci trattano come servi della gleba. Che senso può avere una celebrazione che aumenti le divisioni? Poi mettiamo le cose in chiaro su questo nostalgismo borbonico che sta prendendo piede negli ultimi anni. Rosario Romeo, che è stato il più grande storico della seconda metà del Novecento, diceva che il protezionismo della sinistra storica aveva danneggiato il Sud, ma che senza l'unità il Sud non sarebbe mai diventato Europa, sarebbe rimasto una specie di Libia peninsulare. E Romeo era di Giarre, non di Busto Arsizio. Come del resto erano cultori del risorgimento Adolfo Omodeo (palermitano) o Gioacchino Volpe (abruzzese). Ma non solo loro, tutti gli intellettuali del Sud già in pieno risorgimento erano favorevoli all'unità e allo Stato forte. È questo che i neoborbonici sembrano dimenticare». Ma le violenze dell'esercito piemontese/italiano? «Il generale Cialdini era quel che era, ma non dimentichiamoci le teste dei bersaglieri mozzate e issate sulle picche. Le violenze ci sono state da entrambe le parti, non ci sono stati dei martiri. Delle vittime invece ovviamente sì. E di certo non userei il termine genocidio. Semmai c'è stata dopo un'emigrazione di massa dal Meridione, ma dovuta all'arretratezza economica del Sud, non all'unificazione. L'unificazione l'ha resa possibile modernizzando». E se il dibattito è così forte tra storici, forse per le celebrazioni è presto, a meno di non volere una delle solite celebrazioni italiane: quelle che dividono.
Il Sud visto dal Nord dal 1860 ai primi del 900: I meridionali? Cafoni e razza inferiore, scrive Ignazio Coppola su "Meridionews" il 5 luglio 2012. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia: ma così purtroppo non è stato. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci, retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a liberare e civilizzare" il Sud e la Sicilia. Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo, che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso. Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al Comune di Milano, Matteo Salvini: Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili. Ma ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il brigantaggio a proposito dei territori in cui si trovò a operare, in una lettera inviata a Cavour, così si esprimeva: Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: Le palle dei miei cannoni non hanno occhi. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo - e con minor numero di vittime - a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà. Ed infine per completare questo bestiario di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa. E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome, poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei liberatori che fecero a spese del Sud depredandolo, saccheggiandolo uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. E su questi pregiudizi nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo. Studiosi che si affrettarono a dare un’impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei Quaderni, quando sostiene: La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano- afferma Gramsci- che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale. Parole sante. L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud, ostacolandone in ogni modo la crescita, prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia direttore della Banca nazionale degli Stati Sardi e amico personale di Cavour e, successivamente, Governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Riprendendo l’analisi di Gramsci, si può in buona sostanza affermare che l’origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Scriveva il filosofo e romanziere ceco Milan Kundera protagonista della primavera di Praga nel suo Il libro del riso e dell’oblio, un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini, come abbiamo visto, aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di liberatori quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare l’inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare, ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi quali Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali, effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani: i settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e di conseguenza la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo in un suo libro del 1898 L’Italia barbara contemporanea, descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da civilizzare. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa - sostiene ancora Gramsci - in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il Mezzogiorno è la palla al piede - si disse allora come si ripete pedissequamente oggi - che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli come questi: Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali. E ancora: Non si affittano case ai meridionali. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può alla luce di tutto questo parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo Paese? E certamente ancor più non ci si può indignare da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni - e soprattutto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in testa - da buon meridionale, anziché compiacersi di inaugurare a Caprera, come ha fatto in questi giorni, con la solita usata ed abusata retorica, il museo dedicato alle memorie garibaldine, da buon napoletano, avrebbe fatto bene ad indignarsi per il fatto che a Torino il 26 novembre 2009 è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora, ai nostri giorni, esistono due Italie: una di serie A ed una di serie B:quella del Nord civile e progredita, quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un Paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e far chiudere da parte di istituzioni responsabili, anziché inaugurarne altri, questo deprecabile museo delle menzogne e degli orrori. In Italia purtroppo basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napolitano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro...
Storia di Nino Bixio, l’eroe più antipatico del Risorgimento, scrive "Il Giornale" Martedì 13/12/2011. Non era un tipo simpatico. Anzi, a dire il vero, quando gli girava storta ce la metteva tutta per rendersi odioso. Anche perché, scontroso e irascibile per natura, quando la «benda sanguigna» gli calava sugli occhi, e cioè non capiva più niente a causa della rabbia sorda che lo prendeva, diventava talmente aggressivo e violento da non esitare a uccidere. Come, appunto, fece. Eppure, nonostante queste sgradevoli spigolosità del carattere, non c'è dubbio alcuno che Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi durante la Spedizione dei Mille nel 1860, sia stato uno dei personaggi più illustri del Risorgimento. A raccontarci l'avventurosa esistenza di questo marinaio genovese che divenne uno dei più stimati generali del suo tempo, senatore del Regno e, infine, armatore di una nave che lo condurrà verso il suo ultimo appuntamento con il destino, è lo scrittore pavese Mino Milani che, per i tipi di Mursia, in questi giorni sta riproponendo un suo libro uscito in prima edizione nel 1977, «Vita e morte di Nino Bixio». A 34 anni di distanza, il libro è ancora intatto nella sua freschezza narrativa e si presenta come un prezioso strumento di consultazione per conoscere meglio i fatti d'arme, le prodezze e gli eccessi di una delle più controverse figure dell'Ottocento italiano. C'è da dire subito che Milani, raccontando le gesta del nostro eroe, non segue un ordine cronologico. Tanto per intenderci, non inizia dalla nascita andando mano a mano a sviluppare le varie fasi della vita. Il racconto parte invece da un Bixio ormai maturo che, andando per mare, rievoca non senza dolore e rimpianti, quello che fino ad allora era stato il suo passato. Lasciamo al lettore il piacere di seguire questo percorso. Adesso, però, per amor di sintesi e di chiarezza, vediamo di inquadrare un po' meglio il personaggio, inserendolo in un preciso contesto storico-sociale. Gerolamo Bixio, che fin da piccolissimo venne subito chiamato Nino, nacque a Genova il 2 ottobre 1821, sotto il segno della Bilancia. A dispetto degli astrologi, però, sarebbe stato molto più a suo agio in un segno di fuoco, vista l'irruenza e l'aggressività che mostrò fin da bambino. Era l'ottavo e ultimo figlio di Tomaso e di Colomba Caffarelli. Contrariamente agli altri figli, forse per il disinteresse che il padre mostrò sempre nei suoi confronti, Nino non venne battezzato. La tragedia affettiva avvenne quando aveva otto anni e la madre morì. Questa perdita lo segnò per tutta la vita. E non fu un caso, visto che anche gli altri fratelli, non appena poterono, si allontanarono da casa, tagliando i rapporti con il padre e la sua nuova moglie. In aula Nino era irrequieto ed un osso duro tanto per i maestri, quanto per i compagni. Lo chiamavano «il terrore della scuola» e nel 1834, a 13 anni, lasciò per sempre i banchi. Il padre, che voleva sbarazzarsi di lui, prima lo fece battezzare, poi lo imbarcò come mozzo su una nave. Fu questo evento, con tutte le spiacevoli conseguenze che il bambino dovette affrontare da solo, a forgiare il carattere di ferro che distinse sempre Nino Bixio. Amò il mare da subito, in seguito si arruolò nella Regia Marina Sarda e, crescendo, divenne fervente mazziniano. Partecipò come volontario nel 1848 alla guerra in Lombardia e nel 1849 a Roma, insieme all'amico Goffredo Mameli. Nel 1850, dopo aver speso buona parte del suo tempo sui libri, superò brillantemente l'esame di capitano di prima classe. Dunque, marinaio, soldato e fiero sostenitore dell'unità d'Italia. Quanto bastava per diventare nel 1860 secondo di Garibaldi nella Spedizione dei Mille, dove si distinse per coraggio, capacità di comando e qualche indimenticabile eccesso. Vediamone qualcuno, tanto per avere un'idea di chi fosse Nino Bixio. In Sicilia, durante una sosta della marcia su Palermo, Bixio passando a cavallo, vede dei volontari siciliani che si stanno riposando. Imprecando, comincia a urlare: «Ma chi comanda qui?». Allora si fa avanti il capo dei volontari, uno dei più noti garibaldini della prima ora, e risponde: «Sono io che comando, il generale La Masa». «Macché generale La Masa, lei è il generale la merda», gli grida in faccia. Quello, senza pensarci due volte, sfodera la sciabola e si avventa contro Bixio, cominciando a duellare. Soltanto l'intervento del colonnello Sirtori, con la sua pacatezza lombarda, fece interrompere il duello prima che si arrivasse all'irreparabile. Una decina di giorni dopo, altro increscioso episodio. A Palermo si stavano svolgendo i funerali del volontario ungherese Luigi Tukory e Bixio, passando accanto ad un colonna di garibaldini che stavano trasportando un grosso carico di armi, li ferma e ordina loro di seguire il corteo funebre. Il loro comandante, Carmelo Agnetta, lo guarda e replica che lui prende ordini solo da Garibaldi. E gli chiede: «E lei chi è?». Non l'avesse mai fatto. Bixio scende da cavallo, gli si avvicina e gli assesta un poderoso manrovescio. Agnetta sfodera la sciabola e i due cominciano a scambiarsi fendenti, fino a quando non interviene Garibaldi in persona che mette Bixio agli arresti. «Come potete comandare diecimila uomini - gli dirà severo - voi che non sapete comandare a voi stesso?». Per inciso, Agnetta non volle passare sopra all'incidente e il 17 novembre 1861, a Brissago, in Svizzera, i due si sfidarono a duello. Il colpo di pistola di Agnetta fracassò la mano destra di Bixio, che da quel giorno perse la normale mobilità delle dita. Stranamente, poi i due diventarono grandi amici. Ancora peggio fu quello che accadde a Paola, in Calabria, l'11 settembre 1860. Un vapore, l'Elettrico, doveva trasportare truppe garibaldine a Napoli. Per fare imbarcare tutti, Bixio aveva ordinato che ognuno stesse in piedi. Quando però arrivò sul ponte della nave, vide che alcuni volontari bavaresi, erano seduti per terra. Prese allora una carabina e, urlando e imprecando, cominciò a colpirli selvaggiamente. Un giovane trombettiere ungherese, colpito alla testa, morì con il cranio sfondato. Gli altri si avventarono su quella furia umana e poco ci mancò che Bixio non venisse cacciato in mare. Garibaldi, in seguito, lo fece mettere agli arresti dicendo agli ufficiali che chiedevano la sua testa: «Trovatemi un altro Bixio, e io faccio subito fucilare questo». Alla storia passarono anche i fatti di Bronte. Dal momento che i Borboni avevano regalato la cittadina all'ammiraglio inglese Nelson, i britannici si rivolsero a Garibaldi per mettere fine alla rivolta contadina che aveva insanguinato la zona. Gli insorti, guidati dall'avvocato Lombardo, avevano già ammazzato quindici persone a caso e ora si temeva il peggio. Così Garibaldi inviò Bixio, il quale fece allestire un processo, individuò cinque presunti responsabili, tra i quali Lombardo, e li fece fucilare. La fretta con cui tutto questo avvenne, fu tale che si parlò apertamente di strage di innocenti, in quanto i veri responsabili erano già fuggiti da un pezzo. Comunque sia, Bronte restò per sempre una macchia nella carriera di Bixio. Potrei continuare ancora per un pezzo a citare episodi e avventure, ma toglierei al lettore il piacere della lettura. In sintesi, dopo il 1860 Bixio diventò generale dell'esercito italiano, senatore del Regno e un bel giorno, stanco di ciondolare in Parlamento, gli tornò una gran voglia di riprendere il mare. Indebitandosi fino agli occhi, fece costruire in Inghilterra una grande nave mista motore-vela che guidò verso l'Oriente, per stabilire una linea commerciale con l'Italia. Non tornò mai più. Colpito dal colera, alle 9 del 16 dicembre 1873 morì tra atroci dolori sulla sua nave. Il corpo infetto, chiuso in una cassa metallica, fu sepolto nell'isola di Pulo Tuan, che nella lingua locale significa Isola del Signore. Tre indigeni disseppellirono la cassa, denudarono il cadavere e poi lo riseppellirono alla buona vicino ad un torrente. Due di loro, infettati dal colera, morirono in 48 ore. Pochi resti di Nino Bixio, vennero rintracciati, grazie al terzo indigeno, soltanto nel giugno del 1866. Le ossa vennero cremate il 10 maggio del 1877 nel consolato italiano di Singapore. Il 29 settembre le ceneri giunsero infine a Genova dove una folla immensa si unì alla moglie e ai quattro figli per accompagnare l'urna al cimitero di Staglieno, dove si trova tuttora.
Risorgimento: nel sud Italia sfatato il mito degli eroi dell’Unità, scrive il 14/02/2017, Paolo Signorelli su “L’Ultima Ribattuta". Sfatato il mito del Risorgimento. Almeno nel Sud Italia, dove sono sempre di più i municipi che hanno deciso di rimuovere busti e cancellare le vie dedicate ai protagonisti dell’Unità. L’inchiesta della “Verità” ha svelato questo particolare e significativo retroscena. Qualche esempio? Il generale Enrico Cialdini, che si è visto togliere il proprio monumento dalla Camera di commercio di Napoli, perché considerato un “criminale di guerra”. La “rappresaglia” ha colpito poi anche Giuseppe Garibaldi, definito “un massacratore”, così come Nino Bixio e Camillo Benso conte di Cavour che avrebbe appoggiato proprio Cialdini nel reprimere il brigantaggio nel Sud Italia tra il 1861 e il 1865. Ad avanzare la proposta di rimuovere busti e vie il consigliere di Fratelli d’Italia Andrea Santoro, che, affiancato a sorpresa pure dalla sinistra (una volta tanto destra e sinistra d’accordo), ha dunque dato voce all’ira comune covata verso i modi violenti con i quali il Mezzogiorno è stato aggregato al Piemonte. Cialdini, “sfrattato” da Bari, Lamezia Terme e Catania, non è stato cancellato solo nel Sud Italia, ma anche al Nord, più precisamente a Mestre, da una via della periferia. “Uno dei più ‘benevoli’ criminali di guerra”, è stato definito da Sebastiano Bozio della sinistra unita. Evidentemente ciò che viene propinato e scritto nei libri di scuola non convince del tutto. Per chi volesse farsi una cultura precisa e dettagliata su quegli anni, il consiglio è quello di spostare la propria attenzione su altri volumi di storia.
"La Resistenza è solo un falso mito. La retorica della Liberazione è finita". Parla Arrigo Petacco, giornalista, storico e scrittore. "Sono state dette molte balle", scrive il 24 Aprile 2016 “Il Tempo".
«Il 25 aprile, finché c’è stato il Partito comunista italiano, è stato molto festeggiato. Adesso assai meno perché sulla Liberazione e sulla Resistenza ci hanno costruito sopra un sacco di castelli di carta». A parlare, in questa intervista a Il Tempo è Arrigo Petacco, giornalista, storico, scrittore, autore anni fa della celebre intervista ad Indro Montanelli in cui il giornalista toscano parlò della guerra in Abissinia cui aveva partecipato, dicendo che «era come il West per gli americani: la nuova frontiera, un paese nuovo dove costruirci un’esistenza diversa. Andammo laggiù pure per sfuggire alle liturgie del regime. Ma anche lì arrivarono i gerarchi tronfi e buffoni. Fu il trionfo delle bischerate di Starace. Ci sentimmo traditi».
Petacco, quali sarebbero i castelli di carta?
«Diciamolo chiaramente, se non ci fossero stati gli americani la Resistenza non ci sarebbe mai stata. Si tratta di una retorica enorme e anche di qualche balla. All’epoca al Pci della patria non gliene fregava niente e il gruppo storico dei comunisti "inventò" il mito della Resistenza affinché sembrasse una lotta di popolo».
Non starà esagerando?
«L’hanno fatta in ottantamila partigiani che, poi, non erano neppure comunisti. Io sono stato un partigiano quando avevo 16 anni. Pochi anni dopo la guerra scrissi un libro, senza mitologia, "I ragazzi del 44", la storia di un partigiano un po’ per caso alle prese con problemi più grandi di lui, che mi venne rifiutato. Trenta e passa anni dopo, quando ero divenuto famoso per altre cose, me lo pubblicarono. Mi viene in mente il mito dei garibaldini dopo l’Unità d’Italia».
Che c’entrano i garibaldini con il 25 aprile?
«Ai tempi dell’Unità nazionale i garibaldini erano degli eroi del momento poi, col passare del tempo ne rimase solo uno, ma tutti si dicevano garibaldini. Oggi i partigiani che hanno fatto la Resistenza son tutti morti. O quasi. Ma sul mito della Resistenza, come sull’essere stati partecipi alla spedizione dei Mille ai tempi di Garibaldi, sono state costruite carriere, anche da chi non c’era affatto. Molte persone, io li definisco i partigiani del giorno dopo, ne han fatto una professione, magari con un bel fazzoletto rosso al collo».
Se come lei sostiene la Resistenza è stata un falso mito, perché gli italiani ci credono da così tanto tempo?
«Ci han creduto perché gli italiani son fatti così, come hanno fatto a credere per 20 anni a Benito Mussolini?».
Vuol dire che al popolo italiano piace salire sul carro del vincitore?
«Dopo il Risorgimento i famosi Mille di Garibaldi erano diventati 25mila. È normale salire sul carro del vincitore, lo fanno anche negli altri paesi, solo che in Italia lo facciamo con più entusiasmo».
C’è un libro che avrebbe voluto scrivere e non ha scritto?
«Sulla Resistenza "Il sangue dei vinti", l’ha scritto il giornalista Giampaolo Pansa, sulle esecuzioni e i crimini dei partigiani, un libro che ha avuto successo perché scritto da un giornalista che era visto come un uomo di sinistra».
Che intende dire?
«Che quelle critiche così feroci sulla Resistenza scritte da uno non di sinistra sarebbe state considerate una lesa maestà. Adesso le racconto una confidenza: negli anni Settanta, un editor della Mondadori, mi disse che era arrivato il tempo di scrivere un libro contro la Resistenza, ma io non ho mai avuto il coraggio di scriverlo. Pansa ha scritto la verità, verità che alcuni fascisti avevano già scritto prima di lui ma nessuno ci credeva, penso ad esempio a un fascista come Giorgio Pisanò. Non gli hanno creduto perché era ancora un fascista convinto e lo accusavano di essere un diffamatore».
Sul fascismo ha scritto diversi libri revisionisti. Lo rifarebbe?
«Io ho rotto un tabù, a sinistra mi hanno definito un revisionista, ma io me ne vanto».
Tempo fa sul Blog di Beppe Grillo ha sostenuto che Mussolini non fece uccidere Giacomo Matteotti. Ne è sicuro?
«Mussolini non aveva nulla a che fare con l’omicidio Matteotti, che fu ucciso dai fascisti che volevano impedire a Mussolini di fare un governo coi socialisti. Tenga presente che eravamo nel 1924, prima della svolta autoritaria. Mussolini ripeteva che gli avevano gettato il cadavere di Matteotti tra i piedi. Uno storico serio ha il dovere di spiegare che Mussolini non aveva nessun vantaggio dall’assassinio di Matteotti».
Una previsione: domani per il 25 aprile si riempiranno le piazze?
«In piazza andranno in pochi, la retorica della Liberazione e della Resistenza è finita».
E Foscolo suggerì il politically incorrect, scrive Aldo Bello. Se ne stavano lassù, tutti e quattro, gomito a gomito, sorridenti e benevoli: Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele vegliavano dall’alto dei cieli e dei salotti buoni sulle sorti dell’Italia unita, dimentichi di tutto ciò che li aveva divisi quando erano vivi. Così, almeno, li dipingeva l’oleografica mitologia risorgimentale. Una bella favola, naturalmente, di quelle che gli italiani amavano sentirsi raccontare. Il punto è: quanto a lungo è lecito credere nelle favole? Non c’è un momento in cui, riflettendo sul passato, lo si deve ripercorrere criticamente, senza nascondersi più nulla, e soprattutto senza cadere nella politicizzazione tipica degli storici italiani? In ultima analisi: è lecito, ed è giusto, sbarazzarsi una volta per tutte dei miti storici nazionali, si chiamino Cavour o Mussolini, Risorgimento o Resistenza? Il nodo gordiano ha un nome: revisionismo. Attaccato dalla storiografia di sinistra (ma difeso a oltranza da Paolo Mieli), l’aborrito revisionismo torna a far parlare di sé. Era già accaduto, tanto per non andar lontano, con la storia italiana raccontata da Montanelli, e più recentemente con quella dei Savoia narrata da Del Boca e dell’identità civile degli italiani, rivisitata da Umberto Cerroni. Da poco, però, è uscito un libro scritto a più mani (Belardelli, Cafagna, Galli della Loggia e Sabbatucci), dal titolo Miti e storia dell’Italia unita, che ha dato un’indicazione precisa: è necessario sgomberare la storiografia dalle falsificazioni dovute all’egemonia della sinistra ideologica. Punto di domanda: tutti cattivi gli eredi di Nenni e di Togliatti? Non si può essere apodittici fino a questo. Si tratta comunque di abbattere le mitologie e di favorire il dibattito, senza più nascondersi, ad esempio, «che il consenso al fascismo fu alto, l’Italia venne liberata dagli angloamericani, la Resistenza fu un fenomeno minoritario». E’ vero che la storia è scritta dai vincitori, ma questo non significa che si debbano accogliere dogmaticamente le ricostruzioni interessate che «divinizzano gli avvenimenti», riordinano le vicende «secondo un percorso rettilineo, dove il bene è presente dall’inizio alla fine», o ancora «spostano nel futuro la bontà di quanto hanno fatto, cercandone insomma una conferma a posteriori». Ed è altrettanto vero, come sostiene Belardelli, che «i miti a volte svolgono una funzione importante ed è certo che in Italia Risorgimento e Resistenza abbiano favorito la coesione nazionale». Il guaio comincia quando «questi miti durano troppo a lungo», irrigidendosi in ideologie totalizzanti: «Allora, invece di far sì che tutti possano riconoscersi in una storia comune, si comincia a chiedere ai cittadini di inchinarsi acriticamente ai miti collettivi». Allora, i miti vanno maneggiati con circospezione, e soprattutto non vanno utilizzati come alibi. Tanto per fare un esempio, «il mito dell’antifascismo italiano di massa, e del popolo in armi, non poteva che prestarsi a un sentimento di autoassoluzione collettiva». Anche se Denis Mack Smith aveva già notato ironicamente che, dopo l’orribile macello di Piazzale Loreto, la popolazione italiana miracolosamente raddoppiò: ai 45 milioni di fascisti della prima ora e delle ore successive si sommarono 45 milioni di antifascisti dell’ultima ora. (E’ appena il caso di ricordare che tre libri editi nel giro di qualche mese hanno messo a nudo l’antifascismo d’accatto di quanti, poi, di antifascismo come rendita hanno vissuto: La cultura a Torino tra le due guerre, di Angelo d’Orsi; La cultura fascista, di Ruth Ben-Ghiat; e Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, di Helmut Goetz, nel quale si documenta che non giurarono solo 12 professori universitari su 1.225). Per completezza d’informazione, riferisco che è persino ovvio che non tutti ci stiano, a demitizzare. Secondo Gaetano Arfé, uno dei padri della storiografia socialista, «anche i miti fanno parte della storia, e hanno avuto la grande funzione di consolidare la coscienza nazionale. Penso, ad esempio, all’interpretazione di Croce: il Risorgimento come epopea sabaudo-garibaldina. E poi dobbiamo considerare i differenti revisionismi storici [...]. Ci fu, ad esempio, quello fascista contro l’Italietta». E un altro storico, il cattolico Giorgio Rumi, allarga il discorso: «Le lenti deformanti sono tante: c’è lo scorrere del tempo, l’interesse, la deformazione professionale, l’ideologia. Certo però che se per mito si intende il progetto politico e l’ascendenza intellettuale, il sentimento e il risentimento, bisogna ammettere che tutto questo pesa». Secondo Rumi, la verità è che «la storia moderna è ormai passata dall’età dei notabili e dei professori a quella dei giornalisti. Il che porta un certo svantaggio, l’anarchia, ma anche un vantaggio: il potere non può più imporre tanto facilmente la propria egemonia, o visione del mondo». Personalmente ringrazio, non in nome della corporazione, che include troppi diplomati in scienze confuse, ma nel ricordo di Federico Chabod, che mi ebbe allievo apprezzato alla “Sapienza”, ahimè, non ricordo più quanti anni fa! Tornando al nostro discorso: allora, avanti col revisionismo? Risponde Montanelli: «Potrei parlar male del revisionismo, io che non ho fatto altro per tutta la vita? Ai nostri storici sono mancate due cose: la capacità di raccontare e quella di demitizzare...». In una recente Storia dell’Italia contemporanea lo storico inglese Martin Clark ha notato che da noi «gli storici cattolici scrivono una storia ossequiente verso la Chiesa; gli storici marxisti scrivono la storia dei sindacati e dei partiti dei lavoratori; gli storici liberali scrivono in lode dell’Italia liberale», e ha attribuito la connotazione politica della storiografia al «corporativismo» della società italiana. Punto di partenza corretto, nelle linee generali, ma conclusioni affrettate. La corporativizzazione, che pure esiste, ha scarsi rapporti con l’esistenza di una forte politicizzazione degli storici. Questa, infatti, ebbe origine nell’800, all’inizio del processo risorgimentale. Quando Ugo Foscolo esortava gli italiani a studiare la storia, compiva già un’operazione politica. Per i patrioti contemporanei era necessario costruire una tradizione che giustificasse la richiesta dell’indipendenza e dell’unità, e questo fu il compito degli storici. Alcuni svolsero anche una diretta e intensa attività politica: ad esempio, Luigi Carlo Farini, autore di una Storia d’Italia, nel 1859-60 ebbe incarichi di rilievo nell’annessione dell’Emilia e dell’Italia meridionale. Scrisse Farini: «Lanci la prima pietra colui il quale, versandosi col consiglio e coll’opera nelle cose degli Stati, può testimoniare che non parteggia». Fino al 1860, gli storici “parteggiarono” soprattutto per l’Italia, ma le divergenze tra monarchici e repubblicani, tra laici e neoguelfi, tra unitari e federalisti, tra rivoluzionari e moderati ebbero comunque sulla loro attività una rilevante influenza, che si accentuò dopo l’unificazione. Ci furono, come ha rilevato uno dei maggiori storici italiani, Walter Maturi, una scuola moderata e una scuola democratica. E ci furono anche storici “reazionari”, che guardavano con nostalgia ai Borbone. Già alle origini della vita unitaria dello Stato italiano, dunque, la storiografia fu di “partito”: per essa, da un lato c’era il Bene e dall’altro il Male, da una parte c’erano «gli eletti e dall’altra i reprobi, i delinquenti, o nel più indulgente dei casi, i matti e gli scervellati». Lo storico di partito, osserva Maturi, si scagliava spesso contro l’avversario politico «con la stessa foga con la quale un pubblico ministero addita ai giudici un accusato come nemico pubblico». Maturi descriveva i caratteri della storiografia risorgimentale, ma con ogni probabilità pensava ai colleghi contemporanei che si scontravano in battaglie scientifiche che avevano molto spesso un forte spessore partitico. Persino durante il fascismo le contrapposizioni non mancarono. Mentre Gioacchino Volpe fondava la scuola fascista, era ancora in piena attività uno dei maggiori rappresentanti della scuola storica monarchica, Alessandro Luzio. Questi voleva lo storico simile a un buon presidente di Corte d’Assise che dirigesse imparzialmente il dibattimento, pur senza mancare di enunciare le proprie convinzioni, per “orientare” la giuria. In realtà, si comportava ora come un pubblico accusatore, ora come un avvocato della difesa. Certo, durante il ventennio, il dibattito era quasi cifrato. Se Luzio, dovendo scegliere tra i Savoia e Cavour, si schierava per i primi, a difesa dello statista piemontese scendevano in campo gli storici liberali. A Mussolini Cavour piacque sempre poco, e celebrarlo, come faceva, per esempio, Adolfo Omodeo, poteva avere in quegli anni, almeno agli occhi degli iniziati, un significato antifascista. Più apertamente polemica era la posizione di un Nello Rosselli, che prima di cadere in Francia per mano di un sicario pagato dall’Ovra, pubblicò studi su Bakunin e sul socialismo italiano. Si capisce allora perché le polemiche storiografiche siano divampate nel dopoguerra, in un’atmosfera fortemente seguita da dure contrapposizioni ideologiche. Questo però non chiarisce il carattere partitico di ampi settori della storiografia italiana e non spiega soprattutto perché, con rare eccezioni, i comunisti abbiano preferito studiare il movimento comunista, i cattolici quello democristiano, e così via. Per capirlo, bisogna riflettere sulla connotazione etica assunta dai partiti italiani dopo il 1945. Essere comunista, democristiano o liberale significava non tanto accettare un programma politico, quanto avere una particolare concezione della vita, in cui in qualche misura rientrava anche un certo modo di considerare i fatti storici. Va detto che talora le contrapposizioni ideologiche, nelle figure ovviamente di maggior caratura, hanno registrato anche influenze non del tutto negative. Se hanno trasformato in parecchi casi gli storici in pubblici ministeri, hanno anche improntato la ricerca ad una passione civile che ha dato una connotazione positiva alla storiografia italiana. E ci sono stati anche i risultati scientifici. I lavori dei “Patrioti dell’800” (Luigi Carlo Farini, Vincenzo Cuoco, Cesare Balbo, Carlo Cattaneo), dei “Fascisti” (Gioacchino Volpe, Luigi Pareti), degli “Antifascisti” (Adolfo Omodeo, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Nello Rosselli), dei “Cattolici” (Arturo Carlo Jemolo, Gabriele De Rosa, Pietro Scoppola, Giorgio Rumi), dei “Marxisti” (Paolo Spriano, Ernesto Ragionieri, Franco De Felice, Enzo Santarelli) e dei “Liberali” (Renzo De Felice, Federico Chabod, Rosario Romeo, Ernesto Galli Della Loggia) hanno rappresentato complessivamente dei contributi importanti alla conoscenza della società italiana della seconda metà del XX secolo. Una corposa novità fu introdotta da Renzo De Felice, perché il suo interesse per la biografia di Mussolini fu quasi del tutto politicamente disinteressato: non era fascista quando cominciò a studiarla, non lo diventò quando la scrisse. Ma l’argomento bruciava, e diventò subito terreno di scontro fra destra e sinistra. C’è stata anche battaglia su altri argomenti: per esempio, sulla tesi del “Doppio Stato” (democraticamente costruito nella facciata, sostenuto da golpismo e complottismo di forze occulte nella realtà), sostenuta da Franco De Felice e Nicola Tranfaglia, e respinta come mitologia (e falsificazione della storia) da Galli Della Loggia e da Giuseppe Vacca. E c’è stata una rovente discussione sulla storia del comunismo italiano (esplosa dopo la pubblicazione del Libro nero, che è stato un best seller per parecchio tempo), non solo su quel che riguarda Togliatti, difeso dal suo biografo Aldo Agosti e attaccato da altri, come Elena Aga Rossi, ma anche per quel che concerne Gramsci, conteso da più parti, e da più parti ridimensionato.
Revisionista chi? Revisionista è colui che, sulla base di nuovi documenti e di nuovi punti di vista, mette in discussione una versione del passato discutibile ma seria. «Dunque, io non sono un revisionista»: parola di Sergio Romano, saggista, ex ambasciatore, con l’aggravante di essere giornalista che, interessandosi di storia, non è gradito all’accademico Rumi. Bene. Revisionista, in fondo, è chi mette a nudo i conformisti. Ma lui, Romano, fa di più: mette alla gogna i bugiardi: «In Italia vi è una larga area dell’intellighenzia che si attende qualcosa da chi esercita il potere: un posto, un riconoscimento, una carriera. Negli altri Paesi non è così. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, è molto più grande il numero di persone, nel mondo accademico e giornalistico, che non dipendono dal potere politico. La stessa Francia, che pure tanto ci somiglia, ha mantenuto un criterio di selezione meritocratica: chi ha frequentato le “Grandi Scuole” ha messo in casa un capitale di autorità e prestigio da cui nessun capo di Stato o di governo può prescindere». In Italia, invece, gli esponenti dell’intellighenzia hanno fatto riferimento soprattutto al Partito comunista e alla sinistra, e nessuno di costoro può sopportare di essere sconfessato nella propria storia passata: «La loro sensibilità è particolarmente acuta non tanto per quel che riguarda lo stalinismo, sul quale una revisione è stata fatta, bensì quando è in gioco il modo in cui è stata raccontata la storia dei dieci anni che vanno dal 1936 al 1945». Una storia in cui sinistra e Pci hanno dato prova di straordinaria coerenza democratica e antifascista: raccontata così, questa storia è una bugia. «Non è vero, infatti, che in quei dieci anni la storia dei comunisti sia stata coerentemente democratica e antifascista. Il loro punto di riferimento era l’Urss, e l’Urss si comportava, legittimamente, da grande potenza, con molta spregiudicatezza, cambiando campo quando riteneva di doverlo fare. Se all’inizio della guerra di Spagna il fronte era fascismo contro antifascismo, dal 1937 in poi i comunisti presero il controllo della situazione, eliminando i socialisti, gli anarchici, i sindacalisti, oltre ai preti e alle suore: si mossero in una prospettiva che non aveva più nulla di democratico. A partire da quel momento la guerra non fu più tra fascismo e democrazia, ma tra due versioni ugualmente totalitarie». Già nell’agosto del ‘39 l’Urss si era messa d’accordo con la Germania per la spartizione dell’Europa centro-orientale. E’ ovvio chiedersi che cosa sarebbe accaduto se, oltre ad impossessarsi di quella parte del Vecchio Continente, in quel momento l’Urss avesse controllato anche la Spagna. La Storia avrebbe sospeso il suo corso, se l’intera Europa fosse diventata un’unica “Repubblica Popolare”, un deserto bulgaro della politica, dell’economia, delle scienze e persino dell’arte? Eppure, nella mitologia ideologica italiana, per decenni quel deserto ci è stato rifilato come il paradiso sul quale vegliava la “Grande Madre Urss”, condizionando l’evoluzione politico-sociale italiana col blocco Dc-Pci. Non solo. Ancora oggi si stenta a leggere in chiaro, e con una visione oggettiva, che cosa fu lo “schema alleato della storia”, vale a dire la lettura del mondo che diede luogo all’Alleanza tra Stati Uniti e Urss nella seconda guerra mondiale. Mezza Europa, come abbiamo appena detto, fu consegnata a Stalin in funzione di quella grande alleanza, di un connubio che travolse l’intero continente. Lo si vide nel momento in cui Francia e Inghilterra furono obbligate a liquidare il proprio impero coloniale, considerato come imperdonabile colpa dell’Europa, nel momento stesso in cui il megaimpero sovietico, coloniale anch’esso, era presentato come bandiera della lotta al colonialismo occidentale. Allo stesso modo, ha prodotto storia non veritiera l’alleanza di una parte dell’ebraismo con una parte della sinistra. Io non so se questo 2000 rappresenti la fine di un secolo-millennio o l’inizio di un altro secolo-millennio. Lascio questi calcoli ai sofistici, perché ritengo il tempo una convenzione tutta umana. Ma credo che, se un’immagine c’è come linea di displuvio fra due epoche, come linea polare dell’una e linea aurorale dell’altra, è quella di Giovanni Paolo II che consegna a quello che noi chiamiamo il Muro del Pianto e che gli israeliani chiamano invece il Muro Occidentale il suo messaggio del “perdono”. Perdono per chi? Si è giocato parecchio sull’equivoco. Si è sostenuto, infatti, che la Cristianità «ha chiesto il perdono», e questo è vero, ma non è tutta la verità. Perché per bocca di Woityla la Cristianità ha simultaneamente «offerto il perdono». La parola profetica del Papa ha minato alla base la tragica equazione memoria storica uguale progetto di vendetta. Quella parte dell’ebraismo aveva deciso di raccontare il genocidio nazista come un avvenimento sottratto alle leggi della storia, affinché non perdesse il suo valore emblematico e risultasse l’espressione concreta di un’ostilità di fondo della società cristiana. Questa intenzione ha coinciso con la tendenza di una parte della sinistra di fare del nazifascismo una categoria storica permanente. Ma ora è più che mai inaccettabile che il mondo cristiano debba quotidianamente discolparsi dall’accusa di antisemitismo, così come è assurdo che le democrazie liberali debbano quotidianamente dimostrare di avere espulso il virus totalitario che avrebbero nel proprio Dna. Qualunque cosa scrivano le anime belle dell’ormai arcaico mondo radical-chic, l’arcipelago lager è altrettanto emblematico dell’arcipelago gulag. Ne hanno preso coscienza in Germania e, sebbene a decenni di distanza, in Russia. E non è un caso se ora gli Stati Uniti non scelgono come punto di riferimento in Europa gli antichi alleati dei conflitti mondiali del Novecento, ma proprio la Germania e la Russia. Non diceva Marx che i fatti hanno la testa dura? Intanto, mentre una parte degli storici nostrani continua a battersi sul confine tra storia e politica, un’altra parte, via via più consistente, formata specialmente da giovani, sta abbandonando questo terreno per spostarsi su quello delle scienze sociali, seguendo l’esempio dei medievisti e dei modernisti. L’abbandono della storia politica (partitica) per una più vasta storia della società in tutti i suoi aspetti (economia, demografia, stratificazioni e comportamenti sociali, mentalità) fa sperare che tra non molto le passioni civili non costituiranno più l’unica, fondamentale motivazione della ricerca. Non so dire se sia un bene o un male, ma è quantomeno una scelta del tutto comprensibile, dato il mediocre livello dell’attuale vita politica e dell’odierna cultura italiana.
Dibattito. Resistenza e revisionismo. "La politica contro la storia". Il libro di Paolo Mieli sul revisionismo. Le opinioni di Salvadori, Campi, Macrì, Perfetti, Rumi, Tranfaglia e Messori. Di Michele Brambilla.
Da una parte i buoni, dall'altra i cattivi: così siamo stati abituati, per molti anni, a leggere la storia. Buoni erano, per esempio, tutti gli artefici del Risorgimento italiano - i Savoia, Cavour, Mazzini, Garibaldi; e cattivi erano Pio IX e i Borbonì. Buono come il popolo italiano che aveva dovuto subire il fascismo, al quale si era poi ribellato con un movimento di massa chiamato Resistenza. Cattivi erano tutti i totalitarismi di destra, mentre quelli di sinistra erano - se non buoni nella realizzazione - perlomeno buoni nelle intenzioni. Una storia dogmatica, indiscussa e indiscutibile. Poi è arrivato Renzo De Felice, che ricordò il consenso popolare di cui il fascismo, a un certo punto, godette. Libri duramente e chiaramente antifascisti, quelli di De Felice; chi li ha letti lo sa. Eppure De Felice, solo per avere rotto lo schema fissato dalla storiografia dominante dopo il '45, è stato considerato un para fascista. Da quelle polemiche su De Felice - anni Settanta - molto tempo è passato, e da allora altri schemi storiografici sono stati ridiscussi, molti altri studiosi hanno cercato di reinterpretare la nostra storia, soprattutto dal Risorgimento in poi. Ma spesso a questi studiosi è stata appiccicata un'etichetta squalificante: l'aggettivo "revisionista" una sorta di marchio d'infamia affibbiato indistintamente sia agli storici seri che tentano di approfondire sia a personaggi inquietanti come i cosiddetti 'negazionisti'. Così siamo arrivati a una paradossale situazione: da un lato, il dibattito sulla storia è molto più vivace di vent'anni fa; dall`altro questo dibattito è viziato da una sorta di scomunica rivolta verso coloro che portano nuove interpretazioni del passato. A questo tema Paolo Mieli ha dedicato il suo nuovo libro, Storia e politica, che appena uscito da Rizzoli ha già provocato un vivace dibattito tra Sergio Romano, Lucio Villari, Luigi La Spina. Dino Cofrancesco e Stenio Solinas, e che venerdì scorso è rimbalzato in un acceso confronto al Salone del libro di Torino tra lo stesso Mieli e Denis Mack Smith. Secondo Mieli, questa scomunica che i custodi della storiografia ortodossa rivolgono ai "non allineati" è originata dal timore che un nuovo punto di vista sul passato possa comportare un nuovo punto di vista sul presente. Insomma: dal timore che la rilettura dei fatti di ieri possa avere una ricaduta politica sull'oggi.
Scrive Mieli che questa paura, questo freno a mano tirato ai danni della libertà di ricerca storica è un fatto solo italiano: "Qui da noi, quel naturale sconfinamento della politica, quando non dalla Sinistra più ortodossa, genera, invece, un clima di sospetto e intolleranza". Aggiunge Mieli: «Qui da noi l'intreccio tra politica e storia ha prodotto qualcosa di esiziale. Perché non si è risolto il fecondo rapporto tra l'ovviante mutevole punto di vista sul' oggi e il riesame delle vicende di ieri, bensì si è imposto come dogma del presente che restringe il campo visuale del passato. Come se ci dovessimo continuamente difendere da un pericolo. Dal rischio che una ricerca sia pure la più stravagante, la più bizzarra potesse mettere a repentaglio qualcosa di prezioso per il nostro vivere civile. Invece niente è più pericoloso di questo atteggiamento merito sanzionatorio». Mieli termina l'introduzione al suo libro con un appello: «Si aprano tutti i libri, si discutano con garbo le tesi più diverse dalle nostre. Si rifugga, come ha opportunamente esortato a fare Barbara Spinelli, dall' uso improprio e calunnioso dell'aggettivo "Revisionista".
Massimo Salvadori, docente di Storia delle dottrine politiche all' Università di Torino, non è d'accordo con Mieli sul fatto che sia la Sinistra a scomunicare come "revisionisti" tutti coloro che portano nuovi punti di vista sulla storia: «lo credo che non abbia molto senso dire che la Sinistra si oppone a nuove interpretazioni storiografiche. Intanto perché oggi non esiste più una Sinistra ideologica che porta avanti una visione del mondo. Non c'è più il Pci che imponeva, con i suoi intellettuali organici, un'interpretazione marxista della storia. E poi ricordiamoci che molte rivisitazioni del passato sono venute, in questi anni, proprio da uomini di sinistra: pensiamo al discorso dì Violante sulla guerra civile del '43-45, e al libro di Pavone sulla Resistenza. «Detto questo» continua Salvadori, «sono d'accordo che sia assurda la connotazione negativa data al termine revisionista: la ricerca storica è per sua natura una continua revisione del passato. Ci mancherebbe che non si potessero mettere in discussione le tesi consolidate. Certo, non tutto è "revisionabile": quando sento dire che partigiani e repubblichini vanno messi sullo stesso piano, oppure che il Risorgimento ha cancellato l'eredità positiva del regionalismo, non posso non oppormi».
Diverso il parere di una delle vittime di "quell' atteggiamento sanzionatorio" di cui parla Mieli: Alessandro Campi, ricercatore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Perugia e autore di una biografia di Mussolini pubblicata dal Mulino. Il libro cerca di comprendere il rapporto tra il fondatore del fascismo e la storia italiana; ma siccome è uscito nella collana diretta da Ernesto Galli della Loggia, uno degli storici scomunicati da una certa Sinistra, subito è stato messo all' indice dei testi inaccettabili. Da gente che, magari, il libro non lo ha neppure letto. «Il fatto è», dice Campi, «che c'è una cultura del sospetto. Si ragiona "per cordate": quello lavora con Galli della Loggia, se ha scritto del fascismo, chissà dove vuole andare a parare». Un sospetto, continua Campi, che avvelena il lavoro dello storico: «Se uno va a Mosca a cercare documenti sull'Unione Sovietica, subito c'è qualcuno che dice: ecco, è alla ricerca del colpo grosso per favorire la Destra. Ci si dimentica che uno storico scrive invece per la semplice ragione che sta facendo il suo lavoro. Sono d'accordo con Mieli: c'è una guerra sulla storiografia combattuta per fini di politica interna, attuale. Davvero un brutto clima: pensi che Bocca ha parlato di "pidocchi revisionisti". Sono scoraggiato: non si riesce a dialogare serenamente, vien voglia di ritirarsi, di starsene fuori». «Il risultato di questo clima», dice ancora Campi, «sarà che tra dieci-quindici anni la nostra storiografia sarà così indietro che, per studiare la storia d'Italia, bisognerà leggere i libri degli stranieri. Già oggi gli studi più avanzati sul fascismo vengono dal mondo anglosassone». Rimedi possibili? «Occorre che i personaggi più autorevoli dei due schieramenti, che per semplicità chiamo defeliciani e antidefeliciani, intervengano per dire «basta" e favorire un dialogo sereno». Ma il dialogo non è facile. Proprio in questi giorni il settimanale Diario ha pubblicato un numero speciale intitolato «Libro di storia» e dedicato alle nuove interpretazioni degli avvenimenti italiani dal Risorgimento al fascismo. E un durissimo atto d'accusa proprio contro Mieli, Sergio Romano ed Ernesto Galli della Loggia. Nel sottotitolo, in copertina, si legge: «Esistevano i buoni, esistevano i cattivi. Ma adesso che è passato molto tempo, si rimescolano le carte...». Il seguito, e la risposta ai tentativi di questa rilettura chiamata «rimescolamento di carte», è scritto nell'editoriale del direttore Enrico Deaglio: «A noi sembra che, nella nostra storia, i Buoni e i cattivi si riconoscano abbastanza facilmente». Che bisogno c'è, dunque, di approfondire?
«Il problema sollevato da Mieli é reale», dice Giorgio Rumi, docente di Storia contemporanea alla Statale di Milano. «In Italia c'é stato un pregiudizio favorevole alla Sinistra, evidente - più che nella storiografia in senso tecnico - nella sua vulgata, cioè nei libri di testo delle scuole, nelle enciclopedie, nelle trasmissioni televisive, nelle recensioni...». Troppo coinvolgimento ideologico, secondo Rumi. «Si tende a scrivere la storia del Novecento iscrivendosi idealmente a una certa parte della barricata. Come se fosse un obbligo morale il dover prendere posizione. Invece bisognerebbe avere più serenità, come se si studiasse il Medioevo. Ma è possibile la neutralità, per uno storico? «Non voglio dire che lo storico debba rinunciare ad avere un proprio sistema di valori. Però non deve fare il giudice: lo storico deve capire che cosa accadde e perché, non deve dare un giudizio etico». Rumi dice di essere d'accordo, con Mieli anche sull'eccessiva preoccupazione di una ricaduta sul presente: «Prendiamo il Risorgimento. A lungo è stato considerato come una rivoluzione mancata. Poi, quando è scoppiato il problema Lega, del Risorgimento è stata fatta una difesa rabbiosa. Anche per il periodo 1943-48 si è parlato di rivoluzione mancata, si è discusso per anni di quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Ma che senso ha? Lo storico non è un tribunale che giudica gli antenati».
Secondo Paolo Macrì, docente di Storia contemporanea all'Università Federico II di Napoli, è piuttosto «ingenuo» temere che una rilettura della storia possa provocare conseguenze politiche sul presente. «La commistione tra storia e politica c'è sempre stata, pura o impura che fosse. In Italia, non ciò, dubbio che sia esistita per anni un'egemonia marxista che ha determinato un senso comune della storia. Quindi, semmai è stata la Sinistra a fare, a lungo, un uso pubblico, e politico, della storia. Perché dovrebbe ora denunciare come strumentale un nuovo filone storiografico di orientamento liberale?». Anche Macrì, dunque, è d'accordo, con Mieli quando dice che chi cerca di «ripensare la storia» è guardato con sospetto: «è un fatto, che negli ultimi dieci quindici anni una serie di interpretazioni storiografiche siano state messe in discussione, e che a queste novità la mia categoria abbia reagito in modo un po' corporativo».
Francesco Perfetti, docente di Storia contemporanea alla Luiss di Roma e direttore del periodico Nuova Storia Contemporanea, é naturalmente d'accordo con il fatto che lo storico deve, per sua stessa vocazione, compiere sempre una revisione del passato. Ma pensa anche, a differenza di Salvadori, che sia stata proprio la storiografia di sinistra a inventare il termine dispregiativo di «revisionista». «Un termine», dice, «che io mi batto per cancellare dal vocabolario storiografico. La Sinistra, con quell'aggettivo, ha cercato di assimilare concetti molto diversi tra loro: negazionismo, oblio, revisionismo. Ogni nuova interpretazione è stata messa nello stesso pentolone. Ma se è vero che il Pci non c'è più, qual è questa Sinistra intollerante nei confronti del nuovo in campo storiografico? «Non è, stata solo la Sinistra marxista. C'è stata anche la Sinistra azionista. Sono tutte e due posizioni ideologiche che tendono a dare un giudizio moralistico, e non morale, sulla storia. Mentre fare ricerca storica vuol dire solo indagare sui fatti e cercare di interpretarli. Anche Marc Bloch, che morì fucilato dai nazisti, sosteneva che lo storico non deve fare mai il giustiziere, ma semplicemente comprendere».
Libertà di ricerca, dunque. Lo dice anche Nicola Tranfaglia, docente di Storia dell'Europa dell'Università di Torino e uomo di sinistra. Ma Tranfaglia fa una precisazione: «Voglio distinguere tra chi fa nuove ricerche, scoprendo nuovi fatti e nuovi documenti, e chi invece - come molti hanno fatto in questi anni - presentano solo nuove interpretazioni, nuove opinioni. I primi sono i benvenuti, anche se i documenti e i fatti che portano conducono a conclusioni diverse da quelle che io stesso potevo pensare. Dei secondi, invece, non mi voglio neppure occupare». Ma é vero, come dice Mieli, che molta storiografia é bloccata per un eccessivo timore di ricadute politiche sul presente? Tranfaglia taglia corto: «Preoccupazioni per il presente? Non ne ho. Faccio lo storico, non il politico».
Dunque la storia può essere ridiscussa solo con la scoperta di nuovi documenti? Vittorio Messori, autore di best-seller religiosi ma anche di fortunati saggi come Pensare la storia, non è d'accordo con Tranfaglia: «Non c'è affatto bisogno di nuovi documenti per ridiscutere certe interpretazioni storiografiche che avevano la pretesa di essere definitive: basta ricordare fatti evidenti, già noti, ma purtroppo rimossi, cancellati dalla storiografia dominante». Qualche esempio? ce ne sarebbero migliaia. Prendiamo La "lettura" del Risorgimento. E stato addirittura inventato un nuovo aggettivo, "borbonico", per indicare qualcosa di arretrato, di inefficiente. Eppure, con i Borboni il Sud era molto più florido che con lo Stato Unitario: Napoli era la prima città industriale della penisola, e non esisteva emigrazione verso l`estero, emigrazione che è cominciata solo dopo l'Unita. C'è bisogno di nuovi documenti per ricordare queste cose? O per smentire l`iconografia risorgimentale classica, che raffigura sempre Cavour, Mazzini e Garibaldi uno accanto all'altro, come fossero una cosa sola, mentre Cavour aveva condannato a morte Mazzini? E c'è bisogno di nuovi documenti per dire che la legge elettorale proposta da De Gasperi, e demonizzata dai comunisti come "legge truffa", era una legge in vigore in tutte le più moderne democrazie, una legge che avrebbe garantito la governabilità? O per dire che Gramsci, il cui nome é da decenni sulla testata dell'Unita, morì scomunicato dal Pci? E come mai le decine di Istituti storici per la Resistenza hanno impiegato quarant'anni per scoprire il massacro di Porzus, e hanno taciuto su altri crimini commessi dai partigiani e noti a tutti? Insomma, basta ricordare i fatti. Cosa che la vulgata imposta dalla Sinistra nel dopoguerra non ha voluto fare». La storia scritta dai vincitori non è attendibile, vuol forse dire Messori? «Non direi. Perché i comunisti sono stati vinti, non vincitori. Vinti dal voto del 1948, e poi dalla caduta del Muro. Eppure in Italia per decenni la storia l'hanno scritta loro, e oggi c'è ancora una certa Sinistra che demonizza chiunque cerchi di ripensare il passato». (Sette, settimanale del Corriere della Sera, 24 Maggio 2001)
Ma non tutti i “vinti” hanno torto. Ieri Paolo Franchi, sul Corriere della Sera, metteva in guardia dal tentare qualsiasi “revisionismo storico” sul Risorgimento per non cadere nel “ridicolo” e non mettere in pericolo lo stesso Stato nazionale. In pratica Franchi scomunica il cosiddetto «uso pubblico della storia». Gli consiglierei di leggersi qualche libro di (…) (…) Paolo Mieli, storico anticonformista nonché direttore del Corriere della sera su cui lui scrive. Mieli infatti si spinge da anni, con intelligenza, proprio verso quei «lidi fino a qualche tempo fa inimmaginabili» che paventa Franchi. L’attuale direttore del Corriere è arrivato a sottoporre ad analisi critica – per usare le parole di Franchi – proprio i «miti fondativi della storia nazionale». Anche perché è davvero stravagante che chi fa professione di laicità voglia imporre il bigottismo dei miti, che diventano dogmi storiografici intoccabili. Nel volume intitolato “Storia e politica. Risorgimento, fascismo e comunismo”, Mieli inizia proprio così: «Ma perché la Sinistra italiana (diciamo meglio: parte della Sinistra) si accanisce a tal punto contro il cosiddetto uso pubblico della storia spingendosi a dar la caccia agli untori anche nel proprio campo? Davvero pensa che esista qualcuno che abbia ordito una congiura per mandare all’aria lo Stato democratico e repubblicano, rivisitando criticamente il Risorgimento, il fascismo e il comunismo?». Poi dimostra che da 2.500 anni «politica e storia sono sempre andate assieme», aggiunge che da 2.500 anni «il mestiere dello storico» è sempre stato di «revisionare criticamente» ciò che è stato tramandato. E conclude – Mieli – che i problemi di oggi derivano proprio «da quel che è rimasto in ombra nella discussione su come è nata l’Italia». Per esempio: il dibattito storiografico sul Risorgimento fu quasi del tutto sordo alle ragioni dei vinti». Infine Mieli, nel volume “Le Storie. La storia” cita un convinto risorgimentale come Alfonso Scirocco che scriveva: «Gli interrogativi sulle scelte operate nel 1861 e confermate nei decenni successivi sono legittimi. Nascono da un’esigenza attuale, quella di trarre dall’indagine intorno alle radici dell’Italia odierna risposte convincenti sulla debolezza del nesso nazione-società-Stato, che sembra non avere avuto fin dall’inizio la saldezza desiderata». Anzi, il suddetto direttore del Corriere concludeva uno di questi suoi saggi affermando che «le divisioni sono benefiche» e auspicava che, anche sul Risorgimento, «ci si possa sanamente dividere e contrapporre senza avvertire il pericolo che vada a morire l’intera dialettica democratica». Non tutti i vinti hanno torto. Esattamente il contrario dell’editoriale di Franchi che si chiudeva proprio evocando il rischio della “morte” (di che?) a causa del «revisionismo storico». Un’ultima puntura polemica a Franchi. Sia l’editorialista, sia altri storici in questi giorni hanno fatto di tutta l’erba un fascio, accomunando gli sconfitti del 20 settembre 1870 a Porta Pia, agli sconfitti del 1945. Mi sembra ingiusto e assurdo. Non tutti i vinti hanno torto. I nazisti erano un esercito occupante che, fra l’altro, si macchiò di stragi orrende. Mentre lo Stato Pontificio era uno Stato Sovrano, il più antico e anche più italiano di quello piemontese (nel quale i Savoia parlavano addirittura francese). Quindi nel 1870 vinsero gli occupanti e gli aggressori. Nel 1945 vinsero i liberatori. C’è una bella differenza. Non confondiamo storie diverse. E mi pare giusto che dopo 130 anni Il Comune di Roma possa ricordare anche i romani che difesero lo Stato Pontificio (peraltro Pio IX aveva dato ordine di resa per evitare inutili spargimenti di sangue). Personalmente non ho nessuna nostalgia del “Papa Re”. Non solo perchè un certo Socci Ettore combattè a Mentana fra i garibaldini. Ma soprattutto perché ritengo – come disse Paolo VI – che sia stata provvidenziale la fine del potere temporale dei Pai, che già Pio IX sentiva come una zavorra equivoca per la missione spirituale e universale della Chiesa (come si vede Dio scrive diritto anche su righe storte).
Questo però non significa tacere sul fatto che:
questo stato pontificio era del tutto legittimo (come e più degli altri stati italiani: il Regno delle Due Sicilie, quello piemontese e il Granducato di Toscana);
il potere temporale dei papi nascendo fu la salvezza dell’Italia: lo ha dimostrato ino storico anticlericale come Edward Gibbon;
l’invasione dello Stato pontificio da parte dello Stato piemontese, con la confisca di una quantità immensa di beni appartenenti alla Chiesa ( e la persecuzione dei religiosi, cacciati dai conventi) è una clamorosa ingiustizia e non ha alcun fondamento giuridico e morale;
i Patti Laterananensi sono stati solo un parziale risarcimento;
la conquista militare piemontese degli altri stati italiani è stato il peggior modo di fare l’Unità d’Italia. Perché l’hanno fatta contro gli italiani.
Così ci è stato inflitto uno stato centralista e burocratico, che ha defraudato il Meridione (e non si è più ripreso), che si è fondato sul debito pubblico e ha dato inizio ad una industrializzazione assistita che ha viziato sin dalla nascita la nostra economia. E’ infine lo Stato etico ed elitario del Risorgimento (dove votava una piccola minoranza) che ci ha portato all’immane tragedia della Grande Guerra e del fascismo. Tragedie dovute al fatto che la casta risorgimentale al potere in sostanza tenne fuori dallo Stato gran parte della nazione che era contadina e cattolica. “l’Italia”, ha scritto Ernesto Galli della Loggia, “è l’unico paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica) la cui unità nazionale (…) sia avvenuta in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa Nazionale”. Antonio Socci su “Libero” 23 settembre
Storiografia del Novecento. Nel dopoguerra italiano abbiamo avuto studi storici molto ideologizzati, scrive Luciano Atticciati (febbraio 2017). La storiografia italiana degli anni del dopoguerra presenta aspetti controversi. Una parte degli storici ha indagato sugli aspetti terribili del Novecento, sull’affermarsi dei regimi totalitari, e delle tragiche conseguenze che hanno determinato, mentre altri (soprattutto storici marxisti) hanno limitato il loro campo di ricerca agli aspetti ideologici e programmatici dei movimenti politici, trascurando sostanzialmente l’azione concreta dei numerosi regimi del secolo appena concluso. Antonio Gramsci riteneva in contrasto con Benedetto Croce che il Risorgimento fosse stato un evento gestito da moderati che non aveva alterato in profondità l’assetto sociale del Paese, e che i Governi liberali (espressione di una «borghesia arretrata», avrebbe aggiunto Giuliano Procacci) fossero responsabili del mancato sviluppo economico del Paese, in particolare riteneva Gramsci che il Risorgimento fosse stato una «rivoluzione agraria mancata». Denis Mack Smith, storico inglese ma da sempre attento alle vicende italiane, esprimeva il suo giudizio negativo su Cavour, ritenuto un freddo politico spregiudicato privo di grandi idealità. Altri storici hanno addirittura considerato lo statista piemontese il Bismark italiano, cioè un uomo che aveva a cuore la grandezza del Paese, l’equilibrio fra le potenze europee, ma con scarso interesse per la libertà e il progresso. Secondo Giacomo Perticone lo stato unitario solo apparentemente poteva definirsi democratico, altri come lo storico Giorgio Rochat negli anni Settanta rincaravano la dose, parlando di una sostanziale continuità fra lo stato liberale postunitario e il regime fascista. Altri storici, sempre delle stesse tendenze, come Mario Tronti, affermavano sia riguardo alla nostra storia passata che a quella recente repubblicana che fosse fallito l’obiettivo di portare le masse all’interno dello stato. Tutti si incentravano sull’idea che lo stato avesse come finalità primaria, più che la libertà e i diritti, il provvedere ai bisogni materiali delle classi subalterne. Tali opinioni non sono state considerate valide dagli storici liberali, in particolare da Rosario Romeo, Luigi Salvatorelli e Giovanni Spadolini. Il primo riteneva che sotto il profilo politico costituzionale l’Italia fosse un Paese avanzato. Sicuramente nell’Ottocento il nostro Paese godeva di un Parlamento con poteri maggiori rispetto a quelli di Germania e Austria, e di una libertà di stampa superiore a quella della Francia di Napoleone III. Per quanto riguarda l’economia, l’Italia soffrì per la mancanza di carbone, un bene allora assolutamente vitale per l’industria, e per la mancanza di banche di grandi dimensioni in grado di gestire i notevoli investimenti necessari per il decollo dell’industria, ma i provvedimenti legislativi andavano comunque a favore dello sviluppo e anche precedentemente al decennio 1890, periodo dal quale si fa partire l’industrializzazione del Paese, la crescita era tutt’altro che assente. Sul collegamento fra Italia liberale e fascismo può essere interessante quanto scritto da Gaetano Salvemini. Lo studioso mise in luce in Le origini del fascismo. Lezioni di Harward che il fascismo rappresentava un movimento dei ceti medi che per un certo periodo si erano spostati su posizioni di Sinistra moderata contraria alla ristretta classe dirigente del Paese, ma che si sentirono successivamente minacciati dall’estremismo socialcomunista del primo dopoguerra. Inoltre un contributo essenziale all’affermarsi del fascismo era dato (opinione condivisa anche da Filippo Turati) dalle violenze dell’estrema Sinistra negli anni del Biennio Rosso. Tali eventi farebbero pensare che il fascismo rappresentasse qualcosa al di fuori della tradizione liberale, del resto il fatto che molti leader del fascismo provenissero da classi sociali molto diverse da quelle da cui provenivano i liberali, e che molti erano stati in precedenza esponenti dell’estrema Sinistra, confermerebbe la non continuità tra il Ventennio e il precedente stato liberale. Dove la comunità degli storici negli anni Settanta ha dato decisamente il peggio di sé è stato sulla questione De Felice, lo storico venne contestato non perché ciò che scriveva non fosse documentato, ma perché «non abbastanza antifascista». Nell’aprile 1975 un editoriale su «Italia Contemporanea» firmato da Ernesto Ragionieri, Claudio Pavone, Guido Quazza, Enzo Collotti parlava del lavoro dello storico contestato come «tendente a spogliare il fascismo dei suoi tratti di reazione di classe... posizioni qualunquistiche che finiscono per diventare oggettivamente filofasciste... in ogni caso esercitano una funzione diseducativa». La vicenda De Felice ha mostrato lo spirito politicizzato e intollerante di una parte degli storici degli anni Settanta, ed insieme le notevoli confusioni sullo studio storico, attività rigorosamente fondata su fonti storiche, che non ha nulla a che vedere con il sostegno di teorie a priori. Il giudizio comune negli anni precedenti all’opera di De Felice voleva che il Governo Mussolini sebbene fosse stato eletto con una vasta maggioranza parlamentare, fosse un regime imposto da una ristretta minoranza di uomini violenti contro la volontà della maggioranza dei cittadini. Il giudizio marxista riteneva che il fascismo fosse stato «il braccio destro del capitalismo» impegnato a contrastare violentemente le richieste dei lavoratori. De Felice e George Mosse misero in luce la mobilitazione delle masse, il ricorso alle organizzazioni a carattere popolare operato dal fascismo, qualcosa che rendeva questo movimento politico in qualche modo più simile ai gruppi della Sinistra che ai conservatori o ai liberali di Destra portati ad intendere la politica in maniera tradizionale come azione di professionisti di alto livello. Nel campo economico, il regime fascista si pose su posizioni diverse da quelle del libero mercato vicino a quelle stataliste, mentre alcuni dei suoi principali esponenti culturali come Giovanni Gentile e Alfredo Rocco, tendevano (come molti a Sinistra) a sacrificare gli interessi e le aspirazioni dell’individuo rispetto a quelli dello Stato. Quello che oggi molti si chiedono, storici e uomini di cultura in genere, è come sia stato possibile che eventi notevoli che hanno determinato la morte di migliaia di Italiani siano stati taciuti. L’occupazione di Trieste, le foibe, le vendette partigiane, la costituzione di gruppi armati da parte del Partito Comunista Italino, sono eventi in grado di cambiare la comprensione del Novecento italiano. Più in generale c’è stato un comportamento fortemente reticente sul comunismo internazionale, per molti i suoi crimini costituivano ben poca cosa rispetto a quelli commessi dai nazisti, sulla base di ragioni non sempre chiare. La guerra fredda, che vedeva da una parte le principali democrazie e dall’altra gli aggressivi regimi totalitari, diveniva una semplice contrapposizione di imperialismi. Nei numerosi scritti di Aldo Agosti o di quelli di Ernesto Ragionieri sul Partito Comunista Italiano, stilisticamente ineccepibili, non si parla mai dell’organizzazione armata espressamente prevista dal programma del 1921. Analogamente si taceva sui comunisti italiani fuggiti a Mosca e uccisi su indicazione dei loro dirigenti alle autorità sovietiche, eppure Paolo Spriano e Miriam Mafai (studiosi ed ex dirigenti del Partito Comunista Italiano) ne avevano parlato anche all’epoca. Lo storico Giorgio Galli mette in luce alcune carenze del Partito Comunista Italiano e dello stesso Antonio Gramsci in fatto di democrazia, ma anch’egli tace del tutto sui crimini commessi da Togliatti contro i compagni «indisciplinati», italiani e non, che si erano rifugiati in Russia. Il cambiamento degli studi storici avvenuto in questi anni costituisce sicuramente un evento notevole, gli studi storici hanno affrontato la questione del totalitarismo e del comunismo nel Novecento non più basandosi su dichiarazioni programmatiche, ma affrontando i comportamenti reali di quei regimi. Tale situazione ha portato molti, spesso esponenti della cultura estranei agli studi storici, ad una assurda polemica sul cosiddetto «revisionismo». Per costoro la storiografia passata sarebbe qualcosa che non poteva essere oggetto di cambiamento e le questioni politiche avrebbero dovuto prevalere sullo studio delle fonti storiche. Quella cultura chiusa e prolissa espressa da intellettuali non privi di atteggiamenti di superiorità, sembra oggi non solo tramontata ma crollata su se stessa con le sue omissioni e forzature. Dopo il revisionismo degli anni Novanta, oggi sembra prevalere comunque un atteggiamento di rimozione, per alcuni nel Novecento il comunismo considerato in precedenza l’evento principale del secolo, è stato solo un piccolo incidente o una ideologia che nella sua esuberanza aveva commesso qualche eccesso.
Risposta a Galli della Loggia: il Sud conquistato con le armi e l’inganno! Ma l’Indipendentismo tornerà, scrive Franco Busalacchi su "I Nuovi Vespri". Ai “polentoni” il fatto che gli studenti del Sud sono più bravi di quelli del Nord non va proprio giù. Così il Corriere della Sera mette in campo il professore Ernesto Galli della Loggia chiamato a dare una veste filosofica e sociologica a un antimeridionalismo antico che ci riporta ai Savoia. In quegli anni i meridionali che dissentivano venivano trattati come ‘briganti’ e scannati dai vari Cialdini, Govone e Pinelli. Mentre i legisti – Miglio, Bossi e via continuando – sono stati coccolati e cooptati nei Governi. Ma state sereni signori del Nord: l’Indipendentismo sta tornando per regolare i conti con la storia. Questa vicenda dei voti più alti, dati (non ottenuti, pare) agli studenti del Sud, ai “polentoni” non è proprio andata giù. Si è andati dall’accusa di disparità di trattamento al favoritismo, per poi buttarla in filosofia, sociologia e dietrologia sulla mancanza di civiltà dello stesso Sud. Ma io mi chiedo: una vicenda così particolare ed importante per l’intero Paese, come dovrebbe essere l’esame di maturità, non dovrebbe essere informata a criteri di uniformità e unitarietà del relativo processo in tutto il Paese? E se chi ha il dovere di imprimere una linea uniforme ed unitaria non lo fa, di chi è la colpa? Chi ha il dovere di tenere la barra al centro? Il ministro dell’Istruzione, ovviamente, attraverso i Provveditorati agli studi, gli Uffici scolastici regionali e i Presidi, tutti organi del ministero, organi statali. Gli studenti e i professori non c’entrano. Non lo sa il ministro che noi del Sud, a differenza di quelli del Nord, bariamo, trucchiamo le carte, siamo sensibili alle raccomandazioni ai regali, alle intimidazioni? Se lo sa maggiore è stata la sua responsabilità. Avrebbe potuto, per esempio formare le commissioni d’esami al Sud con integerrimi e preparatissimi professori reclutati nella colta Padania, dove quando in Sicilia nascevano e operavano Eschilo, Empedocle, Tirteo, Archimede, gli antenati di Bossi con corna in testa, come Abatantuono nel famoso film Attila, vagolano senza costrutto nelle foreste di Ponte di Legno. Tra tutti gli interventi che si sono registrati sulla vicenda, scartati gli “ascari con la cultura”, tipo Buttafuoco e compagni, analizzerò quello più intelligentemente di parte, e quindi il più velenoso, quello di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, noto fogliaccio cripto sudista.
Il Galli elenca tutte le nostre carenze, tutte inconfutabili, poi temendo una ovvia confutazione, attribuisce il tutto non a cause genetiche (bontà sua, però l’ha detto!), ma piuttosto ad “una storia infelice, caratterizzata da un’antica indigenza e da secoli delle più varie forme di malgoverno.” Tutto vero, però è assai specioso e direi scorretto, una volta scoperte le cause di un problema, continuare ad elencarne le conseguenze, senza analizzare quella “antica storia infelice”. Un buon medico di fronte ad una malattia, non indaga più sui sintomi, ma, una volta accertato il nesso eziologico tra causa ed effetto, si sforza di eliminare la causa per eliminarne gli effetti.
Non si può glissare. Chi lo dice che quelle cause non sono ancora vive, vitali ed operanti? Meglio, come potrebbero esserci questi effetti se le cause fossero state rimosse? Qualcosa non quadra e lei, noi, tutti abbiamo il dovere di analizzare, argomentare e, infine, capire. Che cos’è l’evoluzione? Una lotta per sopravvivere in un ambiente ostile, lotta che ha come prima conseguenza un adattamento del soggetto all’ambiente stesso. Per capirci basterà citare l’esempio del grande scienziato e filosofo positivista Herbert Spencer, quello dei cavalli che vivono nelle isole Shetland, che, come ambiente, non sono propriamente un paradiso. “Guardateli – dice – sono vivi e vitali, però sono diventati dei pony!”. Solo modificando e riducendo le proprie dimensioni sono riusciti a sopravvivere.
E’ consentito applicare lo stesso principio evolutivo alla formazione del carattere? Direi di sì. Un popolo che per 1000 (mille!) anni vive sotto un regime feudale, in cui la giustizia, per fare l’esempio più illuminante, è amministrata dal barone, in cui cioè è praticamente impossibile avere giustizia; in cui i nobili godono del “mero e mixto imperio” sostanzialmente di un diritto di vita e di morte sui sudditi, in cui gli stessi nobili, oltre alla giustizia ufficiale, hanno a propria disposizione un esercito personale di scherani che lo difendono e proteggono (gli antenati dei mafiosi), in cui il braccio religioso è compromesso con il potere laico, ebbene, in questo contesto può nascere e svilupparsi in quel popolo il concetto del vivere in società, del bene comune? Che idea si è fatta, nei secoli quel popolo, della giustizia, dell’ordine costituito? Che sono nemici.
Che cosa sarebbe diventata la Lombardia se il sistema feudale del Seicento, descritto e denunciato dal Manzoni, fosse arrivato fino al 1860? Conosce Galli della Loggia la lucidissima nota critica di Luigi Russo a proposito della autorità legale e della prevalenza dell’autorità di influenza proposito del “duello” tutto politico tra il Conte Zio e il Padre provinciale? E della tavolata di don Rodrigo, dove sedevano quelli che avrebbero dovuto dare giustizia a Renzo? Oggi in Sicilia funziona ancora così. Dov’è lo Stato? Dov’era? La Lombardia ha avuto la Grande Maria Teresa!! Noi i Savoia. Facciamo a cambio?
Galli della Loggia parla nel suo articolo di “scomparsa dello Stato italiano”. Per quanto riguarda il Sud e la Sicilia in particolare, io parlerei di continuità della latitanza politica e culturale e di invasiva presenza militare. La Sicilia in particolare, nei primi dieci anni di Unità, subì tre stati d’assedio: la popolazione fu sottomessa a un duro e spietato arbitrio militare, a rappresaglie, a massacri, a incendi, a saccheggi. E quel miserabile di Vittorio Emanuele aveva detto: “Vengo per fare la vostra volontà, non la mia”. E meno male!
“Se sei venuto a salvarmi, perché mi uccidi? Se non vieni per salvarmi, perché sei venuto?”. Semplice, no?
Ricordo a Galli della Loggia che l’Italia è nata per annessioni al Piemonte. E’ chiara o no la differenza con una nazione nata dalla volontà popolare? Lo sa Galli della Loggia che alle annessioni votò il 2% della popolazione (tanti avevano il diritto al voto: in Sicilia 60.000 votanti su tre milioni di abitanti!), per di più sotto la minaccia dei fucili piemontesi. Quegli stessi fucili che convinsero gli abitanti di Nizza e della Savoia a diventare francesi. Questo fu il vero Risorgimento, caro Galli della Loggia! Aveva ragione il principe di Metternich! L’Italia era “un’espressione geografica”. E tale è rimasta. Per fare una nazione, soprattutto dopo quella partenza ad handicap, occorreva gente seria, intellettualmente onesta, statisti e regnanti acculturati e lungimiranti, non certo i Savoia, macchiette rustiche, ridicole, sempre uguali a se stesse, da Vittorio Amedeo, che, grazie al suo tradimento (ce l’hanno nel DNA!), diventò re di Sicilia, al suo pronipote Emanuele Filiberto, quello di “Balla con le stelle”. La classe non è acqua.
Galli della Loggia sa quante lacrime e sangue costò l’unificazione amministrativa da lui lodata? Le leggi del 1865, abolitive del contenzioso amministrativo, ancora parzialmente in vigore, promulgate da un re al quale non importava il consenso del popolo, ma il potere su di esso, posero sullo stesso piano, compreso tragicamente il regime fiscale, economie forti e meno forti, decretando in molti casi la morte, o, per sempre, la minorità di queste ultime. Che geni, vero? Perché, invece che di soldati e generali macellai (Cialdini, Govone, Pinelli), re Vittorio non riempì il Sud di insegnanti e amministratori onesti e capaci, (il personale più prelibato, scrissero Franchetti e Sonnino,) e non dei peggiori, quelli meritevoli della destinazione insulare punitiva? Perché lo Stato non ha debellato la mafia? Perché questa, da fenomeno rurale e borgataro, diventò una multinazionale, che, lo dicono alcuni magistrati, tratta con lo Stato da eguale? Lo sa Galli della Loggia quanto durerebbe la mafia se lo Stato volesse una volta per tutte liberarsi di politici, magistrati, tutori dell’ordine, colletti bianchi e professionisti a libro paga della mafia? Una settimana!
Ha ragione Galli della Loggia quando afferma che non è solo questione di investimenti, di infrastrutture.
Il CENSIS, qualche anno fa ha resa nota una ricerca sul Meridione, spiegando come, senza l’oppressione della criminalità organizzata, il prodotto interno lordo del Sud sarebbe uguale a quello del Nord. Un’informazione scientifica di tale portata avrebbe dovuto scuotere le coscienze del Paese. Il Parlamento avrebbe dovuto mettere l’argomento all’ordine del giorno, non fosse altro che per confutarlo. Nessuno ha fatto un plissé. Galli della Loggia, poi, ci intrattiene sul nuovo localismo e il decentramento culturale. Santa verità, ma come sempre Galli della Loggia si ferma lì. Secondo me il fenomeno va fatto risalire alla nascita e all’affermazione sul piano locale della Lega, alle teorie leghiste, ai fondatori del movimento e ai suoi realizzatori, ai quali lo Stato, forse per una sottovalutazione, forse per una forma di connivenza politica, ha concesso una libertà di movimento complessiva che fu impedita a suo tempo in Sicilia agli indipendentisti che professavano le stesse idee. Per molto meno le carceri italiane si riempirono di militanti indipendentisti siciliani che rappresentavano ben 500.000 iscritti. I capi politici venivano arrestati e imprigionati senza un processo per mesi. Miglio, Bossi, e cialtroni di ogni genere si sono invece potuti permettere di insultare e attaccare le istituzioni repubblicane senza pagarne il prezzo. Nessun ministro dell’interno (anzi, ne ebbero uno!) ha attivato le prefetture, né le forze dell’ordine hanno fatto sentire il braccio della legge. E‘ stato consentito che una roccaforte razzista e antimeridionalista si consolidasse nel Paese e concorresse in modo significativo al suo sgretolamento e concorrendo altresì a interrompere il processo unitario (anche se fatto a membro di segugio) e a favorirne l’arretramento. Se Milio si fosse fatto qualche giorno di galera per le sue farneticazioni, le cose sarebbero andate diversamente (e dire che era già successo, persino più in grande, con il Fascismo, quando quattro carabinieri sarebbero bastati a fermare “la storia immarcescibile”)
Se esiste un Barbagallo, l’incredibile Hulk, è perché è stato dato campo a quelle sottospecie di bauscia decerebrati e analfabeti, quelli sì, che votano Salvini. Il postulato è sempre lo stesso “salute al Nord, sciagura al Sud. Il Nord, dice Galli della Loggia, si vivifica per la ininterrotta migrazione interna che impoverisce il Sud. Ma va’! E secondo lui è un caso. Questa è politica: “Guai ai vinti!”. Se ci si convince che il Sud non è stato liberato, ma conquistato con le armi e l’inganno, e mantenuto come colonia tutto apparirà chiaro. E le colonie difficilmente si lasciano andare. Non è difficile profetare che vedremo il vero volto dello Stato non appena il movimento indipendentista, finalmente unito e compatto, comincerà a fare di nuovo paura.
E se il Sud cominciasse a pensare alla propria Indipendenza? Proprio come la Sicilia, scrive "I Nuovi Vespri". Non si tratterebbe di una novità. Lo pensava già, nel 1911, il grande meridionalista Gaetano Salvemini. Proprio quando il sistema di potere di Giolitti derubava il Sud per foraggiare il ‘Triangolo industriale’ Milano-Torino-Genova, condannando le Regioni del Mezzogiorno al sottosviluppo economico e sociale tra Prefetti, mafie e ascari, Salvemini pensava a “a due Stati italiani distinti”. Oggi il Governo Renzi è per molti versi peggiore dei Governi Giolitti: oltre che derubare il Mezzogiorno, Renzi e i suoi sono anche razzisti. Non a caso si parla di Indipendenza siciliana. E ora anche di Indipendenza di tutto il Sud. Un post su facebook di Andrea Pingio riposta una foto e una lettera che Gaetano Salvemini, eminente meridionalista, scrisse nel 1911 a Salvatore Lucchese, riportata da quest’ultimo nello scritto: “Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini”, ed. Lacaita. Sono considerazioni importanti e molto attuali: “Ogni giorno che passa – scrive Salvemini – diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell’Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d’America per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaroviglio del Nord […] Perché non facciamo due Stati distinti? Una buona barriera doganale al Tronto e al Garigliano.
Voi vi consumate le vostre cotonate sul luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli inglesi, e comperiamo i loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant’anni, abbandonati a noi diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi, ci daremo in colonia agli inglesi, i quali è sperabile ci amministrino almeno come amministrano l’Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci abbiano trattato nei cinquant’anni passati i partiti conservatori, che non si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant’anni i cosiddetti democratici”.
Insomma, per Salvemini, già nel 1911, il Mezzogiorno d’Italia avrebbe fatto bene a staccarsi dall’Italia. Il grande meridionalista – che conosceva molto bene la realtà del Sud, metteva nel conto anche l’incapacità dello stesso Meridione ad autogovernarsi. E non nascondeva – ad appena cinquant’anni di Unità d’Italia – una tesi un po’ ardita: piuttosto che restare nell’Italia che, già da qualche anno, era nelle mani di Giovanni Giolitti, per il Sud Italia sarebbe stato meglio diventare una colonia inglese. In realtà, cinquant’anni prima, erano stati proprio gli inglesi a consegnare la Sicilia – e alla fine anche il Sud Italia – ai Savoia. Cinquant’anni dopo Salvemini, con estrema lucidità, non esitava a ragionare per paradossi. Una riflessione, quella sua sugli inglesi, che non era affatto campata in aria. Salvemini era stato un attento osservatore dei danni che proprio il Governo Giolitti aveva prodotto al Mezzogiorno, dislocando tutte le risorse dell’Italia di allora in quello che sarebbe poi diventato il ‘Triangolo industriale Milano-Torino-Genova.
Per Giolitti – e per gli interessi economici e politici che stavano dietro al suo Governo – il Sud era solo un territorio da ‘spolpare’ (metafora usata da un altro grande meridionalista di quegli anni, Giustino Fortunato, che parlava, per l’appunto di “osso del Sud”) per drenare risorse da portare al Nord da ‘industrializzare’. Una zona del Paese da amministrare con i Prefetti, dallo stesso Giolitti controllati, che in alcuni momenti applicavano le leggi e in altri momenti si avvalevano delle mafie locali per reprimere le proteste delle popolazioni meridionali. Fatti, personaggi e cose che Salvemini denuncerà in un volume che per l’Italia che ancora oggi celebra Giolitti come lo statista di Dronero” rimarrà sempre ‘indigesto’: Il Ministro della malavita.
E oggi? Oltre cento anni dopo tante delle denunce di Salvemini sull’abbandono del Sud restano attuali. Basti pensare a quanto siano ancora oggi valide le sue considerazioni sull’ascarismo (noi ne abbiamo parlato qui). Ed è incredibile che questa lettera coincida con un altro elemento che sta venendo fuori in questi giorni: la verità sulla cosiddetta Brexit, cioè sulle conseguenze dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ricordate, nei giorni precedenti e subito successivi al referendum inglese le notizie catastrofiche sul Regno Unito diffuse dall’Unione Europea e da tanti mezzi d’informazione del nostro Paese? L’economia inglese sarebbe sprofondata, i giovani studenti di questo Paese sarebbero stati penalizzati e via continuando con le previsioni catastrofiche per la Gran Bretagna. Ebbene, ad appena qualche mese dall’uscita dall’Unione Europea, l’economia del Regno Unito vola: occupazione in aumento, consumi in crescita, aumento degli investimenti. E l’Italia, che con le sua fanfare renziane pronosticava disastri per gli inglesi? Si è verificato l’esatto contrario: i disastri economici che Renzi, dalle Tv di Stato, indicava come prossimi per gli inglesi, stanno invece colpendo l’Italia: crescita zero, nessun aumento dell’occupazione e aumento delle tasse. Così al nostro capo del Governo non rimangono che altre bugie: come quella che avrebbe abbassato le tasse. Una balla smentita dalle Province trasformare in pompose città Metropolitane e lasciate senza soldi e senza Bilanci 2016, con le Regioni allo stremo, con Comuni al verde.
Insomma, l’Italia di Renzi non solo non ha abbassato le tasse, non solo non ha rilanciato l’economia, ma ha anche costretto Regioni, Comuni ed ex Province a tagliare i servizi ai cittadini. L’Italia sta affondando. Tornano d’attualità le considerazioni di Salvemini: non è arrivato il momento, per il Sud Italia, di pensare a se stesso? Del resto, non è forse vero che il Sud Italia, durante il regno delle due Sicilia, se la passava meglio rispetto ai disastri provocati dall’Unità d’Italia? Anche le fesserie che ci hanno raccontato a scuola, per decenni, vengono piano piano smentite. Le bugie raccontate dagli storici su Garibaldi, sull’Impresa del Mille non reggono più (qui potete trovare la nostra Controstoria dell’Impresa dei Mille).
Il grande meridionalista pensava due Stati: e non disdegnava l’ipotesi di un ruolo attivo dell’Inghilterra per liberare il Mezzogiorno dall’Italia di Giolitti. L’Italia di Giolitti, per la cronaca, era quanto di più antimeridionale allora si potesse immaginare: ma anche l’Italia di Renzi, oggi, non scherza quanto ad antimeridionalismo. Un atteggiamento, quello del Governo Renzi, che sfiora il razzismo, come ripete spesso Pino Aprile, l’autore di Terroni. Pensate: pur di non ammettere che gli studenti delle regioni del Sud sono più bravi, a scuola, degli studenti del Nord si sono inventati che i nostri docenti sarebbero di manica larga. Sono veramente penosi!
Insomma, ci sono tutte le condizioni per cominciare a pensare a qualcosa di più dell’Autonomia del Sud. Un Mezzogiorno indipendente, magari fatto da tante Regioni in dipendenti.
Negli anni ’50 del secolo passato, quando in Italia c’era ancora una sinistra politica fatta da comunisti e socialisti, si parlava di un “Sud all’opposizione”.
Oggi i tempi sono cambiati. Quello che rimane della sinistra italiana è imprigionata dal renzismo. Per il Sud è arrivato il momento di pensare alla libertà…La Sicilia, come la Catalogna, guarda oggi all’indipendenza. E la stessa cosa dovrebbero fare le altre Regioni del Sud.
MEDIA E STATO CANAGLIA. COSI' NASCEVA UNA NAZIONE.
Scrive il 17/11/2012 "Nexus Edizioni". L’articolo che vi proponiamo è stato pubblicato su Nexus New Times nr. 98, con il titolo "Così nasceva una nazione". Abbiamo deciso di pubblicarlo anche in rete, perché riteniamo necessario dare la massima diffusione possibile alle informazioni in esso contenute, consapevoli di quanto la comprensione del passato sia indispensabile per far luce sul presente e, quindi, riscrivere il futuro. Di fronte allo stupore di molti davanti alla palese e gigantesca manipolazione mediatica, a cui assistiamo ormai da anni, ai danni della nazione ‘canaglia’ di turno (come di recente contro la Libia e ad oggi ancora contro la Siria, la Russia, il Venezuela, l’Iran), abbiamo pensato bene di rispolverare qualche evento passato, per sondarne la conoscenza da parte di chi legge. Come un vecchio disco che, recuperato alla polvere che lo avvolgeva dopo anni di inutilizzo, è in grado di far riaffiorare ricordi sopiti, ma anche di trasmetterci suggestioni che, in precedenza, non avevamo colto. Così è anche per la storia che, sottratta all’erudizione degli esperti e alla propaganda dei vincitori, può ancora oggi essere attuale. Il giornalismo raramente indaga il passato, ma come essere veramente attuali, cioè comprendere il proprio tempo ed agire su di esso, senza quello spirito critico che solo dalla memoria storica ci può giungere? Passati ormai i festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, è il caso di approfondire un periodo storico così cruciale e di indagarlo come si farebbe con l’attualità. Sediamoci comodi, allora (ma non troppo!) e torniamo indietro di centocinquant’anni, poco più poco meno.
“La negazione di Dio eretta a sistema di governo”. Con queste parole, scritte nel 1851 dal giovane diplomatico britannico William Ewart Gladstone al Ministro degli Esteri di Londra, Lord Aberdeen, aveva inizio la denigrazione del Regno delle Due Sicilie sulla stampa europea. Riferite alle condizioni delle carceri napoletane, dove Gladstone sosteneva di aver incontrato i membri della setta “Unità d’Italia” (responsabile di alcuni attentati nel 1849), furono smentite sia da parte duosiciliana sia da diplomatici di tutto il mondo, tra cui l’ambasciatore francese Walewski. Ma le smentite, oggi come ieri, non fanno notizia. Fu l’inizio di una campagna di stampa, soprattutto da parte britannica, che contribuì a modificare notevolmente la storia italiana ed europea: da allora l’aggettivo ‘borbonico’ assunse il significato dispregiativo che ancora conserva. I detenuti politici napoletani, accusati dalla giustizia regia di aver tramato contro la monarchia, divennero presto icone della battaglia anti-borbonica della stampa inglese. Fu il caso di Carlo Poerio, condannato a 24 anni di carcere duro (ridotti a dieci), di cui la stampa britannica descriveva, con raro senso di umanità, le condizioni di salute precarie. Analoghe attenzioni ricevette anche un altro detenuto eccellente, il letterato Luigi Settembrini. Per liberarlo, il primo ministro inglese Palmerston pensò addirittura ad una spedizione navale, in barba alla sovranità duosiciliana. Poco importa se poi sarà lo stesso Settembrini, anni più tardi, ad ammettere che il carcere borbonico gli garantiva diverse comodità (caffè, giornali, libri) e a lamentare l’utilizzo del suo diario come “libello di guerra” contro Ferdinando II di Borbone. La persuasione dell’opinione pubblica internazionale è indispensabile per preparare il terreno di una futura guerra, esterna od interna. Non ha importanza, in quest’ottica, se si tratti di verità o di menzogne. Un secolo dopo, Roger Mucchielli nella sua Subversion (un manuale pratico per la sovversione politica) teorizzerà la necessità di creare la giusta ‘percezione delle circostanze’ in seno all’opinione pubblica, in modo che questa non solo non si opponga ad un cambio di regime, ma lo favorisca consapevolmente. Secondo Mucchielli, non sono le circostanze ad indirizzare l’opinione pubblica, ma la percezione delle circostanze, veicolata dai mezzi d’informazione. Il compito di ‘creare’ una percezione della realtà spetta proprio ai mezzi di comunicazione, ma anche a quegli intellettuali che oggi si auto-definiscono opinion makers (creatori di opinioni, appunto). Così, a distanza di secoli, la percezione della realtà diventa la realtà stessa e quest’ultima diventa storia. Poco importa, in vero, se il sistema giudiziario duosiciliano fosse il più avanzato dell’Italia preunitaria, non prevedesse i lavori forzati e solo in casi rari la pena di morte. Nelle sue Memorie documentate, Paolo Mencacci ricordava come, negli anni dal 1851 al 1854, su 42 condanne a morte, 19 furono tramutate da Ferdinando II in condanne all’ergastolo, 11 in 30 anni ai ferri, 12 in altre pene minori. Nessuna esecuzione, quindi. A riprova di ciò, nello stesso periodo il re graziava 2.713 condannati per reati politici e 7.181 per altri reati. L’opposto di quanto accadeva, per esempio, nel Piemonte sabaudo dove, dal 1851 al 1855, venivano eseguite ben 113 esecuzioni capitali. Tanto da spingere il deputato piemontese Angelo Brofferio ad affermare che “i progressi della morte aumentano” nel regno dei Savoia. A conferma della malafede utilizzata contro i Borboni, sarà lo stesso Gladstone nel 1888 ad ammettere di aver “scritto senza vedere” le sue lettere ad Aberdeen, di non esser mai stato in un carcere borbonico e di aver mentito su incarico del primo ministro inglese Palmerston. Perfino l’allora ministro degli esteri di Londra, lord Malmesbury, scriverà nelle sue memorie che Poerio (liberato nel frattempo) godeva di condizioni di salute fin troppo ottimali per aver subito i trattamenti descritti dalla stampa. A giochi fatti, però, le smentite puliscono le coscienze, ma non modificano il racconto storico.
Ma a cosa si deve l’ostilità britannica nei confronti delle Due Sicilie? Forse alla politica estera di Ferdinando II che, oltre ad aver assunto un deriva filorussa, mirava a fare avere alle Due Sicilie un posto importante tra le potenze europee. Un indizio in questo senso fu il precoce ritiro dalla guerra di Crimea, nel 1855, che favorì inizialmente i russi ai danni della coalizione occidentale. Ma soprattutto la questione degli zolfi, che portò quasi allo scontro militare tra Roma e Napoli. Nel 1836, infatti, Ferdinando decise di affidare alla compagnia francese Taix e Aycard di Marsiglia agevolazioni per la vendita degli zolfi, di cui il sottosuolo duosiciliano era particolarmente ricco. La società francese offriva il doppio del prezzo pagato dagli inglesi, che acquistavano gli zolfi (utili per la soda artificiale, l’acido solforico e la polvere da sparo) ad un prezzo irrisorio, salvo rivenderlo a cifre assai maggiori ed in condizioni monopolistiche. Ma si trattava di uno strappo al Trattato di Commercio stipulato tra Londra e Napoli nel 1816, che prevedeva una reciproca applicazione della clausola della ‘nazione più favorita’. Così, dopo le rituali proteste diplomatiche, nel 1840 Palmerston inviò una flotta britannica al largo di Napoli, pronta a cannoneggiare. Solo la mediazione francese convinse Ferdinando a non aprire il fuoco contro l’amico-nemico, ma la sua resa lo costrinse ad un doppio indennizzo: all’Inghilterra, per la violazione del trattato, ed alla Francia, che perdeva il contratto. Da allora, il “contegno non servile” (come lo definirà Benedetto Croce) di Ferdinando II divenne una minaccia tangibile per gli interessi commerciali britannici.
In vista della realizzazione del Canale di Suez, i porti dell’Italia meridionale sarebbero stati indispensabili per il commercio delle materie prime e non avrebbero di certo potuto rimanere nelle mani di un governo ostile. Inoltre, un ruolo importante, sia economico sia strategico, era ricoperto dalla Sicilia. L’isola, infatti, non solo era un avamposto militare strategico a presidio delle rotte commerciali inglesi, ma era la sede di numerose attività commerciali britanniche. Diverse le famiglie inglesi che vi si erano trasferite durante il protettorato britannico (che durò dal 1811 al 1815), costruendo in loco una rete imprenditoriale che smistava quantità di denaro significative. È il caso dei Whitaker, ad esempio, che facevano girare dai 4 ai 5 milioni di lire annue, ma anche dei Woodhouse e degli Ingham. Dalla Sicilia, quindi, partì la strategia destabilizzatrice di Londra ai danni di Ferdinando II e del suo regno.
Innanzitutto era necessario mettere la Sicilia contro il governo di Napoli. Approfittando dell’odio popolare contro i baroni latifondisti, vicini al Re, creare delle ‘rivoluzioni guidate’ nell’isola che portassero alla destituzione delle autorità borboniche: ne sarebbe nato uno stato-satellite, che avrebbe mostrato fedeltà alle direttive di Londra e indebolito il governo di Napoli. Un procedimento simile a quello usato di recente in Libia, alimentando la contrapposizione tra Tripoli e Bengasi. In quest’ottica si può spiegare la rivoluzione costituzionale di Palermo del 1848, impossibile senza i carichi di armi inviate ai rivoltosi dall’esercito inglese, come testimoniato anche dalla lettera scritta a Palmerston dal Governatore di Malta. Il 13 aprile 1848, infatti, il nuovo General Parlamento creato dagli insorti dichiarò decaduta la monarchia borbonica. L’appoggio di Londra ai rivoluzionari siculi, sebbene noto agli ambienti diplomatici, non era però ufficiale e così Palmerston pensò bene di ricattare il neonato governo costituzionale di Palermo, in cerca di un principe italiano disposto a prendere lo scettro dell’isola. L’avvallo ufficiale d’oltremanica al cambio di regime sarebbe giunto solo previo affidamento della carica regia ad un membro di casa Savoia. Una famiglia dinastica ben lontana dalle vicende sicule, che non conosceva l’isola, radicata in una regione di confine tra la Francia e il Piemonte, ma che aveva acquisito la corona della vicina Sardegna nel 1720. Ma il 27 agosto, 3 mesi dopo la rivoluzione (o colpo di stato, a seconda del punto di vista), Ferdinando riuscirà a riprendere la città. Ma proprio le vicende legate al ritorno del sovrano diedero nuova linfa alla campagna di stampa anti-borbonica, che passò alla fase successiva: la demonizzazione del nemico. “Mostro coronato”, “Nerone del Sebeto”, “Tigre borbonica”, “Caligola di Napoli”, furono gli appellativi denigratori usati contro Ferdinando II. Ma soprattutto “Re Bomba” con riferimento al presunto bombardamento di Messina nel settembre del 1848. In realtà, gli fu cucito addosso già prima, quando, nel febbraio dello stesso anno, l’esercito borbonico sparò diversi colpi per spaventare gli insorti palermitani e costringerli ad arrendersi, come registrava lo storico Harold Acton. In quell’occasione non vi fu nessuna strage e i civili stessi furono messi al sicuro a Palazzo Normanno dal settimo reggimento borbonico, prima dell’operazione. Sempre Acton ci fornisce una descrizione dei fatti di Messina: i rivoltosi, durante l’assedio del 3 settembre, avrebbero aperto il fuoco contro un vapore napoletano in mare, scatenandone la risposta. Alcuni colpi finirono nei pressi del centro abitato, ma non si trattò affatto di “bombardamento borbonico”. Diverso sarebbe stato, invece, il trattamento mediatico riservato l’anno successivo a Vittorio Emanuele II durante la rivolta di Genova. Il 3 marzo del ’49, la ribellione dei genovesi al governo sabaudo sarebbe costata 500 vittime civili, ma l’evento non intaccherà l’appellativo di “Re galantuomo” gratuitamente concessogli dalla stampa europea. Una diversità di trattamento, quella riservata ai due sovrani, che, unita alla richiesta di Palmerston di cedere ai Savoia lo scettro della Sicilia, è una spia evidente delle preferenze di Londra per la monarchia sabauda. Preferenze che peseranno non poco nella storia d’Italia.
Lo stato sabaudo era la “personificazione dello stato liberale” per Palmerston, che il 21 maggio 1852 ricorda i “grandi interessi politici e commerciali che ha l’Inghilterra per la conservazione dell’indipendenza della Monarchia sarda e della sua prosperità”. Il Regno di Sardegna è lo Stato perfetto agli occhi di Palmerston e della Corona britannica: monarchia costituzionale e governo liberale, con una politica economica liberista ed una politica estera filo-britannica. Ma anche filo-francese. Il 15 agosto 1853, infatti, il duca di Guiche, inviato francese a Torino, scrive al suo Ministro degli Esteri Thouvenel che in Piemonte “il governo è parlamentare e costituzionale in apparenza, in realtà è una macchina difficile a definire ma i cui ingranaggi obbediranno sempre al ministro di Francia se questi vuole darsene la pena e fare uso delle forme”. Per i governi di Londra e Parigi, dunque, un modello da esportare in tutta la penisola italiana. Di contro, le ostilità tra Napoli e Londra crescono al punto che il Times chiede a gran voce al governo britannico di intraprendere un’azione mirata contro il Regno delle Due Sicilie, definito “un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia”, la cui politica non era più tollerabile dal governo britannico. Toni che ricordano quelli dei giornali occidentali contro gli ‘stati canaglia’ di oggi: Iraq, Afghanistan, Libia, Iran, Venezuela, Russia, Siria. Palmerston prese immediatamente la palla al balzo e si fece carico di tradurre in azione le richieste del Times, che rispecchiavano – a suo avviso – la volontà dell’opinione pubblica. Se la spedizione non ebbe luogo, fu solo per la contrarietà della Regina Vittoria, ma la sintonia e la collaborazione tra la stampa e il governo di Londra la dice lunga sulla funzionalità al potere dei mezzi di comunicazione.
Contemporaneamente alla sponda offerta alla politica di Palmerston, il giornalismo salariato tesseva le lodi dell’unica monarchia costituzionale d’Italia, contrapposta all’assolutismo dei Borboni, dei Lorena, degli Asburgo e alla teocrazia pontificia. Così la Gazzetta del Popolo del 1° gennaio 1853: “L’Inghilterra riconosce di dovere la sua grande felicità, cioè la sua ricchezza, la sua potenza, la sua moralità alle istituzioni costituzionali; resta sottinteso per contro che i paesi dispotici così miserabili, come gli stati papeschi p. es., devono al despotismo la vergognosa loro inferiorità.” In realtà, la condizione economica e sociale degli ‘stati papeschi’, cioè lo Stato Pontificio e il ‘cattolicissimo’ Regno delle Due Sicilie, poteva difficilmente essere ritenuta ‘miserabile’. A Napoli, infatti, le tasse erano basse, così come il costo della vita, l’emigrazione pressoché nulla, i poveri costituivano solamente l’1,34% della popolazione e il Tesoro era florido. Analoga la situazione dello Stato Pontificio, come testimoniato dalle Memorie documentate di Paolo Meccacci. In entrambi gli Stati, le strutture assistenziali ecclesiastiche, gli ordini monastici, le parrocchie, gli ospedali (spesso gestiti dal clero) garantivano un welfare eccellente rispetto al Piemonte, dove l’abolizione di tali strutture porterà, invece, ad una povertà generalizzata e graverà ulteriormente sul debito, già enorme, della nazione. Finanziariamente, infatti, il debito pubblico piemontese era il più alto tra gli stati preunitari: 1271,43 milioni di lire, contro i 441,22 delle Due Sicilie, che pure avevano una popolazione tripla. La goccia che fa traboccare il vaso delle finanze sardo-piemontesi è la guerra di Crimea, che porta Torino ad indebitarsi ulteriormente con i Rothschild, attraverso le banche inglesi. Il rischio di default è alto. Il deputato piemontese Pier Carlo Boggio dichiarerà che “il Piemonte non può permettersi indugi. Perché? Perché è in vista la bancarotta. La pace ora significherebbe per il Piemonte la reazione e la bancarotta”. È necessaria una guerra, che permetta di rapinare uno stato dalle finanze floride per ripagare parte del debito contratto. Le guerre d’Indipendenza saranno, quindi, guerre di rapina, che permetteranno al Piemonte di ripagare (ma solo nel 1902) il debito contratto con i Rothschild.
Nel frattempo, il 7 agosto 1855, di fronte alla Camera dei Comuni, Palmerston sferra un attacco frontale al regno borbonico, che “aveva dimostrato sfrontatamente la sua ostilità alla Francia e all’Inghilterra vietando l’esportazione di merci che il suo stato di neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a trafficare”. Una “palese violazione del diritto internazionale”, tanto più grave perché “perpetrata da un governo che si era macchiato di atti di crudeltà e di oppressione verso il suo popolo, assolutamente incompatibili con i progressi della civiltà europea”. Non importa se gli “atti di crudeltà” borbonici non siano mai stati confermati, anzi smentiti (come le lettere di Gladstone), né se fosse stata proprio Londra ad armare i rivoluzionari siciliani. Come non importerà, centocinquant’anni dopo, se Gheddafi avesse veramente bombardato manifestazioni pacifiche di suoi cittadini (fatto smentito dalle rilevazioni satellitari russe); né creato fosse comuni (le foto mostrate erano quelle del cimitero di Tripoli); né assoldato mercenari (come ammesso anche da Amnesty International). La Storia è scritta dai vincitori, con buona pace dei Gheddafi e dei Francesco II.
Il Regno delle Due Sicilie era diventato ufficialmente uno stato-canaglia e gli serviva una tirata d’orecchi. Non con un intervento ‘diretto’ di Londra, ma attraverso il Piemonte, debitore della City: una nazione indebitata non è una nazione libera. Non potendo più privatizzare nulla per ripagare parte del debito contratto, per il governo sabaudo era necessario invadere stati sovrani dal Tesoro prospero, come le Due Sicilie, lo Stato Pontificio, i granducati di Toscana, Modena, Parma. Se la sovranità della moneta è nelle mani di banche private, che la emettono a debito, la produzione di altro debito (e il conseguente moltiplicarsi degli interessi) è l’unico modo che un governo possieda per rifinanziarsi. Un circolo vizioso, che rende il debito impagabile sin dalla sua contrazione iniziale, perché il suo pagamento presuppone una quantità di denaro aggiuntiva (l’interesse) di cui lo stato non dispone. Così, come nel Mercante di Venezia di Shakespeare, il debitore che non può pagare si trova nelle mani del creditore, che può disporne come vuole. Non dovrebbe destare stupore, allora, sostenere che proprio i Rothschild, manovratori della City, furono i veri beneficiari di quella vasta operazione che verrà chiamata dai posteri Risorgimento. L’eliminazione di stati sovrani economicamente e politicamente indipendenti dagli influssi d’oltremanica e oltralpe, significò non solo l’eliminazione di potenziali nemici, ma l’estensione in tutta Italia del modello economico piemontese. Il Piemonte era, infatti, non solo l’unico stato completamente nelle mani dei banchieri inglesi, ma anche l’unico ad essersi quasi privato del tallone aureo per l’emissione della moneta. La Banca Nazionale degli Stati Sardi, creata nel 1848 e di proprietà privata, aveva una riserva aurea di 20 milioni di lire, ma emetteva tre lire di carta ogni lira d’oro. Già prima del 1861 l’oro non era più sufficiente: troppe le spese di guerra. Nel 1866 verrà quindi introdotto il corso forzoso, ma sarà l’ufficializzazione di un’abitudine ormai consolidata. Se il Piemonte avesse rispettato la propria copertura aurea, certo non avrebbe potuto disporre della liquidità necessaria per muovere guerra al resto d’Italia e, nello stesso tempo, non avrebbe potuto espandere così tanto il suo debito pubblico. Una situazione simile a quella in cui si trovano oggi gli Stati Uniti, che facendo stampare denaro-debito senza copertura aurea dalla Federal Reserve (privata), si ritrovano con il più grande debito pubblico al mondo e con un bilancio gravato dalle maggiori spese militari della storia. Un ruolo, il loro, simile a quello del Piemonte di allora nella penisola italiana, cioè di poliziotto internazionale per conto terzi.
Totalmente diverso, invece, il modello economico duosiciliano. Il Banco delle Due Sicilie, a cui era affidata l’emissione monetaria, emetteva solamente ducati d’oro e d’argento. Non vi erano banconote, ma titoli di fede emessi esclusivamente a fronte di un avvenuto deposito. A unità compiuta, infatti, dei 607,4 milioni di lire a cui equivalevano le riserve auree del neonato Regno d’Italia, ben 443,2 milioni erano rappresentati dalle riserve borboniche e solamente 27 dal Piemonte. Nelle Due Sicilie il tallone aureo andava di pari passo con una politica economica autarchica e protezionistica: la produzione dei beni era funzionale al soddisfacimento della domanda interna e solo il surplus rimanente poteva essere esportato. La popolazione godeva inoltre della rete di strutture assistenziali già nominate. Questo rendeva il Sud borbonico decisamente sgradevole all’alta finanza. Il suo progresso era lento ma sicuro, la borghesia era impegnata nell’attività commerciale ed imprenditoriale (che crea sviluppo) e non in attività finanziarie (che sottraggono ricchezza alla collettività), la politica estera lontana da mire espansionistiche. Il regime ‘costituzionale’ che gli intellettuali europei sbandieravano contro Napoli, Roma e Firenze era, quindi, la copertura ideologica di un sistema economico che garantiva a pochi (i proprietari privati degli istituti di emissione monetaria) il potere su molti (il popolo) attraverso il monarca, il governo, il parlamento e il monopolio della violenza legittima di cui questi disponevano (per conto terzi). Per parafrasare Ezra Pound, non si trattava di una guerra tra stato liberale e monarchia assoluta, ma tra monarchie legittime e usurocrazie o daneistocrazie, ossia regimi in cui il potere è esercitato dai prestatori di denaro.
Una guerra che, però, non fu mai dichiarata. Il governo sabaudo, infatti, non dichiarò mai guerra a nessuno degli stati preunitari, ma soltanto all’Austria. Nella logica di liberazione e unificazione dell’Italia, l’Austria era l’unico nemico ufficiale, perché invasore del Lombardo-Veneto. Non poteva dirsi altrettanto per gli altri stati italiani. Per il Piemonte era indispensabile, quindi, dare all’intervento militare una veste di ‘guerra di liberazione’ o ‘guerra umanitaria’ agli occhi dell’opinione pubblica europea, altrimenti l’ingresso dei soldati piemontesi in territorio straniero sarebbe parso per ciò che era: un’invasione. Le modalità con cui ciò avvenne ci vengono descritte da Filippo Curletti, un agente segreto di Cavour che, incarcerato dal conte quando non più utile, decise di vendicarsi rivelando per iscritto molti particolari scomodi sulle vicende risorgimentali. Coinvolto nei moti che portarono alla destituzione dei Lorena nel Granducato di Toscana, Curletti descrive la ‘rivoluzione’ fiorentina non come un moto popolare nato spontaneamente, bensì come un’operazione condotta da un gruppo di ottanta carabinieri travestiti da popolani, data l’indisponibilità dei fiorentini a ribellarsi ai Granduchi. Scrive Curletti: “la propaganda secreta dei Piemontesi nelle Romagne e nella Toscana cominciava a produrre i suoi frutti; tutto era pronto per una rivoluzione; i comitati che agitavano gli spiriti in questi due paesi sotto la direzione del Conte Cavour, domandavano al ministro il segnale dell’azione e qualche uomo sicuro per operare il movimento”. Una guerra sotterranea, come si può notare, fondata sulla propaganda e l’organizzazione segreta. Di fatto, i ‘ribelli’ erano armati da una potenza straniera (il Piemonte), come conferma anche l’epistolario dell’ammiraglio Persano, che scriveva a Cavour: “noi continuiamo, con massima segretezza, a sbarcare armi per la rivoluzione, a tergo delle truppe napoletane”. A Napoli come a Firenze, il metodo è lo stesso usato dieci anni prima a Palermo dagli inglesi. Tornando a Curletti, l’agente spiega come le modalità con cui si sarebbero svolti i moti furono decise a tavolino da lui e dall’ambasciatore piemontese. Gli agenti, mascherati da popolani, avrebbero formato una compagine numerosa che, al grido di “Viva l’Indipendenza! Abbasso i Lorena!”, si sarebbe diretta verso Palazzo Pitti. Mentre il clamore così suscitato riusciva a coinvolgere alcuni fiorentini, Curletti ed i suoi uomini correvano a sequestrare le casse pubbliche del Granducato: “alle 4 del pomeriggio Buoncompagni era installato nel palazzo del Sovrano presso il quale era accreditato; alla stessa ora tutte le casse pubbliche erano vuote, senza che una sola lira sia entrata nel tesoro piemontese. Quelli che non avevano potuto prendere parte al saccheggio si installarono chi alle poste chi ai ministeri. (…) Io ricevetti per mia parte dalle mani stesse di Buoncompagni una gratificazione di seimila franchi”. Si è trattato, quindi, di una vera e propria rapina, condotta da agenti cavouriani ai danni del Granducato di Toscana. Ma Firenze non è stato un caso isolato. Curletti fornisce i suoi servigi di stato in stato: Toscana, Parma, Modena, Stato Pontificio, Due Sicilie e le modalità di sovversione e rapina che descrive sono le stesse in ogni stato. Rapine che superano i limiti della decenza se ci si attiene a quanto Curletti testimonia relativamente al ducato di Modena. Qui il plenipotenziario sabaudo La Farina, che aveva sostituito il duca, avrebbe ordinato all’uomo fidato di Cavour di raccogliere tutto l’oro e l’argento del duca e di farlo fondere. Ma non prima di aver scritto un articolo sul quotidiano locale in cui dichiarava che il duca si era portato via tutto, in modo che nessuno si chiedesse che fine avessero fatto i preziosi della nobile famiglia. L’oro e l’argento, assunta una nuova forma, non sarebbero più stati esigibili da parte dei duchi ad un loro eventuale ritorno. Non paghi di ciò, lo stesso Curletti, insieme ad altri, si è reso autore di vere e proprie estorsioni. Usufruendo del nuovo ruolo di tutore dell’ordine pubblico, aveva il dovere di stilare una lista di proscrizione di tutti i fedelissimi del duca. Tra questi vi erano sempre (casualmente?) i personaggi più ricchi della città, ai quali venivano estorte laute somme di denaro in cambio della cancellazione dalla lista (che li avrebbe salvati dall’arresto o dalla confisca dei beni). Vere e proprie azioni banditesche, che trovano paragone solo con quelle di…Giuseppe Garibaldi. Non si può parlare di Risorgimento, infatti, senza citare il Generale dei Mille.
Garibaldi veniva trattato dalla stampa inglese come un vero e proprio idolo: un’icona della libertà dei popoli. The Time lo elogiava come eroe senza macchia e senza paura e la Marina britannica in diverse occasioni si prodigò a suo favore. Come quando, nel 1841, gli fu salvata la vita dal commodoro Pulvis alle foci del River Plate. O quando la flotta britannica intervenne per salvarlo dalle grinfie degli argentini. O a Capo Matapàn, dove un veliero britannico agganciò il suo barcone, ormai privo di viveri e senza timone, dopo un assalto dei pirati berberi. Insomma, ogni volta che l’eroe dei due mondi rischiava la vita, c’era una nave battente bandiera britannica pronta a salvarlo. Sarebbe troppo scontato chiedersi: per chi lavorava Garibaldi? Forse la risposta ce la può dare lo storico Giulio di Vita, che ci porta a conoscenza dei tre milioni di franchi francesi donati dalla corona britannica a Garibaldi e ai suoi uomini, poi convertiti in piastre d’oro turche: la moneta usata all’epoca per le transazioni finanziarie nel mediterraneo. A cosa servivano quei soldi? Proviamo a rispondere con un’altra cifra: 2.300. È il numero di generali borbonici che, dopo la caduta delle Due Sicilie, hanno trovato una collocazione di pari ordine e grado all’interno dell’esercito piemontese. Tra questi c’è anche Guglielmo Acton, comandante della corvetta Stromboli. Acton era di guardia alla costa siciliana quell’11 maggio 1860 in cui i garibaldini sbarcarono a Marsala, protetti dalle cannoniere britanniche Argus e Intrepid. Delle quattro navi duosiciliane, solo lo Stromboli e il Capri (guidato da Marino Caracciolo) si accorsero della presenza del Piemonte e del Lombardo, le due navi di Garibaldi. Cosa fecero? Attesero pazientemente che le navi fossero vuote per poi cannoneggiarle, quando ormai non si correva più il rischio di fermare lo sbarco. Ma tra di essi c’è anche il generale Ferdinando Lanza, che avrebbe dovuto difendere Palermo dall’attacco garibaldino. Invece le porte resteranno sguarnite, lasciando via libera ai 3.000 uomini di Garibaldi (i Mille, più 2.000 ‘picciotti’), mentre i 24.000 soldati agli ordini di Lanza resteranno nel Palazzo Reale. Non contento, Lanza consegnerà nelle mani di Garibaldi le casse del Regio Banco di Sicilia. Casse piene d’oro, dato che giusto l’anno prima i pavimenti dell’edificio erano stati rafforzati appositamente per evitare crolli, a causa dell’eccessivo peso delle riserve. Una rapina in grande stile: 5 milioni 444 ducati e 30 grani, l’equivalente di circa 86 milioni di euro di oggi. Quell’appropriazione indebita, messa agli atti anche dall’ammiraglio inglese Mundy, che sorvegliava le coste sicule a sostegno di Garibaldi, sarà il primo atto della spoliazione del Sud, come vedremo più avanti. Altrettanto sciagurato sarà il tradimento del generale Landi, che guidava le truppe borboniche a Calatafimi. In quell’occasione, Landi ordinò la ritirata ai suoi 3.000 uomini, nello stupore generale, cedendo la vittoria senza combattere a mille uomini male armati. L’atto di disonore era stato comprato con un titolo di fede di 14.000 ducati, pari a 224mila euro di oggi, ricevuto personalmente da Garibaldi. Quei soldi però non li vedrà mai: il titolo di fede era taroccato e di ducati ne valeva solo 14. Il Regno delle Due Sicilie cadeva per una tangente mai incassata.
Ora forse ci è più chiaro a cosa servissero i tre milioni di franchi francesi convertiti in piastre d’oro turche donate dagli inglesi a Garibaldi. Al suo fianco, Nino Bixio aveva il compito di tenere i contatti con il nemico, per individuare quanti fossero pronti a vendere la propria fedeltà per qualche gruzzolo d’oro. Non solo gli inglesi, attraverso i mercenari garibaldini, si prodigarono nella corruzione. Nell’ottobre 1882, Pietro Borelli scriverà sulla Deutsche Rundschau: “gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione in Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l’isola e compravano a prezzo d’oro le persone più influenti”. Infatti, l’ammiraglio Persano riporterà nei suoi diari: “possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della marina regia napoletana”. Il modo migliore per vincere contro la seconda flotta militare d’Europa era comprarne i vertici. Con buona pace di quei soldati e marinai che, ricordando la fedeltà giurata al loro sovrano, rifiutarono di combattere contro i propri connazionali: furono fucilati su esplicito ordine di Cavour, sebbene le leggi sabaude non prevedessero la pena di morte per diserzione.
Ma ci furono anche morti eccellenti. Come quella del garibaldino Ippolito Nievo, affondato, il 4 marzo 1861, insieme al piroscafo Ercole che lo stava trasportando in Sicilia. La sua morte fu subito sospetta: la perdita di contatto del piroscafo con la nave che lo precedeva, il ritardo nei soccorsi, il fatto di essere stato l’unico battello che solcava il Tirreno verso la Sicilia ad affondare. Elementi che puzzano. Soprattutto perché Nievo era Vice Intendente e, come tale, responsabile dell’amministrazione del corpo di spedizione garibaldino. A causa delle critiche malevole nei suoi confronti, fu costretto a redarre un rendiconto meticoloso e dettagliato delle spese sostenute, per difendersi dalle accuse di malagestione o corruzione. Dal documento, sarebbero facilmente emersi i contributi inglesi e piemontesi alla spedizione dei Mille, le tangenti pagate ai generali e funzionari borbonici, i soldi sottratti alle popolazioni meridionali come “spese di guerra” (e mai rimborsati). Tra i compiti dell’Intendenza, infatti, vi era proprio la gestione delle piastre d’oro turche pagate da Londra a Garibaldi. Ma un incendio nelle caldaie dell’Ercole ha trascinato i documenti segreti nel Tirreno.
L’opera di corruzione che abbiamo descritto, però, difficilmente avrebbe potuto, da sola, far crollare il Regno delle Due Sicilie. Serviva un’organizzazione capillare, segreta e parallela alle vie di comunicazione ufficiali. La vedova Whitaker ci informa nei suoi diari delle riunioni che si tenevano nei salotti (anche inglesi) della Sicilia. Come quelle durante le feste settimanali di Pietro Riso, in cui si incontravano i nobili filo-inglesi: al primo piano si ballava e si festeggiava, per deviare l’attenzione, mentre al piano superiore si organizzavano azioni anti-governative. Ma sono le logge massoniche e, più in generale, le società segrete ad avere la migliore struttura di infiltrazione. Molti esponenti del Risorgimento, a partire da Garibaldi e Cavour, ne erano affiliati. “L’unità massonica trarrà a sé l’unità politica d’Italia”, diceva Garibaldi, che si era iscritto alla loggia Asile de la Vertu di Montevideo e nel 1864 divenne anche Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. Una carica ricoperta oggi da Giuliano di Bernardo, che, in un’intervista al Corriere delle Alpi del 16 marzo 2011, ricordava come l’Unità d’Italia sarebbe stata “impossibile senza la Massoneria”, proprio per la capacità di collegamento operativo tra le logge. La fedeltà al Re era quindi messa da parte per una fedeltà più elevata: la fedeltà al Maestro. Quel Maestro era probabilmente Lord Palmerston, primo ministro inglese ma soprattutto fondatore dell’Ordine Reale di Sion, a cui facevano capo (presumibilmente) le logge massoniche italiane e le vendite carbonare. Se le prime erano state represse su volontà di Ferdinando II nel periodo dal 1825 al 1832 e costrette a sopravvivere in segreto, le seconde avevano in passato mostrato fedeltà ai Borboni. Durante la Repubblica Partenopea, infatti, il loro ruolo fu determinante nel 1813-14, quando furono alla base di sollevazioni filo-borboniche in Calabria ed Abruzzo. Ma la fedeltà a Londra era più vincolante. Gli 800mila affiliati alla Carboneria nelle Due Sicilie scelsero, con molta probabilità, di tradire la monarchia e forse fu questo a decretarne la fine. L’organizzazione delle società segrete e delle logge era tale da garantire una sovversione interna, comprando, delegittimando o uccidendo chi ostacolava i loro piani. Il loro progetto è contenuto nell’Istruzione permanente del 1818, redatta dall’Alta Vendita, la direzione strategica della Carboneria. L’azione di propaganda non dissimile da quella, già mostrata, della stampa d’oltremanica. Infatti: “schiacciate il nemico, quando è potente, a forza di maldicenze e di calunnie; […] una parola può, qualche volta, uccidere un uomo […]. Come l’Inghilterra e la Francia, così l’Italia non mancherà mai di penne che sappiano dire bugie utili per la buona causa. Con un giornale in mano, il popolo non avrà bisogno di altre prove”.
Dalle calunnie era necessario, però, passare ai fatti. Alcuni fatti emblematici avvennero nelle Due Sicilie prima dell’aggressione dei mercenari garibaldini. Uno di questi è l’insubordinazione di due dei quattro reggimenti svizzeri, che costituivano la guardia scelta del re, il 7 luglio 1859. “Nelle loro tasche tintinnava più denaro del solito”, scriverà il Barone von Hubner, ambasciatore austriaco a Napoli. Mentre Brenier, suo omologo francese, sarà ancora più chiaro, descrivendo l’ammutinamento come un “sommovimento concordato da ambienti ultra-liberali, che avevano distribuito ai soldati svizzeri ben 100mila franchi svizzeri in oro”. Se la corruzione aveva raggiunto persino la guardia scelta del re, non c’era più scampo per la monarchia di Napoli. Alessandro Nunziante, braccio destro del sovrano, suggerirà il congedo per i soldati svizzeri. Ma questa scelta contribuirà a lasciare Napoli sguarnita all’arrivo del nemico. Ovviamente, ritroveremo Nunziante tra i piemontesi. Cruciale fu anche la tentata uccisione di Salvatore Maniscalco, il capo della polizia borbonica a Palermo, accoltellato sugli scalini della cattedrale. Siniscalco era l’uomo giusto al posto giusto: aveva informatori in tutta la città, che gli permettevano di essere al corrente di ogni crimine commesso in città, ed avrebbe facilmente scoperto in anticipo i tentativi di corruzione degli alti ranghi dell’esercito. Le ferite lo costrinsero a dodici mesi di convalescenza, che gli impedirono d’interferire con l’invasione garibaldina. Ad accoltellarlo fu il pregiudicato Vito Farina, detto Farinella, per seicento ducati d’oro: sarà il primo esempio di alleanza tra la Mafia siciliana e la finanza anglosassone. Ma non fu l’unico tentativo di omicidio politico. Il più importante era stato compiuto tre anni prima ai danni dello stesso Ferdinando II, durante la processione dell’8 dicembre. Contro di lui si scagliò Agesilao Milano, un soldato regio di origine albanese, che lo colpì con una baionetta. Non fu grave e la ferita si rimarginò, ma è curioso quanto successe dopo. Il re infatti avrebbe perdonato Milano, tanto che, durante la medicazione della ferita, avrebbe criticato il medico che aveva definito “infame” l’attentatore: «non si deve dir male del prossimo; io ti ho chiamato per osservare la ferita e non per giudicare il misfatto; Iddio lo ha giudicato, io l’ho perdonato. E basta così». Se Ferdinando aveva perdonato il Milano, perché farlo giustiziare, come avvenne pochi giorni dopo? Secondo quanto riporta il Mencacci, contemporaneo agli accadimenti, nella sua Storia della Rivoluzione Italiana, il Milano avrebbe volentieri cantato come un uccellino per evitare la pena capitale ed era pronto a fare i nomi degli affiliati che l’avevano spinto ad agire e che circondavano il sovrano stesso. Meglio, quindi, processarlo subito per direttissima, con la scusa di voler salvaguardare la vita del re. Nel frattempo, le accuse ricadranno su Cavour, che negherà di essere il mandante del tentato regicidio, ma istituirà un fondo per la famiglia di Milano, che sarà riconfermato da Garibaldi al suo arrivo a Napoli. Casi come quelli di Agesilao Milano e Salvatore Maniscalco non accaddero solo nelle Due Sicilie. Il 26 marzo 1854 il Duca di Parma, Carlo III, era stato accoltellato in strada da uno sconosciuto. Non di poco rilievo il fatto che Parma fosse uno dei centri più importanti della Carboneria riformata. Il 4 marzo, tre settimane prima, era toccata la stessa sorte al sovrintendente alla direzione della pubblica sicurezza. Due settimane prima, la città era stata teatro di un altro attentato, questa volta fallito, ai danni del colonnello Anviti, comandante delle truppe ducali. Poco dopo verrà ucciso però l’ispettore Borgi, che dirigeva le investigazioni sull’attentato ad Anviti. Quale mano dietro questa scia di sangue? Leo Zagami, nelle sue Confessioni di un Illuminato, pubblica una ricevuta che attesta il finanziamento britannico alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Soldi che servivano a finanziare insurrezioni, ma anche omicidi politici. Mazzini era infatti alla guida del Comitato Centrale Democratico Europeo, di cui facevano parte Adriano Lemmi, Lajos Kossuth, Ledru Rollin, Felice Orsini, Alexander Herzen, Michele Bakunin. Di questi, mi limito a ricordare l’Orsini, che il 14 gennaio 1858 tentò di assassinare Napoleone III scagliando una bomba contro la sua carrozza: il regicidio fallì, ma ci furono 12 morti e 156 feriti. Mazzini aveva organizzato anche un altro attentato contro Luigi Napoleone, il 28 aprile del ’55. L’attentatore, Giovanni Pianori Faenza, mancò l’obiettivo, ma anche in quell’occasione i finanziamenti per l’attentato venivano da Londra, con l’intento di spingere Napoleone ad assumere una posizione più decisa sulla questione italiana.
Ritorniamo ora al Sud, per affrontare una questione che potrebbe lasciare di stucco più di qualcuno. Poco sopra, abbiamo descritto le rapine effettuate da Garibaldi ai danni del Regio Banco di Sicilia, analoghe a quelle di Curletti a Firenze, Parma, Modena e in altre città. Le appropriazioni indebite di Garibaldi provocarono non pochi danni al Banco delle Due Sicilie, che si ritrovò, ad unificazione compiuta, quasi privo di riserve auree o argentee con cui concedere prestiti. Situazione aggravata dal comportamento del neonato governo unitario. L’istituto, infatti, che era l’unico deputato all’emissione monetaria nel regno borbonico, non solo fu scisso in due istituti diversi (Banco di Napoli e Banco di Sicilia), ma gli fu esplicitamente proibito di ritirare dalla circolazione i ducati d’oro e d’argento duosiciliani, che costituivano oltre il 65% della moneta circolante nella penisola. A provvedere ad un loro graduale ritiro ci pensò la Banca Nazionale degli Stati Sardi (poi Banca Nazionale del Regno d’Italia) insieme ad altri istituti di credito nati ad hoc: il Banco di Sconto e Sete (creato nel 1863 attraverso fondi Rothschild), il Credito Mobiliare di Torino, la Cassa di Sconto di Torino e la Cassa Generale di Genova. Insieme, le quattro banche costituirono una cordata guidata da Carlo Bombrini, amico di Cavour e direttore della banca centrale sabauda, che le utilizzerà per spostare al Nord le commesse imprenditoriali meridionali. In pratica, le uniche due banche meridionali si trovarono impossibilitate a fornire credito nel Meridione, non potendo ritirare le monete d’oro e d’argento da loro stesse emesse, che sarebbero servite come garanzia per i prestiti. Tutte le monete borboniche furono invece ritirate da banche settentrionali, fondate proprio negli anni dell’unificazione, che le usarono come garanzia per concedere prestiti ad imprenditori settentrionali. Un perfetto esempio di capitalismo di rapina, che rispondeva ad un piano di spoliazione e spartizione progettato sin nei minimi dettagli. “I napolitani non dovranno essere mai più in grado di intraprendere”, scrisse Bombrini. E così fu. Tra i beneficiari di questo sciacallaggio, ci fu anche Francesco Cirio, che grazie ai finanziamenti del Credito Mobiliare di Torino diede vita alla prima industria conserviera italiana. Cirio approfitterà dell’impossibilità per le imprese meridionali di usufruire dei prodotti della loro terra per creare un giro d’affari che lo porterà ad ottenere dapprima concessioni ferroviarie agevolate per il trasporto di alimenti all’estero (grazie alla legge Cirio del 1885) e poi addirittura una posizione di monopolio sulla Società Ferroviaria dell’Alta Italia. Contratti agevolati proprio dal Bombrini, che attraverso la cordata bancaria di cui sopra riuscirà ad ottenere almeno tredici concessioni ferroviarie. Un’operazione non da poco se si pensa che il suo stesso amico Cavour era azionista della Società Anonima Molini Anglo-Americani e non poteva non nutrire interesse nell’esportazione del grano tramite via ferrata. Un conflitto d’interessi notevole, che si aggiunge al suo comportamento durante la crisi granaria del 1853. In quell’occasione, mentre l’autarchia borbonica impediva l’esportazione di grano per assicurare il cibo a tutti i cittadini, il Piemonte liberista la favoriva apertamente, mettendo il profitto del primo ministro davanti al sostentamento del popolo.
“Ai napoletani non rimarranno nemmeno gli occhi per piangere”, furono le ultime parole di Francesco II, che resse il trono di Napoli dopo la morte del padre Ferdinando. Profetiche o forse consapevoli di quanto sarebbe accaduto al suo regno. Come consapevoli ne erano, probabilmente, i veneti che, nel 1866, si sarebbero opposti all’invasione sabauda. Contrariamente alla vulgata della storiografia ufficiale, l’esercito ‘asburgico’ si chiamava Austro-Veneto e vide i veneti combattere a difesa degli Asburgo contro i ‘tajani. Come a Lissa, nell’alto Adriatico, quando il 20 luglio 1866 la Imperial Veneta Marina sconfiggerà la Regia Marina italiana. La nave ammiraglia Re d’Italia verrà rovinosamente affondata dalla Ferdinand Max, grazie al capotimoniere Vincenzo Vianello di Pellestrina, incitato così dall’ammiraglio Tegetthoff: “Daghe dosso, Nino, che la ciapèmo!”. Gli equipaggi erano infatti veneti, parlavano veneto e festeggiarono quella vittoria urlando “Viva San Marco!”. Come si può, dunque, parlare di ‘guerra d’indipendenza’ e non di ‘guerra d’invasione’? I libri di storia non spiegheranno mai, infatti, come avrebbe potuto una nazione priva di sbocchi al mare come l’Austria sconfiggere l’Italia in campo marittimo: ma la memoria storica è scritta sulla sabbia, lo spirito critico una moda d’altri tempi. Proprio per abbracciare passato e presente in unico sguardo, concludiamo questo lungo articolo sulla Rivoluzione Italiana, facendo nostre le parole di Curletti: “quella che io espongo è la storia di tutte le rivoluzioni. Esse sono quasi sempre l’opera di qualche uomo a cui due o tre funzionari comprati aprono le porte e di cui il popolo, per lo più indifferente alle questioni che si agitano, diventa il complice senza saperlo, prestando loro, per curiosità o per desiderio di rumore, il soccorso imponente delle sue masse”.
EVVIVA IL REVISIONISMO: ECCO TUTTE LE BUGIE SULL'UNITA' D'ITALIA.
Le bugie sull’Unità d’Italia: ecco i libri verità sulla violenta conquista del Sud, scrive "Time Sicilia". Da Domenico Bonvegna riceviamo e pubblichiamo questo interessantissimo articolo in cui si parla di storici, scrittori, giornalisti, che hanno avuto il merito di rompere quel muro ideologico, di omertà e di silenzio sulla conquista del Sud.
Il libro di Vito Tanzi, “Italica. Costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia”, Grantorinolibri (2012) oltre ai temi economici e finanziari della conquista del Regno delle Due Sicilie, racconta anche come è stata conquistato e poi annesso. Con la caduta del Muro e delle ideologie, c’è stata una ventata di sano revisionismo che ha toccato anche gli anni e il periodo dell’unificazione del nostro Paese. Così a partire dagli anni 90 sono stati pubblicati ottimi e ben documentati testi che finalmente hanno scritto la verità su come è stata fatta l’unificazione del Paese. Poi è arrivato il 150° anniversario dell’unità d’Italia, ci si aspettava che finalmente non si raccontasse più la solita vulgata risorgimentista, invece la cultura e la storiografia ufficiale, ha continuato a narrare edulcorando i fatti e i personaggi del cosiddetto Risorgimento. Ci ha pensato Alleanza Cattolica, organizzando una serie di convegni in Italia, dal titolo significativo: “Unità si, Risorgimento no”, per raccontare la Verità, senza inseguire sterili nostalgie di epoche passate. Da questi incontri poi è scaturito e pubblicato un volume: “1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?”. E’ utile ribadire che nessuno vuole incensare il passato borbonico e tantomeno restaurarlo. Come ogni epoca storica, va criticata calandosi in quella realtà, ormai i documenti e le numerose fonti hanno evidenziato lo stato di salute di cui godeva il Regno borbonico nel 1860, ma non tutto era rose e fiori, certamente c’erano anche tante cose che non funzionavano, soprattutto al tempo del giovane Francesco II. Del resto come si fa a conquistare in poco tempo un Regno senza quasi mai combattere, tranne l’ultimo sussulto di Gaeta? I tradimenti dei generali borbonici che si sono venduti a Vittorio Emanuele, la corruzione della burocrazia e della nobiltà, i vari galantuomini latifondisti soprattutto in Sicilia, tutti tramavano e hanno contribuito a mandare via il giovane re napoletano.
Alcuni libri che hanno smascherato la vulgata risorgimentale. A questo punto è opportuno fare qualche nome degli storici, scrittori, giornalisti, che hanno avuto il merito di rompere quel muro ideologico, di omertà e di silenzio sulla conquista del Sud.
Uno dei primi è stato negli anni 70, Carlo Alianello, con il suo “La Conquista del Sud”, io possiedo l’edizione del 1970, pubblicata dal coraggioso editore Rusconi. Poi ci sono stati altri libri, alcuni di questi dopo averli letti, li ho presentatati nelle mie collaborazioni.
Tra questi, l’ottimo testo di Patrick Keyes O’Clery, “La Rivoluzione Italiana”, ristampato nel 2000, dalla battagliera Edizioni Ares. Forse è il testo più completo che conosco sul tema. Angela Pellicciari, con “Risorgimento da riscrivere”. Lorenzo Del Boca, con i suoi “Maledetti Savoia”, e “Indietro Savoia”; Fulvio Izzo, “I Lager dei Savoia”; Giordano Bruno Guerri, con “Il sangue del Sud”; Arrigo Petacco, “La Regina del sud”, e poi Silvio Vitale, con la sua mitica rivista de “l’Alfiere” di Napoli, il prof. Tommaso Romano, direttore della gloriosa Edizioni Thule, ricordo i suoi ottimi testi di sano revisionismo: “Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere”, e “Contro la Rivoluzione la fedeltà”, opera omnia sul marchese Vincenzo Mortillaro. Nonché l’agile volumetto su “La beata Maria Cristina di Savoia, Regina delle Due Sicilie (1812-1836).
Inoltre il sacerdote don Bruno Lima, con “Due Sicilie. 1860.L’invasione”, Massimo Viglione con “Le Due Italie”. Infine Francesco Pappalardo, con “Il mito di Garibaldi” e “Dal banditismo al brigantaggio”, pubblicato da D’Ettoris Editori di Crotone. Per ultimo, Pino Aprile con il suo “Terroni”, che forse ha avuto il merito di divulgare e rendere più “attuale”, la brutalità e l’aggressione al Regno napoletano. Naturalmente si potrebbe continuare e fare altri nomi, magari quelli che il professor Tanzi cita nel suo libro “Italica”, sgretola alcuni luoghi comuni del Risorgimento.
Ritornando a “Italica”, anche Tanzi sgretola alcuni luoghi comuni sul Risorgimento, sulla cosidetta “Italia morale” e “Italia reale”, l’idea di una nazione italiana era esistita, ma nelle menti di pochi “patrioti”, “sarebbe difficile definire il Risorgimento come un movimento popolare o di massa. Era e rimase un movimento di èlite…”. Tanzi fa notare che i cosiddetti “quattro giganti del processo risorgimentale”, cioè Cavour, Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele, “forse non a caso, nacquero in un angolo relativamente piccolo del vecchio territorio della penisola italiana, il triangolo di Torino, Genova, e Nizza”. Forse solo Napoleone III conosceva il Sud dell’Italia meglio dei quattro giganti”. Cavour non era mai stato a Sud di Pisa, e non aveva mai espresso particolare interesse a visitare o anche conoscere il Mezzogiorno. “Quella parte dell’Italia semplicemente non lo interessava,- scrive Tanzi – forse perchè non era un’area che lui associava con il futuro e con l’idea di progresso, sia economico che politico e sociale, come lo erano Francia ed Inghilterra”. A questo punto non si comprende perché ancora bisogna tenersi vie e piazze per ricordarlo e venerarlo come un santo.
Peraltro questa elite risorgimentista, rimase tra loro divisa, tra repubblicani e monarchici. Per il popolo comune, l’idea di una nazione italiana, e di un governo nazionale italiano, era, e rimase per molto tempo, un concetto astratto. Gli italiani conoscevano ed avevano come loro punto di riferimento i loro re, specialmente, gli abitanti del regno più grande di allora, quello di Napoli. “La nazione creata nel 1861, era una nazione la cui amministrazione statale…sarebbe stata presto aspramente criticata da buona parte delle proprie stesse elite politiche, a causa del suo centralismo”.
Una Confederazione di Stati, la soluzione migliore. Nel libro Tanzi critica l’unità forzata del popolo italiano, bisognava rispettare, almeno nella fase iniziale, “le grandi differenze culturali, economiche, e storiche che esistevano nelle varie regioni, e specialmente tra il Regno di Napoli e delle Due Sicilie, da un lato, ed il regno di Sardegna, dall’altro”. Lo aveva scritto nel 1848, il siciliano Francesco Ferrara, il più importante economista italiano di quel periodo. “Ferrara avvertiva anche sul pericolo che la libertà sarebbe stata perduta se il disegno piemontese di unificare l’Italia fosse andato a termine”. L’indipendenza dallo straniero si sarebbe potuto ottenere anche senza l’unificazione. Con una “confederazione” degli stati esistenti, come aveva immaginato Metternich e perfino lo stesso Cavour. C’era l’esempio tedesco, e della vicina Svizzera. Comunque sia anche Tanzi ci tiene a dire che ama l’Italia ed è orgoglioso di essere italiano e non intende mettere “in questione il merito della creazione di una nazione italiana e di uno stato chiamato Italia, ma il modo in cui quel progetto fu portato a termine. C’erano altre strade, oltre a quella che fu presa, che, forse con più tempo, potevano portare ad una simile destinazione, ed ad un costo più basso, in termini sociali ed economici. Sapendo ciò che sappiamo ora, è possibile sostenere che alcuni errori, con enormi conseguenze future, furono fatti e che almeno alcuni di questi errori potevano essere stati evitati”.
Annessione del Mezzogiorno, Unificazione, Brigantaggio. Anche se il libro di Tanzi non intende sviluppare e descrivere gli aspetti e le azioni più o meno eroici del periodo risorgimentale, lui scrive che lo hanno fatto benissimo altri libri e non sarebbe utile ripetere quello che già si sa. Aggiungo, c’è un altro aspetto che non viene toccato, è la guerra che la rivoluzione risorgimentista ha scatenato alla Chiesa e alla comune identità cattolica del Paese. Tuttavia il libro di Tanzi offre interessanti spunti per la discussione, in particolare, sugli errori commessi e sulle enormi conseguenze future che hanno avuto soprattutto per il Mezzogiorno d’Italia. Dopo l’invasione del Regno di Napoli e delle Due Sicilie nel 1860 da Garibaldi prima, e dalle forze piemontesi dopo, si scatenò il cosiddetto “brigantaggio”, una “opposizione di massa, che sorprese i ‘liberatori’ del Nord che avevano pensato di essere ricevuti come eroi liberatori, solleva molte questioni scomode sulla legittimità della conquista del Regno di Napoli…”. L’invasione fu un vero atto di pirateria, anche perché il Piemonte aveva avuto relazioni diplomatiche con il Regno di Napoli; i due sovrani erano perfino cugini. Tra l’altro l’atto di conquista del Regno dei piemontesi non era stato gradito da molti stati europei. Per questo motivo, diventò politicamente corretto, per le autorità del nuovo Regno d’Italia, definire “brigantaggio” qualunque opposizione armata contro il nuovo regno e la nuova “patria” italiana, e considerare tutti i meridionali dei comuni criminali, dei “briganti”. Infatti a Torino, avevano appreso la lezione dai cugini francesi della Rivoluzione giacobina del 1789, che considerava “cittadini” i rivoluzionari, mentre chi si opponeva come i vandeani, dei “briganti” da eliminare in tutti i modi.
Certo i fenomeni criminali erano sempre esistiti al Sud, ma adesso, con l’occupazione militare piemontese, assunsero dimensioni straordinarie, causati, secondo Tanzi, da diversi fattori. Certamente per motivi politici contro le nuove autorità, che avevano sostituito spesso in maniera arbitrario e violento, le istituzioni del governo borbonico. Un altro motivo, è stato quello delle promesse non mantenute, in particolare, la non distribuzione delle terre ai contadini. Infine per le forti tasse introdotte che colpirono in particolare il Sud che non era abituato rispetto al Nord. Soprattutto nel V° capitolo (Annessione del Mezzogiorno, Unificazione, e Brigantaggio) il professor Tanzi racconta tutto con obiettività, per esempio, sulla famiglia borbonica, il giovane re “Francischiello”, figlio di Maria Cristina di Savoia, “la Santa”. L’impresa dei mille di Garibaldi, finanziata da massoni italiani e stranieri (principalmente inglesi) non aveva nessuna legittimità legale o politica, assomigliava molto a un atto di banditismo, favorito naturalmente dai tradimenti degli alti ufficiali borbonici. Praticamente la fine del Regno di Napoli per Tanzi assomiglia molto al crollo dell’Unione Sovietica, un impero che si sfasciò quasi all’improvviso e quasi per miracolo. Infine anche per Tanzi, il nuovo Regno Italico, ha combattuto una vera guerra con un esercito di ben 120 mila uomini che contro i cosiddetti “briganti” del Sud. Paolo Mieli, storico e giornalista, con obiettività, poteva scrivere: “il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che sconvolse l’intero Sud. Gli sconfitti lasciarono le loro terre e alimentarono la gigantesca emigrazione verso l’America”. Anche per il professor Tanzi si trattò di una guerra civile, peraltro simile a quella americana. Potremmo continuare, lo faremo, studiare la nostra Storia ci aiuterà a capire anche il nostro presente. Domenico Bonvegna
A PONTELANDOLFO E CASALDUNI I NAZISTI? NO I SAVOIARDI, scrive "Altaterradilavoro". Ormai il fiume carsico della nostra storia è emerso e si sta ingrossando in maniera esponenziale e più i media, gli storici, i giornalisti, i politici e studiosi salariati hanno cominciato a parlarne in modo distorto e a offendere di nuovo Napoli e più vuol dire che non ci sarà diga che potrà contenerlo. Di seguito vi invito a vedere un bellissimo documentario su la strage di Pontelandolfo e Casalduni realizzato da Carmine Somma con l’intervento di Roberto Della Rocca che abbiamo fatto vedere alle scuole e che ha lasciato i ragazzi senza parole.
La deportazione dei Siciliani nelle piantagioni della Louisiana: un altro regalo dell’Italia Unita, scrive "Time Sicilia". Storia vera e terribile tra Sicilia e America di Enrico Deaglio (Sellerio) è un libro prezioso. Non solo perché racconta la storia poco conosciuta di cinque Cefaludesi barbaramente uccisi in Louisiana (impiccati da una folla inferocita e tormentati anche dopo la morte) ma perché ricostruisce passaggi importanti della storia Siciliana all’indomani del Regno d’Italia soffermandosi su aspetti particolari che non leggeremo mai sui libri d storia, come gli accordi e le truffe che sancirono la deportazione di tantissimi siciliani verso la Louisiana o il Missisipi. Ad attenderli c’erano le piantagioni di zucchero, le umiliazioni, i linciaggi, la miseria, in una parola, la schiavitù: “Avvenuta senza fanfare e poco compresa, allora come oggi, quella siciliana verso la Louisiana o il Mississipi fu una deportazione di esseri umani concepita tra governi allo scopo di realizzare uno dei più foschi progetti dell’era moderna”. Un libro imperdibile.
Controstoria dell’impresa dei Mille: Da Quarto a Messina, scrive "Time Sicilia". Oggi iniziamo a pubblicare la Controstoria dell’impresa dei Mille. Si tratta di un’inchiesta in nove puntate che ripercorre la storia di questa volgare sceneggiata che solo la storiografia ufficiale italiana – nota per le ricostruzioni storiche fasulle – poteva trasformare in un’impresa ‘epica’. Ripercorreremo le tappe raccontate da Cesare Abba nel libro “Da Quarto a Volturno”. Ma lo faremo raccontando la verità: ovvero i tradimenti organizzati dagli inglesi e dai piemontesi ai danni del Regno delle due Sicilie. Naturalmente in collaborazione con il blog I nuovi Vespri. Buona lettura
Cronaca dell’8 maggio 1860. Se Titti, il canarino stizzosissimo dei cartoni di Tom e Jerry, potesse leggere la vera storia dell’impresa dei Mille che cosa direbbe? Semplice: “Mi è semblato di vedele un altlo gatto!”, non quello stampato nei libri di storia risorgimentale, scritti dai vincitori. E non farebbe come quei disperati che, a Marsala, il 4 maggio scorso, si sono riuniti per festeggiare un evento tragico per noi siciliani, la partenza da Quarto di Garibaldi e dei Mille. Ebbene, poiché quasi tutti i siciliani hanno studiato la storia del Risorgimento nei libri ufficiali, con il risultato che arriviamo a festeggiare un colossale autogol, abbiamo deciso di scrivere un contro diario di quell’epopea, da Marsala a Messina, utilizzando un libro scritto da un perfetto cretino che non capì nulla di quello che succedeva attorno a lui, Cesare Abba, e qualche documento storico che la dice la verità, eccome se la dice! Preparatevi. L’8 maggio e le due navi – capitanate da Garibaldi (del quale potete leggere qui una veloce ma efficace biografia che lo dipinge per quello che è: un brigante di passo!) il Piemonte e il Lombardo, con a bordo “i liberatori”, dopo tre giorni di navigazione, sono giunte nel porto di Talamone.
Cronostoria dell’Impresa dei Mille. Si comincia con il tradimento del brigadiere Francesco Cossovich, scrive "Time Sicilia". Ne avete sentito parlare? I libri di storia del nostro Paese nascondono questo personaggio da oltre 150 anni. Ma, ve lo giuriamo: Francesco Cossovich è esistito. Ed ha svolto un ruolo essenziale: è il primo traditore del Regno delle due Sicilie. E’ il militare che darà alle navi di Garibaldi il vantaggio necessario per arrivare senza problemi in Sicilia. Il suo tradimento verrà ricompensato con l’adesione alla marina italiana. Il suo sarà il primo di una lunga serie di tradimenti. Oggi seconda puntata della Controstoria dell’Impresa dei Mille che vi stiamo raccontando in collaborazione con il blog I Nuovi Vespri.
“Non una vela all’orizzonte”. 9 Maggio 1860. “Nessuna vela sull’orizzonte”, 10 maggio. Così scrive Cesare Abba. Le due navi, il Piemonte e il Lombardo, hanno dunque lasciato Talamone e si si sono messe “per l’alto mare aperto”. Il viaggio è tranquillo, sono soli. Soli? In quei due giorni il mare tra la Sardegna e la Sicilia è più trafficato di un autostrada che porta ai laghi la domenica mattina. O meglio, è in corso una gigantesca partita a scacchi. Cavour si è inventato che in Sicilia corrono voci di maltrattanti a sudditi piemontesi e ha inviato la pirocorvetta Governolo, che è diretta a Palermo. Nel mare di Sardegna incrociano altre due navi da guerra, la Authion e la Malfatano, nonché, ad abundantiam, tra Cagliari e Palermo, tre pirofregate, la Maria Adelaide, la Vittorio Emanuele e la Carlo Alberto. E poi ci sono gli inglesi, ovviamente. In rada a Napoli c’è l’Hannibal, al comando dell’ammiraglio Rodney Mundy; a Marsala l’Argos e l’Intrepid (ricordatevi questi nomi!) e in rada c’è l’Amphion, comandata dal capitano Cokran. E i francesi? Anche loro danno un piccolo contributo: a Palermo staziona la nave da guerra Vauban. Il regno delle due Sicilia schiera, nel suo piccolo, quattro navi da guerra, la Valoroso, la Stromboli, la Partenope e la Capri. Ma tutto è nelle mani di un solo uomo, il brigadiere Francesco Cossovich (ne avete mai sentito parlare nei gloriosi libri di storia?) al quale il luogotenente del Regno delle due Sicilie aveva commesso il compito di intercettare il Piemonte e il Lombardo, le due navi che tutto il mondo sapeva dove erano. L’alto ufficiale della Marina borbonica “si veste da burocrate e scrive al luogotenente Castelcicala di avere “scarsi mezzi a disposizione per assolvere cos’importante mandato, sollecitando con urgenza di colmare le deplorate manchevolezze”. E cosi le navi borboniche accumularono un ingiustificato ritardo sulle due navi che portavano Garibaldi e la sua fortuna. Con Francesco Cossovich comincia la serie degli alti ufficiali borbonici messi sotto inchiesta per alto tradimento. Cossovich aderì alla marina italiana appena quattro mesi dopo lo sbarco di Garibaldi che non aveva impedito. Insomma, quella che passerà alla storia come la “gloriosa impresa dei Mille” comincia con un tradimento: e, come vedremo, proseguirà con una lunga serie di tradimenti. L’Italia che sta per nascere in Sicilia, nasce all’insegna dei felloni del regno delle due Sicilia: generali e ammiragli che faranno a gare per vendersi a Garibaldi e ai Savoia. Così come i militari del Borbone avevano fatto a gara a tradire la propria patria, gli storici prezzolati italiani, a propria volta, faranno a gara prima a descrivere come “eroica” un’impresa truffaldina e poi a far passare per “eroi” una banda di mercenari. Ma già siamo andati avanti. Per ora ci fermiamo. Arrivederci alla terza puntata.
Controstoria dell’impresa dei Mille. La farsa dello sbarco a Marsala: nasce l’Italia dei traditori e dei tradimenti, scrive "Time Sicilia". Oggi terza puntata della nostra Controstoria dell’impresa dei Mille che stiamo scrivendo in collaborazione con il blog I Nuovi Vespri. Contrariamente a quello che ci hanno raccontato i libri di storia, lo sbarco a Marsala non fu affatto ‘eroico’. Al contrario, era stato preparato dagli inglesi, che in questa cittadina della Sicilia erano i veri padroni. Si è trattato di una sceneggiata squallida. Contrassegnata dal tradimento del comandante della spedizione napoletana, Guglielmo Acton, che subito dopo passerà nella marina sabauda e non avrà scrupoli nel partecipare agli assedi di Gaeta e Ancona, sparando contro i suoi commilitoni. Nasceva così l’Italia dei tradimenti e dei traditori…
11 maggio 1860, lunedì: Il gran giorno. Il ritardo “scientifico” provocato dal brigadiere Francesco Cossovich produce i suoi effetti. Le navi borboniche sono a distanza di “sicurezza”. Non potranno più impedire lo sbarco. Per “rassicurare i liberatori”, una nave commerciale inglese incrocia l’eroico convoglio. Scrive Cesare Abba, l’ebete: “Un piccolo naviglio veniva da terra. Bandiera inglese”. Che scopo ha questo incrocio? Da un lato di confermare ai mille che la strada è libera, dall’altro di notificare a Torino che ormai lo sbarco è virtualmente cosa fatta. E se ne occupa personalmente Nino Bixio. Abba riporta le parole di Bixio: “Dite a Genova (non può dire Torino, ovviamente) che il Generale Garibaldi è sbarcato a Marsala oggi a un ‘ora pomeridiana”. Veramente non è ancora sbarcato, ma ormai è solo una questione di tempo. Perché Marsala? Per due motivi: il primo, perché non è presidiata da truppe borboniche le quali, soffocata la rivolta del 7 Aprile dello stesso anno, hanno lasciato Marsala tra le acclamazioni della folla e i ringraziamenti del sindaco della città che, dopo poche ore, si metterà a disposizione di Garibaldi. Il secondo motivo è che Marsala è virtualmente in mani inglesi ed i rapporti con il governo borbonico non sono certo idilliaci. Le navi Argos e Intrepid, ricordate? Presidiano il porto. Su tanti, troppi capannoni ed edifici garrisce l’Union Jack, la bandiera britannica e prenderla a cannonate, anche se per errore, non è una buona idea. Scrive Abba, al quale la cosa pare normale: “Su molte case sventolano bandiere di altre nazioni. Le più sono inglesi”. E si chiede stupito: “Che vuol dire questo?”. E’ proprio scemo. Al riparo degli inglesi, i “nostri” sbarcano senza problemi e solo dopo lo sbarco il comandante della spedizione napoletana, Guglielmo Acton, che ha già in saccoccia i trenta denari, informa gli inglesi Ingram e Cossins che era costretto a fare fuoco sui ribelli. Gli inglesi acconsentono garbatamente, purché non si spari sulle loro bandiere, che, ricordo, sventolano ovunque. Unica vittima del cannoneggiamento di Acton risulterà essere un cane, proprio un cane, sapete, quell’animale a quattro zampe amico dell’uomo. Acton, altro traditore, fu poi sottoposto al consiglio di guerra. Passò con la marina sabauda il 7 Settembre 1860 e non si fece scrupolo di partecipare agli assedi di Ancona e Gaeta contro i suoi stessi ex commilitoni. Ovviamente un gentiluomo come lui fu senatore del regno d’Italia. Chiudiamo questa fase cruciale dell’epopea riferendo dell’accoglienza che ricevettero i “liberatori”. C’era ad accoglierli meno gente di quanto hanno raccontato i libri di storia officiali. Scrive il solito Abba: “La città non aveva capito nulla; ma la ragazzaglia era già venuta in turba”. E finalmente l’incontro tra i mille e l’esercito regolare. I Borbone? No, gli inglesi! Ecco ancora Abba: “Alle porte della città comparvero gli ufficiali di marina in calzoni bianchi e venivano giù al porto”. La testa di ponte piemontese per le successive spedizioni in Sicilia era operativa.
Controstoria dell’impresa dei Mille. La prima trattativa tra Stato e mafia la fece Garibaldi, scrive "Time Sicilia". Presso il Tribunale di Palermo si celebra il processo sulla trattativa tra Stato e mafia. Una trattativa simile andò in scena nel 1860, quando Garibaldi, Francesco Crispi, Rosolino Pilo e Giuseppe La Farina andarono a trattare con i baroni e con gli stessi mafiosi per avere l’appoggio della mafia. Quella di Garibaldi e dei garibaldini è stata la prima trattativa tra il nascente Stato italiano e i mafiosi. Con il regno delle due Sicilia la mafia era fuori e contro lo Stato. Con l’unità d’Italia la mafia entrerà dentro lo Stato italiano. Per non uscirne più. Questa Controstoria dell’Impresa dei Mille è realizzata in collaborazione con il blog I nuovi Vespri.
12 maggio 1860. Marsala è “liberata”. Dopo una notte all’addiaccio, i nostri eroi, “con in testa il general”, a cavallo di un baio, regalo di un marsalese, forse antenato dell’attuale sindaco, si mettono in marcia in direzione di Salemi. “Fatto un bel tratto della consolare, si pigliò la campagna”, scrive il solito Abba. Perché? Non certo per prudenza. Del nemico non si sente dir nulla”, precisa ancora Cesare Abba. E allora? E’ una sosta tecnica, una visita a domicilio al feudo Rampagallo, di proprietà dei baroni Sant’Anna. Che c’entrano i baroni? C’entrano, c’entrano…Le teste pensanti della spedizione, versante siciliano, Francesco Crispi, Rosolino Pilo e Giuseppe La Farina sapevano bene che, senza l’appoggio dei baroni, in Sicilia, non si andava da nessuna parte. Non che i baroni fossero affidabili: facevano una loro politica di sganciamento della Sicilia dallo Stato napoletano, che però prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con Torino, perché i baroni, in Sicilia, erano governi dentro il Governo. Scrive il barone Brancaccio: “Si andava giornalmente nelle vicine campagne per arruolare sotto la bandiera tricolore quei contadini animosi che odiavano la tirannide; era dura necessità reclutare gente di ogni risma”. Quella sera a Rampagallo si unì ai Mille la prima vera squadra. Così li descrive Abba: “… armati di doppiette da caccia e di picche bizzarre. Parecchi vestono pelli di pecora sopra gli altri panni. Tutti paiono gente risoluta e si sono messi con noi”. Che gente è veramente? Nel febbraio del 1860 Michele Amari, il marchese Torrearsa, Filippo Cordova, Mariano Stabile e Vito D’Ondes Reggio avevano incontrato Francesco Riso e Salvatore La Placa. Erano capipopolo in grado di raggruppare gente sveglia. Poi fu necessario incontrare i baroni e poi, attraverso loro, i Gabelloti di riferimento per favorire la marcia di Garibaldi. Furono incaricati di questa missione Rosolino Pilo e Giovanni Corrao. Garibaldi, giunto a Marsala, si aspettava di essere ricevuto da migliaia di persone. Quando Abba si sveglia a Rampagallo nota che “Bixio, già in sella, veniva da chissà dove”. Abba è un sempliciotto, non ha ruoli importanti e non capisce quasi nulla di quello che si verifica attorno a lui. Di queste sparizioni e riapparizioni o di visite misteriose, specialmente alla vigilia di fatti d’arme, ce ne saranno più di una. Persino Garibaldi… Ma non anticipiamo. E’ il 14 maggio, i Mille sono a Salemi. Come bene ha detto Vittorio Sgarbi, per un giorno Salemi è ‘Capitale d’Italia’. Tra un proclama e l’altro, un auto-decreto e una auto-nomina, l’eroe dei due mondi, ormai consacrato, accoglie tra le sue truppe di liberatori le squadre dei Baroni di Sant’Anna. Scrive ancora Abba: “Le squadre arrivano da ogni parte, a cavallo, a piedi, a centinaia; una diavoleria. Ho veduto dei montanari armati fino ai denti con certe facce sgherre, certi occhi che paiono bocche di pistole. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini ai quali ubbidisce devota”. Che quadretto! E questa gente sarebbe pronta a morire per l’Italia e per Vittorio Emanuele? Ma fatemi il piacere! Di fatto, quella avviata da Garibaldi e dai garibaldini è stata la prima trattativa tra Stato italiano e mafia. Lo Stato italiano nascente inseriva tra le proprie fila i mafiosi, affidandogli un ruolo non certo secondario. Non siamo i soli a sostenere questa tesi. Valga per tutti la commedia di Giuseppe Rizzotto Li mafiusi di la Vicaria. Dove il protagonista spiega ai suoi, a chiare lettere, che se durante il Regno delle due Sicilie la mafia era stata fuori dallo Stato – e soprattutto nemica dello Stato – con l’avvento dell’Unità d’Italia i mafiosi sarebbero stati dentro i gangli più o meno nascosti del nuovo Stato italiano. Per la cronaca, il primo funzionario dello Stato a parlare di mafia – o meglio, contro la mafia – è Pietro Calà Ulloa, magistrato, Procuratore del Regno delle due Sicilia a Trapani nel 1836. Pietro Calà Ulloa – che non tradirà mai i Borbone (ricoprirà l’incarico di Primo Ministro anche nel governo in esilio a Roma) è, come già accennato, il primo uomo di Stato a descrivere il sistema di potere mafioso. La storia successiva dimostrerà quanto sia vera la tesi della mafia che diventa ‘parte dello Stato’ con l’unità d’Italia. Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia – che peraltro riprenderà la commedia di Giuseppe Rizzotto – concludendo il romanzo I pugnalatori, lascerà intravedere l’ombra della mafia nelle ‘gesta’ di un ex garibaldino – Francesco Crispi – che sarebbe diventato capo del governo italiano. Ma Crispi non sarà il solo politico italiano sul quale peseranno le ombre dell’onorata società. Giolitti governerà il Sud Italia trescando con tutte le mafie e le camarille del Mezzogiorno d’Italia, tramite i suoi celebri Prefetti. Dall’abbraccio ella mafia non si salverà il regime fascista. Il Prefetto di ferro, Cesare Mori – inviato da Mussolini in Sicilia per debellare la mafia – si darà un gran da fare, costringendo molti boss siciliani ad emigrare negli Stati Uniti. Ma a un certo punto, quando le sue inchieste toccheranno alcuni personaggi altolocati, si dovrà fermare: e si fermerà perché si renderà conto che alcuni dei ‘capi’ della borghesia mafiosa erano ai vertici del regime fascista in Sicilia…Sulle commistioni tra mafia e politica dell’Italia repubblicana non c’è nemmeno bisogno di parlare, se è vero che dal 1948 in poi la storia della mafia sarà anche la storia di continue trattative tra Stato e mafia. L’ultima – forse la più famosa – la già citata trattativa del 1992, è solo l’ultima della cosiddetta Prima Repubblica. Ma adesso rischiamo di divagare troppo. Quello che è importate ricordare in questa nostra quarta puntata della Controstoria dell’impresa dei Mille è che la prima trattativa tra Stato e mafia, come già ricordato, la fecero Garibaldi e i garibaldini. Detto questo, ci vediamo alla prossima puntata per la grande battaglia di Calatafimi…
Mafia e Unità d’Italia, Casarrubea: “La mafia è alle radici del Risorgimento”, scrive "Time Sicilia". Come un fiume carsico, di tanto in tanto torna in superficie un dibattito che infiamma gli animi: la mafia esisteva prima dell’Unità d’Italia o ha fatto la sua comparsa dopo? L’argomento, al di là delle discussioni sui social network che testimoniano un interesse sempre vivo e che coincidono che il revisionismo storico che negli ultimi anni ha portato il Sud Italia ad andare al di là delle verità ufficiali sul periodo del Risorgimento, è stato oggetto di studio da parte di molti storici e intellettuali siciliani. Ma non solo. Proprio su Facebook viene ricordata una intervista a Rocco Chinnici: “Prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Cosa voleva dire il padre del pool antimafia, che prima dell’Unità non c’era criminalità in Sicilia? Certamente no. Con ogni probabilità, voleva dire, e questo coinciderebbe con le analisi di tanti studiosi, che la mafia, così come l’abbiamo conosciuta, ha preso forma dopo il processo unitario. Che prima di allora c’erano certamente esempi di prepotenza criminosa, ma non si poteva parlare di mafia intesa come organizzazione socio-politica. Non era neanche una prerogativa solo siciliana: nei Promessi sposi, Manzoni descrive personaggi che non è difficile oggi etichettare come mafiosi ed è un romanzo storico e come tale ritrae la società milanese del 1600. Tornando ai fatti risorgimentali, è nota l’alleanza tra Garibaldi e i picciotti siciliani, l’eccidio di Bronte ne è la prova più eclatante, e lo stesso Garibaldi scrisse nel suo diario: “E Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta, 11 maggio 1860”. Insomma, come scrive Valerio Rizzo, “non sarebbe corretto far partire la storia della criminalità organizzata dall’Unità d’Italia, in quanto già esistevano germi di prepotenze e piccole organizzazioni di derivazione feudale. Forse ciò che non si accetta è il fatto che tali germi siano stati innaffiati dal dopo-Unità, tanto da far nascere l’albero chiamato Mafia”. L’argomento, va da sé, è complesso e sono tanti gli autori che meritano di essere ricordati per i loro studi specifici. Per questo, da oggi cominciamo un viaggio, nel tentativo di fornire approfondimenti, su questo tema. Cominciamo col dare spazio ad una riflessione dello storico siciliano scomparso l’anno scorso, Giuseppe Cassarubea, alquante illuminante e scritta in occasione dei 150 anni di Unità: Mafia e Unità d’Italia – di Giuseppe Cassarubea.
“I nostri 150 anni di storia nazionale sono piuttosto difficili da definire. Una ragione sta nel fatto che, solitamente, nelle scuole, ma anche nell’opinione pubblica, abbiamo a che fare con una visione piuttosto nazionalistica delle vicende italiane passate. La storia che i nostri professori insegnano nelle scuole, se si eccettua la crisi che stiamo attraversando, tende ad esaltare la condizione dello Stato nazionale come la migliore rispetto a qualsiasi altro tipo di visione su scala quanto meno europea. Pensiamo di essere i migliori. Abbiamo sempre avuto, del resto, anche nei confronti degli altri Paesi europei, un atteggiamento di conflittualità e di concorrenza. Tuttora le nostre classi dirigenti, rispetto all’Europa, nutrono una sorta di presunzione, come se l’Italia fosse depositaria di beni e di valori assolutamente “irripetibili”. E’ stato così, ma siamo oggi in una lunga fase di declino. Abbiamo smarrito molte nozioni della nostra storia. Dall’identità nazionale, con i suoi caratteri europei, alla nostra storia culturale e artistica che di questa fa parte. Dai nostri valori linguistici, a quelli societari e di civilizzazione. Siamo andati avanti per miti, per luoghi comuni, per fatti già consolidati. Da qui molti pregiudizi etnici: gli austriaci sono passati, non per un popolo di musicisti, ma come nemici, guerrafondai e colonizzatori; i francesi come i borghesi rivoluzionari fautori del razionalismo; gli inglesi come i fondatori delle antiche costituzioni liberali. E via di seguito. L’unità che abbiamo avuto ha messo tutti – come dire? - oltre la barricata. Credo che oggi non possiamo più consentirci di leggere la nostra storia soltanto dal punto di vista al quale siamo stati educati. Dovremmo pure fare lo sforzo, dopo 150 anni, di rivederla facendo dei passi indietro. Un percorso complicato, una strada che dobbiamo percorrere. Ad oggi, anche sotto il profilo dell’insegnamento della storia siamo retroguardia. Lo siamo anche perché la storia, volenti o nolenti, è stata quella delle classi egemoniche. E il potere dei forti è sempre spregiudicato. Il passato che apprendono i nostri figli non è la storia nella sua completezza. Questa è fatta anche da molte altre cose che la cultura ufficiale, in tutti questi anni, ha celato, per diverse ragioni. E’ anche quella che non ci hanno insegnato, che non abbiamo saputo. Perché ci ha parlato di eroi e non di uomini. Bene ha fatto Carlo Ghezzi a ricordare la figura di Garibaldi. Ed io non ho motivo di non farlo, anzi penso che noi di Garibaldi conosciamo ancora molto poco. Dovremmo saperne di più. Ciò che sappiamo di positivo e che è emerso molto bene nella relazione di Ghezzi, è soltanto un aspetto di questo eroe, di questo grande della Patria. Ma quello che dovremo conoscere è anche per quale motivo il progetto garibaldino dell’impresa dello Stato nazionale nel Mezzogiorno sia fallito. Perché fallì allora e continua a fallire ancora oggi. C’è una spiegazione storica. Una è la mafia, ma non la sola che possa giustificare la condizione di insufficienza del Mezzogiorno rispetto alla storia nazionale e alle necessità che lo Stato ha di essere più avanzato, europeo. Cosa che di fatto non avviene. Vi sono diversi nuclei di questioni che dobbiamo affrontare e che dovremmo, soprattutto nella storia del movimento operaio e contadino, reinterpretare. Nello sforzo di individuare quelle modalità e quei nodi fondamentali attraverso i quali la nostra storia nazionale può essere più ricca e produttiva di risultati rispetto alla semplice ricorrenza. Vi sono, ad esempio, questioni che si legano alla natura delle trasformazioni delle classi sociali, alla comparsa di nuovi ceti, di nuovi gruppi dirigenti della società e dello Stato. O al tramonto di interi strati e masse di lavoratori, di vecchi sistemi produttivi propri dell’artigianato o del mondo agricolo. O, in qualche modo, connesse alla globalizzazione e alla diversa localizzazione della tradizionale geografia economica e produttiva. Celebriamo i 150 anni ma, fatta la celebrazione, non possiamo chiudere la partita come se avessimo ultimato il nostro compito. Che semmai inizia da una profonda revisione di ciò che siamo stati. Per saperne di più dobbiamo per un verso continuare a scavare negli archivi. Per un altro immaginare un presente e un futuro diversi. Per fare questo ci potranno essere senza dubbio molto utili gli archivi inglesi. Quelli di Kew Gardens (Surrey, Londra), ad esempio, sono i più ricchi del mondo. Si scopre che molti documenti ci parlano dei preparativi della rivoluzione del 1860, e che su Garibaldi molta influenza ebbero i lord inglesi. Vi si parla del 1859, dell’eroe dei due mondi e della sua missione in Sicilia che sarebbe avvenuta l’anno dopo. Perché quest’interesse dell’aristocrazia britannica per l’Italia? Significa qualcosa che un anno prima della grande impresa dei Mille, gli inglesi conoscevano già la missione che si sarebbe realizzata, e per la quale loro stessi nutrivano un interesse economico e politico non indifferente? Noi non sappiamo molto delle ragioni per cui Garibaldi era in Gran Bretagna di quel momento, a contatto con la Massoneria di rito scozzese che ritroveremo sempre nella storia d’Italia, e con quell’aristocrazia alla quale i baroni siciliani avevano da sempre guardato con grande interesse. Questioni di natura economica legavano il progetto che avevano in mente i nobili di quel Paese con un soggetto attivo sul piano della guerriglia che, come ha sottolineato più volte Ghezzi, poteva in qualche modo veicolare in tutta Italia le tecniche dell’insurrezione popolare. Magari a partire da una Regione da sempre debole come la Sicilia o il Mezzogiorno di Italia. Realtà, cioè, statiche che non si sarebbero mosse senza il consenso dell’aristocrazia siciliana e, per essa, di quella inglese. Inoltre, occorre tenere presente chela Sicilia era ricca di giacimenti zolfiferi, anzi era la principale produttrice di zolfo in Europa. Allo zolfo siciliano, controllato dal baronaggio siciliano, proprietario delle miniere, come anche alle fertili terre dell’isola, erano interessati i lord inglesi. Un altro punto da sondare è, dunque, l’egemonia britannica in Sicilia e nel Mediterraneo, in un’epoca in cui l’America è ancora lontana, politicamente e militarmente. Uno dei motivi di interesse strategico della Gran Bretagna sull’Italia erano le materie prime, come oggi è il petrolio nell’appena conclusa guerra libica. Le miniere e i latifondi siciliani facevano gola a molti. Nulla esclude un loro accordo per la messa a punto di un progetto di controllo su vasta scala. In questa direzione spinge l’antica riluttanza dei siciliani ad allearsi con le classi borghesi e rivoluzionarie francesi, rappresentanti, agli occhi dell’aristocrazia parassitaria e del suo sistema piramidale, un vero e proprio pericolo politico e sociale. Dopo la seconda guerra mondiale, i separatisti, ad esempio, ebbero un rapporto privilegiato con i governanti inglesi piuttosto che con quelli della più vicina Francia. E’ una questione che si lega alla formazione del potere nazionale e ai caratteri propri della sua natura. Chi sono realmente i Mille? Ragazzi che si alzano una mattina e si imbarcano per fare la guerra ai Borbone? Sono giovani senza arte né parte? Militanti di circoli culturali? Hanno tutto l’ottimismo dei giovani, ma anche una visione letteraria della Sicilia. Per loro, questa, è la terra di Omero, di Ulisse, dei naufraghi di Troia. E’ la terra dei vulcani e dei Ciclopi, di Scilla e di Cariddi, della maga Circe e del canto irresistibile delle Sirene. E’ la terra dove Goethe cercava la bellezza, i colori, la classicità. Certamente sono ragazzi sui vent’anni, molto giovani, animati da un forte spirito patriottico. Ma la domanda che ci dobbiamo fare è se siano realmente consapevoli di quello che stanno facendo. Giovani come Ippolito Nievo, Giuseppe Bandi, Giuseppe Cesare Abba ed altri, ad un certo punto della loro impresa, si imbattono in situazioni che non sempre capiscono appieno o per le quali non sembrano mostrare un grande interesse. Mi riferisco, ad esempio, all’Editto garibaldino con il quale si concedono ai contadini le terre a condizione che si mettano al seguito delle battaglie che l’eroe dei due Mondi sta conducendo per liberare l’Italia. I contadini credono a quello che dice loro Garibaldi. Si mettono al suo seguito. Ma quando cominciano a rivendicare il loro diritto alla terra sono fucilati sotto i colpi dei plotoni di esecuzione di Nino Bixio. Cosa succede veramente? Come dice Verga ci sono due visioni e due interpretazioni della libertà. Per i contadini è una cosa, per i baroni un’altra. I fatti di Bronte sono lo spartiacque di questa divaricazione. Bixio che cosa fa? Sceglie. Nella sua visione i contadini senza terra sono un ostacolo. Sceglie i baroni. Ci mette, con questa sua decisione, in condizione di capire che alla base della spedizione dei Mille c’è una vocazione di classe. Tendenzialmente borghese, come nello spirito repubblicano, ma di fatto, nello specifico della condizione meridionale, aristocratica. I fatti di Bronte ci dimostrano, se ci fossero ancora dubbi, che la rivoluzione del 1860, come dell’intero Risorgimento nazionale, fu al centro-Nord un processo di riscossa borghese, ma al Sud ebbe i caratteri di una reazione conservatrice e sanguinaria, filo aristocratica. Da qui cominciano le due Italie. E poco conta che a sostenere l’aristocrazia feudale fossero i filoborbonici o alcune forze legate al nascente Stato unitario. Tolti i Borbone e subentrati i Piemontesi, non ci fu nel Mezzogiorno un ribaltamento di classi sociali. I ricchi rimasero ricchi e i poveri, cioè i contadini, i mezzadri, i braccianti, i giornalieri, i mesalori, tornarono ad essere fatalmente più poveri. La struttura sociale feudale non mutò di una virgola. La questione è, dunque, questa. Cosa ha significato l’Unità d’Italia nelle azioni delle classi che l’hanno dominata e governata? Cosa ha rappresentato il mito dietro il quale si nascondeva qualcosa di diverso e di oscuro rispetto alla semplice agiografia nazionalistica? Un elemento di questa tenebrosità è l’insorgenza della mafia, per troppo lungo tempo ignorata, come fenomeno, dallo stesso Stato che la scopre, più di cent’anni dopo, solo con la legge La Torre, nel 1982. La mafia è alle radici del processo risorgimentale. Le bande armate controllate dai baroni, esistevano in Sicilia da diversi secoli. Ma, durante il primo Ottocento e nel frangente della seconda e terza guerra di Indipendenza costruirono le basi di un uovo connubio, cessando di essere totalmente indipendenti – se mai lo erano state – per diventare qualcosa di diverso, sostanzialmente dipendente dalla variabile politica. Basti pensare alla vicenda di Ippolito Nievo e alla sua fine misteriosa e tragica. Con lui scompare anche buona parte dell’impresa dei Mille. La spedizione fu aiutata dalla mafia, specialmente quella municipale di tipo crispino, il cui intervento servì a costruire il suo primo connubio con lo Stato. Crispi, repubblicano nel 1860 (dirigeva un giornale come il “Precursore”) fu punto di riferimento di tutte le consorterie borghesi che latifondisti e agrari riuscirono ad organizzare dentro i Municipi per controllare i processi amministrativi e le società comunali. Non è un caso che non ci siano paesi senza monumenti e strade intestati a Francesco Crispi. Come non è un caso il passaggio di questo statista dalle posizioni repubblicane a quelle monarchiche. E monarchia, nel Mezzogiorno d’Italia, significava difesa del latifondo contro le pretese laiche e progressiste delle masse lavoratrici, nonostante queste avessero una visione mitica del re e di Casa Savoia. E sarà in nome di questa posizione di classe che lo statista di Ribera manderà, nel 1893-’94, un esercito di 50.000 soldati a sparare sui contadini che manifestano per i fasci siciliani. La repressione violenta dei fasci rappresenta la rimozione definitiva di un movimento che si era sviluppato attraverso il pensiero socialista e anarchico, e si era poi organizzato dentro il Partito Socialista che cominciava a dare fastidio alle classi dirigenti di allora. I socialisti organizzati nei fasci dei lavoratori erano circa 500.000 ed erano socialisti non di quelli che calavano la testa ma che si facevano ammazzare. Come Bernardino Verro che partecipò al congresso nazionale socialista a Milano, assieme agli altri dirigenti socialisti dell’isola. Ce li immaginiamo questi nostri dirigenti. Non seguivano la moda e parlavano una lingua incomprensibile. Si distinguevano dagli altri capi socialisti. Non solo per il loro idioma, perché non era avvenuta l’unificazione linguistica, ma anche perché parlavano di una realtà economica inesistente forse nel resto d’Italia dove il sistema feudale non era nel codice genetico delle persone che ne venivano inghiottite. La differenza tra Nord e Sud stava anche in questo. Nel Mezzogiorno vi era un sistema sociale bloccato, mentre al Nord esso si prestava agevolmente a far percorrere verso l’alto la scala sociale. Bernardino Verro, Nicolò Barbato, Giuseppe De Felice Giuffrida, erano dirigenti di livello, ma non era facile che i loro compagni del Nord li capissero. Si ispiravano all’esperienza garibaldina, al movimento operaio, alle Società di Mutuo Soccorso. Sapevano cosa fosse la mafia, cioè quale interesse concreto si era cristallizzato in un sistema produttivo irredimibile. Alcuni di questi dirigenti, anche durante il fascismo continuarono a lottare. Molti di loro andarono a finire nelle galere, a Favignana, a Ustica, a Trapani. Erano dirigenti che lottavano contro i baroni dei feudi e contro le mafie. Le loro vittorie provocavano rotture al sistema latifondistico. Basti pensare alle battaglie contro la mezzadria e ai patti colonici di Corleone. Era la prima volta che i padroni del feudo, i vari baroni Bentivegna, erano costretti a firmare con i contadini analfabeti contratti di lavoro e sulla ripartizione dei prodotti, mai visti prima. Le vittorie bracciantili per i patti agrari erano anche di tipo ideale perché si concludevano con le affermazioni dei principi fondamentali del diritto. Come le 8 ore, l’istituzione delle cooperative di produzione e di consumo, il diritto all’istruzione e all’assistenza in caso di malattia. Conquiste ottenute con il sangue, già nel 1893, quando nascono i primi Statuti dei fasci dei lavoratori unitamente alle organizzazioni operaie e, poi, alle Camere del Lavoro. Durante il fascismo la mafia continuò ad esistere e si trasformò. Non fu debellata, come racconta Cesare Mori, il “Prefetto di ferro”. Mori fece una lotta accanita contro il brigantaggio ma non contro i mafiosi che stavano dentro le Prefetture, le Questure, i palazzi dei Municipi, formando delle consorterie. Fece una guerra ai “pesci piccoli”. Quando arrivò ai “pesci grossi” lo stesso Mussolini lo fece destituire. A Palermo rimase una manovalanza mafiosa che non era quella alla Vittorio Emanuele Orlando. L’ex premier era stato la punta di diamante della vecchia borghesia liberale prefascista e aspirava ora a controllare il sistema normativo feudale e a gestire il nuovo apparato statuale, permeato dalla presenza mafiosa. Era una mafia diversa da quella prefascista; cittadina, urbanizzata, gangsteristica, capace di fare assalti a mano armata e che ubbidiva a capi gerarchici disposti a tutto, sul modello della Cosa Nostra italo-americana. Essi si erano insediati dovunque, corrompendo i pubblici uffici. Questo aspetto della storia della mafia è poco conosciuto ma basta studiare alcuni storici stranieri come Christopher Duggan, che hanno affrontato questo problema, per capire che la storiografia italiana ha subito dei ritardi nella conoscenza di un fenomeno che per troppo lungo tempo è rimasto poco esaminato nella sua complessità, nonostante il gran parlare che se ne fa tutti i giorni. La fine della sedentarietà della mafia è storia antica e la sua evoluzione in senso gangsteristico risale agli anni ’30 e ’40 quando il fascismo diventa regime ed ha bisogno di estendere il suo consenso nelle aree urbane. Per questa operazione il fascismo mussoliniano utilizzò la criminalità urbana ed emarginò la mafia rurale, dando spazio ad una nuova ossatura del sistema di potere, che divenne più operativo, più dinamico, più consono a un partito d’ordine. Diventava pericoloso perché il regime interveniva a mano armata per risolvere le controversie interne ed esterne. Il delitto Matteotti fu il segnale di avvio di questa nuova e spregiudicata politica. In Sicilia ci sono molti casi di dirigenti contadini assassinati da un giorno all’altro. Un modo sbrigativo di eliminare l’opposizione che durerà fin oltre gli anni ‘50 e le battaglie per la riforma agraria. Ad esempio a Sciara dove, il 16 maggio 1955, è ucciso il dirigente sindacale socialista Salvatore Carnevale. Carnevale è eliminato dalla mafia di formazione fascista che agisce in combutta con i Carabinieri e con la principessa Notarbartolo nei cui terreni il sindacalista svolgeva la sua azione sindacale. Sono parecchi i delitti insoluti come quello di Sciara. Dunque, la mafia la fa da padrona con uno Stato che è dall’altra parte della barricata. Gli Alleati, al loro arrivo in Sicilia, nel 1943, trovano questo fenomeno tutt’altro che debellato, e si chiedono il motivo per il quale in varie realtà esso sia abbastanza radicato. Non trovano più la mafia orlandiana, quella del primissimo Novecento, ma la nuova mafia ricostruita tutta per intero sotto il fascismo, rafforzatasi nelle sue connessioni con il potere, soprattutto nelle grandi città. Una mafia solida, tanto che gli alleati la notano, la registrano, ne parlano nei loro rapporti. Ad esempio il capitano dell’Oss Scotten la descrive minutamente e mette in rilievo il pericolo che rappresenta. Alla fine non può fare altro che proporre al governo britannico una pacifica convivenza. La spia conosce la Sicilia, ci vive, ha le idee chiare e annota: “La mafia è un sistema di racket politico ai piani alti e di tipo criminale ai bassi livelli”. Ma anche: “La popolazione siciliana non crede che i Carabinieri o gli altri corpi di Polizia siano in grado di affrontare la mafia. Li ritiene corrotti, deboli e, in molti casi, in combutta con la stessa mafia”. Qualche settimana più tardi, a Palermo, il capitano consegna al generale Usa Julius Holmes un rapporto di sei pagine intitolato Memorandum sul problema della mafia in Sicilia. Il documento porta la data del 29 ottobre 1943 e, qualche giorno dopo, è già sul tavolo di Macmillan, ad Algeri. Se facciamo la storia dei 150 anni dell’unità d’Italia, le questioni ancora aperte sono complesse e notevoli e richiedono studi approfonditi. A cominciare dall’intreccio trinitario tra mafia, Servizi e Stato. Lo intuì, negli anni ’50, il luogotenente del bandito Salvatore Giuliano. Al processo di Viterbo disse al giudice: “Mafia, banditi e polizia siamo tutta una cosa come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”. Una verità illuminante: la mafia non un corpo separato, ma elemento organico del sistema di potere che ha governato l’Italia”.
Controstoria dell’impresa del Mille. La rivolta dei siciliani contro il servizio militare obbligatorio, scrive "Time Sicilia". Prosegue il nostro viaggio tra i retroscena dell’impresa del Mille che stiamo realizzando in collaborazione con il blog inuovivespri.it. Dopo la presa (per i fondelli) di Palermo, Garibaldi e i suoi cominciano a mostrare il vero volto: quello di mercenari venuti a conquistare la Sicilia per conto di una monarchia di falliti (i Savoia). I Mille avanzano grazie ai tradimenti dei generali borbonici. Ma imponendo la coscrizione obbligatoria cominciano a farsi detestare dai Siciliani. E così, l’esercito di Francesco II delle Due Sicilie, forte (!) di quasi 20.000 soldati, ben armati ed equipaggiati, si è arreso ai mille più mille, e si è imbarcato alla volta di casa. Il suo comandante in capo, Generale Lanza, tra il ludibrio dei suoi uomini, si avvia mestamente in direzione della fortezza di Ischia, dove lo aspetta la Corte marziale. Come vedete, a pezzi e talloni, tradimento dopo tradimento, l’Italia si sta facendo; e adesso bastano altri due Giuda e il gioco in Sicilia sarà fatto. A tempo debito ve li presenteremo. Intanto il vento cambia un po’. Il solito Abba non capisce nulla, ma registra. “Questo popolo che ci ha fatta la luminara la notte del 25 Maggio quando eravamo pochi e con poche speranze, adesso non ci riconosce più. Ma che abbiamo fatto?”. Bestia! Che cosa avete fatto? Glielo spiega fra Pantaleo da Castelvetrano, il monaco guerriero. “Questa gente ci si è fatta nemica per la coscrizione decretata dal Dittatore”. Altra bestia! E si capisce! Chi andrà a lavorare nelle campagne se si deve fare obbligatoriamente il servizio militare? E in una terra di contadini in cui figli sono tutto, che si fa? Si abbandonano le campagne? Che testa l’eroe dei due mondi! Però a Salemi, nel suoi proclami, di questo non aveva parlato! Tanti Siciliani – o meglio, tanti meridionali si rifiuteranno di andare a servire per sette anni l’esercito sabaudo. E per questo verranno trattati da “briganti”. E molti, vista l’occasione, briganti lo diventeranno per davvero.
Ma il peggio deve ancora venire, quando si tratterà di mantenere una promessa fatta: la terra a chi la lavora. La compagnia si divide. Una parte dei mille più mille si dirige verso l’interno della Sicilia, con l’obiettivo di raggiungere Catania; un’altra, guidata da Garibaldi, orbita sulla Sicilia tirrenica. I Borbone sono scomparsi (ma vi rendete conto?). Ma anche i siciliani. Ancora Abba: “. . . i soldati vanno e vengono per le vie sudice (grazie!). Cittadini se ne vedono pochi, scamiciati, indifferenti. Però è sempre la stessa storia. Se un borgo ci accoglie bene, quello che viene dopo ci tiene il broncio, poi l’altro appresso torna a far festa”. Se oltre a saperli descrivere, capisse che nei paesi in festa sono presenti quello che vogliono che tutto cambi perché nulla cambi, avrebbe la risposta. Misilmeri, (brutta accoglienza), Villafrati (scaramuccia con picciotti di sgarro), Roccapalumba (in campagna, un deserto che vive, il paese in festa). Alia, Vallelunga, Santa Caterina, Resuttano (con siparietto di un tribunale militare con annesse esecuzioni) e Caltanissetta. “Fatti i conti – osserva Abba, che continua a non capire nulla – dei siciliani che ci seguirono da Palermo in qua, un mezzo centinaio se ne sono già andati…”. Viva la rivoluzione! Viva il popolo!
IL BRIGANTAGGIO INSORGENTE, scrive "Altaterradilavoro". La fulminea conquista del Regno delle Due Sicilie da parte dei piemontesi, con l’appoggio indiretto ma concreto della Francia e della Gran Bretagna, provocò fin dai primi giorni della dittatura di Garibaldi, e poi per gli anni successivi, una rivolta generalizzata delle popolazioni del Regno a favore di Francesco II. Decine di migliaia di persone insorsero armi in pugno in tutto il territorio continentale, proprio come era accaduto sessant’anni prima ai tempi delle insorgenze antigiacobine e dell’epopea sanfedista del cardinale Ruffo, scatenando una guerra insurrezionale che mise in seria difficoltà i garibaldini prima e soprattutto l’esercito e il governo piemontese nei primi anni unitari. Nei manuali di storia, nei libri della “vulgata” risorgimentale che hanno formato l’opinione storica collettiva degli italiani su tali eventi, questa rivolta di popolo è stata sempre presentata in maniera riduttiva sia quantitativamente che cronologicamente, ed è stata bollata con il marchio del tutto fuorviante ed erroneo di “brigantaggio” borbonico. Oggi, fior di studiosi hanno dimostrato come il fenomeno debba essere presentato in ben altra chiave di interpretazione (il primo che ha condotto un serio studio a riguardo è stato lo storico marxista Franco Molfese, al quale hanno fatto seguito i lavori di autori come Alianello, Albonico, Leoni, Del Boca, Martucci e vari altri), e lo hanno fatto raccontando le immani stragi e violenze, il terrore e la miseria, che si abbatterono sugli italiani del Meridione. Fu una grande rivolta popolare antiunitaria di carattere legittimista e religioso, che venne repressa dal governo di Torino con metodi che nulla avevano da invidiare a quelli che saranno in voga nel XX secolo… (e che già si erano sperimentati in Vandea da Robespierre e soci). Il movente sociale vi ebbe un ruolo, come vi parteciparono anche briganti veri, ma ciò non può divenire la spiegazione di una guerra civile durata cinque anni (fino a dieci con gli strascichi) che ha visto coinvolti decine di migliaia di uomini e donne combattenti contro un esercito ed un governo considerati “invasori”. Il vero movente profondo di tale controrivoluzione popolare, tanto violenta e imperterrita quanto spontanea, va cercato nella fedeltà delle popolazioni meridionali alla dinastia spodestata in maniera violenta e subdola, contro la volontà stessa delle suddette popolazioni, come ebbero a dimostrare concretamente con la loro resistenza all’invasore piemontese e garibaldino. Elenchiamo di seguito i fondamentali elementi concettuali e storici che determinarono la rivolta antiunitaria: Il termine “brigantaggio” è solo una strumentale confusione ideologica fra l’aspetto sociale e quello politico del fenomeno, iniziata da Robespierre in Francia con la Controrivoluzione vandeana (definiva “briganti” i nobili, il clero, i borghesi e i contadini ribelli al suo Terrore), perseguita al tempo delle insorgenze, e quindi soprattutto con la rivolta meridionale antiunitaria. La rivolta in realtà ha proporzioni straordinarie e ha inizio nell’agosto del 1860, subito dopo lo sbarco dei Mille: nel complesso, al culmine della guerra le bande comandate da capi raggiunsero il numero di 350, coinvolgendo decine di migliaia di persone, delle quali ne morirono fra le 20.000 e le 70.000; il Regno d’Italia, da parte sua, dovette inviare in loco fino a 120.000 soldati per reprimere la guerriglia. Nella primavera del 1861 la rivolta divampa in tutto il Regno peninsulare; in agosto è inviato a Napoli con poteri eccezionali il generale Enrico Cialdini: inizia una delle più spietate repressioni militari della storia, fatta di eccidi e distruzioni di paesi e centri ribelli, di fucilazioni e incendi, di saccheggi e incitazioni alla delazione, di arresti domiciliari coatti (prima volta nella storia italiana) e di distruzioni di casolari e masserie, compresa l’eliminazione del bestiame dei contadini per la loro rovina materiale. Particolare attenzione è data alla guerra psicologica, con proclami fatti di terribili minacce (sempre per altro puntualmente messe in atto) accompagnati da foto di ribelli trucidati con famiglie, ecc., al fine di terrorizzare i “manutengoli”, cioè coloro che aiutavano i ribelli. Nel 1862 arriva la proclamazione dello Stato d’assedio, quasi l’intero Regno (compresa la Sicilia senza alcun motivo) è posto sotto legge marziale. Nel 1863 la Commissione parlamentare di Inchiesta sul Brigantaggio (Massari), voluta sì dalla Sinistra, che denunciava gli orribili massacri di contadini perpetrati con il consenso del Governo, ma al fine di screditare la Destra e mettere il Meridione in mano a Garibaldi; la Destra prima la ostacolò, poi la manipolò, e diede la colpa del “brigantaggio” a Francesco II e a Pio IX. Conseguenza della Commissione fu la Legge Pica, massima espressione della sanguinaria repressione. “Brigantaggio” e repressione dureranno comunque fino al 1870 (con un nuovo picco nel 1868), e i dati generali sono agghiaccianti, in realtà la resistenza non fu solo armata, ma ebbe carattere anche “civile”: vi fu un’opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della magistratura, che vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici e il rifiuto di ricoprire cariche amministrative, il malcontento della popolazione cittadina, l’astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto della coscrizione obbligatoria, l’emigrazione, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de’ Sivo. Alla resistenza partecipò il fior fiore dell’aristocrazia legittimista europea, fra cui: il conte Henri de Cathelineau (discendente dell’eroe della Vandea), il barone prussiano Teodoro Klitsche de La Grange, il conte sassone Edwin di Kalckreuth (fucilato nel 1862), il marchese belga Alfred Trazégnies de Namour (fucilato nel 1861), il conte Emile-Théodule de Christen, i catalani José Borges (definito “L’anti-Garibaldi”) e Rafael Tristany, ecc. Le motivazioni più profonde sono naturalmente quelle religiose, il popolo odia liberali e “galantuomini” perché dai tempi dei napoleonici avevano oppresso e vilipeso sempre la religione, profanando chiese e reliquie, la presenza di frati e preti è costante nelle raffigurazioni popolari della guerriglia, come i vessilli usati esprimono sempre soggetti religiosi; anche la rivista gesuita “La Civiltà Cattolica” espresse sempre la propria simpatia per la rivolta.
L’inizio della rivolta e della repressione. Quando il 6 settembre 1860 Francesco II lasciò Napoli, e l’8 settembre chiamò alla resistenza armata, risposero fino a 50.000 uomini. Il 19 settembre a Roccaromana e il 21 a Caiazzo i contadini insorgono e vanno ad aiutare truppe borboniche contro i garibaldini. Il 23 settembre viene formata la prima brigata di 4 battaglioni di sei compagnie ciascuno, a cui aderirono soldati e contadini, comandata da colonnello Teodor Klitsche de Lagrange, che ricevette ordini dal ministro di polizia Calà Ulloa: ripristinare i governi legittimi, sequestrare le casse comunali per mandarle a Gaeta (dove nel frattempo si era rifugiato Francesco II con Maria Sofia e tutti gli uomini fedelissimi) e difendere le chiese e il clero. Poi la stessa cosa fu fatta con i generali Scotti-Douglas e von Meckel, e lo scopo era quello di provocare l’insorgenza generale in Terra di Lavoro. Fu un successo strepitoso, nel giro di poche settimane insorsero tutte le province settentrionali del Regno, prima contro i garibaldini, poi contro l’esercito sabaudo, poi contro l’esercito “italiano”, poi nei mesi successivi e per anni tutto il regno peninsulare, mentre le fortezze militari di Civitella del Tronto, Messina e Gaeta resistevano eroicamente. Già in ottobre 1860 iniziò la spietata repressione. Il generale Villamarina chiese a Farini la proclamazione dello stato d’assedio, mentre il giorno dopo arrivava Cialdini che con un proclama dava inizio alle fucilazioni. Il 23 ottobre Fanti emanava un bando che sanciva la competenza dei tribunali di guerra speciali per i reati di brigantaggio, il 2 novembre il governatore di Teramo proclamava con Pinelli lo stato d’assedio di quelle zone, e la fucilazione istantanea per chi fosse colto con le armi in mano. Il Pinelli, da parte sua, aveva già iniziato a fucilare nell’Aquilano, anche coloro che erano solo sospetti di aiutare i briganti o coloro che insultassero con parole o atti i Savoia o la bandiera. Il generale Della Rocca ordinò che nelle zone di Sora e Avezzano non si perdesse tempo con i prigionieri perché le carceri erano stracolme ma si passasse subito alle fucilazioni. A Torino la preoccupazione era generale e profonda, e così nel luglio del 1861 Cialdini venne nominato Luogotenente e unificò nelle sue mani il potere civile e militare. Già a fine agosto v’erano nel Meridione 40.000 soldati in armi, in ottobre 91 battaglioni, di cui 37 solo a Napoli, in dicembre si arrivò a 50.000 uomini. Nel corso degli anni successivi saliranno fino a 120.000 uomini. Ricasoli però, che non sopportava Cialdini, il 9 ottobre sciolse la luogotenenza e mise Lamarmora al suo posto, il quale continuò la feroce repressione con la ferrea applicazione della legge marziale. Ma la controrivoluzione era più attiva che mai (Molfese riporta decine e decine di nomi di bande e capibande), e più spietata che mai divenne la repressione. In Capitanata il Mazé de la Roche non ebbe problemi ad incendiare case, pagliai, ed a arrestare individui per il solo fatto che circolavano fuori dai centri abitati. Il terrore repressivo non conobbe più limiti. Centinaia di persone venivano fucilate in continuazione. Molfese riporta decine di scontri con relativi massacri di briganti e popolazioni. Il quadro che ne esce è impressionante: tutto il Meridione peninsulare era sotto guerriglia, decine i capi banda, decine le zone sottoposte a rivolta, evidentemente migliaia e migliaia i rivoltosi, dall’Abruzzo alla Calabria ogni zona era infestata dalla ribellione. Perfino reparti ungheresi furono impiegati contro i ribelli, è inutile descrivere e riportare ogni zona: tutto l’ex-Regno è in armi. «Verso i “cafoni” e i contadini in genere, l’unico problema che si pose l’esercito fu la repressione terroristica. La condotta in questo campo fu lineare fin dai primi giorni della campagna meridionale, e consistette nella fucilazione sommaria per i “cafoni” colti con le armi alla mano e sospettati di appoggio ai briganti. Furono largamente praticate le rappresaglie indiscriminate, specialmente gli incendi, con l’accompagnamento di saccheggi e vandalismi. La repressione del brigantaggio costituì veramente una pagina oscura e un triste tirocinio per il giovane esercito italiano. Taluni comandanti locali emanarono, fra il 1861 e il 1862, bandi draconiani che comminavano praticamente la fucilazione per qualsiasi trasgressione ai molteplici divieti, destinati oltre tutto, a paralizzare la vita economica e sociale delle provincie. Ma la pratica della repressione, su cui la “carità di patria” ha calato il velo più fitto, annoverò eccessi che discendevano necessariamente dalle prescrizioni terroristiche. Gli arresti in massa, operati anche in circostanze che sollevavano seri dubbi, e la carcerazione dei parenti dei sospetti, costituirono una prassi costante e invalsa fin dall’inizio. Fatti ancora più gravi, quali il massacro dei prigionieri, non erano infrequenti…» [F. MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 229-230]. Quindici anni più tardi, Settembrini definì l’esercito «il filo di ferro che ha cucita l’Italia e la mantiene unita» [In: ibidem, p. 230].
Nel 1863 il governo decise in maniera risolutiva: il 3-4-5 maggio 1863, in riunione assolutamente segreta, la Camera ascolta la relazione di una Commissione d’Inchiesta inviata appositamente in territorio di guerra, mentre la Guardia Nazionale circondava Palazzo Carignano. Della relazione sappiamo solo quanto venne pubblicato in seguito, vale a dire il testo originale censurato però in sei punti, oramai perduti per sempre. La visione dei documenti fu proibita agli stessi deputati. La controffensiva governativa fu immediata e semplice nella sua radicalità: il 15 agosto entrò in vigore la Legge Pica contro il Brigantaggio, che durò fino al 31 dicembre 1865 (venne estesa anche in Sicilia, senza reale motivazione): tutto il Mezzogiorno fu dichiarato in “stato di brigantaggio” (eccetto Teramo, Reggio Calabria, Napoli, Bari, Terra d’Otranto) e posto quindi in stato d’assedio; tribunali militari di guerra vennero istituiti un po’ ovunque, «ingabbiando le province del cessato regno borbonico in una rete repressiva di stampo draconiano» [R. MARTUCCI, L’invenzione dell’Italia unita, Sansoni, Firenze 1999 p. 336.]; i tribunali militari giudicavano, sotto il solo sospetto, i partecipanti a bande armate sanzionando la resistenza armata con la fucilazione o carcere duro a vita in caso di attenuanti, mentre i favoreggiatori (i cosiddetti “manutengoli”) venivano condannati ai lavori forzati a vita. In più il governo aveva facoltà di inviare a domicilio coatto oziosi, vagabondi, sospetti, camorristi e soprattutto, di istituire corpi armati di volontari per la repressione del “brigantaggio”. Furono «condannati a morte colla fucilazione individui volontariamente presentatisi, minorenni non catturati in conflitto, individui non punibili per brigantaggio ma soltanto per reati comuni, ai quali, magari, i carabinieri nei loro rapporti avevano addebitato anche il brigantaggio, sottraendoli in tal modo alla magistratura ordinaria. Mogli di briganti erano state condannate ai ferri a vita, come manutengole con complicità di primo grado. Fanciulle inferiori ai dodici anni, figlie di briganti, avevano subito condanne di 10 o 15 anni. Una fonte non indifferente di orrori fu la facoltà attribuita dalla circolare n. 29 dell’agosto 1863 ad ogni “autorità militare” di ordinare l’arresto dei manutengoli». Fra l’agosto del 1863 e la fine del 1864 furono istituiti 3613 processi per 5224 individui. Fra l’aprile e il giugno del 1863, i soli carabinieri avevano arrestato ben 6564 individui, e questo prima della legge Pica, che segnò un’ondata di arresti fenomenale. Si parla di 12000 arrestati e deportati con la sola Legge Pica. Le popolazioni, atterrite e ridotte alla disperazione, iniziarono ad abbandonare la rivolta, e i capi banda si isolarono o vennero uccisi. Dopo il 1864, solo nel Beneventano, nel Salernitano nel Napoletano in Terra di Lavoro e nell’Aquilano v’era ancora la ribellione antiunitaria. Lo strascico continuò fino al 1870 nell’Aquilano, in Terra di Lavoro, nel Salernitano, nel Lagonegrese, in Calabria e in Abruzzo; inoltre, fra il 1866 e il 1868, in concomitanza con la guerra all’Austria e la spedizione garibaldina contro Roma, il “brigantaggio” risorge pericolosamente, specie nello Stato Pontificio, ma sono solo gli ultimi fuochi, che vennero a spegnersi del tutto con la presa di Roma da parte dei piemontesi. Roberto Martucci, nel suo fondamentale lavoro, tenta un interessante calcolo generale sull’intero fenomeno della controrivoluzione antiunitaria, ed arriva alla conclusione che il numero dei meridionali caduti (in combattimento o per condanna a morte) oscilli fra «una cifra minima di 20.075 e una massima di 73.875 fucilati e uccisi in vario modo. Vale a dire un numero comunque molto superiore alla somma dei caduti in tutti i moti e le guerre risorgimentali dal 1820 al 1870» [MARTUCCI, op. cit., pp. 312-314].
Per quanto riguarda il tenore dei proclami con cui si terrorizzavano le popolazioni, lo storico P.K. O’ Clery ha fatto una cosa molto utile, ne ha schematizzato il contenuto generale comune a tutti: «Da questi proclami appare che le misure adottate per la soppressione del cosiddetto “brigantaggio” furono:
Fucilazione, con o senza processo, di tutti coloro che erano presi con le armi in pugno;
Saccheggio delle città e dei villaggi ribelli;
Arresto, senza processo o imputazione, delle persone sospette e dei “parenti dei briganti”;
Equiparazione a complici di briganti, e punizione con la morte o il carcere a tutti coloro che:
Possedessero armi senza licenza;
Lavorassero senza permesso nei campi di determinati distretti;
Portassero in campagna cibo superiore a quanto bastasse per un pasto;
Serbassero provviste di cibo nelle capanne;
Ferrassero cavalli e possedessero o trasportassero ferri di cavallo senza licenza;
Distruzione delle capanne nei boschi, obbligo di murare tutti i casolari isolati, allontanamento degli uomini e del bestiame dalle piccole fattorie, e raccolta del medesimo in luoghi sorvegliati dall’esercito.
Incriminazione di qualsiasi comportamento neutrale, e trattamento dei presunti neutrali come amici e complici dei briganti;
Rigida censura della stampa.
Il problema dei prigionieri. I prigionieri furono circa 50.000 borbonici più 18.000 pontifici fra ufficiali e soldati, 10.000 soldati napoletani vennero rinchiusi nei forti di Ponza ed Ischia, e lasciati al tifo, al colera, ai pidocchi ed alla dissenteria. I prigionieri esteri furono subito rilasciati, così come quelli di alte famiglie, ma non tutti: Farini, quando era Luogotenente a Napoli, considerava ogni prigioniero, fosse anche un generale in carica borbonico, come un ribelle senza patria, e questo ancor prima della caduta di Gaeta. Iniziarono poi le deportazioni al Nord: decine di migliaia di uomini furono portati nelle gelide prigioni alpine, e fatti soffrire letteralmente la fame e la sporcizia. Scrive Martucci, riportando brani di una lettera di Lamarmora, scritta il 18 novembre 1860 a Cavour, dopo aver fatto visita nelle carceri a Milano: «trovandosi di fronte a 1600 soldati borbonici in condizioni indescrivibili, “tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi o da mal venereo”; con sua grande sorpresa questo “branco di carogne”, “questa canaglia”, “questa feccia” rifiutava di arruolarsi tra le truppe sarde; i prigionieri “pretendevano aver il diritto di andar a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco II”. Ma il generale La Marmora evitava di dire se quei soldati così malati erano stati affidati a medici militari piemontesi, come del resto non chiariva perché mai quella massa puzzolente di infelici non fosse stata rivestita». Si dice addirittura che a Fenestrelle tolsero i vetri dalle prigioni per far loro soffrire più il freddo e convincerli ad accettare di entrare nel nuovo esercito, ma non vi fu niente da fare. Alla fine dell’ottobre del 1861 il solo Campo di concentramento di S. Maurizio presso Torino rinchiudeva 12.447 ex-militari borbonici e secondo La Civiltà Cattolica altri 12.000 erano sparsi in altri carceri. Al 30 giugno 1861 risultavano renitenti alla leva ben 52.000 uomini. Anche la stessa Gran Bretagna iniziò ad inquietarsi. Il console inglese a Napoli, Bonham, affermò che nelle carceri napoletane vi erano almeno 20.000 prigionieri ammassati (ma altri parlavano di 80.000), in paurose condizioni di inciviltà, sporcizia e fame e moltissimi erano coloro che attesero il processo per anni: ne nacque a Londra un dibattito parlamentare, e furono inviati a verificare lord Seymour e sir Winston Barron, che confermarono tutte le denunce giunte al Parlamento inglese. Sotto il governo Rattazzi, il ministro degli esteri, Giacomo Durando, aveva avviato trattative col Portogallo per istituire bagni penali nelle colonie d’Asia e Mozambico, anche al fine dichiarato di avviare con questa scusa processi coloniali nazionali; ma non se ne fece nulla per l’opposizione della Francia. La “soluzione finale” dei piemontesi; che il Governo con il consenso del Re voleva acquistare una colonia in Borneo per deportare 15.000 detenuti, e solo la cronica mancanza di fondi evitò tale infamità. Quanto avvenne fu duramente condannato dagli stessi protagonisti del Risorgimento, da Mazzini a Ferrari, da Settembrini a d’Azeglio: i loro giudizi sono durissimi contro la politica repressiva adottata nel Meridione. Scrisse Napoleone III al generale Fleury: «Ho scritto a Torino le mie rimostranze; i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da far ritenere che essi alieneranno tutti gli onesti dalla causa italiana [poi racconta alcuni episodi di cui era venuto a conoscenza, come la fucilazione per chi venisse preso con “troppo” pane addosso e conclude] I Borboni non hanno mai fatto cose simili. Napoleone». Fonte quarsoft.info
TUTTA UN’ALTRA STORIA.
Medioevo: miti ed errori contenuti nei libri di liceo, scrive Vittorio Nigrelli l’8 maggio 2014. La prima lezione di Storia medievale del professor Giuseppe Sergi, all’Università di Torino, è scioccante. Scoprire che la maggior parte delle conoscenze che si possiedono sul Medioevo è falsa è un colpo al cuore che non miete vittime solo grazie alla giovane età delle matricole. Il Medioevo è, in effetti, un contenitore di luoghi comuni talmente forti e radicati che nessuno si meraviglia se, in un articolo di giornale, si legge che il potere nel Medioevo era trasmesso tramite un’investitura feudale, o che il 31 dicembre 999 il mondo era terrorizzato e sùbito dopo la mancata apocalisse s’ebbe una sfolgorante crescita dovuta alla rinnovata fiducia nel futuro. Quando si parla di Medioevo, tornano alla mente parole come servi della gleba, vassalli, valvassini, valvassori, vescovo-conte, ius primae noctis, feudalesimo e altre ancora. Come dimostrato dai medievisti nel corso dell’ultimo secolo, queste parole indicano perlopiù ricostruzioni sbagliate, traslazioni temporali di fenomeni avvenuti in epoche diverse, o semplici bugie. Uno dei luoghi comuni più ferocemente confutati ma estremamente resistenti a qualunque dichiarazione da parte degli specialisti è lo ius primae noctis. Grazie a Braveheart di Mel Gibson, l’intero globo conosce l’odiosa regola secondo la quale il signore feudale aveva il diritto di «sostituire» il marito durante la prima notte di nozze. Le radicali smentite di Felix Liebrecht e Karl Schmidt, risalenti alla seconda metà dell’Ottocento (!), sembrano non avere risvegliato alcun interesse presso la cultura di massa. Lo ius primae noctis fu in realtà ideato da alcuni giuristi del Cinquecento. Costoro pensarono, studiando una forma di pagamento in moneta d’una tassa (il formariage) riguardante i matrimoni di persone di condizione non libera, che tale forma evoluta di pagamento costituisse l’esito d’una civilizzazione progressiva d’un’usanza ben più barbara e tremenda; un’usanza che tuttavia non è mai stata documentata. Una delle cause più frequenti d’errori è la «deformazione prospettica», reazione spontanea di chi non è specialista di fronte alla storia. Si guarda il passato come un paesaggio: gli elementi più vicini sono grandi e nitidi; quelli lontani, molto più piccoli e sfocati. Si finisce per guardare gli oggetti più grandi e assimilare a questi i più piccoli. Un esempio sono le convinzioni in fatto di dieta: se sulle tavole dei contadini della prima età moderna c’erano zuppe di cereali, è altrettanto vero che nell’Alto Medioevo il consumo di carne era diffusissimo. Un altro caso è quello dei castelli: difficile convincere le scolaresche in gita che i castelli tardo-medievali (quelli rimasti in piedi) sono molto diversi dai tipici villaggi fortificati in legno e pietra dei secoli precedenti. O, ancora, le famiglie — immaginate come grandi gruppi parentali organizzati su base patriarcale, simili a quelle ottocentesche — erano in realtà nucleari e molto più «vicine» a quelle d’oggi. La servitù della gleba è una categoria storiografica ottocentesca dall’enorme fortuna; tuttavia va decisamente ridimensionata. Rare attestazioni riguardanti adscriptus glebae hanno stuzzicato l’immaginazione dei primi studiosi d’epoca moderna. A parte pochi casi (ad esempio nelle campagne intorno a Bologna e Vercelli), la massa di contadini non è certamente ascrivibile alla categoria «servitù della gleba». Esistevano servi la cui libertà era limitata del tutto (e non solo legata alla terra), coloni liberi, piccoli allodieri (proprietari). Il fatto che alcuni di questi venissero perseguiti se abbandonavano i campi non era collegato a un qualche servaggio, bensì al mancato rispetto di contratti ventinovennali o vitalizi col proprietario della terra. Spesso al Medioevo è imposta l’etichetta d’età feudale. Nei libri del liceo, è facile trovare la famosa piramide vassallatica, ovverosia l’immagine che rende i medievisti comprensivi nei confronti degl’iconoclasti. Feudale è una parola di straordinario successo, molto più esotica, lontana e quindi affascinante di signoria. Marx usa questa parola per definire un tipo d’organizzazione fondiaria, un sistema di rapporti di produzione, una fase antecedente al capitalismo. Spesso sembra che feudale sia usato perfino come sinonimo di medievale. Eppure è difficile — o, meglio, impossibile — trovare alla base d’ogni frazionamento territoriale un’investitura di tipo feudale. Marc Bloch riuscì a definire con chiarezza i rapporti vassallatico-beneficiari, e il suo allievo Robert Boutruche compì un passo fondamentale: individuò la peculiare struttura di potere del Medioevo nei poteri signorili formatisi dal basso, e non delegati feudalmente dall’alto. Vi sono diverse ragioni per cui questi errori rimangono e non vengono spazzati via dalle pagine dei libri di liceo. Il primo ordine di motivi è la semplicità di comunicazione. È facile spiegare il magma di rapporti di potere e contratti tramite una delega tutta feudale del potere. È ancor più semplice parlare d’una sola Chiesa, potente e oppressiva, tralasciando il fatto che si può parlare di papato monarchico solo dopo il XII secolo e non prima, quando il papa era il vescovo di Roma in possesso tuttalpiù d’un primato d’onore in fatto di teologia. Il secondo ordine è quello della distanza: colpisce di più un Medioevo molto diverso dall’oggi, in cui signori crudeli deflorano novelle spose, in cui i contadini scambiano senza bisogno di moneta e l’economia è solo di sussistenza, in cui cavalieri affascinanti partono alla ricerca del Graal…In questa sede è possibile mostrare solo una parte dei luoghi comuni sul Medioevo. Per chi volesse approfondire il tema, esiste un ottimo nonché brevissimo libro: L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, di Giuseppe Sergi, edito da Donzelli. Centundici pagine di sano buonsenso storico.
Così il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza, scrive Antonio Giuliano il 10 luglio 2015 su "Avvenire”. «Mille anni vissuti dall’uomo senza che abbia espresso niente di bello? A chi si vuole darlo a credere?». Così Régine Pernoud già nella prima metà del Novecento attaccava la leggenda nera che da secoli squalifica il Medioevo. La storica francese fu tra le prime voci a firmare libri controcorrente (come Luce del Medioevo, ripubblicato da Gribaudi). Ma mai come in questo caso il pregiudizio è duro a morire. Basta oggi sbirciare la cronaca per riscontrare come 'medievale' sia tra gli aggettivi più gettonati per denigrare qualcuno. Per non parlare poi di certi manuali scolastici. Eppure un testo da poco tradotto anche in italiano La genesi della scienza di James Hannam (a cura di Maurizio Brunetti) smonta uno per uno i luoghi comuni più diffusi. Fisico, storico e filosofo della scienza a Cambridge, Hannam sfodera un volume poderoso e scorrevole, scritto con punte di ironia britannica. «Il Medioevo è stato un periodo di enormi progressi in ambito scientifico, tecnologico e culturale», scrive. I mille anni che vanno dalla caduta dell’impero romano (476) al 1500 sono stati decisivi in ogni campo. Ma soprattutto «il Medioevo ha posto le basi per la scienza moderna». In barba alla condanna illuminista, il fisico britannico ricorda come la Chiesa non abbia mai appoggiato l’idea che la Terra fosse piatta, né abbia mai bandito la dissezione umana o l’introduzione del numero zero. Hannam con sarcasmo non si stanca di ripetere: «I Pontefici non hanno vietato nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora tirate fuori come esempio di intransigenza clericale verso il progresso scientifico». Ma anzi la Chiesa cattolica, argomenta Hannam dati e fonti alla mano, è stata il principale sponsor della ricerca scientifica. L’ha fatto proprio in virtù di quell’approccio che distingue il cristianesimo dalle altre tradizioni culturali e religiose. Se la scintilla del progresso scientifico si accese nell’Europa cristiana medievale è proprio perché «attraverso la natura l’uomo poteva imparare qualcosa del suo Creatore», il quale era «coerente e non capriccioso». Del resto, fa notare l’autore, il termine 'scienziato' nacque nel 1833 alla British Association for the Advancement of Science: «Prima d’allora nessuno ne aveva avvertito la necessità. Solo nel secolo XIX la scienza era diventata una disciplina autonoma, separata dalla filosofia e dalla teologia». È venuto il momento di chiedersi se il vero 'Rinascimento' non sia stato nel XII secolo, quando ad esempio nacquero le università. Scoprire nella natura l’impronta del creatore fu poi anche il convincimento dei religiosissimi Copernico, Keplero, Newton e Galilei, il cui contrasto con le autorità ecclesiastiche, spiega Hannam, fu dettato più da motivi politici. La stessa rivoluzione scientifica del XVII secolo è fondata su scoperte dei secoli precedenti: la bussola, la carta, la stampa, la staffa, la polvere da sparo... Invenzioni provenienti dall’Estremo Oriente, ma gli europei le perfezionarono a livelli «incomparabilmente superiori». E gli occhiali, gli orologi meccanici, i mulini a vento, gli altiforni? «Obiettivi e apparecchiature fotografiche, quasi ogni tipo di macchinario, la stessa rivoluzione industriale devono tutto a inventori del Medioevo. Non conosciamo i loro nomi, ma non è un buon motivo per ignorare le loro conquiste».
7 Luglio 1647, i potenti tremano: Masaniello è il Re di Napoli, scrive il 7 luglio 2015 Francesco Pipitone su “Vesuvio Live”. Masaniello è un nome che a Napoli viaggia ancora nell’aria, uno spirito che aleggia nella città, in particolare nella zona di Piazza Mercato, luogo dove la persona con una buona predisposizione dell’animo può allungare le mani e afferrare l’umile pescatore, Re senza corona che ha governato per pochi giorni e facendo tremare i potenti, fin quando la pazzia e le basse mire non hanno, brutalmente e fatalmente, ucciso il corpo, e solamente il corpo, del rivoltoso. Quella buona predisposizione d’animo in altro non consiste se non nel desiderio fermo, puro e forse un po’ ingenuo, di libertà, una libertà bella e semplice che vuol dire amare e rispettare la propria Terra, la propria gente. Tommaso Aniello d’Amalfi, luogo di origine del padre di Masaniello, nacque in Vico Rotto a Napoli il 29 Giugno 1620, da Cicco e Antonia Gargano. Nella metà del Seicento la popolazione partenopea all’interno delle mura ammonta a circa mezzo milione, del quale solo una piccola parte ha un’occupazione stabile: il resto vive alla giornata, mentre le classi più alte e agiate vivono di usura, speculando sulle gabelle (imposte indirette sulle merci), vendita di voti e rendita, mentre tra i nobili i soli che esercitano con onore la propria funzione erano quelli dei più antichi Sedili cittadini. Le gabelle gravano in particolar modo sui beni di prima necessità, come il grano, il pane, frutta, verdura, carne, pesce, in modo da costringere il popolo alla fame. Il pretesto per la rivolta popolare nasce da lontano, il giorno di Santo Stefano del 1646, quando il viceré don Rodrigo de Leon, Duca d’Arcos, viene contestato mentre si reca alla Santa Messa dopo la notizia di nuove gabelle sulla frutta. Il 3 Gennaio 1647 vengono pubblicate le tariffe, tuttavia è solo il 20 Maggio dello stesso anno che qualcosa si muove: in città spuntano manifesti che parlano di tumulti sorti a Palermo ed esortanti a fare lo stesso a Napoli; diciassette giorni dopo, il 6 Giugno, viene incendiata di notte la bottega nella quale avviene la riscossione della gabella sulla frutta, gesto che, come si seppe in seguito, fu compiuto da Masaniello. Come mai, però, costui si decise ad agire? Masaniello è un lazzaro, un giovane plebeo ca votta a campà, ossia tira a campare come può, che col tempo però si è “specializzato” nell’attività di pescivendolo. Molto furbo e con grande carisma, fedele alla sua gente, alla religione e al Re, come ogni lazzaro aveva avuto a che fare praticamente con tutti, dai poveracci ai signori, dai mariuoli agli intellettuali e agli artisti, specialmente quando era finito in galera per essersi opposto ai sequestri di pesce. In prigione ebbe modo di conoscere dei prigionieri politici, che lo portarono ad incontrare don Giulio Genoino, eletto del popolo destituito perché fastidioso e fervente nel difendere la plebe contro la nobiltà, fattosi prete a più di 70 anni perché stanco di entrare e uscire dalle carceri e il quale, con la sua cultura, affascinò Masaniello e lo rese cosciente della corruzione che soffocava la popolazione, pur senza mai arrivare a manovrarlo: se ci fosse riuscito, d’altra parte, il ragazzo non avrebbe fatto una triste fine. Spaventato dall’incendio, il viceré tenta di calmare la situazione scarcerando due guappi affinché l’eletto Naclerio potesse contrattarvi, Peppe Palumbo e l’abate Perrone, amici di Naclerio stesso oltre che di don Genoino. Nel frattempo Masaniello addestra qualche centinaio di alarbi, i lazzari che dovevano sfilare alla festa per la Madonna del Carmine curata da fra’ Savino, cuciniere del Carmine e amico di Genoino, in modo da indurli sì a protestare contro il mal governo, ma allo stesso tempo sottolineando la fedeltà al Re Filippo IV, detto El Rey Planeta perché con lui la Spagna portò alla massima espansione il suo impero dove non tramontava mai il Sole. La tappa successiva fu il 30 Giugno, quando Masaniello e più di duecento alarbi con un tamburo e vestiti di stracci, urlano “Mora lo mal governo, viva ‘o Rre”, oltre a vari altri gridi contro le gabelle e le soverchierie. Giunti sotto Palazzo Reale ai pezzenti non viene vietato di protestare, probabilmente per ordine dello stesso viceré che voleva evitare pericolose tensioni. Un chiaro segno di debolezza che incoraggia Masaniello, suo cognato Mase Carrese (padrone abbastanza benestante di una bottega di frutta, verdura e carbone) e Ciommo Donnarumma (ortolano, anch’egli abbastanza benestante) a organizzare una protesta ben più dura giusto una settimana dopo, domenica 7 Luglio, la vera e propria rivoluzione. Quella mattina gli alarbi sono circa trecento ed armati di canne, stanno dietro Sant’Eligio. Ad essi si aggiungono contadini, pescatori e commercianti che davanti alla bottega per la riscossione della gabella manifestano l’intenzione di non pagare. Coloro che ricorrono a Naclerio, che fa il doppio gioco insieme ai due camorristi (categoria fatta di venduti geneticamente traditori del popolo, dunque), si sentono dire che è meglio che paghino; una delegazione di negozianti riesce a farsi ricevere da Don Rodrigo d’Arcos, il quale li manda da un commissario, ma alla fine nulla cambia e perciò Carrese, dopo aver preso uno schiaffone sul volto al Mercato, rovescia a terra la sua merce e se la mette a vendere 4 soldi al rotolo senza alcuna tassa. D’ora in poi non si potrà più tornare indietro. A quel segnale, Masaniello e alcuni dei suoi lasciano Sant’Eligio e si catapultano nel mezzo del mercato, gli scugnizzi portano l’Inferno a Napoli e non vogliono conoscere alcuna ragione, buttando dei fichi in faccia a un Naclerio che come al suo solito voleva dimostrare alla polizia di essere il padrone della folla. Gli alarbi scappano e seminano i poliziotti, arrivano altri lazzari che di fichi non sanno cosa farsene, se non mangiarli, allora tirano grossi sassi colpendo in petto Naclerio, salvato e condotto svenuto al Palazzo Reale da Perrone. A questo punto la folla si fa davvero consistente e Masaniello la arringa dalla fontana con i delfini, lo stesso punto, più o meno, dove trovò la morte per decapitazione Corradino di Svevia: non si sa di preciso cosa abbia detto, secondo alcuni semplicemente di ribellarsi e incendiare le botteghe dei dazi, secondo altri un discorso da capo con la promessa che, grazie alla Madonna del Carmine e il patrono San Gennaro, la sofferenza sarebbe ora finita. Masaniello, a capo di quasi mille persone, distrusse i locali del dazio e si diresse a Palazzo Reale per prendere Naclerio, rifugiato nelle stanze della moglie di don Rodrigo. Quello scappa, ma la rivolta si sta propagando in tutta la città e i soldati vengono man mano disarmati. Il viceré prepara la fuga e si rifugia al convento di San Luigi, da dove, sotto suggerimento del conte genovese Sauli, scrive dei bigliettini dove annuncia la soppressione della gabella e li lancia alla gente. Non è sufficiente per don Giulio Genoino, che vuole la reintroduzione di un discusso privilegio concesso al Regno di Napoli dall’imperatore Carlo V, con cui si stabiliva uguale rappresentanza per patrizi e plebei, oltre a una giusta redistribuzione dell’onere delle gabelle. Contemporaneamente in città venivano aperte le carceri e compiuti saccheggi, con i camorristi Perrone e Palumbo stavolta a capo di alcuni insorti – chissà se il viceré lo sapeva. Alla sera Masaniello fa suonare le campane del Carmine per adunare la gente, dando appuntamento per il giorno successivo: bisognava far abbassare anche la tassa sulla farina; don Rodrigo d’Arcos si è rifugiato al Maschio Angioino e ci resterà tre giorni. Masaniello ora è consapevole di quanto potere abbia nelle proprie mani; Genoino lo lascia fare, i due guappi pure. Il caporivolta dà i primi ordini, primo tra tutti abbassare il prezzo del pane, girando per gli esercizi, controllando di persone e minacciando di tagliare la testa agli imbroglioni. Inevitabilmente si concede qualche vendetta: per esempio, dà al fratello un elenco di case da bruciare, tutte appartenenti a uomini corrotti, con l’ordine puntualmente rispettato di non rubare neanche la cosa più insignificante: tutto alle fiamme. I consensi attorno a Masaniello crescono, a un certo punto medita una rottura con la Spagna, dato che può facilmente conquistare i castelli, ma Giulio Genoino lo fa desistere perché non vuole rinunciare alla protezione del Re, bensì solo le riforme: è la scelta, forse, che condanna Masaniello a morte. Don Rodrigo era convinto, in fondo, che si trattasse solo di un po’ di caos, il capriccio di un pescivendolo che presto sarebbe stato abbandonato, o si sarebbe scocciato. Un pescivendolo facilmente ammansibile, magari con un vitalizio consistente, da signore, ma il tentativo di corruzione non sortisce effetto. Altri individui bisogna dunque comprare, e allora gli avvocati Mastellone e De Palma fanno spuntare un documento che somiglia al privilegio di cui parla Genoino, che provvede personalmente a integrare e renderlo uguale all’originale, che secondo lui, evidentemente, si trova in Spagna. Genoino crede di non aver più bisogno di Masaniello, del quale il viceré può fare ciò che vuole: la notte tra mercoledì e giovedì, la vita di Masaniello è attentata due volte, prima con un coltello e poi con cinque colpi di archibugio, ma la colonna di nemici viene afferrata dal popolo devoto e giustiziata per essersi ribella al Re e al popolo: decapitati, teste infilzate sui pali in mostra al mercato e circa 30 corpi trascinati in città. Il privilegio viene letto finalmente nella Chiesa del Carmine e approvato dal popolo, ora Masaniello può andare dal viceré, insieme a Genoino e al mediatore cardinale Filomarino, affinché fosse firmato; per l’occasione don Rodrigo gli ha fatto consegnare un veste d’argento. Durante il tragitto Masaniello ripete più volte alla gente di incendiare tutta Napoli se non dovesse tornare dal palazzo, però tutto va liscio e dal balcone saluta la folla, oltre a baciare i piedi al viceré tra le acclamazioni della plebe, ricevendo in cambio il titolo di capitano del popolo e una collana d’oro, accettata solo una volta ricevuta l’autorizzazione dei popolani. Sono i primi segnali del suo crollo nervoso. I giorni seguenti prosegue a governare con i soliti buoni propositi, distribuisce le vivande, fa saccheggiare i tesori dei disonesti e le case dei nobili scappati per le opere utili al popolo, ristabilisce l’ordine pubblico. Con don Giulio e il nuovo eletto Francesco Arpaja però è sprezzante e irrispettoso, il suo comportamento si fa stravagante, anche nel Duomo in occasione del giuramento sul privilegio. Masaniello ha vinto la sua lotta, anche i suoi manovratori, i quali ora meditano la sua morte. Prima di tutto bisogna fargli mancare un favore così incondizionato della gente, dunque viene sparsa la falsa voce della pederastia di Masaniello, oltre a insinuare che non sia giusto che un semplice pescivendolo comandi sui suoi pari. La domenica annuncia di non voler più comandare e fa smantellare le milizie popolari, la gente festeggia e lui se ne va a Posillipo con il viceré che lo ha invitato, per distrarlo mentre si forma in segreto il nuovo assetto: d’ora in poi gli ordini di Masaniello sono considerati senza valore. Lunedì si sveglia dopo una notte febbricitante e comincia dare ordini, a pretendere esecuzioni, il suo fisico è debolissimo e la gente non lo segue più, essendogli anzi ostile per la sua pazzia. Di sera viene legato e sorvegliato in casa sua, il 16, giorno di celebrazione della Madonna del Carmine, viene destituito e se ne ordina l’incarcerazione fino alla guarigione. Masaniello, però, riesce a fuggire e si reca nella Chiesa, dove tiene sul pulpito l’ultimo amaro discorso in preda alla follia, in cui ricorda i risultati della lotta, ammonisce i concittadini che lo hanno tradito e annuncia la sua morte imminente, poi scese e si denudò in mezzo alla navata. Portato in cella, fu ucciso con alcuni colpi di archibugio da alcuni capitani corrotti e decapitato, il copro ai rifiuti e la testa al viceré come prova. I corrotti sono premiati con cariche di potere e somme di denaro. Il 17 Giugno il popolo si accorge che il pane costa di nuovo come prima e le gabelle reintrodotte, così va a recuperare il corpo disfatto di Tommaso Aniello e lo porta in processione, dopo averlo lavato e ricucito, il 18 Luglio al funerale celebrato dal cardinale Filomarino, forse l’unica persona che ha davvero apprezzato Masaniello, pur allontanandosene dopo le prime stravaganze. Con il feretro davanti al Palazzo Reale, don Rodrigo in segno di lutto fa abbassare le bandiere. Di lui il cardinale Filomarino scrisse, in una lettera al papa: Questo Masaniello è pervenuto a segno tale di autorità, di comando, di rispetto e di ubbidienza, in questi pochi giorni, che ha fatto tremare tutta la città con li suoi ordini, li quali sono stati eseguiti da’ suoi seguaci con ogni puntualità e rigore: ha dimostrato prudenza, giudizio e moderazione; insomma era divenuto un re in questa città, e il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo. Chi non l’ha veduto, non può figurarselo nell’idea; e chi l’ha veduto non può essere sufficiente a rappresentarlo perfettamente ad altri. Non vestiva altro abito che una camicia e calzoni di tela bianca ad uso di pescatore, scalzo e senza alcuna cosa in testa; né ha voluto mutar vestito, se non nella gita dal Viceré.
Non buttiamo tutta la Storia. Nel passato stragi e orrori ma anche valori fondamentali. Si scredita ogni evento e personaggio storico, vedendo solo follie e assassini. E non i risultati, come la libertà...scrive Dino Cofrancesco, Martedì 01/11/2016, su "Il Giornale". Un segno inequivocabile dell'odierna crisi è la perdita della dimensione storica nella coscienza dei cittadini e nel dibattito pubblico. Può sembrare che tale perdita riguardi solo la «repubblica delle lettere» e i programmi scolastici e, invece, a ben riflettere, si trova forse alle origini di quella decadenza dell'etica civile e di quel «mondo della sicurezza» - come lo chiamava il grande scrittore ebreo austriaco Stefan Zweig - in cui «tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità», in cui «i diritti da lui concessi ai cittadini erano garantiti dal parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti». Si ha l'impressione che il discredito della Storia, caratteristico dell'illuminismo francese, sia diventato il senso comune delle masse, registrando la convergenza dei nemici storici dello stato moderno e della secolarizzazione - dai cattolici non liberali ai nostalgici dell'antico regime, dalla sinistra anti-occidentalista agli anarchici di ogni tinta. Nel passato, non si trovano che guerre e conflitti di potere scatenati da ogni forma di governo: monarchie, repubbliche, democrazie hanno fatto a gara per dare lavoro alla grande falciatrice. È tempo di cambiare gli abiti del cuore e i costumi della mente e di abbattere (non solo metaforicamente) i monumenti e i simboli che nelle vie e nelle piazze ricordano i grandi assassini. «Nessun grand'uomo è davvero grande per il suo cameriere», si diceva un tempo: oggi si dice che nessun «padre della Patria» merita gli onori che continuano a essergli riservati giacché, a parte i loro vizi privati, tutti questi «individui cosmico-storici» (come li definiva il filosofo tedesco Hegel) hanno distrutto comunità floride e tranquille, hanno trasformato pacifici cittadini in carne da cannone, hanno sconvolto il mondo con le loro folli ambizioni. «O Bourdaloue - scrive Voltaire nel Dizionario filosofico, rivolgendosi al predicatore di corte di Luigi XIV - voi avete composto, un famoso sermone sull'impurità, che d'altronde vale assai poco. Ma non avete mai detto nulla su questi assassini così numerosi e svariati, su queste rapine, su questi brigantaggi, su questo furore universale che devasta il mondo! Tutti i vizi di tutte le età e di tutti i paesi del globo riuniti assieme non eguaglieranno mai i peccati che provoca una sola campagna di guerra. Fino a che il capriccio di pochi uomini spingerà milioni di nostri fratelli a scannarsi lealmente fra di loro, quella parte del genere umano che si fa dell'eroismo un mestiere sarà la cosa più mostruosa di tutto il creato». Non è casuale che al discredito della guerra il grande illuminista unisse una demistificazione altrettanto radicale della Patrie giacché per poco che sia estesa, vi si trovano spesso parecchi milioni di uomini che non possono dire d'aver una patria. E quanti dicono di averla, mentono spudoratamente. «In coscienza, un uomo d'affari ama veramente la patria? L'ufficiale e il soldato, che metterebbero a sacco il distretto dove sono accampati, se lo potessero, amano proprio teneramente tutti quei contadini che cercano di rovinare?». In sostanza, per Voltaire, patria è ubi bene vivimus e, pertanto, solo l'onesto utile individuale diventa il metro per giudicare la legittimità di uno Stato. Queste idee che dominano incontrastate nell'odierno «illuminismo di massa» allontanano dallo studio della storia o, tutt'al più, lo intendono come «dovere della memoria», impegno a «non dimenticare le vittime», dimenticando il monito di Hannah Arendt: «Esaminare gli eventi solo dal punto di vista delle vittime significa fare dell'apologetica che ovviamente non ha nulla con la storia». Davanti a uno stile di pensiero sempre più pervasivo, che ha rimosso «la centralità della dimensione militare per la definizione della cittadinanza e al tempo stesso della nazione» (Ernesto Galli della Loggia) vengono in mente, e contrario, le riflessioni che il più grande storico italiano della seconda metà del secolo scorso, Rosario Romeo, dedicava al pur apprezzato libro di Mario Silvestri, Isonzo 1917 (1965). Fu davvero, obiettava, la prima guerra mondiale una «inutile strage», per le ecatombi delle trincee, per gli esiti catastrofici che ne seguirono, per il baratro in cui precipitò il vecchio continente? «A questa stregua» però, «non solo la prima guerra mondiale ma le rivoluzioni nazionali del '48 e la stessa rivoluzione francese con le successive guerre napoleoniche, per non parlare delle guerre di religione o delle crociate, appariranno inutili massacri, compiuti per ideali di cui si può mostrare facilmente che non furono più alti di quelli che il Silvestri giudica «falsi» e «grotteschi» del 1914, o che quanto meno simboleggiavano mete assai più agevolmente raggiungibili per altra via». E Romeo concludeva: «In tal modo l'intera vicenda degli uomini può apparire assurda e grottesca: se a fermarci su questa strada non intervenisse il ricordo di quale somma di valori sta invece intrecciata a quel grottesco, e se non fosse doverosa una generale riserva metodica di fronte al patente anacronismo di giudizi come questi, nei quali ideali interessi e aspirazioni del nostro presente vengono assunti a criterio di valutazione di epoche e di uomini che non li conobbero e che si mossero invece sulla scia di altri interessi aspirazioni ed ideali». Le comunità politiche sono «grandi famiglie»: se manca la comprensione profonda dell'opera degli antenati vengono meno i legami che, nel tempo della rinuncia e del sacrificio, continuano a mantenerne i membri uniti: se non c'è più «convenienza», perché dovrebbe esserci lealtà nei confronti di una «casa comune» costruita da persone estranee, lontane e...nocive?
Bloch, il maestro (tradito) della storia senza ideologie. Il fondatore delle "Annales" si battè per lo studio disinteressato del passato. Ma molti suoi allievi dimenticarono la sua lezione..., scrive Francesco Perfetti, Martedì 02/09/2014, su "Il Giornale". Era il 16 giugno 1944. Nei pressi di Lione, sua città natale, uno dei più grandi intellettuali francesi del XX secolo, Marc Bloch, insieme ad altri 26 militanti della Resistenza, venne fucilato da un plotone di esecuzione della Gestapo. Con i suoi 58 anni era il più anziano del gruppo, ma anche il più tranquillo. A un ragazzo sedicenne che, terrorizzato, mormorava: «Mi farà male...» cercò di dare conforto: «Ma no, figliolo, non farà male...». Le sue ultime parole furono «Viva la Francia!». Non tutti, fra i compagni della Resistenza, sapevano chi fosse. Lo conoscevano con i nomi di copertura: «Narbonne», «Chevreuse», «Arpajon». Quell'uomo maturo e compassato, dall'aspetto sobrio e distinto, i capelli grigi, gli occhiali con le lenti tonde e una montatura scura non era un militante politico nel senso stretto del termine. Era, soprattutto, un patriota, che amava la Francia. Aveva combattuto durante la prima guerra mondiale e non aveva esitato, malgrado l'età e una famiglia numerosa che gli avrebbero consentito di rimanerne fuori, a prendere parte al nuovo conflitto iniziato nel 1939 come capitano addetto ai rifornimenti e poi, dopo il 1942, come membro attivo della Resistenza. Nella sua intensa e dolente testimonianza uscita postuma nel 1946, La strana disfatta , scritta nel 1940, ora ristampata in italiano (Res Gestae, pagg. 214, euro 16), Bloch tentò, da francese innamorato della Francia, un «esame di coscienza» per cercare una spiegazione a una sconfitta, prima ancora che militare, morale e culturale, frutto della «letargia intellettuale delle classi dirigenti» e dei «loro rancori», della «gerontocrazia», del «disagio dell'esercito e del paese» e della debolezza etica della borghesia. Bloch era ebreo, «se non di religione, almeno di nascita», ma non rivendicava la sua origine salvo quando, precisava, si trovava «di fronte a un antisemita». Si sentiva, prima di tutto, francese: la Francia, scriveva, «resterà per me, qualunque cosa succeda, la patria da cui non saprei sradicare il mio cuore. Vi sono nato, mi sono dissetato alle sorgenti della sua cultura, ho fatto mio il suo passato, non respiro bene che sotto il suo cielo, e mi sono sforzato, a mia volta, di difenderla quanto meglio ho potuto». La sua passione per lo studio e l'insegnamento della storia presupponeva il suo interesse per la vita, in tutte le sue manifestazioni. Era convinto che «l'incomprensione del presente» derivasse «fatalmente dall'ignoranza del passato» e che compito dello studioso fosse fare «la cernita del vero e del falso». Al centro della sua indagine c'era sempre l'uomo. Lo chiarisce bene una celebre battuta contenuta nelle prime pagine di quell'aureo saggio intitolato Apologia della storia (o Mestiere di storico) , pubblicato postumo nel '46 ma scritto in piena guerra nel '42: «Il buono storico somiglia all'orco della favola: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda». Il suo primo importante lavoro, forse il più suggestivo, fu I re taumaturghi (1924) dedicato alla tradizione medievale che attribuiva ai sovrani francesi la capacità di guarire appestati e scrofolosi con l'imposizione delle mani accompagnata dall'ingiunzione: «il Re ti tocca, Dio ti guarisca!». Non era tanto un saggio su una superstizione popolare, quanto un'analisi approfondita sul rapporto fra potere temporale e potere spirituale e sul «cemento» della loro alleanza. Sotto questo profilo, era anche un bel libro di storia politica europea, impreziosito e vivacizzato da un approccio interdisciplinare, capace di far comprendere una delle caratteristiche del Medioevo, l'alleanza fra Chiesa e Corona. Fondatore nel 1929 con Lucien Febvre, come lui professore a Strasburgo, della rivista Annales d'histoire économique et sociale, egli, estraneo alle degenerazioni della scuola che avrebbe preso il nome da quella rivista, è stato uno degli studiosi che più hanno contribuito a dissipare l'immagine del Medioevo come epoca oscura. Opere come I caratteri originali della storia rurale francese (1931) o La società feudale (1939-1940) sono esemplari. La seconda, in particolare, offre un suggestivo affresco dalla dissoluzione dell'impero carolingio e dalle ultime invasioni barbariche fino alla rinascita del primo Duecento, analizzando la struttura del mondo feudale: le condizioni di vita, la maniera di sentire e pensare, la memoria collettiva, i fondamenti del diritto e, ancora, i legami tra uomo e uomo studiati attraverso il peso dei vincoli del sangue e quelli del vassallaggio, del feudo e della struttura signorile. Al di là dell'eccezionale forza evocativa di pagine letterariamente fini e al di là di una eredità metodologica che fa dell'interdisciplinarietà il suo punto di forza, Bloch ha lasciato un grande insegnamento morale, del quale un'altra traccia è nel volumetto Che cosa chiedere alla storia? (Castelvecchi, pagg. 80, euro 9, a cura di Grado Giovanni Merlo e Francesco Mores) che contiene una conferenza pronunciata davanti a un uditorio composto da tecnici ed economisti il 29 gennaio 1937, poche settimane dopo essere stato chiamato a insegnare storia economica alla Sorbona. Agli ascoltatori, tutti «uomini votati all'azione», Bloch disse che le ricerche degli storici, in particolare dell'economia, sarebbero state «utili» se non addirittura «indispensabili» a condizione che si fossero fondate su una conoscenza «disinteressata» del passato. Per lui la storia era stata spesso screditata perché se ne era fatto un uso ideologico chiedendole «quanto essa per definizione non poteva né doveva dare». Troppo spesso si tendeva a pensare il presente «sotto le spoglie del passato» con il ricorso a false analogie: «se qualcuno ci propone del nuovo in luogo dell'antico, cerchiamo di non imitare il cliente naïf cui un antiquario offre e vende, presentandola come se avesse sostenuto l'austero fondoschiena di Luigi XIV una poltrona fabbricata nel Faubourg Saint-Antoine». La conoscenza del passato, insomma, è essenziale per la comprensione del presente perché il presente non è altro che «la punta estrema di un lungo flusso, in cui ogni ondata dipende, nel suo movimento, sia dalle altre onde vicine che la serrano e la pressano, sia da quelle che da dietro l'hanno spinta in avanti». Ma tale conoscenza, la storia appunto, non può essere né strumentale né piegata a scelte ideologiche. Questa è la grande lezione di Marc Bloch: una lezione, peraltro, presto tradita da molti storici di quella stessa scuola delle Annales e, soprattutto, dai suoi epigoni d'Oltralpe.
La politica usa la storia tra feste nazionali e memoria "di Stato". La proliferazione di ricorrenze e leggi chiude la porta a letture differenti dei fatti. E lo dice un uomo che ha subito il peso della Shoah..., scrive Francesco Perfetti, Sabato 14/05/2016, su "Il Giornale". Alcuni anni or sono Pierre Nora, il grande storico accademico di Francia e capostipite di un filone storiografico basato sui «luoghi della memoria», fu l'animatore insieme a René Rémond di un'associazione chiamata «Liberté pour l'histoire» che promosse un appello contro i rischi della «moralizzazione retrospettiva della storia e di una censura intellettuale». Quel documento, firmato da un gruppo di studiosi di formazione diversa da Pierre Milza a Mona Ozouf, da Marc Ferro a Paul Veyne , sosteneva che «la storia non deve essere schiava dell'attualità né essere scritta sotto dettatura da memorie concorrenti» e si rivolgeva ai politici di ogni schieramento perché comprendessero che «se hanno l'obbligo di custodire la memoria collettiva, con devono istituire, con una legge e per il passato, delle verità di Stato la cui applicazione giudiziaria» avrebbe potuto avere «gravi conseguenze per il mestiere dello storico e per la libertà intellettuale in generale». Il documento suscitò molte polemiche ma riscosse anche molti consensi, ed era un autorevole atto d'accusa contro ogni forma di «storia ufficiale» o ideologica, contro la gestione politica della memoria collettiva. Nora è uno studioso di origine ebraica che ha saputo coniugare l'attività di ricerca accademica con il lavoro di direttore editoriale di una importante casa editrice francese. La sua preoccupazione principale è sempre stata quella di contribuire al recupero del senso di appartenenza nazionale da parte dei francesi, troppo a lungo indottrinati dalla versione resistenziale della guerra imposta alla memoria collettiva e nazionale dal generale Charles de Gaulle in un famoso discorso in cui aveva sostenuto che, con l'eccezione di poche pecorelle smarrite, tutta la Francia era entrata nella Resistenza. Per Nora ciò non era vero perché un tale approccio metteva in ombra o sottovalutava tradizioni storiche diverse. Il punto fondamentale, tuttavia, era che l'imposizione di questa vulgata implicava una «politicizzazione della storia» sotto «il peso della contemporaneità» e con una «chiusura nel presente»: si consumava un «allontanamento dal passato» e si realizzava «il consumo generalizzato di una storia senza nessun possibile ricorso alla minima forma di discriminazione critica». In un piccolo ma succoso libro, introdotto da Antoine Arjakosky, dal titolo Come si manipola la memoria. Lo storico, il potere, il passato (La Scuola, pagg. 96, euro 8,50), Nora sottolinea, con riferimento alla Francia (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi), come fossero apparsi nell'ultimo ventennio due fenomeni, paralleli e in certa misura collegati, rivelatori della tendenza mistificatrice a leggere e considerare il passato con gli occhi della contemporaneità e della visione politica dominante. I due fenomeni sono la proliferazione delle ricorrenze nazionali e le leggi sulla memoria storica. Nora ricorda come, fra il 1880 e il 1990, fossero state istituite soltanto sei festività a carattere nazionale (tra le quali quella del 14 luglio e quella dedicata a Giovanna d'Arco), mentre nel solo periodo 1990-2005 ne fossero state create altre sei (come quelle che ricordano le persecuzioni antisemite o la fine della guerra d'Algeria). La differenza tra le prime e le seconde è, a parere dello studioso, netta e sostanziale: «le sei grandi manifestazioni nazionali del XIX e XX secolo costituivano grandi momenti collettivi di tregua nazionale; le sei più recenti non mobilitano che gruppi ristretti ed esprimono soltanto la pressione sul potere da parte dei militanti e il successo delle rivendicazioni sostenute dalle loro associazioni». Il discorso potrebbe essere traslato nella realtà italiana con riferimento a date si pensi, per esempio, al 25 aprile o al 2 giugno che per molti potrebbero apparire più divisive che unificanti. Il secondo fenomeno denunciato da Nora è quello delle cosiddette «leggi sulla memoria» volute o dalla sinistra o dalla destra, gli interventi legislativi cioè che puniscono la negazione del genocidio degli ebrei o condannano lo schiavismo e la tratta degli schiavi e via dicendo. Si tratterebbe, secondo Nora, di una deriva legislativa inquietante e pericolosa, sia perché rischia di «paralizzare la ricerca» e di «ricordare in modo spiacevole le logiche totalitarie», sia perché appare contraria a ogni forma di approccio storiografico. Scrive Nora che questa deriva legislativa esprime «la tendenza a leggere e a riscrivere l'intera storia dal punto di vista esclusivo delle vittime e una propensione, inaccettabile, a proiettare sul passato dei giudizi morali che non appartengono che al presente, senza tenere nella minima considerazione quella differenza tra periodi storici che è lo stesso oggetto della storia, la ragione del suo apprendimento e del suo insegnamento». Naturalmente Nora, la cui esistenza è stata marcata profondamente dalla Shoah, pur diffidando della legislazione francese contro il negazionismo, non propone una messa in discussione di tale normativa, perché questa ipotesi potrebbe essere vista come un incoraggiamento per chi nega il genocidio. Avverte però che il rapporto fra storia e politica è molto delicato. I politici, a suo parere, hanno il dovere di interessarsi del passato per comporre la memoria collettiva riparando i torti subiti dalle vittime e onorandone la memoria, ma «non attraverso leggi che definiscano i fatti e ne scrivano la storia». Il compito di stabilire i fatti e di cercare la verità è essenzialmente dello storico. Quella di Nora è una riflessione sofferta da parte di uno studioso di grande e riconosciuto spessore il quale, partito dalla storiografia delle Annales, è approdato, attraverso la critica alla storiografia positivistica e a quella marxista, ai lidi di una Nouvelle Histoire dai confini più ampi che recupera l'insegnamento di Marc Bloch. È una riflessione che, rifiutando le vulgate storiografiche di ogni colore e volendo liberare la ricerca dai condizionamenti del potere politico, nasce da profondo di uno spirito autenticamente libero e liberale.
La Terza guerra d'indipendenza accelerò il declino dell'Europa. Nell'ottobre 1866 l'Austria dovette cedere parte dei domini nella Penisola. Lo scontro destabilizzò tutto il continente, scrive Francesco Perfetti, Giovedì 20/10/2016, su "Il Giornale". Quando, il 20 giugno 1866, il Re Vittorio Emanuele II annunciò che l'Italia con «il florido esercito e la formidabile marina» e con «la simpatia dell'Europa» sarebbe entrata in guerra contro l'Austria, il Paese fu percorso da una ondata di entusiasmo quale, forse, non si era mai registrato prima. Scrisse Edmondo De Amicis: «Gran giorni sono questi per l'Italia! Gran guerra! È una crociata! Dovrebbero andarci tutti alla guerra, tutti, da esserci a milioni a milioni, che i nemici avessero paura, e smettessero persino l'idea di resistere e aprissero le porte delle fortezze». L'esito del conflitto, passato alla storia come Terza guerra d'indipendenza, fu tale da trasformarlo nel meno amato degli scontri militari del Risorgimento. Le due sconfitte quella di terra, a Custoza, e quella in mare, a Lissa fecero passare in secondo piano il fatto che il Regno d'Italia, a operazioni concluse, avesse ottenuto il Veneto e avesse compiuto, così, un passo decisivo verso la conclusione del processo unitario. In realtà la terza guerra d'indipendenza fu uno dei capitoli più importanti della storia non solo italiana, ma anche europea, come ben dimostra uno storico militare francese dell'Università di Montpellier, Hubert Heyriès, in un bel volume dal titolo Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta (Il Mulino, pagg. 352, Euro 25) che ne ricostruisce con finezza di analisi le premesse, le fasi e le conseguenze di lungo periodo in una ottica che non è soltanto quella della storia nazionale italiana. Del resto, già molti decenni or sono, un grande storico, Franco Valsecchi, cresciuto alla scuola di Gioacchino Volpe e di Benedetto Croce, esortava, con una apparente battuta, i suoi colleghi ad abbandonare la tradizione storiografica italocentrica e a studiare «Torino visto dall'Europa e non l'Europa vista da Torino». Alla vigilia dello scontro militare che coinvolgerà la Prussia, il Regno d'Italia e l'impero asburgico c'erano sul tappeto almeno tre «questioni». Sullo sfondo c'era, sì, la «questione italiana», che riguardava Roma ma anche, e soprattutto, Venezia: e, in quel momento, il «mito di Venezia», alimentato dagli esuli veneti in Piemonte e Lombardia che parlavano nostalgicamente dell'antica e gloriosa Repubblica di Venezia come del «bastione avanzato dell'Occidente», era particolarmente forte. Ma c'era anche una «questione tedesca» perché la Germania come Stato nazionale ancora non esisteva e la rivalità fra la Prussia di Bismarck e l'Austria di Francesco Giuseppe per il controllo dei Land tedeschi e dei ducati dell'Elba era ormai al limite di rottura. E, come se non bastasse, ancor più sullo sfondo, c'erano le pulsioni delle minoranze nell'impero austriaco, multietnico, multiconfessionale e multiculturale. Quella che, per gli italiani, sarebbe stata la terza guerra d'indipendenza fu, dunque, in realtà, una grande guerra europea che, all'inizio, prima che la parola passasse alle armi, si cercò di combattere nelle felpate stanze della diplomazia. Fu una guerra che si iscrive, a pieno titolo, nel fenomeno della cosiddetta «rivoluzione delle nazionalità» iniziata con la «primavera dei popoli» del 1848. Anche le conseguenze furono notevoli, di portata europea, se non addirittura mondiale dal momento che la storia era, all'epoca, tutta eurocentrica. Quel conflitto, infatti, a parte la cessione del Veneto al Regno d'Italia, gettò le basi delle pretese egemoniche tedesche sancendo il potere della Prussia e suscitando preoccupazioni e inquietudini da parte francese: sotto un certo profilo nacque lì quell'antagonismo franco-tedesco esploso, poi, nel 1870 con la guerra franco-prussiana e destinato ad attraversare, come un sottile filo rosso, tutta la storia successiva almeno fino al 1945. La guerra del 1866, però, segnò anche l'inizio del declino della potenza asburgica, costretta ad accettare, nel 1867, il «compromesso» che trasformò il vecchio Impero austriaco nella Monarchia austro-ungarica. Non solo: con l'abbandono dei territori italo-tedeschi, Vienna fu costretta a spostare la propria sfera di influenza verso i Balcani entrando in conflitto con la Russia da sempre protettrice degli Slavi. Insomma, a rifletterci bene, quella guerra austro-prussiana, per l'Italia terza guerra d'indipendenza, fece germinare alcuni dei conflitti-latenti che sarebbero stati all'origine della prima guerra mondiale. Il Regno d'Italia era stato proclamato da pochi anni, il 17 marzo 1861, e quella del 1866 fu la prima prova militare che esso si trovò a dover affrontare. Il suo esercito era forte, numeroso e organizzato, ma scontava una serie di debolezze strutturali dovute, per un verso, alle modalità con le quali erano state incorporate le truppe dei vecchi Stati preunitari e, per altro verso, alla carenza di una unità di comando per tacere delle rivalità personali fra i generali. Fatto sta che l'esercito italiano non fece, pur essendo in una situazione di forte superiorità numerica, bella prova di sé. A Custoza, per il mancato coordinamento fra le armate guidate da Alfonso La Marmora e da Enrico Cialdini, fu una vera tragedia. Alcune testimonianze raccontano che La Marmora, mentre le cose si mettevano male, fu visto aggirarsi disperato mormorando: «Che disastro! Che catastrofe! Nemmeno nel 1849!». A Lissa le cose non andarono meglio. La nostra marina, pur essa in situazione di superiorità rispetto a quella austriaca, subì una sconfitta umiliante con due corazzate affondate e centinaia di morti. Il ricordo di Lissa rimase inciso nella memoria degli italiani tant'è che, molti decenni dopo, Gabriele D'Annunzio nella Canzone della gesta d'Oltremare lo avrebbe evocato con alcuni versi divenuti popolari: «Emerge dalle sacre acque di Lissa/ un capo e dalla bocca esangue scaglia:/ Ricordati! Ricordati|! e s'abissa». L'unica significativa vittoria militare la riportò Garibaldi a Bezzecca con il suo Corpo Volontari Italiani. Le sorti della guerra furono decise dal successo dei prussiani sugli austriaci a Sadowa, ma l'Italia ottenne comunque il Veneto sia pure con una procedura umiliante: l'Austria, infatti, non intendendo cedere territori a uno Stato da essa sconfitto in battaglia, lo cedette al neutrale Napoleone III il quale lo trasferì al Regno d'Italia. Malgrado la pessima prova delle armi, le aspirazioni italiane furono così assecondate grazie, in primo luogo, al gioco politico internazionale. Sotto questo profilo, la Terza guerra d'indipendenza fu, in un certo senso, una guerra vinta. Ma non solo. Lo fu anche, e soprattutto, perché, come sostiene Heyriès, quella guerra contribuì a sviluppare il senso della «comunità nazionale» che si manifestò attraverso la riorganizzazione delle forze armate e lo sviluppo di un culto degli eroi e di una letteratura popolare destinata a favorire, pedagogicamente, la «solidarietà nazionale» o, se si preferisce, la «nazionalizzazione delle masse» del giovanissimo Stato.
Il plebiscito del Veneto fu una truffa ma la sinistra non vuole dirlo. Un saggio diffuso dalla Regione Veneto dice la verità sul plebiscito di annessione del 1866. Ed è subito polemica, scrive Carlo Lottieri, Venerdì 02/09/2016, su "Il Giornale". È polemica: ed è bene che sia così. La diffusione di un volume di Ettore Beggiato (1866: la grande truffa. Il plebiscito di annessione del Veneto all'Italia, Editrice Veneta) sul modo in cui il Veneto 150 anni fa è stato «italianizzato» dopo la terza guerra d'indipendenza, a seguito di un referendum truffaldino, disturba gli intellettuali progressisti. Sul quotidiano veronese L'Arena ieri si riportavano alcune prese di posizione negative nei riguardi del libro. Secondo Carlo Saletti saremmo di fronte a «un uso distorto della storia», piegata a ragioni politiche. Una tesi condivisa da Federico Melotto, direttore dell'Istituto veronese della storia della Resistenza, per il quale con questo volume «si vuole dare un messaggio politico partendo dal plebiscito per lanciare una critica all'Italia di oggi». Il tono è di contestazione, ma con ogni probabilità l'autore sarebbe in parte d'accordo. Già assessore regionale e appassionato cultore della storia della Serenissima, Beggiato si propone di smontare la lettura tradizionale di una popolazione veneta ben felice di lasciare l'Impero asburgico per unirsi alle popolazioni italiche. Il volume è tutt'altro che paludato: vuole interessare e farsi leggere. Chi l'ha scritto, per giunta, non cela in alcun modo la propria speranza che Venezia e gli altri territori possano presto decidere del proprio futuro (con un referendum democratico), tornando indipendenti come furono per secoli. Beggiato ha insomma esaminato il passaggio storico del 21 e 22 ottobre 1866 per illuminare l'attualità: per far comprendere ai veneti di oggi per quale motivo devono pagare le tasse a Roma, e non a Vienna. Guarda il passato per criticare il presente, senza dubbio. Ma dove sarebbe il problema? Non è forse utile leggere la storia per capire il nostro tempo? I due studiosi evocano controverse questioni di metodologia, ma le loro parole lasciano perplessi: specie pensando che per Benedetto Croce ogni storiografia è contemporanea, dato che il passato ci interessa in quanto esso ha di tuttora vivo. Una cosa non viene detta da Saletti, né da Melotti: che Beggiato racconti falsità. Il libro, in effetti, è inattaccabile e il plebiscito fu un inganno da ogni punto di vista. Non fu garantito l'anonimato, votarono soggetti che non ne avevano titolo (i soldati italiani di stanza in Veneto, ad esempio) e, soprattutto, i dati resi noti non possono corrispondere ai voti reali. È significativo che gli storici «accademici» nulla contestino, sul piano dei fatti, a quanto Beggiato afferma, né difendano la regolarità del referendum: anche perché si renderebbero ridicoli. Di fronte a risultati ufficiali che parlano di 647.246 voti favorevoli e solo 69 voti contrari (l'equivalente del 99,9%), chi conosce cosa sia l'errore statistico sa che l'annessione del Veneto all'Italia fu costruita su un imbroglio. Un argomento è usato dai due storici contro il volume di Beggiato: ed è la decisione della Regione di regalarlo alle biblioteche del Veneto, anche scolastiche. La critica potrebbe avere una sua plausibilità (può un ente pubblico sostenere un'iniziativa culturale di parte?) se solo non sapessimo che le scuole pubbliche sono «apparati ideologici di Stato», per usare la formula del marxista Louis Althusser: sono da sempre realtà schierate a difesa del potere vigente e delle sue retoriche (dal Risorgimento alla Resistenza, dall'ecologia all'Europa, dalla solidarietà alla legalità). È allora soltanto positivo che una pecora nera come Beggiato trovi spazio tra tante pecore bianche, che belano tutte nello stesso modo. È poi interessante rilevare come per Melotto il referendum fosse sì ridicolo, ma perché tale doveva essere: «L'annessione fu decisa dal punto di vista diplomatico», dato che «il plebiscito serviva a sancire una situazione di fatto». Fu insomma una truffa, come dice Beggiato, ma «non può essere definito scandaloso questo modo di procedere perché nell'800 era la diplomazia a prendere le decisioni, non il popolo». Per Melotto non ci si deve proprio scandalizzare se nell'Ottocento la gente non contava e neppure a questo punto se in varie parti del mondo c'era ancora la schiavitù. Se però i veneti conoscessero meglio la loro storia, forse anche certa retorica nazionalista avrebbe assai meno presa. E questo sarebbe solo positivo.
Dopo l’intervento di Carlo Lottieri, dibattuto poi anche su altri quotidiani, ospitiamo ora quello di Dino Cofrancesco.
Plebisciti "senza valore"? Ma il Risorgimento è un simbolo, non si tocca. Più che la conta dei voti, alle urne si affermò un principio: lo Stato nasce dalla volontà dei popoli, scrive Dino Cofrancesco, Sabato 17/09/2016, su "Il Giornale". Come raccontato dal "Giornale" il 2 settembre scorso, è polemica, in Veneto, per la distribuzione, da parte della Regione, di un volume di Ettore Beggiato intitolato "1866: la grande truffa", sul plebiscito di annessione del Veneto all’Italia. La conoscenza storica è costituita da fatti e da interpretazioni: i fatti senza le interpretazioni sono ciechi, le interpretazioni senza il solido sostegno dei fatti navigano nel vuoto. Il mondo è pieno di fatti: sono materiali infiniti che possono venir impiegati per gli usi più diversi e si prestano a dimostrare qualsiasi tesi, basta toglierli dal loro contesto. Grazie ad essi una vicenda epocale o un «eroe» - un individuo cosmico-storico, per dirla con Hegel possono venir ridotti a leggende da demistificare impietosamente. Tempo fa, nelle bancarelle del kitsch, si vendeva un wc con la scritta: «Saranno grandi i Papi, saran potenti i re ma quando qui si siedono son tutti come me». E allora dài: vento in poppa e demoliamo tutti gli idoli, i simboli, i luoghi sacri della memoria. Nessuno è grande per il suo cameriere e perché Cavour e Garibaldi, Giolitti e De Gasperi dovrebbero fare eccezione? Da qualche tempo i topi d'archivio che non hanno mai letto una pagina di Volpe, di Croce, di Romeo (o l'hanno letta male e superficialmente), fanno a gara nella scoperta dell'acqua calda. I plebisciti che sancirono l'annessione dei vecchi stati e staterelli della penisola all'Italia? Tutti truccati: votarono alcuni che non ne avevano titolo e le schede degli altri vennero manomesse. Veramente lo avevamo già letto in quello straordinario romanzo storico che è Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ma, come si suol dire, repetita iuvant e chissà quante ricerche si possono ancora fare per dimostrare, ad esempio, che i ciociari e gli irpini non sapevano neppure su cosa erano chiamati a pronunciarsi nel giorno delle votazioni. Nessun sospetto che nell'Ottocento i plebisciti non avessero tanto il compito di registrare le disposizioni reali degli elettori, quanto di affermare un principio ideale: che gli Stati non sono costruzioni delle diplomazie ma nascono dalla volontà dei popoli. Ma i simboli, evidentemente, non fanno più parte del racconto storico. Una saggistica pletorica e ridondante, per mezzo secolo, ha imbottito i crani della sinistra per dimostrare che il processo di unificazione fu un colpo di mano dinastico, nell'indifferenza assoluta delle varie regioni italiane, e che si trattò di una vera e propria conquista piemontese, risoltasi nel Meridione in un'aperta colonizzazione di sfruttamento. Da qualche tempo, però, il refrain sembra appannaggio degli antiunitari di destra, cattolici, liberisti, secessionisti, neo-borbonici etc. Le scuole pubbliche, scrivono, sono da sempre schierate a difesa dello Stato e, pertanto, non ne poteva derivare se non un'idea distorta del Risorgimento. Ho frequentato, nel centro-sud, il liceo classico nella seconda metà degli anni Cinquanta ma non me n'ero accorto. Sia allora sia in seguito, nella facoltà di Lettere, mi hanno fatto leggere storici come Walter Maturi, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Rosario Romeo etc. che sul complesso dramma risorgimentale avevano scritto pagine ancora oggi attuali. Incuriosito, sono andato poi a rileggermi quello che oggi mi sembra il maggiore storico del Novecento italiano, Gioacchino Volpe, per vedere se un'immagine edulcorata e retorica delle guerre d'indipendenza potesse ritrovarsi almeno negli scritti di uno studioso monarchico e nazionalista. Peggio che andar di notte, giacché il primo volume di quel capolavoro storiografico che è Italia moderna. 1815-1898 ripubblicato nel 2008 dalle Lettere con una splendida introduzione di Francesco Perfetti descrive l'Italia dell'Ottocento nelle sue luci e nelle sue ombre e, anzi, più in queste che in quelle. In realtà, la banalizzazione della tesi crociana che ogni storia è storia contemporanea ha portato molti intellettuali militanti di altro segno rispetto ai loro omologhi del '68 - a combattere le loro battaglie contro lo Stato nazionale, il welfarismo, il solidarismo buonista proiettandole nel passato e mostrando, nelle malefatte registrate nel passato, le antecedenti di quelle che si riscontrano oggi e che vanno radicalmente rimosse. Ci troviamo dinanzi a una letteratura paradossalmente cartesiana e illuministica: tutto ciò che è tradizione, identità comunitaria, sentimento di appartenenza diventa «sovrastruttura», illusione ottica, inganno di Ancien Régime. Gli antiunitari dei nostri anni, come i marxisti d'antan, proclamano che i proletari - nel loro caso, i cittadini comuni - non hanno patria e che agli individui stanno a cuore solo i diritti a tutela dei loro legittimi interessi prima il diritto al lavoro, ora il diritto incondizionato - al mercato. In entrambi i casi, alla concretezza della politica fatta di ragion di stato, di conflitti di potere che trovano la loro mediazione in qualcosa che li trascende si sostituisce l'universalismo per il quale la patria è ubi bene vivimus fosse pure a tremila km dal luogo natio e con figli che ignorano la lingua dei nonni. Mai illusione fu più pericolosa di questa giacché, mentre l'universalismo della sinistra rinvia a una ragione implacabile e consequenziale che portava Tocqueville a chiedersi: perché l'eguaglianza deve arrestarsi di fronte alla proprietà? l'universalismo liberista poggia su una ragione assai più debole che lo porta, ad esempio, a giustificare l'ineguale distribuzione dei beni, su cui si fonda il mercato, col principio, per molti irrazionale, che assegna i beni del mondo ai meritevoli (e perché non ai bisognosi?). In realtà, tra gli Individui e l'Universo ci sono le comunità politiche, che non si reggono solo sull'interesse e sulla ragione ma sulle tradizioni, sulle culture in senso antropologico, sulle appartenenze che definiscono le identità, sull'etica del destino. Ne sono consapevoli quei secessionisti che, alleati occasionali dei liberisti, vogliono restaurare la Repubblica Veneta, ma sembrano ignorare che la grandezza dello Stato nazionale, come insegna Pierre Manent, fu nella capacità di mediare fra la Tribù e la Cosmopoli, e che la riscoperta delle radici venete è regressione barbarica come l'universalismo puro (liberista e socialista) è espressione della ragion nichilista.
L'annessione di Napoli all'Italia? Ancora divide. Il tema suscita prese di posizioni nette. Tra pure celebrazioni e revisionismo, scrive Eugenio Di Rienzo, Sabato 12/11/2016, su "Il Giornale". Qualche anno fa, Paolo Mieli mi pose un interrogativo imbarazzante e di non piccola portata. Mi chiedeva perché la storiografia italiana che era riuscita finalmente a fare i conti con questioni tanto laceranti per la coscienza civile del nostro Paese (il fascismo, il conflitto civile del 1943-1945, il lungo e difficile dopoguerra, i terribili «anni di piombo») tardasse ancora a farli con l'allargamento del processo unitario al Mezzogiorno e con l'opposizione (armata e intellettuale) che una parte considerevole delle popolazioni meridionali aveva opposto tra 1860 e 1870 al quel processo. Rispondere a quel quesito, adducendo a scusante la vischiosità dei paradigmi storiografici mi sembra insufficiente, pensando a come, proprio durante le recenti celebrazioni cento cinquantenarie dell'unità d'Italia, la pur doverosa replica alle tesi revisioniste della cosiddetta tendenza neo-borbonica sia stata, in molti casi, quella di celebrare quell'evento senza analizzarlo nel profondo. È vano soliloquio, infatti, parlare di «lager dei Savoia», di «genocidio del Sud». Ma non dimentichiamo la prigionia dura e infamante alla quale furono sottoposti soldati e ufficiali che avevano lealmente seguito Francesco II di Borbone nell'ultima resistenza e gli spietati metodi di contro-guerriglia, ispirati a quelli sperimentati dall'esercito francese in Algeria, utilizzati dai governi di Torino e di Firenze per spegnere l'insorgenza antiunitaria. Altrettanto stolto è, però, cullarsi nella mitologia risorgimentista del 1860, come «anno dei miracoli», dimenticando colpevolmente o tacendo colpevolmente che per una parte degli Italiani quell'anno fu piuttosto l'«anno orribile» della sconfitta per mano straniera, della perdita della sovranità economica e politica, del peggioramento delle loro condizioni di vita, dell'inizio del linciaggio morale cui li espose un sentimento anti-meridionale di chiaro stampo razzista. Storiografie di altri popoli hanno affondato il bisturi con rigore scientifico sì ma anche con spietatezza nel loro passato, in quel passato che costituì appunto il prologo drammatico al loro farsi Nazione. Nessuno storico inglese, ormai, si sente legittimato a passare sotto silenzio gli orrori delle guerre anglo-scozzesi del XIV secolo, prolungatisi nelle rivolte giacobite del 1715, del 1719 e del 1746, che portarono, tra lacrime, sangue e fango e una spietata campagna di repressione contro le popolazioni civili, alla nascita e poi al consolidamento del Regno Unito. Nessun analista del passato statunitense nega il carattere di conflitto intestino della guerra d'indipendenza americana che fu, certo, guerra di liberazione contro la tirannia della madrepatria ma anche scontro fraterno tra americani decisi a rimanere fedeli sudditi della corona britannica e connazionali risoluti a separare i loro destini da quelli della loro terra d'origine. Persino pochi storici russi sono disposti oggi a criminalizzare l'azione dei molti che, restati fedeli alla dinastia dei Romanov, si opposero nella sanguinosa guerra civile, protrattasi dal 1917 al 1922, all'avvento del regime bolscevico. Anche da noi, in questi ultimi tempi, la situazione sta, però, fortunatamente mutando. Grazie all'attività di alcuni studiosi l'esistenza e la non trascurabile consistenza di un sentimento nazionale napoletano, diffuso, ancora dopo il 1860, non solo tra le masse contadine e il «proletariato straccione» delle città ma anche tra il ceto civile, la classe colta, l'esercito e la burocrazia di quello che era stato il Regno delle Due Sicilie, è divenuto «problema storiografico», in tutta l'ampiezza e dignità di questo termine. Ed è ad approfondire questo problema, e in particolare a mostrare come, tra 1861 e 1870, la «questione napoletana» sia stata argomento che travalicò i confini del Regno d'Italia, fino a imporsi all'attenzione dei Governi, dei Parlamenti, dell'opinione pubblica dei maggiori Stati Europei, che questo mio lavoro è dedicato. Del resto, anche Croce in un articolo del 1924 riconobbe l'esistenza di un patriottismo napoletano, ben radicato tra «i soldati ligi alla loro bandiera, i politici che volevano serbare all'Italia meridionale l'indipendenza, i cortigiani affezionati alle persone dei sovrani», definendolo un impulso del tutto naturale poiché «il Regno di Napoli non si dissolveva per un moto interno, ma veniva abbattuto da un urto esterno (sia pure dall'urto di una forza italiana), che incontrò consenzienti nel paese, ma anche non pochi dissenzienti e repugnanti».
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già “meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce “isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è “rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli ebook scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre richieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».
Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?
«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».
È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?
«Vero. Spero che mi venga perdonato».
Com’è nata l’idea di Terroni?
«Avevo delle domande, cercavo delle risposte. Se davvero a fine Ottocento i meridionali erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».
Ha ricevuto offese o minacce?
«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».
Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.
«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».
Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?
«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».
Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?
«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».
Che cosa pensa dei Savoia?
«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».
Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.
«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».
E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?
«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo passato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».
E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?
«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».
La peggiore figura del Risorgimento?
«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».
Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?
«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».
Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.
«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».
Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?
«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».
Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?
«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».
Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?
«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».
Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.
«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».
In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.
«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Carignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».
Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?
«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».
Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?
«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».
S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.
«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».
Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.
«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».
Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.
«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’ingiusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».
Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meridionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».
«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».
Lei ha fatto il servizio militare?
«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».
Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?
«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».
Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?
«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».
Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?
«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».
Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?
«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».
Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?
«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».
Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?
«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».
Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?
«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».
La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.
«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».
C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.
«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».
Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?
«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».
Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.
«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».
Per chi vota?
«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».
Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.
«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».
Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.
«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».
A sfottere godiamo: siam settentrionali.
ITALIANI. FRATELLI COLTELLI.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni. Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe. Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari. "Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto. Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
POLENTONIA, PADANIA (O PATANIA), BARBARIA CONTRO TERRONIA.
Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
Quel nord che ha
educato i meridionali alla minorità. Pino Aprile (giornalista, autore di
Terroni) su “Onda del Sud”. «Ma le
sembra il momento di raccontarlo?», mi ha chiesto, in un dibattito alla radio,
uno dei nostri maggiori storici, a proposito del mio Terroni, tutto quello che è
stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali. Mi son cascate
le braccia e ho risposto: «Sono passati 150 anni, professore, e ancora non avete
trovato il momento giusto per dirci come sono andate davvero le cose? Le nostre
cose. Ho fatto elementari, medie, superiori, ho cambiato tre facoltà
universitarie (abbandonate per il giornalismo): avessi trovato un rigo sulle
stragi compiute al Sud dai piemontesi per unificare l’Italia. Stupri, torture,
esecuzioni e incarcerazioni di massa; il saccheggio delle risorse del Regno
delle Due Sicilie, la chiusura, persino a mano armata e sparando sugli operai,
delle aziende, fra cui i più grandi stabilimenti siderurgici del tempo in
Calabria, a Mongiana, o le più grandi officine meccaniche a Pietrarsa (Napoli),
studiate da tutti i paesi industrializzati contemporanei. Venne distrutta
un’economia che stava costruendosi un futuro ed ebbe solo un passato». Mi è
stato anche detto che il sorprendente successo di Terroni sta generando un
movimento di popolo, una sorta di leghismo del Sud, simmetrico e opposto a
quello di Bossi e complici. Ma è una immeritata sopravvalutazione del libro, il
cui risultato è conseguenza, non causa, di sentimenti e risentimenti ormai
diffusi e in crescita al Sud. Ripeto: ci sono libri che cambiano la gente e la
storia, ma Terroni non è fra questi. Mio padre non si chiamava Giuseppe e non
faceva il falegname e io sono nato di febbraio. E pur avendo portato la barba
per anni, sono mai stato a Treviri. Salviamo almeno le proporzioni, cercando
però di non esagerare all’incontrario. «Lei non è uno storico», mi è stato
rimproverato. Appunto, sono giornalista, pratico la professione che consiste
nell’entrare negli argomenti con curiosità e tecniche di divulgazione. Vale per
la cronaca, l’economia, lo sport, la politica, e persino (può capitare, bisogna
farsene una ragione) la storia. Insomma, se ci hanno detto che il Sud, al
momento dell’Unità, era povero, arretrato e oppresso e scopro che non era vera
nessuna delle tre cose, lo dico o no? Lo dico. E arrivo pure buon ultimo.
Non era povero, e ce lo avevano spiegato giganti del meridionalismo, da Giustino
Fortunato (alla fine, disse che si stava meglio con i Borbone), a Francesco
Saverio Nitti (da presidente del Consiglio, scoprì che quando si fece cassa
comune, i due terzi dei soldi all’Italia unita li aveva portati il Sud, e il
resto d’Italia messo insieme provvide all’altro terzo), ad Antonio Gramsci. E lo
ha ora dimostrato il Cnr, con lo studio sulla ricchezza prodotta, regione per
regione, anno per anno, dal 1861 al 2004. Non c’era differenza fra Nord e Sud e
ci vollero ottant’anni di discriminazione e rapina per concentrare nel meridione
tutta la povertà del paese. Ma, pur nella ferocia dei tempi, la distribuzione di
quella pari ricchezza era tale che mentre dal Nord si emigrava a milioni, dal
Mezzogiorno no. In millenni la gente cominciò ad andar via dal Sud solo dopo
l’Unità e la creazione di quella che poi fu chiamata Questione meridionale.
Prima il sud era sempre stato terra di immigrazione, in cui erano arrivati
popoli da ogni dove. E non era arretrato. Si usa ricordare che mentre Piemonte e
Lombardia avevano una vasta rete ferroviaria, il Sud, che pure era stato il
primo a far viaggiare i treni, era rimasto indietro. Un confronto disonesto: se
quelle regioni del Nord non hanno sbocco sul mare, il Regno delle Due Sicilie,
con migliaia di chilometri di coste, aveva programmato decenni prima lo sviluppo
dei commerci via mare, dotandosi della seconda flotta commerciale del
continente; Napoli era la terza capitale europea, partoriva brevetti e nuove
discipline (vulcanologia, archeologia, economia politica…). Se ricordi queste
cose, ti rimproverano di essere nostalgico borbonico (non è; ma anche fosse?),
monarchico (boom! Nemmeno se sul trono ci fossi io!), e di descrivere quel Sud
bello e perduto come un Eden (il solito Galli Della Loggia, ma non solo), mentre
c’erano i cafoni, le plebi. Vero, come nelle contemporanee Parigi dei Miserabili
di Hugo e Londra di Dickens. E se le altrui eccellenze fanno dimenticare le
plebi, le plebi meridionali cancellano le eccellenze. Quanto all’essere oppressi
(in quel Sud tomba di Pisacane, fratelli Bandiera e oppositori indigeni),
Lorenzo Del Boca rammenta che a giustiziare il maggior numero di patrioti
italiani non fu l’Austria, ma il Piemonte. Ai meridionali, la liberazione per
mano savoiarda costò centinaia di migliaia di morti (Civiltà Cattolica scrisse:
un milione), con paesi rasi al suolo e la gente bruciata viva nelle case, dopo
il saccheggio e gli stupri. Tutti «briganti»! Cominciò allora quella «educazione
alla minorità» che indusse i meridionali ad accettare un ruolo subordinato e
certi settentrionali a ritenersi italiani meglio riusciti, con più diritti. Ma
se mi dicono che il paese fu unito da mille idealisti nordici che liberarono
«quelli là», tuttora fannulloni e delinquenti, nonostante ci si sveni per loro
da 150 anni, ti meravigli se non li sopporto più e divento leghista? E se sono
pure razzista e li chiamo «porci» (Bossi), «topi da derattizzare» (Calderoli,
come Goebbels), «merdacce mediterranee» (Borghezio), «cancro» (Brunetta).
Sconfitta la Germania di Hitler, fu indetta una conferenza stampa per comunicare
la fine del nazismo e la liberazione dell’Europa. «Un passo avanti per la
civiltà?», chiese un giornalista. «Cosa? Civiltà? Bella idea, qualcuno dovrebbe
cominciare», fu la risposta. Cosa? Unità d’Italia? Bella idea, qualcuno dovrebbe
cominciare. Almeno dopo 150 anni, visto che è stato fatto un Paese disunito: in
una sua parte fornito di infrastrutture, autostrade, treni ad alta velocità; e
in un’altra ci sono oggi mille chilometri di ferrovia in meno rispetto a prima
della seconda guerra mondiale. Matera, capoluogo di provincia, aspetta ancora
«la vaporiera» delle Fs, e l’alternativa a mulattiere asfaltate è la
Salerno-Reggio Calabria.
Mimmo Cavallo è un grande cantautore con un passato di importanti successi personali (Siamo Meridionali, Uh Mammà, Stancami stancami musica, ecc.) e autore per Zucchero (la hit di questa estate “Vedo Nero”), Mia Martini, Gianni Morandi, Fiorella Mannoia, Loredana Bertè, Ornella Vanoni e tanti altri. Oggi sta vivendo uno splendido presente fatto di canzoni importanti e di denuncia legate all'opera di Pino Aprile “Terroni”. Recensione di “Tacco di Bacco”. Leo Tenneriello, coautore di due dei brani dell'ultimo cd di Cavallo nonchè di quattro precedenti lavori discografici, leggerà alcuni passi del best sellers di Pino Aprile. Insieme, per dare valore alla storia del mezzogiorno, ripercorreranno le vicende dell'unità d'Italia (dell’occupazione del sud) vista dalla parte dei meridionali in "musica e parole" con l’intento dichiarato di Cavallo di “togliere il burka alla retorica del Risorgimento assunta come un precipitato di pillole: è una fede che non risponde alle domande, ma le evita, glorificando i patrioti come apostoli. C'è il rischio che in questo periodo in cui si fa il lifting ai personaggi più discutibili della nostra storia si faccia il lifting anche alle idee. Non ci vogliamo contrapporre a nessuno, ma solo tirare acqua pulita dal pozzo della memoria”.
“QUANDO
SAREMO FRATELLI UNITI”
il nuovo CD di MIMMO CAVALLO
in disco veritas. Il teatro, i libri, le canzoni non dicono alle persone che
esistono le falsità storiche.
Le persone già sanno dell’esistenza dei falsi storici. Il teatro, i libri, le
canzoni dicono che le falsità possono essere svelate. Ma non è una risposta “a”
qualcuno. Si vuole solo rispondere “di” qualcuno… e cioè di noi stessi. Senza
“ismi”, “isti”, senza contrapposizioni, cercando di tirare acqua pulita dal
pozzo della memoria. Dobbiamo tornare ad essere quello che eravamo e che con
l’UNITA’ non hanno voluto che noi fossimo più. Forse il senso di questo CD è
proprio l’auspicio di un incontro tra nord e sud. Ci siamo conosciuti la prima
volta attraverso il mirino di un fucile e del pregiudizio. Ora quella pagina
vogliamo leggerla. Vogliamo la verità. Quasi sempre, fra due punti, la retta più
breve non è mai la verità ma l’arabesco (se non una bella matassa)… se occorrerà
percorreremo tutto il labirinto ma alla fine ci incontreremo alla luce di una
sola verità. Il CD si apre con il botto fragoroso di un big bang. In effetti
l’invasione piemontese si abbatté sul sud come il meteorite sui dinosauri. Il
sud rischiò l’estinzione. Prima dell’UNITA’ il sud era ricco. Più ricco del
nord. Non si contano i primati del Regno delle due Sicilie (profilassi
antitubercolare, assegno case popolari, agevolazioni per i contadini, pensioni
per letterati e poveri, telegrafo elettrico, ponti in ferro sospesi, prima
ferrovia, illuminazione città a gas, flotta militare, navi a vapore, compagnia
di navigazione, ecc…). Cavour disse a D’Azeglio:”... se noi facessimo per noi
stessi ciò che stiamo facendo per l’Italia saremmo dei gran bricconi e
meriteremmo di andare in galera..”. Abbiamo imparato a camminare da vinti,
colpevoli di non sapere. Ma ora sappiamo, sappiamo chi siamo stati. Fu un
Risorgimento senza popolo e contro il popolo. Risorgimento di pochi e per forza
sotto la bandiera sabauda. No a questo Risorgimento. “No” è parola breve,
essenziale, urgente, la più selvaggia. No alla falsità di questi padri della
Patria. No al loro opportunismo, alla loro ingordigia, violenza passate per alto
statismo. No agli “eroi” criminali che lordano le nostre piazze, le nostre vie.
No al silenzio della memoria sulle stragi subite dai meridionali. No al milione
di morti taciuto. Capire non significa rimpiangere il passato. La soluzione
unitaria ci è stata impedita 150 anni fa ed è ancora oggi impedita (vedi Lega).
Un tempo ci hanno rubato ora vogliono conservarsi il mal tolto. Tutti gli stati
italiani insieme avevano depositi per 668,4 milioni di lire oro. 443,3 erano nei
banchi del Regno delle due Sicilie. Rassegnarsi è umiliante, obbedire debole.
Vogliamo uscire dal pantano di questa insopportabile favoletta. Per me è stato
come un riflesso pavloviano: ho letto il libro, Terroni, ed è successo
qualcosa…che probabilmente già c’era (quando l’allievo è pronto, il maestro
appare!). C’è un buco nella nostra storia, un black out del quale non si parla.
E riguarda il nostro sud. Qualcuno decide per noi qual è la nostra storia e ci
parla della “sua” storia, dal “suo” punto di vista. Il sud perdona e si
colpevolizza per l’arretratezza che gli attribuisce chi gliela procura. Il sud
piegato e piagato, nonostante tutto, è lì ad offrire un’altra prospettiva.
Entrarono come l’elefante nella cristalliera, il porco nell’orticello, il ladro
nell’argenteria, il barbaro nella biblioteca. Uccisero, depredarono. Erano
portatori di una borghesia putrefatta. La loro ideologia era l’economia, la loro
idea unica il profitto.
ITALIA RAZZISTA ED ANTIMERIDIONALISTA.
Chi dice Terrone è solo un coglione.
La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero.
L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
Così è sempre, così è stato a Pontida il 22 aprile 2017. Sono più di 1500 e molti di loro vestono la t-shirt “terroni a Pontida” o anche “terroni del Nord”. Sono accorsi a Pontida, in provincia di Bergamo, da tutta Italia, ma soprattutto da quella Napoli che l’11 marzo 2017 aveva ospitato Matteo Salvini, leader della Lega Nord che proprio qui a Pontida ha la sua roccaforte. «Abbiamo espugnato Pontida, questa terra considerata della Lega Nord. Siamo qui per raccontare che per noi non esistono i feudi della Lega Nord e del razzismo, vogliamo costruire ponti e lo facciamo con questa festa, che richiama l’orgoglio antirazzista e terrone», ha spiegato Raniero Madonna di Insurgencia a “La Stampa”. E mentre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris invita sui social i "terroni" a unirsi da Lampedusa a Pontida si pensa al bis. Il clou del concertone è la canzone "Gente d'ò Nord", brano che i 99 Posse hanno firmato con una serie di altri artisti che insieme hanno inciso un doppio cd con il nome di "Terroni uniti". "C'è tantissima gente. E' un bel posto - ha concluso Luca O'Zulú dei 99 Posse - perché non farlo diventare da simbolo della Lega a sede del Concerto Nazionale Antirazzista Migrante e Terrone?".
Un contro-concertone del Primo Maggio gratuito e dal sapore terrone con 10 ore di musica, interventi e colori degli artisti del Sud, scrive “La Repubblica” il 26 aprile 2017. In scena in piazza Dante, dalle 14 a mezzanotte, il festival dell'orgoglio antirazzista e meridionale che ha iniziato il suo tour a Pontida lo scorso 22 aprile. E in programma c'è una già terza tappa: Lampedusa. L'annuncio è arrivato dalla voce del sindaco de Magistris, durante una conferenza stampa che dal Comune si è spostata in piazza Municipio. "E' un progetto talmente bello - ha detto il sindaco - che lo riteniamo un progetto della città: ogni primo maggio si dovrà tenere nella capitale del Mezzogiorno un concerto che abbia come obiettivo i sud del mondo, i diritti, la solidarietà, l'antirazzismo, il lavoro e la lotta per la liberazione dei nostri popoli". Un Primo Maggio "terrone" perché "i terroni difendono il proprio territorio dai rifiuti, dalla malavita, dallo sfruttamento, dalla finanza predatoria". Ed è proprio sul palco del Primo Maggio che i Terroni Uniti continueranno il loro tour dopo Pontida, perché "a Napoli la festa dei lavoratori diventa la festa ribelle dei lavoratori a nero, dei lavoratori sfruttati, della manodopera dell'informale, delle vittime clandestine del caporalato".
Interverranno anche gli scrittori “Terroni uniti” come Maurizio de Giovanni e Antonello Cilento. Una maratona di musica e impegno sociale che avrà come tema il lavoro, la difesa dei diritti dei lavoratori, dei disoccupati e delle vittime del caporalato, e l'orgoglio meridionale.
Che figure di merda…più che terroni si è coglioni. Se già da sé ci si chiama terroni, cosa faranno chi li vuol denigrare?
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Il Terrone visto dai Polentoni, scrive Gianluca Veneziani. Dopo Vieni via con me è la volta di Sciamanninn, la versione terrona del programma di successo condotto da Fazio e Saviano. Anche in questo programma ci saranno degli elenchi. Ma non riguarderanno né i valori di destra, né quelli di sinistra, e tantomeno i 27 modi di essere gay. Avranno a che fare, piuttosto, con le caratteristiche tipiche di un meridionale. A stilare la tassonomia ci penserà un padano. Ecco allora il dodecalogo del terrone visto da un uomo del Nord. Terrone è:
Barbuto. Pregiudizio in voga soprattutto nei confronti delle donne. Si perpetua l’idea che le donne meridionali abbiano i baffi. Il pelo nell’ovulo riecheggia lo stato selvaggio e ferino del nostro Meridione.
Barbaro. Il terrone è considerato un ostrogoto. Per due ragioni: è rozzo, incurante di ciò che tocca e vede. E, quando apre bocca, non lo capisce nessuno. Credono che parli ostrogoto.
Barbone. Il meridionale è pensato come un mendicante, uno che questua soldi e vive a scrocco altrui. Magari un finto invalido che si mette agli angoli delle strade durante il giorno e la sera va a ballare con i soldi ricavati dall’elemosina.
Borbone. Pregiudizio storico. Il sudista è ancora assimilato alla vecchia dinastia pre-unitaria. Contribuiscono al cliché i cosiddetti neo-borbonici che, con grande tempismo, si fanno sentire adesso che l’Italia deve spegnere 150 candeline.
Lo sfaticato, che non vuole lavorare. Terrone non indica più la provenienza geografica, ma un’attitudine lavorativa. È terrone non chi viene dal Sud, ma chi sgobba poco. Il fannullone, il perdigiorno, chi lavora con lentezza. Fatto curioso, se si pensa che i terroni vanno al Nord, appunto, per lavorare. Ma il pregiudizio resta. Terùn, va a lavurà!
Il cafone, il tamarro, il che cozzalone. Fare una “terronata” significa fare una pacchianata, qualcosa di kitsch e di trash. Anche se chi la fa è un brianzolo, il nome “terrone” gli si appicca addosso.
Chi a colazione chiede cornetto ed espressino. Il barista lo guarda perplesso, senza capirlo. In Padania si dice brioche e marocchino. Occorre adeguarsi. Altrimenti vieni scambiato per un terrone o, peggio, per un marocchino.
Chi, il venerdì sera, fa il pendolare Nord-Sud e torna a casa in cuccetta, mentre i lumbard escono per fare l’happy hour Il terrone fugge dal Nord nel fine settimana: il sabato e la domenica va a consacrare le feste altrove.
Chi il lunedì mattina torna con lo stesso treno a Nord. Con un bagaglio però, pesante il doppio, perché la mamma lo ha caricato di tutte le sue delizie fatte in casa. Quella che si chiama “roba genuina”.
Chi al rientro in ufficio, offe ai colleghi specialità tipiche del suo Paese (magari le stesse che la mamma gli ha sbattuto in valigia). Una mia collega di Cava de’ Tirreni ci ha offerto mozzarelle di bufala campane. È stata festa grande, quel giorno.
Chi è legato alla terra, come dice il nome. Ama la terra, nel senso dei campi da coltivare: ama la terra, nel senso della propria terra; e ama la Terra, con la t maiuscola, perché il terrone è soprattutto un terrestre. Anche se qualcuno lo considera un extraterrestre.
Chi è legato al cielo. Il terrone è umile, cioè vicino all’humus, alla terra. Ma degli umili è il regno dei cieli.
Da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2010.
C’è sempre, però, chi è più terrone di un altro.
L’infelice battuta di Mandorlini. Il suo Verona giocò e vinse quella finale playoff contro la Salernitana, conquistando la serie B. Nel dopo partita si lasciò andare a frasi poco carine (Ti amo terrone…), che scatenarono una disgustosa rissa in sala stampa. E quando Agroppi, opinionista Rai, lo bacchettò in televisione invitandolo a chiedere scusa per aver offeso il Sud, replicò in modo beffardo: «Tu sei fuori dal mondo». Mandorlini, ravennate di nascita, ha giocato in sei squadre, Ascoli quella più a Sud. E allenato dodici club, più giù di Bologna non è mai sceso. Spesso comportamenti e dichiarazioni sono state tipiche del leghista, il suo capolavoro resta la festa promozione in B, ottenuta contro la Salernitana. Saltellava e ballava con i tifosi gialloblù cantando «Ti amo terrone»: festival del razzismo puro. Travolto da critiche e polemiche, fece spallucce. Qualche mese più tardi ci pensò un napoletano, Aniello Cutolo, a rispondergli per le rime a nome di tutti i terroni: giocava con il Padova, derby veneto a Verona, gol pazzesco del partenopeo da venticinque metri e di corsa ad esultare in faccia a Mandorlini: «Ti amo coglione».
“Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo”. Ve lo ricordate quel coro di Mandorlini? Beh di certo in pochi lo avranno dimenticato. Per questo ieri ne abbiamo scritto. E’ il simbolo di questo Paese dove in uno stadio si canta la Marsigliese per ricordare le vittime degli attentati di Parigi, poi un minuto dopo in quello stesso stadio si consente a quegli stessi tifosi di inneggiare il solito coretto “Vesuvio lavali col fuoco”. Certo, se poi un allenatore del Verona, che lavora in una città ad alto tasso di razzismo, soffia sul fuoco anziché cercare di educare la propria tifoseria, allora la battaglia è proprio persa. “Ti amo terrone”, “Lavali col fuoco”, “Napoli colera”. Per quanto tempo ancora vogliamo andare avanti in questo modo? Fatecelo sapere. Lo capiremo quando anche stavolta, l’ennesima, non arriverà nessuna sanzione realmente incisiva verso chi canta queste schifezze insopportabili.
Giovani padani: "Siamo invasi dai terroni", scrive Daniele Sensi su “L’Unità”. «Non è giusto, siamo invasi! Ovunque ti giri sei sommerso da ‘sti qui che vogliono comandare loro, mi fanno venire la nausea», sbotta una novarese. «Troppi, ce ne sono troppi, meglio con contarli», ribatte un utente di Mondovì. «Ce ne sono tanti, ma molti dei loro figli crescono innamorati del territorio in cui sono nati e cresciuti», replica un magnanimo iscritto ligure. Ennesimo dibattito su immigrazione e presunte invasioni islamiche? No. Il sito è quello dei Giovani Padani, e l'oggetto della discussione è quanti siano i meridionali residenti nel nord Italia. Non si tratta solo di un divertito passatempo: lamentando la mancanza di dati ufficiali («Purtroppo nessuno ha mai pensato di fare un censimento etnico in Padania, poiché siamo tutti "fratelli italiani"»), sul forum del movimento giovanile leghista con cura e dovizia vengono incrociate fonti diverse per tentare di fornire una risposta all'inquietudine che pare togliere il sonno ad alcuni simpatizzanti. Così, ricorrendo ad una terminologia allarmante e servendosi del censimento del 2001, delle analisi di alcuni studiosi dialettali e di quelle relative alle migrazioni interne del dopoguerra (con una certa approssimazione dovuta all'impossibilità di conteggiare con precisione i «meridionali nati al nord da genitori immigrati o da matrimoni misti padano-meridionali») alla fine, tenendo comunque conto «del tasso di fecondità dei centro-meridionali in base al quale è possibile stimare 3 milioni di discendenti meridionali nati in Padania, compresi i bambini nati da coppie miste», il verdetto è di «9 milioni di individui, tra centro-meridionali etnici e loro discendenti puri o misti». Una stima al ribasso secondo un utente milanese che arriva a denunciare, nelle statistiche, «la mancanza dei clandestini, cioè di quelli che sono qui di fatto ma non hanno domicilio o residenza padane». Dati eccessivamente gonfiati, al contrario, per un altro giovane lombardo, perché «credo proprio che il meridionale al nord, specie se sposato con una padana, figli meno rispetto al meridionale che sta al sud». Una ragazza di Reggio Emilia, invece, pare poco interessata a parametri e variabili: «Non so quanti siano, non mi interessa il numero, so solo che sono troppi e che stanno rovinando una zona che era un'isola felice. Girando per strada difficilmente si incontra un reggiano! Purtroppo stiamo diventando una minoranza e i meridionali la fanno da padrone».
La Lega, si sa, ha oramai ampliato il proprio bacino elettorale, pertanto pure un simpatizzante salernitano si inserisce nella conversazione, e, quasi invocando clemenza («Io sono meridionale ma amo la Lega e odio i terroni che vengono qui al nord per spadroneggiare e per rompere i coglioni»), finisce col cedere allo stesso meccanismo di autodifesa visto attivarsi durante la recente campagna mediatica e politica anti-rom, quando, per riflesso, non pochi cittadini rumeni quasi si sono messi rivendicare distinzioni etniche dai loro connazionali residenti nei campi nomadi, poiché nel gioco all'esclusione c'è sempre chi sta un po' peggio: «Certi meridionali non possono essere espulsi perché italiani, ma, se si potesse fare una bella barca, sopra ci metterei i meridionali che non lavorano e gli extracomunitari, che sono più bastardi dei meridionali». Qualche nordico animatore del forum non indugia nel mostrare comprensione e solidarietà al fratello salernitano, e si affretta a precisare come sia possibile ravvisare differenza tra "meridionali" e "terroni", spiegando che «terrone è colui che arriva e pensa di essere nel suo luogo di origine, e si comporta di conseguenza, tanto che nemmeno si offende se lo chiami terrone». Per taluni, addirittura, il luogo di origine non c'entra proprio nulla, perché «non è la provenienza che fa l'individuo, e nemmeno il sangue o il colore della pelle, ma unicamente l'atteggiamento». L'insistenza dei più ostinati («Se ne dicono tante sui cinesi ma sicuramente li rispetto più di certi meridionali o marocchini o slavi perché almeno lavorano e si fanno i fatti loro») incontra obiezioni dalle quali emergono ulteriori sfumature d'opinione tra i giovani padani, quelli più "cosmopoliti", coinvolti nella surreale disamina, tanto che tra essi diviene possibile distinguere tra filantropi («Di meridionali ne conosco tanti e tanti miei amici sono meridionali, per me un meridionale è colui che è venuto e lavora onestamente»), progressisti («Esempi di integrazione con il passare degli anni si fanno più frequenti, sono esempi da non snobbare ma anzi da far diventare casi di scuola: piano piano li integreremo»), e possibilisti («Un meridionale che lavora e interagisce con gli altri vale quanto un settentrionale»). Su tutti, però, inesorabile cade il richiamo ad un maggior pragmatismo da parte dei realisti: «Siete in ritardo di 40 anni, c'è bel altra gente che invade le nostre città, purtroppo!». Trascorso qualche giorno, sul forum viene avviata una nuova discussione: «Un test per capire a quale sottogruppo della razza caucasica apparteniamo». Un test scientifico, affidabile, perché «per una volta non ci si basa sul colore della pelle, dei capelli e degli occhi, ma sulla forma del cranio».
Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani, scrive Francesco Romano su “Onda del Sud”. Trento: “Terrone di merda”. Operaio reagisce all’insulto con un pugno: licenziato. Al centro della discussione fra l’uomo e il caporeparto un ritardo dopo una pausa. Il giudice ha dato ragione all’azienda. “Il Gazzettino.it” di Trento ha riportato la seguente notizia: - Il caporeparto dell’azienda trentina per la quale lavorava lo ha appellato “terrone di merda” e lui, un operaio di origini meridionali, ha reagito all’insulto con un pugno. Per questo è stato licenziato. Al centro della discussione c’era il presunto ritardo dell’operaio dopo una pausa. Al termine dell’accesa discussione, il caporeparto avrebbe mandato via l’operaio dicendo “terrone di merda”. L’operaio avrebbe così reagito sferrando un cazzotto contro il collega, raggiungendolo di striscio. Dopo dieci giorni è arrivato il licenziamento in tronco. Da qui la causa intentata dall’operaio. La sentenza di primo grado del giudice del lavoro di Trento ha dato ragione al caporeparto in quanto «non è possibile affermare anche nei rapporti di lavoro la violenza fisica come strumento di affermazione di sé, anche quando si tratti della mal compresa affermazione del proprio onore». Un concetto ribadito dalla sentenza d’appello che ribadisce come «la violenza fisica non può mai essere giustificata da una provocazione rimasta sul piano verbale». Questo è quello che accade nel profondo Nord. Se non è mobbing questo, che cos’è. “Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani” era una vecchissima battuta comica di Francesco Paolantoni. La violenza certamente non ci appartiene ma forse è arrivato il momento di rivoluzionare il significato delle parole. Passare da negativo ad uno positivo. Questa è la cultura leghista che si è affermata al Nord. Dobbiamo subire la discriminazione dell’emigrazione e ci è impedita l’integrazione in questa nazione proprio quando ci apprestiamo a festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Libero, attacco razzista ai napoletani: “Sono assenteisti, frignano. Non se ne può più”, scrive il 2 marzo 2017 Luca Tesone su "Vesuvio Live". La prima pagina del quotidiano Libero apre con un attacco contro i napoletani. Il giornale diretto da Vittorio Feltri titola così: “Il solito vecchio vizio. Piagnisteo napoletano”. L’attacco del giornale è un pastiche che mette insieme cronaca, politica, sport e soliti luoghi comuni. Si inizia facendo riferimento al presunto assenteismo dei napoletani, ricordando il recente caso del Loreto Mare. Poi si passa al calcio: “Se perdono, attaccano l’arbitro pure quando hanno torto – dice Libero – hanno venduto Higuain e frignano dimenticando di aver comprato Maradona”. Non usa mezzi termini, insomma, il giornale. I napoletani sono tutti assenteisti, piagnoni e sfaticati. È la sagra del luogo comune, in cui si fa confusione tra calcio, cronaca e politica. Tutto fa brodo, insomma, per denigrare i napoletani. Feltri dimentica che i “furbetti del cartellino” non esistono solo al Sud – come si è voluto far credere anche durante la trasmissione di Quinta Colonna – ma in tutta Italia. Come non ricordare il dipendente del Comune di Sanremo che andava a timbrare i cartellini in mutande? Non è la prima volta che Libero mostra in prima pagina titoli a dir poco discutibili. Non solo razzisti, come quest’ultimo, ma anche sessisti. Ricorderete, infatti, il vergognoso titolo dedicato alla sindaca di Roma Virginia Raggi, definita una “Patata bollente”. Insomma, il quotidiano di Vittorio Feltri si diverte con i titoli dallo sberleffo facile, ignorante, razzista e volgare. Ancora più grave è però il titolo di stamattina. Quel “il solito vecchio vizio” fa capire che, secondo Libero, le presunte colpe dei napoletani sono “storia vecchia”, insite fin dal principio della storia partenopea. Va da sé che il quotidiano dimostra non solo di avere scarsa memoria storica, ma di giocare ancora una volta per luoghi comuni privi di verità. E, per quello che si professa (o almeno dovrebbe) come un quotidiano che fa informazione, non c’è cosa peggiore di “informare” i propri lettori se non attraverso i soliti pregiudizi senza fondamento, se non quello razzista.
Della serie: come godono i barbari padani delle disgrazie del sud Italia.
Libero, il titolo della vergogna: “A Napoli si bruciano da soli, non è colpa dello Stato”, scrive il 13 luglio 2017 Federica Barbi su "Vesuvio live". Non è una novità, ormai, penseranno in tanti. Ma ogni volta la sensazione è la stessa: vergogna. La vergogna che proviamo è quella di trovarci in un Paese in cui ci si accorge che metà Sud sta bruciando solo dopo giorni in cui il fuoco ha distrutto chilometri e chilometri di macchia mediterranea. La vergogna è constatare che quelli che dovrebbero essere strumenti mediatici in grado di informare e anche di avvicinare le persone, non fanno altro che fomentare attriti e odio, gettando altra benzina su fiamme già incontrollabili. Oggi il quotidiano Libero ha titolato così in prima pagina: “A Napoli si bruciano da soli”. Nel catenaccio del pezzo si legge: “Piromani inceneriscono 100 ettari di bosco per boicottare il nuovo Parco Nazionale del Vesuvio e salvare migliaia di case abusive da abbattere. Il sindaco si straccia le vesti ma non fa nulla per i criminali. Intanto i turisti fuggono”. Ciliegina sulla torta, l’occhiello: “Altro che incolpare lo Stato assente”. Che dietro tutta questa drammatica vicenda ci sia la criminalità organizzata, è chiaro e palese. Che servano maggiori controlli, maggiori pene, maggiore attenzione su tutto ciò che può diventare lucro per la camorra, non lo scopre certamente Libero. Non ci sembra giusto, però, speculare in copertina su una vera e propria tragedia naturale, che ha colpito flora, fauna e anche la quotidianità di chi vive in prossimità del vulcano, avvolto da un fumo nero che ha raggiunto praticamente tutte le città del vesuviano (e di certo non solo le case abusive citate nell’articolo). Ancora una volta tanti cittadini onesti scontano pene altrui, ma questo poco importa a chi deve, sempre, incessantemente, fare politica con le disgrazie e accentuare le crepe che almeno nella solidarietà potrebbero trovare un equilibrio. Siamo i primi ad esigere la verità, i primi a provare rabbia e impotenza di fronte a un cancro che mangia la nostra terra, ma questo titolo, caro Libero, ci fa sentire ancora più soli. Terribilmente soli.
Il Vesuvio e la scarsa stima di Vittorio Feltri per i (pochi) lettori di Libero, scrive il 13 luglio 2017 "Il Napolista". Perdonateci, non riusciamo a prendere sul serio questa prima pagina che ci intristisce soltanto. La pernacchia eduardiana sarebbe troppo onore. Quando la redazione è a corto di idee. A Libero, quando sono a corto di notizie e di idee, inseriscono il pilota automatico che può scegliere due strade: un titolo con riferimenti sessuali, preferibilmente discriminatorio nei confronti delle donne oppure omofobo, oppure un’intemerata contro Napoli. Vai così che non ti sbagli mai. Certo anche Vittorio Feltri deve fare i conti con l’emorragia di copie. Il suo Libero ormai ne venderà qualcuna nei famosi Territori, sempre poca roba. Ieri, evidentemente, è stata una giornata fiacca per i cronisti di Libero. E allora cosa c’è di meglio per un titolo e un paio di articoli insultanti nei confronti dei napoletani per il Vesuvio che brucia? Feltri ha scritto un articolo tra l’imbarazzante e il ridicolo. Il titolo è tutto un programma: “Si bruciano da soli” e poi c’è un lungo passaggio che francamente non immaginavano potesse avere più cittadinanza su un quotidiano italiano, sia pure Libero. Ecco cosa scrive Feltri in un ampio passaggio che Lombroso avrebbe giudicato eccessivo: Non c’entra l’antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell’ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfetta- mente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perchè analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c’entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non è stato provocato da calamità naturali: i napoletani – non tutti per carità – si sono bruciati da sé. Si guardi- no allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Non riusciamo nemmeno a indignarci. Ci si può indignare, si può chiedere all’Ordine dei giornalisti della Campania di far sentire la propria voce. Ma ci si può anche imbarazzare per Feltri e soprattutto per l’idea che ha dei propri lettori. Dev’essere triste dirigere un giornale pensando di dover abbeverare persone che condividono questi pensieri. Non riusciamo a prendere sul serio Libero, non è possibile nemmeno indignarsi. Con queste poche righe abbiamo versato il nostro obolo alla celebrità quotidiana di Vittorio Feltri. Di più non siamo riusciti a fare. L’eduardiana pernacchia sarebbe francamente troppo onore.
COLPA DELLO STATO? A Napoli si bruciano da soli. Vesuvio, spuntano le foto: la prova definitiva. Vesuvio in fiamme, le foto dall'altro che dimostrano come i roghi siano studiati scientificamente, scrive il 13 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Da tre giorni ormai il Vesuvio è in fiamme, e ora al Parco nazionale sono al lavoro anche gli uomini dell'esercito che hanno già individuato un nuovo focolaio in una zona boschiva a ridosso di San Sebastiano. Sul posto sono impegnati al momento tre canadair e diversi elicotteri per provare tutti gli incendi ancora attivi. Una situazione gravissima ma non casuale. "Ci troviamo di fronte a una organizzazione criminale complessa e ben organizzata, queste due foto fatte dall'alto dai corpi speciali dimostrano come nel caso degli incendi del Parco del Vesuvio sia stato fatto un lavoro scientifico che richiede impegno e coordinamento di non poche persone", denuncia sul suo profilo Facebook Massimiliano Manfredi del Pd. Gli inneschi, spiega, "vengono messi agli estremi e nel mezzo di questo arco virtuale al centro di cui c'è il Parco del Vesuvio. Questo vuol dire che per spegnere il fuoco bisogna raggiungere i due estremi dall'esterno che stanno agli antipodi, il centro impedisce il collegamento e a sua volta deve essere aggredito da destra e sinistra. Che vuol dire? Che servono almeno il doppio, se non il triplo, di mezzi e uomini e il doppio del tempo, dando la possibilità a chi si trova dal lato opposto di continuare ad appiccare fuoco perché nel frattempo brucia la Campania e mezzo Paese e non solo il Parco. Più tempo passa e poi si può alzare vento. Qualcuno crede ancora all'autocombustione dopo queste foto?".
Può ritenersi attendibile ed intelligente un tal commentatore barbaro padano, (anche televisivo su tv nazionali ed elevato, addirittura, al rango di direttore di quotidiano) che spara certe idiozie, tutta farina del suo sacco fondata su pregiudizi e luoghi comuni razzisti?
"Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Vittorio Feltri il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano", lo schiaffo a (certi) napoletani. Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti. Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiù sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Vittorio Feltri.
Non di solo caldo e fuoco si riempiono la bocca i barbari padani.
Gaffe e bufera in rete sul Tg5. Il telegiornale Mediaset è finito nell'occhio del ciclone perché la giornalista Elena Guarnieri ha pronunciato queste parole durante la diretta del 12 novembre 2014 parlando del maltempo: «Il peggio sembra essere passato, la perturbazione adesso si è spostata al Sud». È doveroso ricordare che la perturbazione che era in "movimento" verso il Sud aveva causato enormi danni ad alcune regioni del Nord Italia. Sui siti e sui social si possono leggere numerosi commenti dei lettori. C'è chi attacca e chi difende la giornalista: «Non ho parole, umanità zero. Siamo tutti uguali nord e sud» scrive Martina. Dello stesso parere Francesca: «Se fossi in lei mi scuserei perchè siamo tutti sulla stessa barca». La pensa diversamente un altro utente: «Si ha sbagliato... si è' espressa male... di certo non mi sembra che sia un caso nazionale». Altri scrivono: “Pericolo scampato per chi? Per voi?”, o ancora “Questo è il livello delle reti Mediaset”. Molti, sul web e non solo, si domandano perché trovare confortante il fatto che sia il Sud ad essere colpito dalle prossime perturbazioni. Noi speriamo credere che la frase incriminata sia stata pronunciata inconsciamente, ma lo sdegno dei telespettatori è così forte che non riescono proprio a perdonare la terribile gaffe.
Filippo Facci e il piagnisteo napoletano: "Ecco perché ve lo meritate". Libero Quotidiano il 3 marzo 2017. Eh, i napoletani. Mio padre dopo i cinquant' anni andò a lavorare a Napoli e prese casa vicino allo stadio di San Paolo; una sera stava rientrando in auto - mi raccontò - e incrociò la folla che lasciava lo stadio dopo che il Napoli le aveva buscate da una squadra del norditalia, non ricordo quale. L' auto aveva la targa di Milano. Un passante disse qualcosa a mio padre che si sporse verso la sinistra, ma era solo una scusa per distrarlo mentre un ragazzetto aveva infilato le braccia dal finestrino di destra e si era messo a frugare nel cruscotto; mio padre gridò «ladro!» e poi andò così: «chi ladro?»; «l'ha detto chillo»; «'o settentrionale ha detto che siamo ladri»; «ah, un razzista di Milano...». La faccio breve: è tanto se tornò a casa vivo. Trovo esemplare questo raccontino ancor oggi: la frustrazione, l'aggressività, il vittimismo e poi ancora l'aggressività. Napoli. Di questa tendenza alla lagna ebbi modo di accorgermi anche quando passai qualche mese a Napoli per il servizio di leva, laddove conobbi molti napoletani nel bene e nel male: il problema è che ora dobbiamo parlarne nel male, viste le reazioni al titolo «Piagnisteo napoletano» che Libero ha pubblicato ieri. Ora non entro nel merito delle questioni affrontate negli articoli che sono, poi, capisaldi storici del napoletanismo: l' assenteismo cronico, le assunzioni indiscriminate, i funzionari pubblici in quantità sovietica, il complottismo calcistico, lo smercio delle tessere del Pd e non solo, gli illeciti creativi, la tendenza a fottere te e soprattutto quello Stato per cui il napoletano medio ha pochissimo rispetto, preso com' è, da secoli di storia, a doversene difendere come se fosse un eterno invasore. E poi Francesco Specchia, ieri, ha già descritto benissimo il pianto ecumenico dei partenopei, le sceneggiate lacrimevoli e a voce alta, quel napoletano medio che rischia di essere perpetuamente «mariuolo dentro» e vittimista strategico. La persecuzione - Il problema è che di queste cose, con dei napoletani, non si può neppure parlare, perché alzano gli occhi al cielo e si avvoltolano in quel loro fatalismo plebeo e sanfedista che ancor oggi impedisce loro di essere un popolo. Perseguitati da tutti: dai Borboni, da sovrani e vicerè, dal fascismo, dagli americani, dai politici, dalla Regione, ora dalla comunità europea, poi naturalmente dagli arbitri e nel suo piccolo persino da Libero. Io, come detto, non scrivo da una baita in montagna rigirando la polenta, credo di essere sufficientemente di mondo da non dovermi difendere da repliche anche educate tipo «Napoli è bellissima» e «devi studiare la storia di Napoli» e «vieni a Napoli», roba così. Le so queste cose, molti di noi le sanno. A Napoli ho un po' di amici (tutti molto signori, come a Napoli sanno essere incredibilmente) e a Napoli ho anche vissuto. Ogni tanto ci vado. Credo che a Napoli si possa vivere bene come in poche altre città del mondo, ma basta così, non è questo in discussione: si può vivere bene - mi assicura un amico che ci si è appena trasferito - anche a Caracas, il che non toglie che Caracas abbia certe caratteristiche per delle ragioni storiche che si possono discutere, ma che ha lo stesso. Così come Napoli ha dei record che la rendono unica in tutta Europa: la disoccupazione soprattutto giovanile, l'astensione alle urne, le costruzioni abusive, i reati ambientali, quelli legati all' usura, gli scippi e i furti d' auto, e non sto neppure citando il suo più grande successo letterario d' esportazione: la camorra. E poi ha il piagnisteo, il vittimismo, l'autocommiserazione: una tendenza palese a de-responsabilizzarsi e a incolpare chicchessia, soprattutto i predoni razzisti del Nord. E sarà colpa del Nord se un'indagine del Sole 24 Ore, basata sulla qualità della vita nelle città (tenore di vita, affari e lavoro, servizi, ambiente, salute, popolazione, ordine pubblico e tempo libero), ha messo Napoli al 107esimo posto, esattamente l'ultimo. Oppure se «Reddit» - un sito di social news frequentato anche da Barack Obama - ha messo Napoli ai vertici della classifica dei luoghi turistici più deludenti secondo chi c' è stato. La classe dirigente - Tempo fa, per aver scritto certe cose e per aver detto che a Napoli la spazzatura impera ancora in tutti i vicoli - non lo scrissi certo io solo - sono stato addirittura querelato dalla «città di Napoli», in pratica il presidente della «Municipalità Napoli Nord». Aveva pure chiesto un intervento dell'Ordine dei giornalisti. Avevo scritto di quello di cui stiamo parlando: dell'inconsapevolezza di molti napoletani di ciò che Napoli oggettivamente è (dati alla mano) e di come è mediamente considerata, e poi mi ero permesso un'invettiva contro un consigliere napoletano che aveva lamentato «gli investimenti che non si fanno al Sud». Vado testuale: «Che nel 2015 un consigliere napoletano abbia ancora il fegato di chiedere soldi senza andare a nascondersi sottoterra (sotto la spazzatura, vorremmo dire) mostra come la classe dirigente napoletana viva in una bolla completamente separata dalla percezione del reale». Ecco, è così. Dopodiché sui cosiddetti «social» avevo ricevuto innumerevoli minacce varie, auguri di morte, parolacce, solita roba da straccioni anonimi. Insulti, sì. Ma soprattutto piagnisteo. Che dite, ricominceranno?
"Piagnisteo napoletano". Ecco l'articolo sotto accusa su Libero del 2 marzo 2017 di Francesco Specchia. Vide Napule e po muore. C'è qualcosa di terribilmente fascinoso, nel piagnisteo che in questi giorni avvolge Napoli. Una tammurriata d'illegalità, il senso dell'etica pubblica che si scioglie nel chiagn' e futte, al posto del sangue di San Gennaro. Nell'area Nord di Napoli, a Miano, sfilano ventimila aspiranti elettori, ombre diafane comparse dal nulla e ignote all'anagrafe, diligentemente in fila per iscriversi al del Pd con in mano una tessera comprata da altri a 10 euro e con in bocca la parola d'ordine, «Mi manda Michel...», (variazione di «Mi manda Picone» , ma nel senso di Michel Di Prisco vicepresidente della Municipalità Miano-Scondigliano). Tutti costoro ora son lì a lamentarsi con i boss locali perchè il partito, da Roma, ha snasato olezzo di compravendita di voti. E il partito, memore della grande tradizione partenopea -dai Borbone a Achille Lauro a Valeria Valente - dell'urna magica e delle preferenze riprodotte per partogenesi, ha dunque subito bloccato il tesseramento, inviando colà un commissario milanese, Emanuele Fiano per indagare e capire; il quale Fiano, probabilmente ora corre il rischio di finire blandito dagli autoctoni; e tramortito di pizza, pastiera e sfogliatelle; e spinto ad ispezionare una sede del Pd di cartapesta, come nei film di Totò. A Napoli, oggi, si lamentano tutti. Si lamentano anche i decathleti del cartellino, quei 94 assenteisti professionisti arrestati e indagati all'Ospedale di Loreto Mare. Tra costoro perfino s' indigna quel medico il quale, risultando in corsia, era invece andato in taxi a giocare a tennis giustificandosi con «meglio lavorare tre ore bene, piuttosto che otto ore svogliati in corsia...». E si strazia, addirittura, quel dipendente addetto proprio al controllo degli assenteisti che in orario di servizio preferiva, giustamente, fare lo chef in un hotel. Non a Napoli, a Nola. Sessantaquattro chilometri al giorno: resistenza fisica e dedizione asburgiche, peraltro. E si lamentano, trottando sotto il suddetto nosocomio, armate di striscioni e cori in rima baciata, le turbe di infermieri precari che ora avanzano il proprio giusto diritto al posto fisso, dato che quelli che l'occupavano prima, il posto fisso, ora hanno traslocato nelle patrie galere. E, vicino agli infermieri, si muovono, alle falde della Prefettura, e piangono in quadrata falange, frotte d' immigrati protestanti in modalità antirazzista (e se c' è una città non razzista è proprio Napoli) contro, nell' ordine: la «legge Bossi-Fini», le spese militari, le politiche di guerra, il ministro Minniti. Uno strepitoso senso dell'ammuina. Ovviamente, ulula alla luna pure il Napoli Calcio dopo i due rigori beccati dalla Juve, però «non per l'arbitro ma per le decisioni», dimenticando che le decisioni sono dell'arbitro. Ed esprime un vivace dissenso finanche l'imprenditore Alfredo Romeo, arrestato da carabinieri e Finanza in azione congiunta, «in relazione ad un episodio di corruzione nell'ambito dell'inchiesta Consip». Con lui è perquisito l'ex parlamentare -napoletanissimo- Italo Bocchino. La cosa che mi ha inquietato è che Romeo non nega, ma si giustifica invocando «analoghe modalità» adottate dai suoi concorrenti; cioè se qua rubano e corrompono tutti, che i' songo l'unico fesso? Ed è questo il punto. Il punto è che questo pianto ecumenico, queste lacrime da sceneggiata, rischiano d'affondare la dignità d'un popolo che ha una grande storia. Confermano che il napoletano medio è ancora «mariuolo dentro», vittimista strategico. E non ha rispetto di uno Stato che certo - è la solita trama- l'ha storicamente considerato un figlio illegittimo. Ma è inutile estrarre dal cilindro dalla polemiche la trita «questione meridionale» che vibra dai tempi di Giustino Fortunato a quelli di Luciano De Crescenzo. Chi scrive è un cultore antico della napoletanità. Cresciuto a Totò ed Eduardo, educato alla scuola giuridico/ economica di Filangeri, ammaliato dal rock dei Bennato, io mi chiedo spesso - tralasciando la camorra- perché, dal motorino senza casco alla truffa come strategia fiscale, Napoli tenda a fotterti. Non è tanto una questione storica, o etica, o psicologica, ma semantica. Forse c' entra la cazzimma. Per i templari della napoletanità 'a cazzima - termine intraducibile- è la furbesca pratica dello stare al mondo, l'esaltazione del maschio alfa nelle procelle di una società spietata. L'essere un po' figl' e n' crocchia. Per il resto del modo, è la pratica spietata di sfruttare gli altri, anche amici e parenti, per raggiungere il proprio scopo. «Dai grandi affari o business alle schermaglie meschine per chi deve pagare il pranzo o il caffè» (Pino Daniele). Dispiace per i napoletani perbene...
"Napoli indecorosa". E il pm dà ragione a Giletti. Il conduttore Rai aveva denunciato una situazione scandalosa a Napoli. De Magistris lo ha querelato, ma il pm chiede l'archiviazione, scrive Chiara Sarra, Domenica 17/07/2016, su "Il Giornale". "Napoli è indecorosa". Parole pronunciate in Rai da Massimo Giletti e che avevano suscitato un vespaio di polemiche, oltre a costargli una querela da parte di Luigi De Magistris. Ma, come racconta oggi Repubblica, per il conduttore tv la procura di Napoli ha chiesto l'archiviazione. "La situazione di degrado che affligge alcune zone di Napoli e, in particolare, quella della stazione ferroviaria centrale, è da tempo oggetto di trattazione e denuncia e in diversi quotidiani e in varie trasmissioni televisive", scrive nella sua richiesta il sostituto procuratore Anna Frasca, "Significativa è, in tal senso, la notizia riportata, in più occasioni, proprio da alcuni giornali in ordine ai cosiddetti mercatini dei rifiuti che venivano svolti, fino a poco tempo fa, con periodicità proprio nei pressi della stazione centrale di Napoli, alimentando il fenomeno di accumulo di rifiuti e dunque di degrado dell'intera zona circostante". Insomma, un quadro tale per cui Giletti non deve essere accusato di diffamazione: "Tale situazione, attesa la sua rilevanza sociale, rende legittimi anche valutazioni e giudizi molto forti quali quelli espressi dall'odierno indagato in ordine allo stato di decoro della città e all'efficacia dell'azione di governo condotta negli anni dalla classe politica locale".
Massimo Giletti offende il Sud all’Arena: “Furbetti? Tutti meridionali”, scrive il 10 ottobre 2016 "La Voce di Napoli". Massimo Giletti ci casca di nuovo e offende il Sud. Durante la scorsa puntata, domenica 9 ottobre, de L’Arena il conduttore milanese torna a fare dichiarazioni poco lusinghiere sul Meridione. La lezione della scorsa volta pare non sia servita, sembrava che fosse “pace fatta” con Napoli dopo l’incontro in canoa con l’imprenditore Enrico Schettino. Il conduttore di Rai Uno avrebbe attribuito la colpa della crisi economica agli “sprechi tutti meridionali”. Non è la prima volta che Giletti utilizza una problematica italiana per infangare il Mezzogiorno quindi verrebbe da chiedersi: come mai l’uomo non hai mai additato città del Nord di fronte a situazioni anche molto complesse che hanno investito l’Italia Settentrionale con scandali finanziari? Questa volta le dichiarazioni di Massimo Giletti non sono passate inosservate, il Movimento Neoborbonico, infatti, avrebbe inviato una petizione alla Camera e una richiesta di intervento alla Commissione Vigilanza della Rai. Questa è la proposta del Movimento avanzata su Facebook: “Ancora una volta il conduttore piemontese, non nuovo a uscite contro Napoli, contro il Sud e contro la storia meridionale, ha presentato la solita lunga e unilaterale serie di luoghi comuni tra “furbetti”, vitalizi, pensioni e sprechi tutti meridionali. Premesso che chi commette questi reati deve essere sempre punito, non si ricordano, però, servizi simili in quella trasmissione per casi come quelli magari veneti (tra Mose e banche fallite) o lombardi (tra maxi-evasioni fiscali ed Expo) o tosco-padani (Monte Paschi in testa) o anche per la stessa “bigliettopoli” che ha coinvolto la Juventus in queste settimane. Si richiede, allora, se si tratta di una linea editoriale seguita da Giletti o se si tratta di una linea politica che, in un momento di crisi grave come quello attuale, vuole magari evidenziare l’impossibilità di “redimere” il Sud e la conseguente inutilità di aiutarlo. Il Movimento Neoborbonico ha invitato anche gli altri movimenti meridionalisti a inviare agli sponsor della trasmissione delle mail per comunicare che non utilizzeranno più prodotti e servizi di aziende che sostengono programmi che, di fatto, danneggiano il Sud.”
Killeraggio di Giletti contro la Sicilia. Ma lui quanti soldi pubblici ingurgita? Scrive "I Nuovi Vespri" il 26 febbraio 2017. Ancora un’altra puntata de l’Arena dedicata alla denigrazione della nostra regione. Pure con notizie false di cui poi si scusano, ma il messaggio è passato. E mentre lo pseudo giornalista fa la predica a chi incassa vitalizi erogati dalle casse pubbliche, lui intasca una quantità di soldi tale che dovrebbe indurlo a stare zitto…
E anche oggi, Massimo Giletti, nel corso de l’Arena, su Rai 1 si è divertito a denigrare la Sicilia. Ormai è chiaro: la sua è una missione. Per conto di chi la svolge, non lo sappiamo, ma poiché Rai significa politica, ovvio che i mandanti vanno cercati là. La Sicilia come capro espiatorio? Arma di distrazione di massa? Oppure una operazione più raffinata che mira a screditare un intero popolo che così, magari, non potrà reagire dinnanzi a nuovi furiosi tagli del Governo nazionale? Sia quel che sia, di pulito non c’è nulla in questa storia di cui non si vede la fine. E sempre più siciliani se ne stanno accorgendo se è vero che oggi la pagina Twitter della trasmissione è stata inondata di critiche. Non solo Twitter, anche su Facebook ci sono state reazioni accesissime. Incluse quelle di un’eurodeputata siciliana, Michela Giuffrida, ex giornalista di Catania che non ha esitato a definire il programma “la sagra del populismo, dell’approssimazione, della disinformazione”. Ma è stato il Presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, oggi, a tenergli testa più degli altri. Perché l’argomento trattato lo tocca da vicino per il ruolo che ricopre. Come già la scorsa settimana, infatti, si è parlato di vitalizi. Ancora una volta Giletti si è scordato di soffermarsi su quelli nazionali: oltre 2000 ex deputati ne usufruiscono, ha scritto il Fatto quotidiano. Particolare che la settimana scorsa aveva ricordato lo stesso Ardizzone. Ma per l’Arena esiste solo la Sicilia, al massimo la Campania e la Sardegna. Basta che sia Sud e basta che se ne parli male. Ecco, dunque, il circo di Giletti, ancora una volta contro la Sicilia, pure con notizie false: “La Sicilia non lo ha mai applicato il contributo di solidarietà” ha tuonato questa specie di giornalista. Non è così. Si parla della trattenuta tra il 6 ed il 12% sulle pensioni più alte e sui vitalizi incassati da chi aveva svolto funzioni pubbliche introdotta dal Governo Letta. La Sicilia lo ha applicato per il triennio previsto (2014-2016). A quel punto, Ardizzone ha annunciato querela. E sono arrivate le scuse degli autori della trasmissione e poi quelle di Giletti che ha scaricato tutto su Crocetta, ospite in studio, che non lo ha contraddetto (figuriamoci). “Giletti- scrive il Presidente dell’Ars su Facebook- deve scusarsi con tutti i siciliani non solo con me. Giletti tentando di riparare alle ripetute falsità pronunciate nei miei confronti si è scusato, scaricando su Crocetta che non ha smentito dette falsità. E’ vero che Crocetta con i suoi contorcimenti dialettici ha contribuito al massacro della Sicilia, ma Giletti in nome della maledetta audience disinforma continuamente con notizie assolutamente infondate”. Lo ripetiamo: dietro il sistematico massacro della Sicilia c’ è una operazione politica. Il problema trattato, come detto, non riguarda solo la Sicilia e andrebbe risolto con una legge nazionale che evidentemente nessuno vuole. Ecco perché Ardizzone ha chiesto a Giletti, che lo ha invitato, di potere partecipare insieme con i Presidenti di Camera e Senato.
Però fanno schifo i Siciliani. L’importante è che passi questo messaggio. Noi non possiamo certo esortarvi a non pagare il canone Rai, non ci è consentito, ma possiamo dirvi quanto è pagato Giletti per l’opera di killeraggio continua contro la Sicilia. E velo diciamo perché sono soldi pubblici. Ebbene, come ha rivelato la stampa nazionale, Massimo Giletti ha un minimo garantito di 500mila euro lordi l’anno, nel 2016 però ne ha incassati 313mila di più per extra, totale 813mila euro. Una cifra impressionante. Questi non sono soldi pubblici? Perché non chiede al suo amico panettiere che ne pensa del fatto che un conduttore Rai del suo calibro possa guadagnare così tanto? O dobbiamo considerare questa somma il premio ad un killer? E se cosi fosse, si è mai vista una vittima pagare il suo carnefice? Giustissime le esortazioni che arrivano da più parti: si faccia un programma dedicato ai costi dei programmi Rai. Vedremo se ci sarà indignazione o meno nel vedere così tanti soldi degli italiani destinati a simili personaggi per simili lavori e lavoretti. Stendiamo un velo pietoso sulla presenza di Crocetta in studio. Che ha definito la Sicilia “la regione più canaglia d’Italia”. Ma si sa, come siamo, giudichiamo. “Si è prestato al gioco di chi intende massacrare la Sicilia. Si apre un problema istituzionale non indifferente. Convocherò consiglio di presidenza per martedì alle ore 10 per le necessarie determinazioni” ha commentato Ardizzone. Non si preoccupi più di tanto. Il problema Crocetta appartiene già al passato.
Busalacchi: “La sceneggiata di Giletti serve allo Stato per giustificare un ulteriore scippo di 700 milioni alla Sicilia”, scrive "I Nuovi Vespri" il 27 febbraio 2017. La verità è che lo Stato italiano non sa dove trovare 3 miliardi e mezzo di Euro chiesti dalla solita Europa dell’Euro. A Roma hanno già deciso che 700-800 milioni di Euro dovranno essere fatti pagare alla Regione siciliana, cioè a 5 milioni di Siciliani. Da qui la gazzarra organizzata da Giletti. Che serve soltanto a giustificare l’ennesimo scippo ai danni della nostra Isola. “L’attenzione mediatica che da qualche settimana si concentra sulla Sicilia, con argomenti spesso faziosi, se non sbagliati, ha una spiegazione semplice: lo Stato, per fronteggiare la richiesta dell’Unione Europea di una manovra di 3 miliardi e mezzo, ha deciso che 700-800 milioni circa li dovrà pagare la Regione siciliana. Da qui l’accanimento sui vitalizi degli ex deputati del Parlamento dell’Isola – con la solita sceneggiata da Giletti – che sono uno scandalo, ma che non sono diversi da quelli della Camera, del Senato e di altre Regioni italiane”. Lo dice Franco Busalacchi, candidato alla presidenza della Regione siciliana con I Nuovi Vespri (ed editore di questo blog), commentando l’ennesima puntata de L’Arena di Giletti dedicata al massacro della Sicilia (ve ne parliamo qua). “Quello che potrebbe succedere è molto grave – aggiunge Busalacchi -. Lo Stato, non sapendo dove trovare i soldi per la manovra folle chiesta dall’Europa dell’Euro, deve giustificare agli occhi dell’opinione pubblica nazionale un ulteriore scippo di circa 700 milioni di Euro al Bilancio della Regione siciliana. E l’unico modo che ha per giustificare un’ennesima porcata ai danni di 5 milioni di Siciliani è quello di rimestare su questa storia dei vitalizi: vitalizi per gli ex parlamentari che, detto per inciso, sarà la prima cosa che abolirò se verrò eletto presidente della Regione”. “Ma in questa storia il tema non è rappresentato dai vitalizi degli ex parlamentari dell’Ars – osserva il leader de I Nuovi Vespri -. Proviamo, sinteticamente, a illustrare quello che potrebbe succedere. La Regione ha un Bilancio di ‘cassa’ di circa 13 miliardi e mezzo di Euro. Il dato non è alla lettera, perché il consuntivo 2016 lo conosceremo a fine giugno. Ma i ‘numeri’ pressappoco, sono questi”. “Da 13 miliardi e mezzo – precisa Busalacchi – vanno tolti i 9 miliardi e 200 milioni circa della sanità. Restano 4,3 miliardi di Euro circa. Se gli togliamo il contributo per il risanamento della finanza pubblica che ci chiede ogni anno lo Stato (un miliardo e 300 milioni di Euro) la disponibilità per la Regione si riduce a 3 miliardi di Euro circa. Con questa cifra tutti i soggetti che, a vario titolo, dipendono dalla spesa regionale, sono oggi in grande sofferenza. Penso alle ex Province, ai Comuni, ai precari, agli operai della Forestale”. “Ebbene, nonostante ciò – aggiunge il candidato alla presidenza della Regione – il Governo Gentiloni avrebbe deciso di togliere dal Bilancio della Regione altri 700 milioni di Euro circa, portando il contributo per il risanamento dei conti dello Stato a carico della Regione siciliana da un miliardo e 300 milioni di Euro a circa 2 miliardi. Se ciò dovesse accadere gli effetti sulla vita dei Siciliani sarebbero terribili, se si pensa che si parla anche di un ulteriore taglio di 50 milioni di Euro al contributo dello Stato alla sanità siciliana, che passerebbe da 2 miliardi e 200 milioni di Euro all’anno a 2 miliardi e 150 milioni di Euro”. “Mi auguro che Roma trovi altrove i soldi per fronteggiare le richieste di Bruxelles – dice sempre Busalacchi -. Anche perché né il presidente della Regione, Rosario Crocetta, né l’assessore dimissionario, Gianluca Miccichè, hanno avuto il coraggio di dire – forse per non mettersi contro il Governo romano – che i contributi per assicurare l’assistenza h24 ai disabili gravi e gravissimi della Sicilia li ha tagliati il Governo nazionale. Quando governeremo noi – conclude il leader de I Nuovi Vespri – contesteremo a Roma tutti i fondi che ha depredato dal Bilancio regionale, a cominciare dalla sanità. Sarà una battaglia durissima, per questo è necessario che tutti i Siciliani di buona volontà si sveglino”.
GILETTI, IL SUD E I SOLITI LUOGHI COMUNI ANTIMERIDIONALI, scrive "parlamentoduesicilie.it". Il Movimento Neoborbonico ha inviato una petizione alla Camera e una richiesta di intervento alla Commissione Vigilanza della Rai dopo l'ultima puntata dell'Arena di Giletti (9/10/16). Ancora una volta il conduttore piemontese, non nuovo a uscite contro Napoli, contro il Sud e contro la storia meridionale, ha presentato la solita lunga e unilaterale serie di luoghi comuni tra "furbetti", vitalizi, pensioni e sprechi tutti meridionali. Premesso che chi commette questi reati deve essere sempre punito, non si ricordano, però, servizi simili in quella trasmissione per casi come quelli magari veneti (tra Mose e banche fallite) o lombardi (tra maxi-evasioni fiscali ed Expo) o tosco-padani (Monte Paschi in testa) o anche per la stessa "bigliettopoli" che ha coinvolto la Juventus in queste settimane. Si richiede, allora, se si tratta di una linea editoriale seguita da Giletti o se si tratta di una linea politica che, in un momento di crisi grave come quello attuale, vuole magari evidenziare l'impossibilità di "redimere" il Sud e la conseguente inutilità di aiutarlo. Il Movimento Neoborbonico ha invitato anche gli altri movimenti meridionalisti a inviare agli sponsor della trasmissione delle mail per comunicare che non utilizzeranno più prodotti e servizi di aziende che sostengono programmi che, di fatto, danneggiano il Sud.
Primi successi di una battaglia importante. La risposta di LIDL: "In relazione alla Sua precedente segnalazione, precisiamo che LIDL è totalmente estranea alle dichiarazioni rilasciate dal noto giornalista della Rai e ne subiamo anzi le conseguenze negative, nel momento in cui si diffondono messaggi che possono comportare, come nel caso specifico, uno svilimento dell'immagine della nostra società che opera nel sud Italia da oltre vent'anni con centinaia di punti vendita. Certi della doverosa necessità di tale chiarimento La ringraziamo per l'attenzione prestata e inviamo i nostri migliori saluti. Assistenza Clienti LIDL".
Oscar Farinetti dà lezioni di politica ai Siciliani: senti un po’ da quale pulpito…, scrive "I Nuovi Vespri" il 30 gennaio 2017. Alla Sicilia, preferisce l’estero. Al grano italiano, preferisce quello canadese (al glifosato). Attacca l’Autonomia come se parlasse di olive. Sentenzia sul popolo siciliano e dispensa consigli. Eccolo qui: un altro uomo affetto dalla sindrome ‘Lei non sa chi sono io’… In dieci anni non ha mai pensato di aprire una sede del suo food store in Sicilia. E dire che nella nostra Isola non mancano di certo le eccellenze egonostranomiche. Ha sempre preferito tenersene alla larga. Ora però, in visita a Palermo per una manifestazione organizzata dalla rivista online Cronache di Gusto, di Sicilia diventa un grande esperto. Non di cibi e vini, ma di politica e, addirittura, di Autonomia. Parliamo di Oscar Farinetti, patron di Eataly, per sua stessa ammissione grande amico di Matteo Renzi che difende a spada tratta in tutte le occasioni. La sua visita di oggi nel capoluogo siciliano è stata preceduta da interviste a tutta pagina sui quotidiani cartacei siciliani. Nelle quali, oltre alla solita retorica su quanto sia bella la Sicilia, oltre al paragone di renziana memoria sul numero di turisti che arrivano sulle isole spagnole e che invece non arrivano qua (giustissimo, come abbiamo detto anche quando queste parole le ha pronunciate Renzi, ma né lui, né Renzi sembrano rendersi conto che se un biglietto per le Canarie costa molto meno di un volo per la Sicilia, non è colpa dei Siciliani), ci dedica una predica di cui avremmo fatto volentieri a meno. In buona sostanza, sentenzia che dovremmo lamentarci di meno, rimboccarci le maniche e riconoscere i nostri errori. In poche righe, praticamente, ci accusa di vittimismo, pigrizia e presunzione. La solita visione nordica al limite del razzismo culturale che hanno molti imprenditori italioti che, però, sono i primi a correre in Sicilia quando si tratta di accaparrarsi fondi pubblici per iniziative imprenditoriali che poi portano profitto altrove (basti ricordare che la storia della Cassa per il Mezzogiorno e poi dell’Agensud è piena di questi esempi). Ma il Nostro si spinge oltre, parlando pure di Statuto: “Che direste se vi chiedessi di abolire la vostra Autonomia?”, dice al Giornale di Sicilia. Una domanda che è tutto un programma (politico?). Noi diremmo che farebbe meglio a parlare di formaggi e di vini e non di cose che non conosce, perché se l’Autonomia fosse tra le sue competenze e se la Sicilia gli fosse cara, semmai avrebbe suggerito ai Siciliani di lottare per una sua totale applicazione, a partire da quegli articoli dello Statuto che consentirebbe alla nostra Regione di usufruire di quella fiscalità di vantaggio che, là dove è stata implementata, ha portato sviluppo e attratto molti investimenti e molti turisti (dalle isole spagnole a Malta, per limitarci ad esempi vicini). Aiuterebbe pure ad evitare quegli scippi di risorse da parte del Governo nazionale che, con Renzi, sono diventati massicci (e, come ricordiamo sempre, stigmatizzati anche dalla Corte dei Conti). Se si fosse informato meglio prima di sentenziare (invece di limitarsi alla letteratura renziana), Farinetti avrebbe fatto una figura migliore di quella che ha fatto. Ma, in fondo, perché dovrebbe stargli a cuore la Sicilia? Parliamo di un imprenditore che, non solo, come detto, non ha mai investito qui, ma che ti dice anche che forse lo farà tra un paio di anni (“A Catania perché ho parlato con l’amico Enzo Bianco) perché per ora è concentrato sull’estero. Liberissimo, va da sé, di investire dove vuole. Ma ci risparmi le prediche. Non siamo tra quelli pronti a leccargli le mani perché magari speranzosi di fare qualche affare con lui (abbondano). Gli affari li lasciamo agli affaristi. Qui si parla della dignità di un popolo, della sua storia e dei sui diritti negati che non può essere messa in discussione da uno che non ne sa nulla e che, in aggiunta, preferisce investire all’estero. Tra l’altro non va dimenticato neanche che Oscar Farinetti, proprio lui, nella epocale battaglia in corso sull’utilizzo dei grani italiani contro quelli stranieri, leggasi grani del Sud, si è schierato altrove. Ricordate? Ha sostenuto che è il grano duro italiano non garantisce pasta di qualità “non è di alta qualità”. Ha difeso pure quello canadese, ricco di glifosato, erbicida velenoso per la salute. Per non parlare delle micotossine. Questo sarebbe un imprenditore ambasciatore del Made In Italy. E, allora, signor Farinetti: vada all’estero e ci resti se vuole. E lasci perdere la Sicilia.
Il Sud Italia raccontato dal cinema: non solo «Gomorra», scrive Marco Bruna l’8 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Negli ultimi vent’anni il cinema italiano ha raccontato il Sud come un luogo senza possibilità di riscatto, contraddistinto da un senso di degrado umano e sociale. Questo canone «gomorrizzato» del Sud ha riscosso grande popolarità, anche sul piccolo schermo.
Aurelio De Laurentiis al termine della gara Napoli-Real Madrid del 7 marzo 2017 persa dalla sua squadra si è esposto in prima persona ai microfoni di Premium Sport HD, applaudendo i calciatori, chiudendo definitivamente il caso Sarri e non si risparmia contro la stampa del Nord, e per questo rimbrottato dal conduttore in studio, Sandro Sabatini, infastidito dalle sue parole. Queste le sue parole. “Stasera la squadra ha giocato un primo tempo esemplare, anche nella ripresa i ragazzi hanno dato il massimo. Affrontavamo il Real Madrid e per noi è già un successo confrontarsi con loro, con i campioni del Mondo. I tifosi hanno offerto uno spettacolo eccellente, avevamo dei grandissimi ospiti che hanno avuto una grandissima accoglienza in uno stadio che soffre la sua vecchiaia; abbiamo dato un’immagine di noi esemplare facendo sfoggio anche della tradizione culinaria napoletana. Sarri ha dato una lezione di calcio agli avversari, giocando una partita straordinaria. Sono convinto che faremo ancora grandi cose in campionato, ora ci resta da affrontare due volte la Juventus al San Paolo e noi speriamo di fare una grande figura. Non c’è stato mai nessun caso aperto, se qualcuno si vedesse l’intervista che ho concesso Veltroni ho sempre parlato di Maurizio come di un’esteta del calcio e di un grande allenatore. Io dopo Madrid non ho mai parlato di Sarri, ero arrabbiato con la squadra e salvai solo Insigne. Poiché i giornalisti del Nord mi odiano, ed odiano il Napoli. E’ da Cavour che il Nord odia il sud. Si sono scatenati tutti contro di noi per creare zizzania dentro casa nostra. Hanno provato ad aggiungere ad una sconfitta altra cattiveria, così magari riperdono avranno pensato, ed è infatti successo con l’Atalanta. Quando parlai di "cazzimma" all’andata qualcuno si era chiesto cosa intendessi, poi ho visto che il termine è stato ripreso anche dalla Gazzetta dello Sport che è storicamente il giornale di Juventus, Inter e Milan. La Gazzetta dello Sport è sempre stata contro il Napoli, c’è Mimmo Malfitano che mi dispiace perché è stato aggredito, ma è sempre stato un tifoso della Juventus. (Il presidente fa un preciso riferimento ad un giornalista che martedì ha subito un atto intimidatorio). Cazzimma? La ricchezza dell’Italia sta nella regionalità, nei dialetti, nei modi di dire e anche il calcio può essere veicolo di trasporto per questo dialetto regionale. Il nostro è un Paese disunito e regionalizzato, con un Paese spaccato ma nessuno può dirlo. Io sono un cittadino libero e dico quello che penso e nessuno può chiudermi la bocca. Il Corriere dello Sport è invece un paladino del calcio Napoli, storicamente è così. Non sono l’uomo delle polemiche, ma dopo dodici anni di calcio sono stufo. I tifosi del Napoli ci hanno regalato uno stadio meraviglioso, in un impianto che soffre il peso dell'età essendo alquanto vetusto. Continuiamo ad andare negli stadi a sentire gente che inneggia all'eruzione del Vesuvio e i napoletani non si ribellano. Oggi il nostro pubblico ha dato dimostrazione di crescita culturale. Adesso vogliamo sfidare la Juventus a testa alta, con un San Paolo ruggente e fervente. Sentire in ogni stadio cantare "Lavali col fuoco" e nessuno dice nulla mi dà molto fastidio, non mi sognerei di dirlo ad un altro cittadino italiano. Stasera i napoletani hanno dato una dimostrazione di civiltà a tutti. o vivo in questo paese, lo racconto da 43 anni attraverso i miei film. C'è una contrapposizione che il presidente Napolitano ha provato a frenare ma se c'è un paese che vive di contrasti è il nostro. Siamo in un regime silente, io sono un vero democratico, amo la libertà di espressione, sono un cittadino che paga le tasse e nessuno mi può chiudere la bocca".
«Gravi e inaccettabili». Così Paolo Pirovano, segretario nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, e Pierfrancesco Gallizzi, consigliere della Federazione Nazionale della Stampa, definiscono le parole di De Laurentiis dopo la partita con il Real Madrid. «Affermazioni fuori luogo - aggiungono Pirovano e Gallizzi - che fanno male al Napoli calcio, a Napoli città e all’Italia intera. C’è d’augurarsi che, a freddo, De Laurentiis chieda scusa».
Vesuvio, l'iPhone lava Napoli col fuoco. «Ecco perché capita», scrive Marco Perillo Giovedì 12 Gennaio 2017 su “Il Mattino di Napoli”. Non bastavano i beceri cori che quasi ogni domenica o in qualsiasi turno infrasettimanale della serie A riecheggiano negli stadi italiani, a cominciare da quello della Juventus a Torino per estendersi a macchia d'olio in tutta la Penisola. «Vesuvio, lavali col fuoco» è la canzoncina più odiata dai tifosi del Napoli, che da ieri, come una tremenda beffa, si sono ritrovati lo stesso leit-motiv digitando la parola «Vesuvio» sui dispositivi della Apple. Basta infatti scrivere il nome del vulcano campano all'interno delle note così come nei messaggi Whatsapp, nelle mail oppure a margine dello schermo, che compaiono le seguenti parole suggerite: «lavali», «col» e «fuoco». Praticamente, la frase che compone l'irritante sfottò. Un fenomeno scoperto e denunciato dal conduttore della seguitissima trasmissione sportiva «Radio Goal» Valter De Maggio, sule frequenze di Radio Kiss Kiss. Una goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo e che ha mandato su tutte le furie i tifosi partenopei. In centinaia si sono scatenati coi commenti più disparati sui social. Tanto che su Twitter è stato lanciato l'hashtag #AppleVesuvio per protestare contro l'azienda di Cupertino e chiederle di cambiare subito i suggerimenti della cosiddetta «tastiera predittiva». «Voglio spiegare come funziona - ha raccontato De Maggio - la tastiera predittiva è un algoritmo, crea un dizionario locale, acquisisce dal web le parole più frequenti, più viene utilizzato un termine, più viene suggerito. Abbiamo fatto alcune prove, abbiamo inserito altri termini e neologismi frequenti non compaiono. Se scrivo Juve esce storia, se scrivo Vesuvio deve uscire Napoli, non lavali col fuoco. In un momento storico in cui si cerca di sensibilizzare sul tema del razzismo, questa circostanza non può passare inosservata e speriamo che l'azienda statunitense riesca a modificare e a migliorare il suo algoritmo in questo caso particolare. È una vicenda gravissima». In effetti, come ha raccontato De Maggio, tutto sarebbe dovuto agli algoritmi. Ovvero, una serie di istruzioni matematiche che posso permettere di associare sui dispositivi le parole più ricercate in Rete, i cosiddetti «trend topic». Facciamo un esempio: se in un determinato territorio - come la Campania o l'intera Italia - si digita continuamente la frase «Vesuvio lavali col fuoco» o semplicemente si caricano e si condividono video sull'argomento, è possibile che il vocabolario in locale di uno smartphone «impari» quelle parole di uso molto comune e le «ripeta». Il che, in qualche modo, è la controprova che sul Web sono costantemente effettuate ricerche sulla discriminazione territoriale nei confronti dei napoletani. «Il concetto principale è che tutte le parole più tipiche che viaggiano in Rete sono immagazzinate in grossi database- spiega Ernesto Burattini, già ordinario di Informatica alla Federico II -. Possiamo vedere gli algoritmi come dei navigatori nascosti che girano in rete e trovano queste parole sensibili e le ripropongono agli utenti. Un po' come avviene coi messaggi pubblicitari che ci appaiono su molti siti e che riflettono le ricerche che noi facciamo in Rete. Molto spesso queste informazioni, sono fornite a ditte che poi vendono pubblicità». Un'altra spiegazione per cui accade il fenomeno «Vesuvio» potrebbe essere il cloud: un grande bacino di espressioni dalla lingua italiana che spesso segnala espressioni di uso comune tra gli utenti. Dunque, nessuna volontarietà da imputare alla Apple, anche se il fenomeno non si ripete su altri tipi di dispositivi, come Android. Ciò, spiegano gli esperti, potrebbe dipendere dal tipo di protezione, che è diverso da un supporto a un altro. Intanto centinaia di napoletani sono sul piede di guerra e la rabbia corre sui social. «Compro IPhone e Ipad razzisti a metà prezzo» ha scritto qualcuno, tra il serio e il faceto. Poiché all'ombra del Vesuvio è così: se si tocca una nota dolente come questa, non si perdona niente, e nemmeno alla tecnologia. Eppure non è la prima volta che a livello internettiano capita una cosa del genere: nel giugno 2015 destò scalpore una scoperta che fece parlare il popolo della Rete per giorni e giorni. Se si digitava su Google Maps la frase «lavali col fuoco», l'indicatore portava dritto proprio all'immagine del Vesuvio. In quel caso si trattò dello scherzo di qualche buontempone che sparse in Rete diversi bug, non dimenticando la «legge del contrappasso». Si prendeva in giro anche la «Vecchia Signora»: se infatti si digitava «vai a cagare» si veniva spediti direttamente allo Juventus Stadium. Tanto che Google Italia intervenne per scusarsi, ma solo con la Juve. Il riferimento al Vesuvio è rimasto.
Dalla retorica dell’antimafia alla nuova Questione meridionale, scrive di Giancarlo Costabile, Docente Unical, Giovedì 22 Settembre 2016 su "Il Corriere della Calabria". La disperazione è una malattia sociale. Forse la peggiore. Corrado Alvaro amava dire che «la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». In Calabria e nel Sud il rischio che stiamo correndo è di permanere in una condizione di subalternità culturale rispetto agli altri territori del Paese, accettando come ineluttabile un destino amaro segnato dalle ingiustizie e dal malaffare. Il problema criminale è innegabilmente parte costitutiva della Questione meridionale, ma non può, in alcun modo, esaurirne la complessità dei suoi paradigmi. Dietro le vicende di Melito Porto Salvo e Nicotera, con il loro miserabile apparato di responsabilità individuali e collettive, non si cela soltanto il dominio mafioso con le sue necessità di comunicazione sociale. Le mafie sono l'epifenomeno di un problema strutturale sul piano socio-economico che caratterizza la storia del Mezzogiorno prima e dopo l'Unità del Paese. Il Meridione non è riuscito a mettere compiutamente in discussione la forma padronale, di matrice feudale, delle sue relazioni di potere sociale, neanche in questi 70 anni di storia repubblicana. La nostra è, infatti, ancora una società di padroni, che si nutre di rapporti verticali funzionali a modelli di organizzazione piramidale della vita pubblica. A Sud di Roma, e in Calabria specialmente, vi sono larghi strati della popolazione che non faticano a riconoscersi quali portatori della peggiore antropologia educativa: quella dell'uomo-struzzo. La cosiddetta antimafia di professione, lautamente pagata con denaro pubblico in tutti questi anni per ogni genere di proposta educativa messa in cantiere, non ha quasi mai affrontato con rigore scientifico il tema della fenomenologia dell'oppressione che si pone come sovrastruttura ideologica dell'economia padronale meridionale. A Melito come a Nicotera, ma è così in molte aree del Mezzogiorno, prevalgono una morale privata ed un'etica pubblica figlie concettuali di un'ideologia del silenzio e della rassegnazione, che ha sequestrato il nostro presente, amputando il futuro delle giovani generazioni. L'uomo-struzzo non deve né vedere né sentire, ma solo tacere perché è destinato all'obbedienza padronale. Regola aurea vigente sia per coloro che sapevano della mattanza da "Arancia meccanica" alla quale era sottoposta l'adolescente di Melito Porto Salvo, sia per le decine di nicoteresi che osservavano l'arrivo dell'elicottero degli sposi, accolti da non pochi applausi nella piazza comunale. La Costituzione nata dalla Resistenza è materia ancora sconosciuta nel tessuto socio-culturale del Meridione. Al Sud non serve più l'antimafia dei cortei e delle liturgie convegnistiche, che hanno ridotto la Questione meridionale a mera criminologia, con la quale segmenti nodali dello Stato hanno trasformato il disegno dell'emancipazione collettiva delle nostre terre in un bisogno personale di affermazione e prestigio sociale. La centralità della nuova Questione meridionale è determinata dall'urgenza di frantumare il paradigma padronale dell'inginocchiatoio, che sta avvelenando i pozzi della speranza. E una società senza speranza non è altro che una comunità di sepolcri imbiancati destinata a sporcare l'esistenza, ammantando con il nero della disperazione la bellezza dell'azzurro del cielo. Soltanto frantumando la struttura padronale dell'economia meridionale, riusciremo a costruire un nuovo habitat educativo per la nostra gente. Antonio Gramsci osservava opportunamente che se ogni relazione umana è una relazione educativa, ogni rapporto educativo è un rapporto di potere. Una nuova egemonia culturale deve farsi progetto di cambiamento di questo modo di intendere e vivere le relazioni umane, sia produttive che compiutamente pedagogiche. Dal 2000 ad oggi, la Svimez ci spiega che sono quasi 2 milioni gli emigrati dal Mezzogiorno, in larga parte laureati e sotto i 35 anni di età. Sempre secondo questo importante centro di ricerca, entro il 2050 solamente 1 italiano su 4 abiterà le città meridionali. Scientificamente si chiama desertificazione civile, politicamente è un olocausto. Se non vogliamo altre Melito e Nicotera, dobbiamo uscire dall'ipocrisia di certa antimafia, fatta di sirene estetizzanti, spasmodica ricerca di denaro pubblico, danze folcloristiche. E, invece, rilanciare con forza la centralità dello sviluppo del Meridione, a cui non bastano le politiche sull'ordine pubblico e la diligente azione repressiva della Magistratura, ma soprattutto occorrono interventi strutturali in materia di capitale umano, leve fiscali, innovazione logistica e tecnologica. Il Mezzogiorno non può continuare ad essere una "questione", ma deve diventare il cantiere di una rinnovata speranza: da non-luogo del presente a luogo del futuro.
Amartya Sen: "Divisione tra Nord e Sud conseguenza dell'imperialismo". Il premio Nobel ragiona sul nostro Mezzogiorno. Perché cambiare è possibile. E tra cento anni tutto può essere diverso, scrive l'11 gennaio 2017 "L'Espresso". Il Sud visto con gli occhi del premio Nobel Amartya Sen, che da sempre studia e combatte le diseguaglianze. La visione di Sen è scritta in una lunga intervista raccolta nel libro "Con il Sud, visioni e storie di un'Italia che può cambiare"(edito da Mondadori), curato dalla Fondazione con il Sud presieduta da Carlo Borgomeo. I diritti d’autore sulle vendite saranno interamente devoluti dalla Fondazione a Liberos, che ha dato vita in Sardegna a un progetto innovativo fondato sulla promozione della lettura come fonte di coesione sociale, portandola in centinaia di piccole comunità isolate. Insieme al Nobel molti altre sono le interviste presenti nel libro. Edgar Morin, Raffaele Cantone, Franco Roberti, Rosy Bindi, Luigi Ciotti, Mimmo Calopresti, Chiara Saraceno e molti altri. L'Espresso pubblica un estratto del dialogo con Amartya Sen. Negli ultimi anni la pretesa di rappresentare il mondo come diviso in un Nord e un Sud – dove con Nord si intendeva in genere progresso socio-economico, con Sud l’arretratezza e la lotta al suo superamento – è apparsa via via inadeguata a rappresentare la complessità del presente. Come è cambiato questo paradigma? Sarebbe un errore pensare che questa distinzione risalga a un passato remoto. A ben guardare la Storia, anzi, spesso è stato proprio il Sud ad avere forme di sviluppo superiori rispetto a quelle del Nord. Dopotutto la civiltà minoica proveniva dalla Grecia, dal Sud. La cultura greca ebbe importanti influenze sulla storia italiana e poi su quella europea, proprio attraverso il Sud. Al contrario, quelle rivolte così temute dai romani e che finirono per minarne l’impero, provenivano dal Nord. Dunque l’idea di un Sud arretrato da contrapporre a un Nord più avanzato è molto recente e, fino a un paio di secoli fa, non aveva alcun senso. Questo concetto è semmai un risultato dell’imperialismo, che si mosse dall’Europa al mondo intero. Nel caso della Francia si diresse a sud, ma nel caso del Regno Unito, invece, fu rivolto a est. Proprio per questo motivo, nel contesto dell’impero britannico, la contrapposizione è tra Occidente evoluto e oriente antiquato, mentre in Francia le distinzioni tra progresso e arretratezza vengono più spesso applicate a una dicotomia Nord-Sud. In realtà delle concezioni così superficiali non potevano reggere a lungo, soprattutto di fronte ai fenomeni di sviluppo di cui sono protagoniste l’Asia, l’Africa e l’America Latina. Insomma questo presunto grande gap, mi sembra ormai davvero un’idea difficile da sostenere. Eppure in Italia ancora oggi si discute – talvolta molto animatamente – di Nord e di Sud, con implicazioni che spaziano dai riflessi sull’attualità di grandi passaggi storici alle misure economiche da adottare fino a presunte distinzioni di carattere antropologico e culturale. Certo, nel corso della storia italiana c’è stata e c’è questa divisione tra Nord e Sud: ancora una volta non la definirei tradizionale, se pensiamo – solo per fare un esempio – alla storia intellettuale di Napoli. Si tratta di una divisione che persiste. Era forte quando ero giovane, è forte oggi che sono anziano. Ho iniziato a interessarmi a questi argomenti verso la fine degli anni cinquanta, grazie al lavoro condotto con il mio primo studente di ricerca, che fu Luigi Spaventa. Dalla nostra collaborazione appresi una serie di questioni che continuano a essere attuali, sullo sviluppo del capitalismo in Italia e sull’industrializzazione del Paese. Penso che ci sia stato un tempo in cui il Nord poteva apparire più sviluppato, e mi rendo conto che si tratta di un problema ancora oggi aperto in Italia, ma in futuro le cose potrebbero cambiare. So che la vostra fondazione si chiama CON IL SUD, ma è possibile che tra un secolo tutto anche in Italia sarà molto diverso e magari la fondazione dovrà cambiare nome e diventare una fondazione CON IL NORD. Interrogandoci sul futuro del Sud dell’Italia – la sua bellezza, i suoi problemi storicamente sedimentati – ci troviamo necessariamente a ridefinire il concetto di benessere e di qualità della vita. Vuole aiutarci a declinare questi termini in modo che tengano conto di questa complessità? Se l’obiettivo che vogliamo porci è di vivere bene, allora bisogna rifarsi a quello che uno studioso “meridionale”, Aristotele, affermò nella sua Etica nicomachea: ciò che stiamo cercando, nella vita, non è la ricchezza materiale, o meglio la cerchiamo solamente come strumento per ottenere le cose davvero importanti, quelle che possano consentirci una buona qualità della nostra esistenza. Ecco, si tratta di un pensiero che proviene dal Sud, ma voglio sottolineare che ragionamenti di questo tipo si sono riproposti molte volte nella Storia. Nessuno tra gli antichi filosofi pensava che il senso della vita possa ridursi alla ricchezza, che si possa essere appagati senza essere felici, produttivi, creativi, culturalmente stimolati e messi in condizione di dedicarci ad attività che valutiamo come utili o importanti. Quindi ritengo che questa idea per cui la ricchezza e il profitto sono la misura del successo nella vita sia profondamente sbagliata. Certo, come ci insegna Aristotele, la ricchezza è uno strumento per ottenere molte cose – non tutte, per la verità, ma molte cose. Per questo è molto importante che le persone abbiano la concreta possibilità di ottenere un reddito: questo significa opportunità occupazionali, significa salari adeguati, ma significa anche poter contare su un’assistenza sanitaria degna, su un valido sistema scolastico a cui magari possa provvedere lo Stato. Di questo abbiamo bisogno. Così come ci serve la protezione dell’ambiente e non fiumi inquinati. Per vivere bene abbiamo bisogno anche di un contesto sociale in cui il crimine non sia dilagante e in cui le persone si possano sentire al sicuro, in cui possano fidarsi le une delle altre e comunicare tra di loro senza la paura che possa accadere qualcosa di terribile. Dunque abbiamo bisogno di molte cose nella vita, non di una cosa sola. Spesso la chiamiamo libertà, ma anche la libertà è un concetto che si articola in una vasta serie di aspetti diversi. Per raggiungere alcuni di questi, essere o non essere ricchi può fare la differenza, e per questo aumentare la ricchezza a Sud sarebbe molto importante. Ma non è l’unico parametro. Molto dipende anche da come è organizzata la società, da come lo Stato funziona e da come la stessa cultura può rendere la vita umana più soddisfacente. Cosa ne pensa della proposta di abbassare i livelli salariali nelle cosiddette “aree depresse”, sul presupposto che il costo della vita è inferiore e con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di nuove imprese?
Ci sono alcuni casi in cui la richiesta di salari troppo alti può scoraggiare l’occupazione, ma questa conseguenza è spesso troppo enfatizzata. All’opposto, ad esempio, c’è anche il pericolo che, riducendo i salari, la produttività della manodopera si abbassi. Non è molto chiaro, poi, quanta diminuzione dei livelli occupazionali si determini a fronte di salari più alti. Quindi non credo di poter fornire una regola generale su questo. In alcuni contesti può avere un qualche senso, certo, ma in quelle situazioni in cui gli operai sono sfruttati e non hanno il potere contrattuale su cui possono contare impiegati, industriali e capitalisti, bene, in questi casi si potrebbe invece provare a reintegrare i salari, allo scopo di incrementare il potere d’acquisto. Penso all’esperienza di Bangladesh, Vietnam, Cambogia o anche alla Cina. Fino a poco tempo fa questi Paesi sono riusciti a raggiungere alti livelli di produzione nel tessile e in altri settori, tenendo bassi i salari, ma – ad esempio in Cina – anche in ragione di questi successi hanno dovuto aumentarli e questo non ha certo determinato l’impossibilità dello sviluppo.
Se Giorgio Bocca era antimeridionalista lo sono anche io, scrive Tommaso Ederoclite su “L’Inkiesta”. Da poche ore è morto Giorgio Bocca. Un normale "coccodrillo" lo avrebbe definito come giornalista, scrittore e partigiano. E invece gli strepiti di chi vuol dire la sua sulla biografia e la vita degli altri non si sono fatti aspettare. In poche ore sono comparsi in Rete post, articoli, status, tweets che identificavano il noto giornalista come un anti-meridionalista, uno che odiava città come Napoli o Palermo. Altri ancora si sono spinti oltre addirittura definendolo come razzista. Accuse che nascono da dichiarazioni come questa: "Le forme di complicità con la Camorra sono innumeri e spesso inconsapevoli. Si vede semplicemente entrando nei negozi, negli uffici, guidando l'automobile, in questa lotta di tutti contro tutti che cerca la protezione dei più violenti. La Camorra ha avuto nella grande città una funzione decisiva: assicurare la sopravvivenza dei marginali ma impedire che essi dessero l'assalto ai regolari. I marginali sono massa, centoquarantaseimila famiglie hanno fatto domanda per il sussidio di povertà, solo ventimila l'hanno ottenuto, un esercito permanente di poveri di fronte ai quali sta la grossa minoranza dei ricchi che fanno politica, accumulano enormi patrimoni senza produrre sviluppo, senza cambiare i rapporti sociali". Ebbene Bocca aveva ragione, e non solo perché vivo il contesto da lui descritto così amaramente. Bocca aveva ragione perché le sue posizioni erano analisi antropologica e non deliri di un vecchio nei suoi ultimi anni di vita. Il più delle volte accompagnate da buone dosi di ironia e provocazione ma che davano comunque un senso di verità al suo pensiero. Certo verrebbe da dire che "non tutti i napoletani fanno schifo" o che "non tutta Palermo è collusa con la mafia", ma sono dichiarazioni che lasciano il tempo che trovano ed evidenziano una totale assenza di contenuti circa la storia del meridione, e soprattutto una totale ignoranza sia del personaggio - provocatore e tagliente - che dei suoi scritti. Ma "anche le pulci hanno la tosse" ed è davvero grottesco veder confondere l'intellettuale con l'opinionista, il giornalista con il "cane mediatico" di qualche partito o qualche politico. Bocca era altro. In Italia ormai abbiamo la cattiva abitudine di vivere in barricate culturali e politiche, su Bocca in poche ore non ci siamo smentiti. Bocca non era la verità assoluta, ci mancherebbe. Tantomeno voglio applicare il buonismo post-mortem. Giorgio Bocca era deluso da una umanità imbarbarita, imbruttita dentro. Nessuno può negare il contrario. Ormai il "sacro fuoco" che lo accompagnava qualche anno fa lo aveva abbandonato. Bocca era deluso dell'Italia che ne è venuta fuori dopo aver combattuto per costruirla. E sono d'accordo con lui. Città come Napoli o Palermo hanno contribuito alla resistenza più di molte altre e oggi sono solo meravigliose cornici tornite da una umanità repellente. Se Bocca era antimeridionalista lo sono anche io.
E con l’Unità d’Italia nacque il razzismo antimeridionale, di Ignazio Coppola su “Politica Prima”. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che significativamente ed opportunamente avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: Ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare“ il Sud e la Sicilia. Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: “In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura è come mettersi a letto con un vaioloso”. Più o meno quello che esattamente 150 dopo canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati”. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. D’allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio il paranoico massacratore di Bronte in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: “Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a “farsi civili”. Ma ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio” a proposito dei territori in cui si trovò a operare in una lettera inviata a Cavour così si esprimeva. “Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861 durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene. “Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare, intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, anch’egli, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: “Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “la popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa” e poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: “Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero a spese del sud depredandolo, saccheggiandolo uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. Su questi pregiudizi nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra nord e sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene che: “La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del nord. Queste non capivano - afferma Gramsci - che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”. L’impoverimento del meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che conquistando e colonizzando il sud ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia già direttore della banca nazionale degli stati Sardi e amico personale di Cavour e successivamente governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: “Il mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale tenendo fede a questo sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del nord soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Ma riprendendo l’analisi di Gramsci si può in buona sostanza affermare che la origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto nord-sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente: Scriveva il filosofo ceco Milan Kundera protagonista della primavera di Praga nel suo “Il libro del riso e dell’oblio” un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia, e qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato”. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini come abbiamo visto aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del mezzogiorno che al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori” quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che assieme ad altri antropologi e criminologi Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani. I settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella eurafricana (negroide) al sud e di conseguenza la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo in un suo libro del 1898 “L’Italia barbara contemporanea” descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa - sostiene ancora Gramsci - in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il mezzogiorno è la palla al piede - si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica ma del fatto che i meridionali sono di per se incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali come quando nelle città del nord si era soliti leggere cartelli come questi “vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali” e ancora “non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può alla luce di tutto questo parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo paese? E certamente ancor più non ci si può indignare da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni farebbero bene ad indignarsi per il fatto che a Torino il 26 novembre 2009 è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora ai nostri giorni esistono due Italie. Quella del Nord civile e progredita. Quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e far chiudere da parte di istituzioni responsabili questo deprecabile museo degli orrori e delle menzogne. In Italia purtroppo basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napoletano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro.
La teoria razziale dell'inferiorità del mezzogiorno. Il razzismo è una evidentissima defezione da ogni criterio di materialismo storico! Il razzista oggi sostituisce alla parola razza la parola cultura.
Per Gramsci, il partito socialista ha anche commesso il gravissimo errore di aver consentito ad un diffuso pregiudizio contro i meridionali tra la stessa classe operaia del Nord. «E' noto - scriveva Gramsci - quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo dell'Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l'esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede tutto il suo crisma a tutta la struttura "meridionalista" della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, e i minori seguaci... ancora una volta la "scienza" era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta si ammantava dei colori socialisti, pretendeva di essere la scienza del proletariato.» A.Gramsci - Quaderni vol. III A.Gramsci - Alcuni temi della quistione meridionale.
Altrove Gramsci ebbe a dire: "Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti". Ordine Nuovo" 1920 Antonio Gramsci Il Risorgimento Editore Riuniti 1979 pag.98/99
Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica unitaria ossessionata di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel Settentrione per riguardo al Mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era «inspiegabile» storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che, se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto piú che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.), assumendo la forza di «verità scientifica» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe cosí una polemica Nord-Sud sulle razze e sulla superiorità e inferiorità del Nord e del Sud (confrontare i libri di N. Colajanni in difesa del Mezzogiorno da questo punto di vista, e la collezione della «Rivista popolare»). Intanto rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una «palla di piombo» per l’Italia, la persuasione che piú grandi progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto senza questa «palla di piombo», ecc. Nei principii del secolo si inizia una forte reazione meridionale anche su questo terreno.
SALVEMINI[ ... ] Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell'Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d'America per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaraviglio del Nord; e in cui non possiamo attenderci nessun aiuto serio né dai partiti conservatori, né dalla democrazia del Nord, nel nostro penoso lavoro di resurrezione, anzi tutti lavorano a deprimerci più e a render più difficile il nostro lavoro? Perché non facciamo due stati distinti? Una buona barriera doganale al Tronto e al Carigliano. Voi si consumate le vostre cotonate sul luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli inglesi, e comperiamo i loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant'anni, abbandonati a noi, diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi, ci daremo in colonia agli inglesi, i quali è sperabile ci amministrino almeno come amministrano l'Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci abbiano trattato nei cinquant'anni passati i partiti conservatori, che non si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant'anni i cosiddetti democratici». Cfr. Lettera di G. Salvemini ad A. Schiavi, Pisa 16 marzo 1911, in C. Salvemini, Carteggi, I. 1895-1911, cit., pp. 478-81. Lucchese, Salvatore, Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini. Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita, 2
Razza meridionale. Così la sinistra del Mezzogiorno diventò antimeridionalista. L’anticipazione «Bassa Italia. L’antimeridionalismo della sinistra meridionale», il nuovo libro di Marco Demarco su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È da pochi giorni in libreria «Bassa Italia», il nuovo saggio del direttore del Corriere del Mezzogiorno Marco Demarco. Qui di seguito sono pubblicati stralci dal primo capitolo. Talvolta, diceva Totò, ho l’impressione che anche i gatti mi guardino «in cagnesco». Quanti gatti ci sono in giro? Diciamo la verità: non avvertiamo, noi meridionali, uno strano sguardo addosso? La sgradevole sensazione di un giudizio che ci precede, di una commiserazione che ci accompagna? L’impressione è che sia tornata d’attualità una questione che sembrava morta e sepolta. Di che pasta siamo fatti? È possibile, insomma, che i meridionali appartengano ad una razza a parte? Molti lo pensano e lo dicono. Altri lo pensano e non lo dicono. Chi scrive non lo pensa, ma dice che i meridionali hanno molto da farsi perdonare, e tra le tante cose anche questa storia della loro diversità, a volte subita, altre esibita, sempre tirata in ballo o per compiacersi o per giustificarsi. Da qui l’urgenza di un’autocritica meridionale. (...) Dice bene Gianfranco Viesti, il ragionamento che molti fanno è il seguente: «I rifiuti sono Napoli, Napoli è il Mezzogiorno, i rifiuti sono il Mezzogiorno». Ma non c’è da meravigliarsi. Le generalizzazioni antimeridionali hanno radici profonde. Nel Cinquecento i meridionali erano i selvaggi della porta accanto, gli abitanti delle indias de por acà. Prima ancora Roberto il Guiscardo li definiva caccarelli e merdaçoli parvique valoris. Diavoli in paradiso in età barocca, diventano lazzari in quella dei Lumi e dolicocefali nel secondo Ottocento. Infine, terroni nel Novecento delle ultime ondate migratorie. Ogni secolo un insulto. O giù di lì. Quasi a chiudere il cerchio di una secolare diffidenza, c’è poi chi offre sul piatto della polemica geopolitica il termine meridios, che almeno stempera il disprezzo nell’ironia. (...) Il gioco dei pregiudizi e degli stereotipi è universale, si pratica da sempre e in ogni luogo, ma perché è così facile riproporlo a danno dei meridionali? Perché può apparire del tutto naturale immaginarli come una razza maledetta, o come una razza e basta, senza aggettivi? In altre parole, cos’ha in comune la generosa sensualità di Sophia Loren con la figura spettrale di Tina Pica? (...) L’idea di un’autocritica meridionale non è nuova. Nel maggio del 1990, provò a suggerirla Norberto Bobbio parlando di questione meridionale come questione dei meridionali. (...) Il primo dicembre del 2008 ci riprova allora Giorgio Napolitano, nelle vesti di capo dello Stato. «Se il Mezzogiorno non dà il senso di una forte capacità autocritica - dice il Presidente nel corso di una visita a Napoli - difficilmente riuscirà ad essere credibile». E alludendo al federalismo fiscale, aggiunge: «Non si possono denunciare i rischi e gli esiti infausti di politiche antimeridionali se ci si sottrae a un esercizio di responsabilità per quel che riguarda l’amministrazione della cosa pubblica». Ma si fa presto a dire autocritica. Chi è davvero disposto a praticarla? (...) Ammettere l’ipotesi di un’autocritica meridionale implica, tra l’altro, misurarsi con l’antimeridionalismo prodotto in casa, con l’antimeridionalismo dei meridionali. (...) È l’antimeridionalismo che dai positivisti radicali del primo Novecento si spinge fino agli elitari di sinistra dei nostri giorni. Un pensiero, a dirla tutta, che dai sociologi razzisti della scuola lombrosiana arriva fino a certi gestori dei partiti personali, passando per i tanti rami di una cultura illiberale e neodeterminista. (...) La «questione razziale» è l’idea che il Sud sia la culla di una razza inferiore per indole, intelligenza e aspetto fisico. Esplode, dopo una lunga incubazione, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, e trova i suoi teorici, come Niceforo, Sergi e Lombroso, quando a circa quarant’anni dall’Unità nazionale ci si rende conto che nel Mezzogiorno poco o nulla era cambiato, nonostante la liquidazione del potere borbonico. È allora che, in mancanza di meglio e sull’onda di un incombente pensiero positivista, si mettono in campo spiegazioni che rimandano alla diversità etnica. Niente è più rassicurante, del resto, di una semplificazione assunta come verità. Ed è così che le classi dirigenti antiborboniche assolvono se stesse. Il Sud, ammettono, non è cambiato, ma la colpa è del popolo primitivo. Un secolo dopo la febbre razziale esplode invece quella elitaria, che a sua volta apre una nuova «questione antropologica». Non più il fatto etnico: questa volta si sottolinea piuttosto l’inferiorità culturale e civile dei meridionali. La nuova questione antropologica si manifesta compiutamente a ridosso delle riforme istituzionali che avrebbero dovuto garantire l’accesso del Mezzogiorno alla modernità, e a circa quarant’anni, anche questa volta, dalla prima di quelle riforme: il varo, nel 1970, delle amministrazioni regionali, previste dalla Costituzione e fino ad allora mai istituite. Ancora una volta, quando si vanno a elaborare i primi bilanci di questa lunga stagione di riforme istituzionali, si scopre che, nonostante l’elezione diretta dei sindaci e dei governatori e nonostante i partiti personali dei vari leader locali, il Nord resta lontano. Irraggiungibile come la linea dell’orizzonte, come l’ultimo gradino di una scala senza fine. A questo punto l’automatismo si ripete. Dopo anni di legislazioni speciali, di interventi straordinari, di programmazione negoziata, di fondi europei, e dopo la lunga esperienza del direttismo elettorale, di sindaci e di presidenti regionali eletti direttamente dal popolo, torna implacabile la stessa domanda: come mai il Sud non si è sviluppato abbastanza? Si rispolvera dunque il tema della ingovernabilità dei meridionali. Ingovernabili, si lascia supporre, perché antropologicamente diversi. Ed è così che le classi dirigenti, questa volta non più antiborboniche, ma antidemocristiane e postdemocristiane, tornano ad assolvere se stesse. In questa fase, la furia polemica del Nord contro un indistinto Sud, perennemente arretrato e privo di senso civico, finisce paradossalmente per favorirle. «Vedete - è la implicita giustificazione delle classi dirigenti - è l’inciviltà diffusa che ci ha frenato». (...) È opinione comune che le teorie razziste nascano in ambienti conservatori e reazionari e che trovino un argine nella cultura illuministica e progressista (...) Meno indagato è il rapporto tra l’antimeridionalismo e l’essere «di sinistra». Come se, nel passato della sinistra meridionale, non ci fossero zone oscure da illuminare e, nel presente, il pregiudizio antimeridionale potesse essere circoscritto al fenomeno delle leghe nordiste, particolarmente esposte per l’antropologismo originario di Gianfranco Miglio, e per l’antieuropeismo, il localismo, l’autonomismo e la dichiarata ostilità verso gli extracomunitari clandestini. In realtà, la sinistra ha contribuito, e non poco, al diffondersi del pregiudizio antimeridionale. Lo ha fatto, prima, con il suo razzismo esplicito e motivato, quello di Niceforo e dei lombrosiani, per intenderci, e, dopo, con il suo settarismo politico, con il suo antipopolarismo, con il suo elitismo sociale, con il suo antiplebeismo, con il suo moralismo a senso unico, «divisivo», direbbe Galli della Loggia. E con i suoi sensi di colpa apocalittici per non aver realizzato il paradiso in terra meridionale. Ma più ancora, e negli anni più vicini a noi, la sinistra ha contribuito al diffondersi del pregiudizio antimeridionale governando gran parte del Sud e allontanandolo progressivamente, nella realtà materiale e nella considerazione generale, dal resto del paese. E lasciando in eredità una società molto più omologata e rinunciataria di quella trovata negli anni Novanta, quando c’era una forte opposizione politica e culturale. Molti sindaci e governatori di sinistra, esaltati nel loro ruolo carismatico dall’elezione diretta, e tutti presi da una sorta di compulsione a consumare fondi pubblici, sono bruscamente passati dall’antropogenetica dell’esordio all’antropologia dell’epilogo: dalla promessa dell’uomo nuovo, che avrebbe dovuto cambiare il Mezzogiorno, all’uomo meridionale che così è se vi pare, perché niente e nessuno riuscirà mai a cambiarlo. (...)
IL RAZZISMO HA RADICI NELLA POLITICA, NELLA CULTURA E NELLA SCIENZA.
Illuminismo oscurantista. Ecco il vero guaio dell'Italia. Si demonizza la linea Controriforma-fascismo-Craxi-Berlusconi. Ma il male viene da giacobinismo, razzismo scientifico, nichilismo, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”.
Ma da dove proviene questa specie di Italia? Vorrei porre da prospettive insolite tre questioni che riguardano l'assetto geopolitico italiano, la matrice culturale della frattura tra nord e sud e l'origine storica del presente collasso. Parto da una premessa antica. Dante nel De vulgari eloquentia distingueva l'Italia non tra nord e sud ma tra Italia occidentale e Italia orientale. La storia d'Italia, soprattutto dall'unità in poi, gli ha dato ragione. L'Italia è nata e cresciuta sul versante occidentale. La unificò il Piemonte sabaudo, il piemontese Cavour e i liguri Garibaldi e Mazzini. La composizione unitaria avvenne, oltre le guerre d'indipendenza, lungo la linea tirrenica. Da Quarto a Talamone, da Marsala all'Aspromonte, da Sapri a Teano. La Capitale discese da Torino a Firenze a Roma, mai si spostò a est. Crispi e Giolitti, i più significativi premier, provenivano dall'Italia dell'ovest, Sicilia e Piemonte. Il fascismo, è vero, sorse come fenomeno padano: Milano fu l'unica leggera deviazione, pur sempre occidentale nella storia d'Italia. Curiosamente anche la Repubblica italiana ha avuto, come la dinastia che l'ha preceduta, solo presidenti dell'Italia ovest: piemontesi come Einaudi, Saragat e Scalfaro; sardi come Segni e Cossiga, liguri come Pertini, toscani come Gronchi e Ciampi, napoletani come De Nicola, Leone e Napolitano. Tutti dell'Italia ovest. Da notare l'assenza totale di presidenti romani, nativi della Capitale; tra i tanti premier l'unica eccezione romana fu Andreotti. Ma è curiosa la pendenza occidentale dell'Italia. Seconda curiosità. La nascita culturale del razzismo interno non ha una matrice reazionaria e nemmeno secessionista. La prima feroce teoria razzista sui meridionali ha un marchio scientifico e illuminista, progressista e socialista. È stato ripubblicato da Bompiani L'uomo delinquente di Cesare Lombroso che fondava la storia italiana sulla fisiognomica e l'etnia, basi razziali. «L'intero popolo del Mezzogiorno assume i connotati del delinquente atavico» scrive Lombroso che non era un reazionario oscurantista ma uno scienziato materialista e positivista d'ispirazione socialista. Il suo allievo Enrico Ferri, che fu direttore de l'Avanti! e parlamentare socialista, sosteneva che «la minore criminalità dell'Italia settentrionale derivava assai dall'influenza celtica». Perfino lo studioso siciliano e progressista Alfredo Niceforo scriveva: «la razza maledetta che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il Mezzogiorno d'Italia dovrebbe essere trattata col ferro e col fuoco - dannata alla morte come le razze inferiori dell'Africa e Australia». E Giuseppe Sergi, siculo anch'egli, faceva risalire alla conformazione diversa del cranio l'inferiorità razziale dei meridionali. Curioso questo maso-razzismo meridionale... Nessuno di loro era reazionario, cattolico, controriformista; erano tutti materialisti, darwiniani, positivisti, progressisti. Se l'umanità ha origine zoologica, come vuole l'evoluzionismo, il razzismo ne è la conseguenza rigorosa. Curiosa genesi. Ma entriamo nella storia culturale e civile dell'Italia. È uscito un saggio di Ermanno Rea che tratteggia «il lato oscuro e complice degli italiani» (La fabbrica dell'obbedienza, Feltrinelli, pagg. 220, euro 8). Lo scrittore napoletano rilancia la solita lagna sulle origini della Malaitalia presente: il guaio è la mancata riforma protestante, il dominio della Chiesa controriformista. Rea ripropone la linea cattiva che va dalla Controriforma al fascismo, poi Craxi, infine Berlusconi. Un compendio di luoghi comuni & solite lamentele. Vorrei ricordare con la stessa sommaria conseguenzialità che se la Controriforma ha partorito il fascismo, la Riforma ha partorito il nazismo, come l'illuminismo generò il Terrore giacobino. Il totalitarismo del '900 è ateo e pagano. Non basta attaccarsi alla matrice austriaca e dunque cattolica di Hitler; il nazismo è un fenomeno profondamente tedesco, e il razzismo attecchì più nei Paesi di marca protestante (oltre la Germania, l'Inghilterra, i Paesi calvinisti) e in forma più blanda e riflessa nei Paesi della Controriforma. Se il clerico-fascismo fu figlio della Controriforma, madre di ogni arretratezza, si dovrà pur spiegare perché la modernizzazione d'Italia, le grandi opere pubbliche, la previdenza sociale e la legislazione del lavoro, l'integrazione del sud e del nord nello Stato siano avvenute proprio sotto regimi reputati controriformisti, autoritari o clerico-democristiani. E a ritroso si dovrà spiegare lo splendore europeo di Napoli (e Palermo) controriformista tra fine Seicento e primo Settecento, la gloria della Spagna controriformista col suo secolo d'oro. O la grandezza del pensiero di Vico, cattolico nel solco della Controriforma. Sarà poi un capriccio della storia se le maggiori scoperte scientifiche su cui regge la modernità non provengano dai Paesi nordico-protestanti, così aperti alle scienze, ma dall'Italia oscurantista e antimoderna, figlia della Controriforma, ad opera di Galvani, Volta e Meucci, Marconi, Fermi e Majorana, Natta e Olivetti. Non difendo affatto la Controriforma, e non baratterei la libertà; ma la verità va raccontata intera. Viceversa, non abbiamo ancora affrontato i danni prodotti al sud dai massacri compiuti nel nome degli ideali giacobini dai francesi e dai loro collaborazionisti della Repubblica napoletana, paesi messi a ferro e fuoco, stragi di popolazioni inermi che fanno impallidire le repressioni del regime borbonico e le bande del cardinale Ruffo. O per tornare alla storia recente, chiedo cosa hanno opposto gli illuminati riformatori all'Italia controriformista. Il nulla rancoroso, le utopie rispettabili ma sterili e impopolari di alcune sette intellettuali, la subalternità del Pci al comunismo sovietico, il terrorismo rosso dalla guerra civile agli anni di piombo, lo sfascio del sessantotto, la fuga dal merito e dalle responsabilità, la demagogia sindacale, l'incapacità cronica di una vera proposta di governo delle sinistre. Solo antagonismo: settant'anni di antifascismo, venti di antiberlusconismo. Se la storia italiana è stata viziata per secoli dal dominio oscurantista dei controriformisti fino a Berlusconi, dov'erano e cosa facevano i saggi e illuminati salvatori d'Italia? Infine mi chiedo se il cinismo dominante derivi dal nostro passato nazional-clericale o non piuttosto dal nostro presente globale, dominato dalla tecnica e dalla finanza, dalla mercificazione dell'uomo e dal consumismo, dalla speculazione finanziaria, l'egoismo individualistico e il nichilismo, mostri partoriti non certo dalla Controriforma e dai suoi santi.
IL MEZZOGIORNO D'ITALIA.
Mezzogiorno (Italia). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Mezzogiorno d'Italia compreso tra i territori di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Con una superficie di 123.024 km² ha 20.610.490 Abitanti (al 30-04-2013) con una densità di 167,53 ab./km². Il Mezzogiorno o Meridione d'Italia è una macro-regione economica comprendente l'Italia meridionale e quella insulare. Storicamente corrisponde con buona approssimazione alle regioni comprese nell'ex Regno delle Due Sicilie (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia e Sicilia) più la Sardegna, includendo nella definizione storica anche una parte del Basso Lazio ed il Circondario di Cittaducale. Lo sviluppo di questa macroregione italiana è oggetto di studi da parte di Istituzioni specializzate come la Svimez con sede a Roma e l'Associazione studi e ricerche per il Mezzogiorno con sede a Napoli. L'appartenenza dell'isola di Sardegna alla suddetta macroregione è controversa, in virtù del posizionamento geografico, della storia del tutto peculiare, della specificità linguistica e culturale, nonché di diverse "anomalie" socio-economiche rispetto alle altre regioni considerate. Il Mezzogiorno confina a nord-ovest con il Lazio, nord-est con le Marche e a sud con il mar Mediterraneo. Il suo territorio è prevalentemente collinare-montuoso, le pianure più estese sono: il Tavoliere delle Puglie (seconda pianura più estesa della penisola italiana), la pianura salentina, il Campidano, la piana di Metaponto, la piana del Sele, la Piana di Sibari, piana di Catania e la Pianura Campana. È attraversato da nord a sud dalla catena montuosa degli Appennini, le vette più elevate sono il Gran Sasso d'Italia 2.912 m, monte Amaro 2.793 m, monte Miletto 2.050 m (Massiccio del Matese), il monte Terminio 1.783 m ed il Monte Cervialto 1.809 m (Appennino campano), il monte Pollino 2.248 m, serra Dolcedorme 2.267 m, monte Papa 2.005 m, monte Alpi 2.000 m (Appennino lucano), monte Botte Donato 1.930 m Appennino calabro, Montalto (Aspromonte) 1.956 m, Aspromonte che rientra nel territorio del Parco nazionale dell'Aspromonte, di cui costituisce una delle principali attrattive; il monte Cervati 1.899 m e il monte Gelbison (o Sacro Monte di Novi Velia), i quali si trovano ambedue nel parco Nazionale del Cilento, il Roccamonfina alto 1.006 m. Le città che hanno ottenuto il riconoscimento di città metropolitana sono Napoli, Palermo, Bari, Cagliari, Catania,Messina e Reggio Calabria. Il clima è tipicamente mediterraneo sulle coste e continentale all'interno. Le prime tracce umane nel Mezzogiorno risalgono al paleolitico in base ai ritrovamenti di utensili tipo amigdala a Capri (NA) e a Castelpagano (BN) ed i manufatti di tipo musteriano a Palinuro (SA), Tufara (CB), Grottaminarda (AV), Nerano (NA) e Montemiletto (AV). Considerando, inoltre, i più antichi nuclei indo-europei dei Sardi (1800 a.C.), dei Siculi (1000-650 a.C.) e dei Sanniti (1000 a.C.), l'Italia meridionale fu colonizzata dai greci che, nell'VIII secolo a.C. con un flusso migratorio originato da singole città greche, fondarono città come Zankle (Messina), Pithekusa (sull'isola di Ischia), Rhegion (Reggio di Calabria), Kroton (Crotone), Kyme (Cuma), Metapontion (Metaponto) e Taras (Taranto). Le colonie, che si estendevano dalla Calabria alla Sicilia, dalla Campania alla Puglia, divennero così la culla della civiltà europea e non solo. A partire dal IV secolo a.C. fu progressivamente conquistata dai romani, che diedero grande impulso alle unità urbane, costruendo strade, città, templi, palazzi, acquedotti ed altre infrastrutture, imponendosi definitivamente dopo la seconda guerra punica. Prima con le invasioni barbariche e poi con i Bizantini, vide l'alternarsi di molte entità politiche, che ne occuparono quasi tutto il territorio. Le ultime e rilevanti potenze, poco prima dell'unificazione politica, furono il Regno delle due Sicilie, sotto i Borbone di Napoli, e quello di Sardegna infine assegnato ai Savoia con un trattato ratificato all'Aia nel 1720, a seguito di una plurisecolare sovranità iberica sulla quale il Regno sardo stesso era stato fondato. Province delle Due Sicilie nel 1454. Nel XIX secolo il Regno delle Due Sicilie, sotto i Borbone, ebbe un'economia vivace, aperta ad iniziative industriali a livello nazionale, europeo e mondiale con promettenti industrie rispetto al Nord (le Officine di Pietrarsa, la più grande industria metalmeccanica in Italia all'unificazione che fu riprodotta in miniatura dall'Ansaldo). Il sistema bancario meridionale, inoltre, era solido e non aveva bisogno di grandi aiuti esteri. Esistevano tre complessi per produrre locomotive: Pietrarsa, Guppy e Ansaldo, due erano del sud ma si nota come l'Ansaldo di Genova avesse solo 400 addetti, mentre Pietrarsa più di 1000. L'economia vantava, inoltre, il maggiore numero di società per azioni in Italia, terza flotta mercantile nel mondo, prima compagnia di navigazione del Mediterraneo, la più alta quotazione di rendita dei titoli di Stato e inoltre anche la più grande Industria Navale d'Italia per numero di operai e grandezza. Prima dell'Unità d'Italia, inoltre, il bilancio del Regno delle Due Sicilie era in attivo, pur avendo una "spesa sociale" non indifferente. In seguito all'Unità d'Italia, il mancato sviluppo economico della parte meridionale del paese, diede origine, a partire dal 1870, alla questione meridionale e ad una corrente di pensiero e ricerca storica detta “meridionalismo”. Dopo il 1880, a seguito della crisi agraria che interessò il Mezzogiorno, si inasprì la povertà delle regioni meridionali, favorendo una massiccia emigrazione verso le Americhe. La crisi fu determinata dal crollo delle esportazioni dei prodotti agrari a causa della politica nazionale a favore delle industrie del nord. I primi governi nazionali favorirono le imprese del nord con una politica di dazi sui manufatti industriali stranieri: senza dazi alle frontiere, infatti, i manufatti nazionali erano molto più costosi di quelli stranieri. La politica di governo - che già aveva trasferito fisicamente fabbriche dal sud al nord (un esempio celebre sono i cantieri navali campani, ricostruiti in Liguria) – determinò, però, la reazione dei paesi stranieri che introdussero dazi sui prodotti italiani, causando la rovina del settore agricolo meridionale e veneto. Le esportazioni di prodotti agrari crollarono. Le campagne furono letteralmente abbandonate e iniziò la piaga dell'emigrazione. Nel corso del Novecento le direttrici migratorie si spostarono verso l'Europa centrale e settentrionale (Francia, Germania, Svizzera e Belgio) e, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, verso l'Italia settentrionale (segnatamente Piemonte e Lombardia) quando la ricostruzione richiamò manodopera per il lavoro nelle fabbriche. Tutti i governi che si sono succeduti nel corso del XX secolo si sono adoperati, spesso con scarsi risultati, con interventi speciali sulle aree interessate, al fine di diminuire lo squilibrio che a molti livelli lasciava il Mezzogiorno lontano dalle restanti regioni italiane, a partire dalla legge speciale per Napoli, voluta fortemente da Francesco Saverio Nitti. Durante il periodo fascista, parte dell'attuale Lazio (il circondario di Sora e quello di Gaeta) fu scorporata dalla ex provincia di Terra di Lavoro del Regno delle Due Sicilie e quindi dal Mezzogiorno. Lo stesso accadde a territori abruzzesi come l'area di Amatrice, Cittaducale e Leonessa, assegnata al Lazio da Mussolini. Dopo la seconda guerra mondiale, fu istituito un apposito ente pubblico che aveva funzioni di realizzare politiche incentivanti la produzione e sussidiarie delle economie locali: la Cassa per il Mezzogiorno (CASMEZ). L'attività di tale ente, che soprattutto nei suoi primi venti anni di vita aveva contribuito a ridurre il divario tra il Mezzogiorno ed il resto del Paese, è cessata negli anni novanta ed è stata più volte oggetto di sospetti per una presunta gestione clientelare da parte della politica a partire dagli anni settanta.
L’ITALIA MERIDIONALE DURANTE IL REGNO DI OTTONE II DI SASSONIA. RAPPORTI CULTURALE E GEOPOLITICI TRA COSTANTINOPOLI, EMIRATO DI SICILIA E SACRO ROMANO IMPERO.
Di Alessandro Di Meo. Il Sud Italia del X secolo era una terra di confine tra l’Impero Sassone degli Ottoni e l’Impero bizantino, che deteneva l’autorità su gran parte del territorio, ma era sottoposto anche alle scorrerie degli Arabi di Sicilia; l’Italia meridionale non fu però solo teatro di conflitti, fu anche il luogo d’incontro di queste tre culture – latina, greca orientale, musulmana – che si influenzarono reciprocamente in campo artistico e culturale. Nei suoi rapporti con Bisanzio, il Sacro Romano Impero dei Sassoni seguì inizialmente una politica che univa guerra e diplomazia, ma sotto Ottone II il sogno di unificare la penisola e di portarla completamente sotto il controllo dell’Impero occidentale spinse l’imperatore a scendere in Italia al comando di un esercito di dimensioni ragguardevoli, ufficialmente per respingere gli Arabi dell’emiro di Sicilia che stavano devastando il territorio della Calabria, ma in realtà per annettere l’Italia meridionale ai territori imperiali. Nell’aprile 972 venne celebrato a Roma il matrimonio tra Ottone II e la principessa bizantina Teofano; l’unione tra l’erede al trono sassone e una nipote del sovrano bizantino Giovanni Zimisce doveva sancire, nelle intenzioni di Ottone I, l’assoluta parità delle due dinastie, entrambe detentrici della dignità imperiale romana. Pochi anni prima, nel 967, Ottone aveva già fatto proclamare suo figlio coimperatore a Roma e aveva avviato le trattative con la corte di Costantinopoli per chiedere un trattato di amicizia e avanzare una proposta matrimoniale, ma l’opposizione dell’imperatore Niceforo II Foca fece naufragare il progetto; risentito, Ottone si alleò con Pandolfo I Testadiferro, principe di Capua e di Benevento, attaccò i domini bizantini nell’Italia meridionale e minacciò un’invasione diretta nella penisola balcanica. L’imperatore sassone si spostò dapprima in Puglia (968), cercando di portare sotto il suo controllo questa regione per via diplomatica; le guerre che l’Impero bizantino stava affrontando lungo il confine bulgaro e anatolico, l’aumento della pressione fiscale e lo scarso controllo militare nel Sud Italia avevano provocato tumulti in alcune città pugliesi. L’assassinio di Niceforo II e la successione di Giovanni Zimisce permisero a Ottone di richiedere nuovamente una principessa bizantina per suo figlio; il nuovo sovrano costantinopolitano era altrettanto interessato a stabilire una pace duratura con l’impero di Sassonia per potersi concentrare sull’imminente invasione degli emirati lungo il confine orientale dell’Impero bizantino. Il matrimonio tra Ottone II e Teofano rappresentò il coronamento della politica estera di Ottone I, perché tutti i sovrani del Sacro Romano Impero, a cominciare da Carlo Magno, avevano invano cercato di unirsi in matrimonio con le dinastie imperiali bizantine per legittimare il loro dominio sull’Europa occidentale. L’Italia meridionale alla fine del X secolo era segnata da una profonda instabilità dovuta all’espansione del ducato di Capua, che dalla fine del IX secolo si stava estendendo ai territori bizantini della Puglia settentrionale, ma anche alle continue incursioni degli Arabi provenienti dalla Sicilia. I Bizantini però nel X secolo riuscirono a riaffermare il proprio predominio su gran parte dell’Italia meridionale, ma affidarono il controllo dei loro possedimenti a eserciti locali, piuttosto che all’armata imperiale, peraltro già impegnata nel fronte bulgaro e in Medio Oriente; all’occorrenza, però, Bisanzio poteva inviare in Italia meridionale la sua flotta e l’esercito, anche se fino al 956 preferì mantenere una politica difensiva. L’unica spedizione offensiva lanciata da Bisanzio verso l’Italia meridionale fu la fallimentare campagna in Sicilia con cui Niceforo II tentò invano di riconquistare l’isola strappandola agli Arabi. Fino al 966 l’Italia meridionale era divisa tra i possedimenti bizantini – Puglia, costa ionica della Lucania e Calabria – i ducati longobardi che costituivano un territorio esteso nell’entroterra campano e lucano, più alcuni piccoli territori indipendenti come Amalfi, Napoli e Gaeta, dediti prevalentemente al commercio marittimo. All’inizio del IX secolo la Puglia era divisa tra Bizantini e Longobardi, che stabilirono a Bari la sede di un gastaldato; nell’847 la città fu conquistata dagli Arabi e diventò la capitale di un emirato, nell’871 Ludovico II la riconquistò e la cedette ad Adelchi di Benevento, ma qualche anno dopo (876) la città si pose sotto il controllo dell’imperatore bizantino Basilio I. La Calabria era una delle regioni più fedeli all’Impero bizantino, perché la sua popolazione era in gran parte di lingua e di cultura greca, ma anche perché il suo territorio era disseminato di monasteri bizantini che diffusero una spiritualità tipicamente orientale. La città più importante della penisola era Reggio Calabria, la cui importanza strategica aumentò considerevolmente nell’878, in seguito alla conquista araba di Siracusa; la sua posizione geografica, di fronte all’emirato di Sicilia e tra il Tirreno e lo Jonio la resero centrale per il controllo dell’Italia meridionale da parte di Costantinopoli. Le continue guerra tra bizantini e Longobardi, unitamente alle incursioni arabe, provocarono una forte crisi demografica nell’Italia meridionale, cui Basilio I cercò di porre rimedio con una colonizzazione interna; giunsero così numerose comunità di Armeni e, in misura minore, di Slavi. L’affermazione della potenza dei Sassoni, a partire dal 966, spinse Bisanzio a fondare un catepanato nel sud Italia con capitale Bari, ma comprendente anche i territori della Lucania e della Calabria. La Sicilia era governata dalla dinastia dei Kalbiti dal 946, anno in cui Hasan Ibn Ali Al – Kalbi venne nominato emiro dell’isola per conto dei Fatimidi, impegnati nella repressione della rivolta dei Berberi nel Nord Africa; Al – Kalbi, che di fatto fondò un emirato indipendente, si trasferì alla corte Fatimide nel 952, ma riuscì a far nominare come nuovo governatore della Sicilia il figlio Ahmad Ibn Hassad, che mantenne la carica di emiro fino alla morte (969). Gli successe Abu Al Qasim Ali (Abu Kassem), terzo emiro Kalbita di Sicilia; nel 973 i Fatimidi spostarono la loro capitale in Egitto, perdendo il controllo dell’isola e della Tunisia. Alla morte dell’imperatore bizantino Giovanni Zimisce (976) Al Qasim invase l’Italia meridionale, compiendo numerose scorrerie e saccheggiando Taranto; per qualche anno i suoi tentativi di invadere il ducato di Spoleto furono fermati da Pandolfo Testadiferro, ma alla morte del principe le incursioni dei Saraceni si intensificarono. Nel 981 Al Qasim tornò a devastare la Calabria, suscitando l’intervento di Ottone II che decise di intervenire militarmente per fermare le razzie, ma anche per estendere il suo dominio sull’Italia meridionale. Alla morte di Ottone I (973) Ottone II ascese al trono, ma dovette contrastare la rivolta di Enrico di Baviera e successivamente una guerra contro il regno franco – occidentale di Lotario; dopo essersi riconciliato con la madre Adelaide, Ottone II poté tornare in Italia, nell’autunno del 980. La corte sassone si recò dapprima a Ravenna, dove celebrò il Natale con il pontefice, quindi si diresse a Roma, dove giunsero anche gli alti prelati e i membri dell’aristocrazia franco – germanica e spagnola; da Roma, nell’autunno 981, Ottone II si spostò a sud, verso la Puglia bizantina. L’imperatore tentò invano di impadronirsi degli ultimi territori bizantini in Italia per via diplomatica; prima di ritirarsi a Salerno, pose sotto assedio Matera e Taranto, senza però riuscire a conquistarle. Nella sua cronaca, lo storico Sassone Thietmaro sostenne che Puglia e Calabria, in quanto regioni dell’Italia, erano parte dell’Impero restaurato da Ottone I e l’occupazione bizantina di quelle aree era quindi un’usurpazione. Un anonimo monaco del Monastero di San Gallo, nel suo resoconto, scrisse invece che Ottone II puntava alla conquista dell’Italia meridionale fino alla Sicilia e approfittò delle rivolte scoppiate nei territori bizantini a causa delle incursioni arabe; l’imperatore sassone avrebbe cioè difeso dagli Arabi le città che si stavano ribellando al dominio bizantino. L’intervento iniziale dei Sassoni fu in Puglia, da cui Ottone si ritirò alla fine del 981 per riprendere Salerno che era stata conquistata dal duca amalfitano Mansone I; Ottone, dopo aver riconquistato la città, l’affidò al figlio di Mansone, Giovanni, che riconobbe l’autorità sassone sul suo territorio. L’atteggiamento di Ottone II allarmò la corte bizantina, che non sostenne in alcun modo i Sassoni durante la campagna in Calabria, quando l’esercito germanico si lanciò all’inseguimento degli Arabi che si stavano ritirando verso Reggio per imbarcarsi alla volta della Sicilia. Ottone II, che dall’autunno 981 era impegnato a Salerno, giunse in Calabria all’inizio dell’anno successivo, alla testa del più grande esercito mai allestito da un imperatore sassone; nella copertina di un codice contenente le opere di S. Agostino furono annotati i contingenti della cavalleria richiesti agli ecclesiastici tedeschi, ad esclusione dei Sassoni. Il luogo della battaglia è ancora oggi incerto; le località più indicate sarebbero Crotone, Capo Colonna o Stilo, comunque lungo la costa ionica della Calabria, anche se Alvermann e Von Falckenhausen propendono per Columna Regia, nei pressi di Reggio Calabria. La battaglia si svolse il 13 luglio ed è stata ricostruita nelle sue diverse fasi partendo dalle fonti dell’epoca, abbastanza concordi nella descrizione dello scontro; sembra che i Sassoni abbiano scelto per una tattica di sfondamento del centro nemico con una carica della cavalleria. Nella prima fase della battaglia, l’esercito sassone sembrò sul punto di prevalere, perché la cavalleria effettivamente sfondò le difese degli arabi e lo stesso emiro Al Qasim venne ucciso, ma contrariamente alle aspettative la sua armata non andò in rotta; le ali dell’esercito arabo invece si richiusero, intrappolando la cavalleria sassone e annientandola. Fu durante questa seconda fase che caddero molti dei conti e dei vescovi germanici; Ottone II riuscì a fuggire verso la costa e fu raccolto in mare da una nave bizantina che lo trasportò a Rossano, dove lo attendeva Teofano e la sua corte. La notizia della sconfitta – l’ultima subita da un esercito cristiano in uno scontro con un’armata dei musulmani di Sicilia – si diffuse rapidamente in tutta Europa, provocando una grave rivolta degli Slavi che si sollevarono contro i Sassoni; nel sud Italia la presenza araba rimase forte e nei decenni successivi si verificarono numerosi attacchi alle principali città bizantine del Meridione. Ottone II compì un pellegrinaggio a Monte Sant’Angelo, nel Gargano, si recò a Benevento per stabilire la successione nel principato di Pandolfo, quindi fece ritorno a Roma dove morì nel dicembre del 983; suo figlio Ottone III, di appena tre anni, fu subito proclamato re dei Sassoni e imperatore ad Aquisgrana e fu affidato alle cure della madre Teofano, della nonna Adelaide e della zia Matilde, dopo il fallito tentativo di Enrico di Baviera di usurpare il trono proclamandosi reggente per conto del nuovo sovrano. La Sassonia, dopo la disfatta subita in Calabria, si astenne dall’intervenire militarmente nel Sud Italia per sedici anni; le incursioni saracene spinsero il processo di incastellamento, che a poco a poco finirono anche con il ridurre il potere effettivo dei duchi longobardi sui loro territori. Il catepanato bizantino del sud Italia fu attaccato dagli Arabi; nel 1004 essi assediarono Bari con un grande esercito, ma la città riuscì a resistere anche grazie all’aiuto di Venezia. Negli anni successivi Arabi e Bizantini si combatterono in alcune battaglie navali, ma ciò non arrestò le scorrerie dei Saracene che nel 1009 riuscirono a prendere Cosenza e nel 1020 Bisignano. Bisanzio reagì lanciando due spedizioni contro la Sicilia (1038 e 1042) al comando del generale Giorgio Maniace, ma fallirono entrambe; i Saraceni mossero anche contro i territori longobardi, attaccando Benevento (1002) e Capua. Subirono razzie anche Amalfi nel 991 e Salerno nel 999, città che fino ad allora avevano beneficiato, grazie ai loro commerci con l’emirato di Sicilia, di una tregua con gli Arabi. Nel 1053 cadde la dinastia Kalbita e pochi anni più tardi la conquista di Messina (1061) segnò l’inizio della conquista normanna della Sicilia, completata da Ruggero d’Altavilla nel 1091 con la presa di Noto. I Bizantini furono impegnati anche nella repressione delle sacche di resistenza che animavano l’Italia meridionale; per alcuni anni (998 – 1006) il catepano Gregorio Tarcaniota represse duramente alcune ribellioni esplose nel catepanato, ma la più grave di queste scoppiò a Bari nel 1010. La rivolta, promossa da un aristocratico barese di nome Melo, si diffuse rapidamente in tutti i territori pugliesi del catepanato e impegnò l’esercito regolare bizantino in alcune battaglie, fino alla sconfitta finale dei rivoltosi a Canne nel 1018; Melo si rifugiò a Bamberga presso Enrico II di Sassonia. Il nuovo catepano, Basilio Boioiannes, sistemò le fortificazioni lungo la frontiera settentrionale della Puglia e fondò nuove città per rafforzare i confini, ma si dedicò anche alla costruzione di nuovi edifici e monumenti a Bari, che conferirono alla città un aspetto grandioso. Nel frattempo, però, nell’Italia meridionale erano giunti i Normanni, che in pochi decenni conquistarono tutti i territori bizantini; Roberto il Guiscardo fu nominato da papa Niccolò II duca di Puglia, Calabria e Sicilia con l’accordo di Melfi del 1059. La compresenza tra Arabi, Bizantini e Sassoni nell’Italia meridionale del X secolo comportò uno scambio culturale ed economico tra queste popolazioni, le cui tracce sono oggi riscontrabili nelle principali città del Meridione. Nel Duomo di Amalfi, ad esempio, il Portone bronzeo venne importato direttamente da Bisanzio da un mercante amalfitano, Pantaleone, mentre a Napoli i plutei della Chiesa di Sant’Aspreno (IX secolo) presentano una decorazione con tralci di vite e fiori inscritti in losanghe con fasce a intreccio, uno stile bizantino di derivazione persiano – sassanide. Napoli e Amalfi “importarono” questi stili decorativi da Costantinopoli grazie alla solida rete commerciale con l’Impero bizantino. La città forse più rappresentativa dell’incontro di queste tre culture fu senz’altro Bari, ma della città araba non è rimasto pressoché nulla, perché essa fu completamente distrutta dal re normanno Guglielmo I (1120 – 1166); sappiamo però che erano stati edificati una moschea e alcuni palazzi in stile arabo nel centro cittadino. Sono presenti invece molti edifici della città bizantina, tra cui la Chiesa di San Gregorio de Falconibus e la Chiesa di San Gregorio Armeno con annesso il Palazzo del Catepano; la folta comunità armena trasferitavi da Basilio I ha lasciato numerosi luoghi di culto dedicati a santi armeni, come le chiese dedicate a San Prisco o a San Pancrazio. Nel 968 la città di Otranto venne elevata ad arcidiocesi e ospitò la più importante chiesa bizantina del Salento, dedicata a San Pietro e contenente affreschi riconducibili all’età della dinastia macedone; la chiesa presenta la tipica pianta a croce inscritta in un quadrato con tre absidi a vista. Le influenze arabe si diffusero nell’Italia meridionale soprattutto durante il regno degli Svevi e particolarmente sotto Federico II (1198 – 1250), anche perché nel X secolo l’emirato di Sicilia praticava soprattutto la pirateria e i suoi eserciti non occuparono stabilmente territori nell’Italia continentale; le poche testimonianze architettoniche, realizzate durante il breve emirato di Bari, vennero distrutte dai Normanni. I Sassoni ripresero dai Bizantini molti aspetti dell’ideologia imperiale, che si manifestarono soprattutto con Ottone III (996 – 1002) che adottò la titolatura e lo stemma fino ad allora appannaggio degli imperatori bizantini. Il tentativo di Ottone III di realizzare una Renovatio Imperii – la restaurazione dell’impero romano – si arrestò con la morte dell’imperatore, avvenuta nel 1002; l’Italia meridionale restò ancora per pochi decenni frammentata, ma nel 1071 la caduta di Bari segnò la definitiva unificazione del sud Italia sotto la dinastia normanna degli Altavilla. Furono proprio i Normanni gli eredi delle tre culture – germanica, bizantina, araba – che si erano duramente scontrate durante il X secolo.
L'ITALIA MERIDIONALE E I NORMANNI (VIII-X sec.).
I Normanni, popolazione nota nel più alto Medioevo con il nome di Vichinghi, dalla Scandinavia, si espansero, fin dai sec. VIII e IX, per tutta l'Europa, raggiungendo i punti più lontani del mondo allora conosciuto, dall'Islanda alle coste dell'Inghilterra, dal Capo Nord al Mar Bianco. Un gruppo di questi Vichinghi risalì la foce della Senna, e si arrestò, durante il sec. X, nel territorio carolingio. Capeggiati da Rollone, ottennero da Carlo il Semplice quella regione che nel 911 fu elevata a ducato di Normandia e che, nei 150 anni successivi, divenne uno degli Stati più potenti della cristianità latina. Fu infatti il sec. XI a vedere le più grandi imprese dei Normanni, latinizzati nella lingua, parzialmente nel costume ed ormai cristiani. In Italia, la presenza dei Normanni, per lo più pellegrini, è ricordata fin dai sec. IX e X, mentre le prime compagnie di ventura si trovano in azione durante la rivolta anti-bizantina di Melo di Bari, nel 1017. Nel 1030, con la donazione, da parte del duca di Napoli Sergio IV, della contea di Aversa a Rainolfo Drengot, si ebbe il primo possesso stabile dei Normanni in Italia. Tuttavia le gesta più vistose furono compiute dai membri della famiglia Tancredi di Altavilla (Hauteville). Roberto il Guiscardo, figlio di Tancredi, ricevette da papa Nicolò II, durante il Concilio di Melfi, l'investitura del Ducato di Puglia e Calabria, come feudi della Chiesa (1059), e dopo aver tolto ai Bizantini le città di Napoli, Gaeta, Amalfi, Bari e Reggio (1077), conquistò Salerno, che fece capitale del suo Stato. L'ambizione di Roberto non si fermò, e si estese al Vicino Oriente dove sconfisse i Bizantini a Tessalonica. Il fratello Ruggero si dedicò invece alla Sicilia, al tempo occupata dagli Arabi. Prese Messina, espugnò Palermo (1072) e dopo vent'anni si fece proclamare conte di Sicilia. Alla morte di Roberto, per febbre a Corfù (1085), i suoi figli, Boemondo, principe di Antiochia, e Ruggero Borsa, duca di Puglia e Calabria, si divisero i beni paterni. Infine con l'incoronazione a Palermo di Ruggero II (1130), nipote di Tancredi, il più avveduto e saggio dei sovrani normanni, avvenne l'unificazione dell'Italia meridionale. Quando nel 1189 morì Gulglielmo II il buono, ultimo discendente dei re normanni, il Regno passò nelle mani di Enrico VI di Svevia, che aveva sposato sua zia Costanza d'Altavilla. Il feudalesimo dei Normanni fu tenuto a freno da un forte governo centrale provvisto di esercito proprio. La Sicilia ebbe anche una specie di parlamento formato da un braccio militare ed uno ecclesiastico: questo organo deliberava sul donativo da fare al sovrano e poteva proporre nuove leggi.
Il Regno meridionale degli uomini settentrionali. Nell'XI e XII secolo, i Normanni fondarono in Italia Meridionale un Regno prospero e fiorente, scrive Simone Valtorta. Negli anni in cui l’Italia Settentrionale era dilaniata dalle lotte tra l’Impero e il Papato prima, tra l’Impero e i Comuni poi, l’Italia Meridionale conosceva un’epoca di grande prosperità grazie ad un popolo di origine scandinava: quello dei Normanni, parola che significa genericamente «uomini del Nord» e che comprendeva le popolazioni Danesi, Svedesi e Norvegesi più note col nome di Vichinghi. Verso l’VIII secolo dopo Cristo, i Normanni erano ancora un popolo incivile e feroce. Poiché il clima rigido dei loro territori rendeva difficili l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, il mare divenne per loro l’unica risorsa di vita: abilissimi navigatori, abbandonarono le loro terre e si diressero in tutte le direzioni, raggiungendo Costantinopoli attraverso le pianure russe, l’Islanda, la Groenlandia, le coste settentrionali dell’Africa. Erano il terrore di tutte le genti dell’Europa Occidentale: sbarcavano in un paese, saccheggiavano ed uccidevano, poi, carichi di bottino, ripartivano subito. Nel 911 il Re di Francia Carlo il Semplice concedette un feudo a Rollone perché difendesse quella terra dagli altri invasori: la regione in cui si stabilì prese il nome di Northmannia, cioè «terra degli uomini del Nord», ma poi il nome fu abbreviato in Normannia o Normandia. Qui i Normanni si convertirono al Cristianesimo e ingentilirono di molto i loro costumi, adottando la lingua e lo stile di vita francesi. Nel 1066 sconfissero i Sassoni e in pochi anni si impadronirono dell’Inghilterra: fu la loro conquista più famosa. In un’antica Storia dei Normanni di un abate di Montecassino si legge che «si sparsero qua e là per diverse contrade, e non fecero come molti che vanno per il mondo per porsi al servizio degli altri, ma vollero avere tutti gli altri in loro potere» – veramente, dovunque misero piede, i Normanni riuscirono a sottomettere le popolazioni del luogo e a costituire dei potenti Stati. E il Regno normanno più florido, anzi, lo Stato più ricco d’Europa, sia dal punto di vista economico, sia da quello artistico e culturale, fu quello impiantato in Italia Meridionale. Nell’XI secolo, prima della conquista normanna, l’Italia Meridionale era divisa in tanti piccoli principati. I principali erano l’Emirato arabo di Sicilia, il Catapanato (dal greco «katá», su, e «pán», tutto, cioè dominio su ogni cosa) bizantino di Puglia e Calabria, i principati longobardi di Benevento e di Capua, i ducati di Napoli, Gaeta, Sorrento e Amalfi. La maggioranza della popolazione era cattolica; alcuni Stati, come la Puglia, erano abitati da Greci ortodossi, mentre in Sicilia molti erano i musulmani provenienti dall’Africa Settentrionale. Nel secolo precedente, due principi longobardi, prima Pandolfo Testadiferro e poi Guaimaro V, avevano tentato di trasformare l’Italia Meridionale in un unico Regno, ma non erano riusciti nel loro intento. I primi Normanni a metter piede sulle coste della Penisola non furono conquistatori: provenienti dalla Normandia, transitavano attraverso l’Italia per recarsi a Gerusalemme come pellegrini. Molti di essi non tardarono però ad accorgersi che i territori dell’Italia Meridionale, sconvolti dalle continue lotte tra i vari principi, si prestavano facilmente ad una conquista. Bastava saper trovare il modo più opportuno. Nel 1016, racconta il monaco di Montecassino Leone Ostiense nella Chronica Monasterii Casinensis, «quaranta Normanni, tornando da Gerusalemme in abito da pellegrini, sbarcarono a Salerno: uomini in verità alti di statura, belli di aspetto ed eccezionalmente esperti d’armi. Trovarono Salerno assediata dai Saraceni e le loro anime si accesero per voler di Dio: chieste armi e cavalli a Guaimario il Vecchio, che allora era signore di Salerno, si scagliano su costoro e riportano una vittoria miracolosa, col favore di Dio, uccidendo una quantità di nemici e mettendo in fuga il rimanente […]. Affermando di avere fatto questo soltanto per amore di Dio e della religione cristiana, rifiutano ogni dono e dicono di non potersi trattenere colà. Perciò il principe, consigliatosi con i suoi, insieme a questi stessi Normanni, invia dei propri ambasciatori in Normandia e manda colà delle frutta, degli agrumi, delle mandorle, delle noci dorate, delle vesti di porpora, dei finimenti da cavallo ornati di oro finissimo. Così non solo invitò ma trascinò costoro a passare in una terra che produceva tali cose». Da quell’anno, infatti, molti altri guerrieri normanni vennero nell’Italia Meridionale per mettersi al servizio dei vari principi che vi governavano come soldati mercenari. Era una tattica che presto o tardi doveva dare i suoi frutti: infatti, qualora un capo normanno fosse riuscito ad ottenere per un principe una grande vittoria, avrebbe certamente avuto come compenso un territorio in Italia. Fu il caso di Arnolfo Drengot che, per essersi distinto nella guerra tra il principe longobardo di Capua e il duca di Napoli, ebbe in dono da quest’ultimo, nel 1030, la fortezza di Aversa e la terra circostante, in Campania: la prima contea normanna in Italia. Dopo il successo di Arnolfo, altri capi normanni decisero di recarsi in Italia per procurarsi terre e danaro. Le grandi conquiste dei Normanni nell’Italia Meridionale furono opera principalmente di una sola famiglia, quella di Tancredi di Altavilla o Hauteville, una località nei pressi di Coutances in Normandia. Tancredi si era sposato due volte ed aveva avuto undici figli. Poiché non era ricco, alla sua morte i figli non potevano aspettarsi granché: fu per questo che cinque di loro decisero di cercare fortuna in Italia. Un figlio, Guglielmo, soprannominato «Braccio di ferro» per aver ucciso con una sola mano l’Emiro di Siracusa durante una battaglia, svolse le sue vittoriose imprese in Puglia: sconfitti i Bizantini in tre grandi battaglie (1041), egli riuscì ad impadronirsi della parte settentrionale della regione, divenendo conte. Un giorno, benché fosse malato, uscì dalla tenda e con grande valore guidò i suoi uomini alla vittoria contro i nemici. Un altro figlio, Roberto il Guiscardo cioè «l’Astuto» (1015-1085), nei primi anni che era in Italia faceva il ladro di bestiame, ma si guadagnò anche la fama di soldato coraggioso. Alla morte di Unfredo, avvenuta nel 1057, combatté in Calabria e, dopo una serie di scontri, riuscì a togliere ai Bizantini l’intera regione. Le conquiste dei due Normanni allarmarono il Papa Leone IX, che vedeva minacciato da vicino il ducato di Benevento, appartenente alla Chiesa. Stipulata un’alleanza con i Bizantini, il Pontefice si decise a dichiarare guerra ai Normanni. Ma in una grande battaglia, combattuta nel 1053 sul fiume Fortóre, presso Foggia, l’esercito alleato venne completamente distrutto dalle truppe di Roberto e lo stesso Papa fu fatto prigioniero. Ma Leone IX fu quasi immediatamente liberato: con questa decisione, i due fratelli normanni vollero dimostrare di non essere nemici della Chiesa. Infatti, nel 1059, Roberto non esitò a firmare col Papa Niccolò II un accordo mediante il quale si riconosceva «vassallo di Santa Chiesa» e giurava di porsi in avvenire al suo servizio. Nello stesso anno, il Papa non solo concedeva a Roberto il titolo di duca di Calabria e di Puglia, ma gli riconosceva il dominio su tutti gli altri territori che fosse riuscito in seguito a strappare ai Bizantini e agli Arabi della Sicilia, mentre la città di Benevento rimase in possesso della Chiesa. Così, in pochi decenni, i Normanni, da semplici soldati mercenari, erano divenuti padroni di buona parte dell’Italia Meridionale. E ciò che più importava era il fatto che il loro dominio, riconosciuto dalla suprema autorità della Chiesa, otteneva anche il riconoscimento di tutti gli Stati Europei. Da astuti guerrieri quali erano, i Normanni non intraprendevano mai un’impresa se non quando essa presentava buone probabilità di successo: l’invasione della Sicilia fu iniziata nel 1061, quando l’isola, sconvolta dalle lotte fra i vari Emirati arabi, sembrò prestarsi ad una facile conquista. L’impresa venne condotta soprattutto da Ruggero I (1031-1101), il fratello più giovane di Roberto il Guiscardo: occupata Messina, Ruggero iniziò la conquista dell’interno servendosi di truppe pugliesi e calabresi, poste al comando di capi normanni. Fu un condottiero molto popolare perché era bello, astuto e coraggioso; partecipò a quasi tutte le battaglie. Un inverno, nell’assedio di Troina durato quattro mesi, lui e la moglie Giuditta avevano una sola coperta per ripararsi. Nel 1071 Roberto prese la città di Bari, dove l’Imperatore Bizantino aveva una base da più di cinquecento anni, espellendo del tutto i Bizantini dalla Penisola; dopo pochi mesi fece vela per la Sicilia con una flotta di cinquantotto navi con obiettivo il porto di Palermo. Mentre Ruggero attraversava l’isola per la via di Troina e poneva l’assedio a Palermo da terra, Roberto bloccava l’accesso al porto dal mare; dopo un assedio di alcuni mesi, i due fratelli riuscirono a conquistare la città. Nel 1085, dopo un ennesimo assedio, presero un altro grande porto, Siracusa. Ma la lotta in Sicilia fu più dura di quanto potesse sembrare: gli Arabi si difesero tenacemente e solo nel 1091 i Normanni riuscirono ad estendere il loro dominio su tutta l’isola; alla fine, Ruggero prese per sé il titolo di conte di Sicilia. Se la conquista della Sicilia fu considerata una specie di Crociata, perché gli Arabi erano di religione islamica, molti baroni, cavalieri e fanti normanni parteciparono alla Prima Crociata in Terrasanta. Il più importante di loro fu Boemondo il Gigante (1056-1111), figlio di Roberto il Guiscardo. Una principessa bizantina, che lo incontrò quand’era ancora giovane, scrisse di lui molti anni dopo: «Era così alto da sovrastare anche le persone più alte. I suoi occhi grigio-azzurri avevano molta dignità, ma nei momenti d’ira lanciavano lampi tremendi». Nel 1098, Boemondo cinse d’assedio la grande e prosperosa città di Antiochia; dopo molti mesi d’assedio, i Crociati decisero di conquistare la città con uno stratagemma: una sera al tramonto finsero di abbandonarla, ma tornarono con il favore delle tenebre. Al mattino, sotto la guida di Boemondo e con l’aiuto di un complice dentro la città, riuscirono a sferrare un attacco tanto violento quanto inaspettato, una battaglia sanguinosa durante la quale vennero massacrati moltissimi Turchi, anche donne e bambini; poco dopo, sopra le mura della città sventolava il vessillo purpureo di Boemondo. Circa due settimane dopo, l’intero esercito di Boemondo uscì da Antiochia e sconfisse un numeroso contingente di Turchi. Fu la vittoria più importante riportata dai Cristiani in una battaglia durante la Prima Crociata, anche se è improbabile che la conquista della città abbia aiutato molto i Crociati nella loro marcia verso Gerusalemme. Poi, mentre il resto dell’esercito crociato puntava su Gerusalemme che fu conquistata l’anno successivo, Boemondo rimase ad Antiochia di cui divenne principe, fondandovi un nuovo Stato Normanno la cui durata fu di quasi duecento anni. Nel 1101, unico capo dei Normanni rimase Ruggero II, figlio del conquistatore della Sicilia. Di tutti i possedimenti normanni in Italia, che comprendevano la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania (più, dal 1147, l’isola di Corfù da lui occupata), egli decise di formare un’unica grande Monarchia: il Regno di Sicilia. Nel giorno di Natale del 1130 Ruggero II si fece incoronare Re di Sicilia nella Cattedrale di Palermo. La cerimonia per l’incoronazione fu particolarmente fastosa. Il nuovo Re Normanno si avviò verso la Cattedrale preceduto da tutti i baroni e i cavalieri del Regno. Questi procedevano a due a due, su cavalli rivestiti di finimenti d’oro e d’argento. Seguivano poi i cortigiani in abiti smaglianti. Nella Cattedrale, addobbata sontuosamente, Ruggero II venne consacrato Re dagli Arcivescovi di Palermo, Benevento, Capua e Salerno. Il ricevimento che seguì al palazzo reale fu talmente sontuoso, da superare in splendore persino quelli della sfarzosa corte bizantina di Costantinopoli. Per i successivi cinquant’anni, ed oltre, il Regno di Sicilia fu il più grande Regno d’Europa: di carattere per metà orientale e per metà europeo, fu un Paese ricco culturalmente, politicamente e finanziariamente. In nessun altro Regno uomini di tante lingue e religioni diverse riuscirono a convivere pacificamente. «I Normanni» scrisse Goffredo Malaterra, uno storico italo-normanno dell’XI secolo, «sono un popolo astuto e vendicativo… Le armi e i cavalli, il lusso nel vestire, gli esercizi della caccia in genere e della caccia col falco, sono la delizia dei Normanni; ma in caso di necessità sono capaci di sopportare con incredibile pazienza ogni inclemenza del clima e le fatiche e le privazioni della vita militare». Questo popolo rude e tenace non si comportò però come altri conquistatori, che tendono ad opprimere i propri sudditi imponendo la loro lingua e i loro modi di vivere; i Normanni ebbero la rara accortezza di permettere che Arabi, Greci, Longobardi e Latini continuassero a parlare la loro lingua e rimanessero fedeli alla loro religione e alle loro tradizioni. Se ne può avere la prova nella seguente dichiarazione di Ruggero II: «Non sarà portato nessun attentato agli usi, ai costumi e alle leggi dei popoli sottomessi al nostro potere. Ebrei, Greci, Arabi, Longobardi e Latini saranno giudicati ciascuno secondo la propria legge». Questo modo così saggio di governare, procurò all’Italia Meridionale e alla Sicilia un periodo di grande prosperità. Non sentendosi oppresse, le popolazioni locali non pensarono di ribellarsi alla Monarchia normanna, ma contribuirono al progresso del Regno. Si può anche leggere la descrizione che Amato, monaco di Montecassino, fa di Roberto il Guiscardo nella sua Historia Normannorum, presentandolo come un vero e proprio campione della Fede: «Questo duca fu dotato di ogni virtù e sorpassò in tutti i modi gli altri; perché era tanto umile che, quando stava tra la sua gente, non sembrava il signore ma uno dei suoi cavalieri. E non vi fu alcuno, fosse povero, donna, vedova o fanciullo, che non potesse rivolgersi a lui e manifestargli tutta la sua misera condizione. Era giudice giusto di quanti avevano a che fare con lui; e, giudicando secondo giustizia, distribuiva il perdono e la pietà. Onorò i Sovrani Pontefici e difese e conservò i loro possessi, e diede loro del suo. E riveriva Vescovi e abati, e temeva Cristo in coloro che ne sono i vicari. Non volle, come qualche principe, ricever servizio da questi prelati, ma s’inchinò a servirli. […] Ma chi potrà descriverne il gran cuore? Perché le minacce dell’Imperatore non gli incutevano spavento; le risoluzioni dei rivali non gli provocavano turbamento, né lo intimorivano i castelli ben muniti e forti. Le armi di tutti i suoi nemici non lo facevan fuggire; lui invece faceva paura a tutti e nessuno perturbava la sua prosperità e la sua buona fortuna. […] Un monaco del monastero di San Lupo, il quale monastero si trova dentro la città di Benevento, dopo il mattutino si trattenne in chiesa a dire le orazioni. E d’un tratto si addormentò. E vide in sogno due campi pieni di gente; e di questi campi, uno era molto grande, l’altro piccolo. E molto si meravigliò il monaco, e si chiese di dove venisse tanta gente. Allora venne a lui uno, e gli disse: “Queste sono le genti che la Maestà di Dio ha assoggettate a Roberto Guiscardo; e questo campo più grande è quello della gente che a lui deve essere sottoposta, ma ancora non lo è”. E poi si svegliò il monaco, e si meravigliò molto di questa visione». Capo supremo dello Stato era il Re, al quale spettava anche il comando dell’esercito. Due organi principali dello Stato normanno erano il «Consiglio privato» e la «Curia regis» (curia del Re): il «Consiglio privato», composto da funzionari nominati direttamente dal Re, era addetto all’amministrazione dello Stato; la «Curia regis» era il tribunale supremo dello Stato e giudicava i sudditi secondo le leggi del loro popolo. Le terre dello Stato furono distribuite come feudi ai nobili, ma ai contadini che erano proprietari di poderi non venne tolto nulla. I Normanni si adoperarono in ogni modo per dare pace e benessere al nuovo Regno; la Sicilia, che già al tempo degli Arabi aveva goduto di grande prosperità, conobbe un benessere ancora maggiore. Palermo, la capitale, raggiunse uno splendore e una ricchezza eccezionali; l’Arabo Ibn Giobair, che ebbe occasione di visitarla, rimase talmente ammirato da scrivere: «È la più vasta e la più bella metropoli del mondo, la città di tutte le eleganze, della quale non si finirebbe mai di enumerare gl’incanti». La città era allora formata da tre grandi quartieri: al centro, circondati da alte mura fortificate, si elevavano la Cattedrale e il Palazzo Reale, fiancheggiato dalla Torre Pisana e da quella Greca. Nel Palazzo Reale, di un fasto inaudito, erano comprese le abitazioni degli ufficiali e dei servitori. I Normanni non ebbero un loro proprio stile architettonico, ma seppero combinare in modo originale e geniale gli elementi arabi, bizantini e romani: per esempio, la chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi a Palermo, eretta nel XII secolo, ha le cupole bizantine e gli archi normanni. Si venne così a creare un’arte che viene chiamata siculo-normanna e che vanta numerosi capolavori: è d’obbligo citare a Palermo la Cattedrale, la chiesa di San Giovanni degli Eremiti, la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, il Palazzo della Favara, la Cappella Palatina; a Cefalù la Cattedrale; a Monreale la Cattedrale e il Chiostro. Venuti a contatto con civiltà diverse, i Re Normanni ne subirono l’influsso: soprattutto negli abiti e nel cerimoniale talvolta imitarono gli Arabi, tal’altra i Bizantini. Così ora si cingevano il capo con una corona rotonda di tipo bizantino, ora con una specie di tiara di tipo orientale. Ora indossavano la dalmatica bizantina, ora invece si ricoprivano le spalle con l’ampio mantello color terra portato dagli Emiri. Il fatto più misterioso della storia dei Normanni è la loro scomparsa dalla scena europea: per ben duecento anni avevano influenzato la storia dell’Europa. Storici famosi come Goffredo Malaterra scrissero che i Normanni, dovunque andassero, si consideravano sempre un popolo distinto e separato. Ma, durante la metà del XII secolo, qualcosa cambiò: i Normanni cominciarono a considerarsi Francesi, Inglesi, Italiani, non più Normanni. Fu probabilmente la propensione a mescolarsi agli altri popoli con il matrimonio che fece perdere ai Normanni la propria identità: Roberto il Guiscardo ripudiò la moglie normanna per sposare un’Italiana e Boemondo, principe d’Antiochia, sposò la figlia del Re di Francia. Molti Normanni preferirono abitare nei loro nuovi possedimenti situati in Inghilterra, in Italia e in Sicilia, dove potevano condurre un tipo di vita molto più comodo di quanto non avrebbero fatto in Normandia. Alcuni, come Ruggero II di Sicilia, in Normandia non avevano mai messo piede. In generale parlavano la lingua della gente con cui erano venuti a convivere e ne condividevano le abitudini. La scomparsa dei Normanni può essere datata in base ad alcuni avvenimenti precisi: in Inghilterra nel 1154, con l’ascesa al trono di un conte d’Angiò; in Sicilia nel 1194, con l’avvento di un Sovrano Tedesco (nel 1185 l’ultima erede al trono, Costanza d’Altavilla, si era unita in matrimonio con Enrico VI di Svevia, figlio di Federico Barbarossa, perciò il Regno Normanno entrava a far parte dell’Impero Germanico); in Normandia nel 1204, con la conquista del Paese da parte dei Francesi. Per quanto riguarda gli eredi di Boemondo, benché abbiano continuato a regnare su Antiochia durante il XIII secolo, persero definitivamente ogni legame con i Normanni degli altri Paesi.
IL PRETESO FEUDALESIMO NELL'ITALIA MERIDIONALE.
La tesi centrale degli opportunisti che in Italia vi siano avanzi di rapporti feudali, predominanti del tutto nel Mezzogiorno, non rispecchia soltanto una tattica politica di compromesso e di rinnegamento del socialismo classista, ma si fonda su di una triplice serie di madornali errori di fatto, circa la natura dell'economia e delle relazioni sociali feudali, la storia politica del sud d'Italia, e la situazione dell'agricoltura meridionale. Un formidabile repugnante "chiodo" del peggiore opportunismo che regna nel movimento socialista e comunista italiano è quello della deprecata esistenza e sopravvivenza del feudalesimo nel sud d'Italia e nelle isole, specie a proposito dell'abusata questione del latifondo agrario meridionale, vero cavallo di battaglia dell'istrionismo retorico e del ruffianesimo politico italiano. Il dedurre da quest'immaginaria e inventata constatazione una tattica politica bloccarda e di collaborazione coi partiti borghesi radicali anche dell'Italia del nord (cui sì e no si concede da questi signori la patente di paese capitalistico) sul piano e nel quadro del limaccioso Stato unitario di Roma, bastava e basterebbe a qualificarli di rinnegati della dottrina e dell'azione rivoluzionaria. Ma essi, i socialcomunisti nostrani, campioni della collaborazione demoborghese, mostrano ogni disprezzo per il rispetto ai princìpi, rivendicando l'impegno dell'arma generale del compromesso e tutto fanno derivare dalla contingente valutazione delle situazioni. E' quindi il caso di mettere in tutto rilievo che quel loro giudizio sulla situazione semifeudale del Meridione calpesta qualunque seria conoscenza della reale situazione dell'economia e dell'agricoltura meridionali, di quelle che sono le caratteristiche distintive della gestione feudale della terra, ed infine dei grandi tratti delle vicende storiche delle Due Sicilie. Quella che banalmente si considera come arretratezza dello sviluppo sociale del Mezzogiorno, analogamente alla pretesa scarsa e deficiente evoluzione sociale dell'Italia in generale, non ha nulla a che fare con un ritardo storico nell'eliminazione di istituti feudali, ed anche dove presenta le famose zone depresse è invece un diretto prodotto dei peggiori aspetti ed effetti del divenir capitalistico, nell'Europa specie mediterranea, nell'epoca postfeudale. In pochi paesi come nel reame delle Due Sicilie, se guardiamo alla storia delle lotte politiche, il feudalesimo come influenza dell'aristocrazia fondiaria fu combattuto, fronteggiato e debellato dai poteri dell'amministrazione centrale dello Stato, sia sotto il regno dei Borboni e la dominazione spagnuola, che sotto le precedenti monarchie, e si possono prendere le mosse fin da Federico di Svevia. La lotta fu a molte riprese appoggiata da moti delle masse contadine ed urbane, e ben presto arbitri della situazione del regno furono gli intendenti e i governatori dei solidi ed accentrati poteri di Palermo e di Napoli. I risultati della lotta si tradussero in una legislazione anticipata di molto rispetto a quella degli altri staterelli italiani, compreso l'arretratissimo Piemonte, e lo stesso può dirsi nei riguardi del controllo a cui si sottoponevano le comunità religiose e la chiesa secolare da parte dell'autorità politica; né occorre colorire questa ovvia rievocazione con le lotte in Napoli degli eletti del popolo e la impossibilità di stabilire in quella città il tribunale dell'inquisizione. Il processo storico e giuridico, dopo la rivoluzione repubblicana nel 1789 condotta da una borghesia audace e cosciente, si perfezionò sotto il robusto potere di Murat, e i restaurati Borboni ben si guardarono dall'intaccare la compatta e avveduta legislazione lasciata da quel regime nel diritto pubblico e privato. E' quindi un errore triviale confondere la storia sociale del Mezzogiorno d'Italia con quella dei boiardi e degli Junker dell'Europa nordorientale, che seguitarono a governare in feudi autonomi i loro servi, a taglieggiarli e giudicarli ad arbitrio, quando da secoli gli abitanti dell'Italia mediterranea erano cittadini di un sistema giuridico statale moderno, per quanto assolutistico. Quanto alla struttura economica agraria, il quadro di un paese feudale ci presenta il rovescio di quello a cui si collegano le deficienze delle zone latifondistiche del Mezzogiorno italiano. Quel quadro presenta una agricoltura sia pure non decisamente intensiva ma omogenea e diffusa in piccoli esercizi con la popolazione lavoratrice allogata con uniformità sulla superficie coltivata, in abitazioni sparse e in piccoli casali. Il villaggio, che il nostro Mezzogiorno purtroppo ignora, è la cellula di base della ricchezza agraria dei tanti paesi di Europa che i signori feudali sfruttavano per le loro grandezze e su cui si precipitò lo strozzinaggio dei borghesi, facendo talvolta il deserto e la brughiera, come descrive Marx a proposito dell'Inghilterra, lasciando altra volta vivere tale ricco cespite e limitandosi a smungerlo, come nella campagna francese. I latifondi del sud e delle isole sono grandi zone semincolte su cui l'uomo non può soggiornare, e non vi si incontrano case coloniche e villaggi, in quanto la popolazione è stata ammassata da un urbanesimo preindustriale e tuttavia nettamente antifeudale in grossi centri di diecine e diecine di migliaia di abitanti come in Puglia e in Sicilia. La popolazione sovrabbonda, ma la terra non può essere occupata per difetto di organizzazione e di un investimento di lavoro e di tecnica che da secoli nessun regime statale riesce a realizzare, o trova conforme alle esigenze della classe dominante, sia tale regime nazionale o meno. Non vi è casa, non vi è acqua, non vi è strada, la montagna è stata denudata, la pianura ha le acque naturali sregolate e vi domina la malaria. L'origine di questo decadimento della tecnica agricola è molto lontana, più lontana del feudalesimo che, ove fosse stato forte, l'avrebbe contrastato (come il bonificamento tecnico ed economico avrebbe meglio consentito nei secoli di mezzo un vero regime di signoria feudale decentrata ed autonoma). Se si pensa che tali plaghe all'epoca della Magna Grecia erano le più floride e civili del mondo conosciuto, che restarono sotto Roma fertilissime, si deve considerare che le cause del loro scadimento si trovano sia nella posizione marginale rispetto al dilagare del germanesimo feudale con la caduta dell'Impero romano (che le espose alle alternative di invasioni e distruzioni dei popoli del nord e del sud), sia alla depressione dell'economia mediterranea con le scoperte geografiche oceaniche, sia appunto al prorompere del moderno regime capitalistico industriale e coloniale, che fu condotto a localizzare altrove, giusta la ubicazione delle materie prime di base dell'industrialismo, i suoi centri di produzione e le sue grandi vie di traffico, sia infine alla costituzione dello Stato unitario italiano la cui analisi ci condurrebbe molto lungi e che istituì un rapporto tipicamente moderno, capitalistico e imperialistico, perfino precursore dei tempi più recenti. Tuttavia, prima e dopo tale unificazione, il gioco delle forze e dei rapporti economici fu più che conforme ai caratteri dell'epoca borghese, costituendo un settore essenziale dell'accumulazione capitalistica in Italia, la cui limitatezza è in quantità e non in qualità. Infatti, prima e dopo il 1860, malgrado lo scarso sviluppo industriale (su cui non va dimenticato che l'influenza dell'unità nazionale fu gravemente negativa, determinando il decadimento e la chiusura d'importanti opifici), l'ambiente economico è stato di natura completamente borghese. Si può dire del Mezzogiorno d'Italia e del suo preteso feudalesimo ciò che disse Marx per la Germania del 1849 parlando al processo di Colonia - si noti bene - proprio per mettere in rilievo che la rivoluzione politica borghese e liberale doveva ancora trionfare: "La grande proprietà fondiaria era la vera base della società medievale, della società feudale. La moderna società borghese, la nostra società, per contro, poggia sull'industria e sul commercio. La proprietà fondiaria stessa ha perso tutte le sue precedenti condizioni d'esistenza, è divenuta dipendente dal commercio e dall'industria. Perciò l'agricoltura è oggi esercitata industrialmente e i vecchi signori feudali sono decaduti al livello di industriali di bestiame, lana, grano, barbabietola, acquavite ecc., al livello di gente che commercia in prodotti industriali come qualsiasi altro commerciante! Per quanto si aggrappino ai loro vecchi pregiudizi, nella prassi si trasformano in cittadini che producono il massimo possibile al minor costo possibile; che comprano dove si compra a prezzo più basso, e che vendono dove si vende al prezzo più caro. Già il modo di vivere, di produrre, di guadagnare di questi signori smentisce quindi le loro fantasticherie sorpassate e arroganti. La proprietà fondiaria come elemento sociale dominante presuppone il modo di produzione e di scambio medievale". Se la disposizione soprattutto del carbone e del ferro minerale ha fatto sì che dopo quel tempo (e dopo anche la stesura del Capitale, che a modello di una società pienamente capitalistica dovette prendere l'Inghilterra) la Germania è divenuta un grande paese di industria estrattiva e meccanica, oltre che di agricoltura condotta al modo economico e più moderno, riesce tuttavia evidente come quel giudizio di ambiente e di situazione sociale si applichi ancora più radicalmente al Mezzogiorno d'Italia dopo un secolo, e dopo ben 90 anni di regime politico del tutto borghese liberale e democratico, regime che, dopo le sconfitte del '48, la Germania attese fino al 1871, e, secondo i soliti sgonfioni chiacchieroni sul feudalesimo teutonico, fino a molto più tardi. Nel sud d'Italia vige un attivissimo mercato del suolo, con frequenza di trapassi certamente molto più alta che in province di alto industrialismo; ed è questo il criterio discriminante cruciale tra economia feudale ed economia moderna. Vi si accompagna un non meno attivo mercato del grande e piccolo affitto e naturalmente dei prodotti del suolo. Proprio dove la coltura è latifondista ed estensiva essa si fa per grandi unità economiche con impiego esclusivamente di lavoratori giornalieri salariati e braccianti, e da molti decenni primeggia economicamente su quella del proprietario fondiario, spesso in gravi difficoltà di cassa e oberato di ipoteche, la figura del grande affittuario capitalista, largo possessore di contanti e di scorte. Sia laddove il prodotto si riduce al grano, sia dove prevale l'allevamento zootecnico di tipo arretrato e perfino brado, non solo il capitale mobile è nelle mani dei grandi fittavoli e non dei proprietari fondiari, ma molti dei primi incettano e sfruttano a fondo, talvolta determinandone non la bonificazione ma il deperimento, le proprietà appartenenti a titolari diversi. A considerazioni analoghe conduce l'esame della gestione della proprietà urbana. Anche a prescindere dalla attività industriale diffusa nelle zone più evolute, attorno alle città principali ed ai porti, tutto questo movimento di mercati ormai a giro e ciclo moderno determina da decenni e decenni un'accumulazione di capitali che è servita largamente di base alle industrie libere, semiprotette e protette del nord (l'Italia, molto prima di Mussolini, era un paese protezionista di avanguardia). Non solo i depositi in banca di borghesi meridionali, proprietari, intraprenditori e speculatori, hanno alimentata sempre con forti correnti la finanza privata nazionale, ma alle risorse del sud ha largamente attinto il fisco, che raggiunge assai più facilmente la ricchezza immobiliare ed ogni movimento economico legato alla terra che non i profitti e sovrapprofitti industriali commerciali e affaristici. L'economia capitalistica italiana sta dunque a cavallo di questi rapporti di carattere del tutto moderno, e che è semplicemente risibile voler paragonare ad una situazione feudale, e presentare, anziché come una solida alleanza, sotto la maschera di un conflitto inesistente tra una borghesia evoluta e cosciente, avida tuttora di perfezionate e rinnovate rivoluzioni liberali o meridionali, e i leggendari "ceti retrivi" e "strati reazionari" della sporca demagogia alla moda. In rapporto a questa chiara inquadratura di legami economici sta la spregevole funzione della classe dirigente del sud. I resti della storica aristocrazia depauperata vivacchiano in qualche palazzo semicrollante delle città maggiori; in tutta la regione spadroneggiano non signori feudali ma borghesi arricchiti, proprietari, mercanti, banchieri, affaristi, di taglio più cafonesco che signorile. Al margine del movimento della costoro ricchezza, la cosiddetta "intelligenza" é discesa al rango d'intermediaria e mezzana del potere centrale dello Stato borghese di Roma, cui offre il meglio del suo pletorico personale, succhione delle forze produttive di tutte le province, dal commissario di pubblica sicurezza al giudice togato, dal deputato sostenuto da tutti i prefetti e che vota per tutti i governi, all'uomo di stato pronto a servire monarchie e repubbliche capitalistiche. La lotta sociale nel Mezzogiorno, non meno che quella nel quadro dello Stato italiano in generale, ha posto per i veri marxisti all'ordine del giorno, prima durante e dopo l'abusatissimo ventennio, il superamento delle ultime e più recenti forme storiche dell'ordine capitalistico e mai più l'aggiornamento a modelli oltremontani di rapporti e istituti rimasti "indietro". Questa tesi della sopravvivenza feudalistica meridionale merita di essere appaiata con l'altra che interpretava il movimento fascista quale una riscossa delle classi agrarie contro la borghesia industriale. L'indirizzo del gruppo che tolse ai marxisti rivoluzionari il controllo del partito comunista d'Italia (il cosiddetto gruppo dell'"Ordine Nuovo") poggia fino dai primi anni su queste due cantonate, su queste due piattonate basilari. Esse bastavano in partenza a costruire tutta una prassi e una politica di alleanza tra capitalisti industriali e rappresentanti traditori del proletariato, come si è poi vista in atto in Italia. Non era indispensabile la iniezione degenerante di virus disfattista da parte della centrale internazionale staliniana, nel suo indirizzo mondiale di patteggiamento e collaborazione tra i poteri del capitalismo e quello dello Stato falsamente definito socialista e proletario. Da "Prometeo" n. 12 del 1949.
TERREMOTO: CORSI E RICORSI STORICI. I Borbone? 200 anni fa sconfissero i terremoti, scrive il 30/08/2016 Flaminia Camilletti su “Il Giornale”. Sono passati 7 giorni dalla notte tra il 23 e il 24 Agosto, notte in cui la terra ha tremato così forte da far implodere e scomparire due paesi ricchi di storia e tradizioni come Amatrice ed Arquata del Tronto, portandosi via 292 vite umane e una decina di persone scomparse. I danni agli edifici e i morti non sono confinati nei paesi sopracitati, ma si diffondono in tutta la zona di confine tra Umbria, Marche e Lazio, tre regioni diverse e numerosi comuni diversi, sintomo che se qualcosa è andato storto è da ricondurre ad un sistema Italia che in questo momento così com’è, non funziona. Neanche il tempo di levare le macerie e di salutare i propri cari, che già si scoprono decine di casi di mala-gestione edilizia. Addirittura i pm sospettano che i documenti che dichiaravano che le strutture fossero a norma, siano stati falsificati. I casi più noti: la scuola Capranica e l’hotel Roma di Amatrice indicati entrambi come punto di accoglienza del piano di protezione civile, e invece venuti giù. E poi il campanile di Accumoli, come la Torre Civica e la caserma dei carabinieri. Parallelamente alle inchieste, il tema principale del dibattito verte sulla ricostruzione: è possibile rendere antisismici dei centri storici così antichi, senza snaturarne l’identità ed il patrimonio architettonico? Molti esperti e opinionisti rimandano all’esempio certamente virtuoso del Giappone, ma qualcuno, in Italia, rende noto che anche la nostra storia vanta modelli di ingegneria antisismica di livello, messa in atto già due secoli fa. Uno studio condotto dal Cnr-Ivalsa (Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio Nazionale delle Ricerche) di San Michele all’Adige (Trento) in collaborazione con l’Università della Calabria ha dimostrato che le tecniche antisismiche usate 200 anni fa dai Borbone sono ancora attuali e che integrate con tecnologie moderne, potrebbero essere usate per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio esistente. Dopo il terremoto del 1783, che distrusse gran parte della Calabria meridionale e fece circa 30.000 vittime fu emanata una normativa estremamente di avanguardia per l’epoca. L’efficacia di queste disposizioni è stata confermata dalla resistenza che ebbero i palazzi costruiti con queste regole nei terremoti del 1905 e del 1908 che colpirono la Calabria. Il Cnr ha chiarito che gli edifici costruiti con queste regole subirono danni non significativi, con limitate porzioni di muratura collassate e nessun crollo totale. Ulteriore conferma è stata data anche dal test antisismico condotto su una parete del palazzo del Vescovo di Mileto (Vibo Valentia), ricostruita fedelmente in laboratorio. “L’invenzione” è dell’ingegnere La Vega che con abilità di sintesi unisce le più avanzate teorie antisismiche dell’Illuminismo e una diffusa e antica tradizione costruttiva lignea presente in Calabria. Il sistema borbonico è caratterizzato infatti dalla presenza di telai di legno.” “Le tecniche – continua Nicola Ruggieri (l’architetto che ha prodotto lo studio) – si basavano sull’idea che la rete di legno, in caso di scossa, potesse intervenire a sostegno della muratura. Adesso quelle tecniche potrebbero ispirare sistemi antisismici per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio esistente «magari – ha rilevato l’esperto – sostituendo il legno con alluminio e acciaio, per i quali l’industria è più preparata”.
La “casa baraccata”: il primo regolamento antisismico d’Europa è dei Borbone, scrive il 25 agosto 2016 Claudia Ausilio su “Vesuvio on line”. Il territorio italiano e soprattutto quello dei paesi a ridosso della dorsale appenninica sono tra i più esposti al mondo ad attività sismica e da secoli hanno dovuto fare i conti con i terremoti e i danni da esso causati. Pochi sanno che le prime case antisismiche furono fatte costruire dai Borbone che redassero il primo regolamento antisismico d’Europa. Tutto iniziò dopo il 5 febbraio del 1783, una data terribile per la Calabria e per il sud intero. Uno degli eventi più tragici della storia e un terremoto di un magnitudo elevatissimo, tra i più alti che l’Europa abbia mai visto. Le zone colpite furono quelle di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Catanzaro che videro la morte di 30.000 persone. Il governo borbonico subito si mise all’opera per la ricostruzione emanando un regolamento antisismico, il primo della storia. Questo prevedeva la costruzione di una muratura rinforzata da un telaio di elementi lignei “inventata” dall’ingegnere Francesco La Vega, definita poi nel corso dell’Ottocento “casa baraccata”. Questo sistema si basava sugli ultimi studi dell’ingegneria settecentesca e su una tecnica costruttiva antica già in uso in Calabria. Ma l’ingegnere spagnolo come ideò questa tecnica antisismica? In realtà non si trattava di niente di nuovo, ci avevano già pensato gli antichi romani. Agli inizi del XVIII secolo Carlo III di Borbone decise di avviare un’intensa campagna di scavo ad Ercolano e successivamente a Pompei e Stabia. Le attività di recupero e lo studio dei reperti archeologici furono dirette dal 14 marzo 1780 proprio da Francesco La Vega. Durante queste operazioni l’ingegnere ebbe modo di osservare, proprio nelle città vesuviane, il cosiddetto Opus Craticium (opera a graticcio) cioè pareti intelaiate da elementi lignei. Grazie all’impiego di questa soluzione, le costruzioni successive al 1738, tra le quali anche il Palazzo del Vescovo di Mileto (Vv), riuscirono a resistere anche ai terremoti più devastanti, come quelli che colpirono la Calabria nel 1905 e nel 1908 con magnitudo 6.9 e 6 della scala Richter. Così come le abitazioni turche (Hımış) costruite con la tecnica dell’intelaiatura lignea hanno sfidato il sisma del 1999.
L’INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
Di Pontelandolfo e Casalduni (BN) non rimanga una pietra: 14 agosto 1861 l'eccidio, scrive Leonardo Pisani l'11 agosto 2016. «Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra.» Così disse il Generale Cialdini al Colonnello Eleonoro Negri. Era il 14 agosto 1861, in pieno periodo del grande Brigantaggio, qualche giorno prima il 7 agosto 1861 quando alcuni briganti della brigata Fra Diavolo, comandati da un ex sergente borbonico, il cerretese Cosimo Giordano, approfittando dell’allontanamento di una truppa delle Guardie Nazionali da Pontelandolfo, occuparono il paese, uccidendo i pochi ufficiali rimasti, issandovi la bandiera borbonica e proclamandovi un governo provvisorio. Successivamente L’11 agosto il luogotenente Cesare Augusto Bracci, incaricato di effettuare una ricognizione, si diresse verso Pontelandolfo alla guida di quaranta soldati e quattro carabinieri. Nei pressi del paese, gli uomini del reparto piemontese furono catturati da un gruppo di briganti e contadini armati che li portarono a Casalduni, dove furono uccisi per ordine del brigante Angelo Pica. Un sergente del reparto sfuggì alla cattura e successiva uccisione e riuscì a raggiungere Benevento dove informò i suoi superiori dell’accaduto. Costoro chiesero a loro volta un dettagliato rapporto ai capitani locali della Guardia Nazionale Saverio Mazzaccara e Achille Jacobelli. Ottenuti dettagli sull’accaduto, le autorità di Benevento informarono quindi il generale Enrico Cialdini. Racconta Carlo Melegari, a quel tempo ufficiale dei bersaglieri, che il rapporto inviato a Cialdini conteneva una descrizione raccapricciante dell’uccisione dei bersaglieri. Cialdini, consultandosi con altri generali, ordinò l’incendio di Pontelandolfo e Casalduni con la fucilazione di tutti gli abitanti dei due paesi “meno i figli, le donne e gli infermi”. Ma non fu così. Il colonnello Pier Eleonoro Negri, al comando di un battaglione di 500 bersaglieri, massacrò un numero stimato di oltre 400 inermi cittadini, altre fonti dicono quasi un migliaio e distrusse il paese incendiandolo: molte donne furono stuprate prima di esser assassinate e non furono forniti dati ufficiali sul numero totale delle vittime della repressione. Il generale Cialdini, per l’attuazione del piano, incaricò il colonnello Pier Eleonoro Negri e il maggiore Melegari, che comandavano due reparti diretti rispettivamente a Pontelandolfo e a Casalduni. All’alba del 14 agosto i soldati raggiunsero i due paesi. Mentre Casalduni fu trovata quasi disabitata (gran parte degli abitanti riuscì a fuggire dopo aver saputo dell’arrivo delle truppe), a Pontelandolfo i cittadini vennero sorpresi nel sonno. Le chiese furono assaltate, le case furono dapprima saccheggiate per poi essere incendiate con le persone che ancora vi dormivano. In alcuni casi, i bersaglieri attesero che i civili uscissero delle loro abitazioni in fiamme per poter sparare loro non appena fossero stati allo scoperto. Gli uomini furono fucilati mentre le donne (nonostante l’ordine di essere risparmiate) furono sottoposte a sevizie o addirittura vennero violentate: “Il saccheggio e l’eccidio durano l’intera giornata del 14. Numerose donne furono violentate e poi uccise. Alcune rifugiatesi nella chiesa prima denudate e trucidate davanti all’altare. Una, oltre ad opporre resistenza, graffiò a sangue il viso di un piemontese; le furono mozzate entrambe le mani e poi fucilata. Anche i luoghi di culto non furono risparmiati, le chiese profanate, le sacre ostie calpestate; i voti d’argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive rubati. Gli scampati al massacro furono rastrellati e inviati a Cerreto Sannita, dove circa la metà fu fucilata. A Casalduni la popolazione, avvisata in tempo, per la maggior parte fuggì. Alle quattro del mattino, il 18° battaglione, comandato dal Melegari e guidato dal Jacobelli e da Tommaso Lucente di Sepino, circondò il paese. Il Melegari, attenendosi agli ordini ricevuti dal generale Piola-Caselli, dispone a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna e attacca baionetta in canna concentricamente. La prima casa ad essere bruciata è quella del sindaco Ursini. Agli spari e alle grida, i pochi rimasti in paese escono quasi nudi da casa, ma sono infilzati dalle baionette dei criminali piemontesi. Messo a ferro e a fuoco Casalduni e sterminati tutti gli abitanti trovati. Dalle alture i popolani osservano ciò che sta accadendo nei due paesi, ma sono impotenti di fronte a tanto orrore. Carlo Margolfo, uno dei militari che parteciparono alla spedizione punitiva, scrisse nelle sue memorie: «Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava.» Angiolo De Witt, del 36° fanteria bersaglieri, così descrive quell’episodio: “… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un’intera giornata: il castigo fu tremendo…”. Alcuni particolari del massacro si leggono nella relazione parlamentare che il deputato Giuseppe Ferrari scrisse a seguito del suo sopralluogo a Pontelandolfo all’indomani del terribile evento. Nella relazione si citano due fratelli Rinaldi, uno avvocato e un altro negoziante, entrambi liberali convinti. I fratelli, usciti fuori di casa per vedere cosa stesse accadendo, vennero freddati all’istante e uno dei due, ancora in agonia dopo i colpi di fucile, fu finito a colpi di baionetta. Un altro episodio citato è quello di una ragazza, tale Concetta Biondi, che rifiutandosi di essere violentata da alcuni soldati, fu fucilata. «Una graziosa fanciulla, Concetta Biondi, per non essere preda di quegli assalitori inumani, andò a nascondersi in cantina, dietro alcune botti di vino. Sorpresa, svenne, e la mano assassina colpì a morte il delicato fiore, mentre il vino usciva dalle botti spillate, confondendosi col sangue» (Nicolina Vallillo) Al termine del massacro, il colonnello Negri telegrafò a Cialdini: «Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora.» Questo eccidio è stato sottaciuto, nascosto per più di un secolo nei “testi ufficiali” di storia, per una commemorazione ufficiale di un massacro di inermi si è dovuto aspettare Centocinquant’anni dopo, il 14 agosto 2011, Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, ha commemorato quella strage, porgendo a tutti gli abitanti di quella che è stata definita «città martire», le scuse dell’Italia.
1861: UNITA' D'ITALIA O INVASIONE SABAUDA?
1861 i libri dei vincitori ci raccontano di quel periodo come un passo avanti per la penisola italica, la realtà a quanto sembra è un’altra e parla di città bombardate per mesi e rase al suolo e genocidi di massa a opera di generali sabaudi senza scrupoli. L'invasione piemontese-sabauda sotto le mentite spoglie garibaldine, fu un capolavoro della più retriva cultura belligerante dei nuovi colonizzatori. Fu letteralmente ignorato il diritto internazionale e calpestata qualsiasi traccia di giuridicità interstatuale con una invasione militare senza formale dichiarazione di guerra. E quale motivazione avrebbero potuto avere i nuovi lanzichenecchi di invadere le nostre Terre se non quella di impossessarsi delle redditizie casse del Banco Duosiciliano per pagare i loro mostruosi debiti per le politiche guerrafondaie intraprese? Quale migliore occasione della unità italica per avere il pretesto di massacrare un popolo intero (circa 700.000 morti, 54 paesi distrutti, stupri e violenze inaudite, processi e fucilazioni sommarie) costretto successivamente ad una vera e propria "diaspora" (circa 15 milioni di "emigrati" dal 1870 al 1913!). Se quei delittuosi atti di inenarrabile violenza fossero stati commessi in tempi più recenti non avremmo esitato a chiamarli per il loro vero nome: "GENOCIDIO!" ed i Savoia sarebbero stati accusati come criminali di guerra (qualcuno incredibilmente ne giustifica i mezzi adottati per l'evento "guerra" come se potessimo giustificare le atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale dai nazisti).
CREDIAMO di poter affermare civilmente che il loro rientro sul suolo italiano è un dettaglio...anche comprensibile...ma non si può accettare la loro superba reticenza sul massacro dei Meridionali appellati con il dispregiativo di Briganti.
CREDIAMO di poter asserire, seppur con grande difficoltà e sforzandoci di essere sereni, che il livore sedimentato nei nostri cuori chiede semplicemente "giustizia" e "rispetto". Una giustizia culturale che riconsegni dignità a quei valorosi uomini che combatterono per la propria Terra contro un nemico di 120.000 uomini che parlavano una lingua sconosciuta e che in nome di una presunta fratellanza cancellarono con inaudita ferocia la culla della civiltà occidentale.
PRETENDIAMO un rispetto per il Meridione d'Italia che pagò, rispetto a qualsiasi altro Popolo, il prezzo più alto per l'unità italiana.
Il Genocidio dei Terroni: Il Risorgimento nascosto, scrive Gianluca Freda. Dal libro “Terroni” di Pino Aprile (Edizioni Piemme, 2010). Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni. E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni “anti-terrorismo”, come i marines in Iraq. Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante il conflitto etnico; o come i marocchini delle truppe francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato, il Mezzogiorno ci rimette qualcosa). Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma. E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile. Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quelle di «Tamerlano, Gengis Khan e Attila». Un altro preferì tacere «rivelazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire». E Garibaldi parlò di «cose da cloaca». Né che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza processo e senza condanna, come è accaduto con gl’islamici a Guantánamo. Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché musulmani; da noi centinaia di migliaia, briganti per definizione, perché meridionali. E, se bambini, briganti precoci; se donne, brigantesse o mogli, figlie, di briganti; o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di parentela); o persino solo paesani o sospetti tali. Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con l’apartheid. Io credevo che i briganti fossero proprio briganti, non anche ex soldati borbonici e patrioti alla guerriglia per difendere il proprio paese invaso. Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaia di profughi in marcia. Non volevo credere che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li squagliavano nella calce), come nell’Unione Sovietica di Stalin. Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita cercò per anni «una landa desolata», fra Patagonia, Borneo e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e annientarli lontano da occhi indiscreti. Né sapevo che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord svuotarono le ricche banche meridionali, regge, musei, case private (rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte e costituire immensi patrimoni privati. E mai avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti avanzi di galera. Non sapevo che, a Italia così unificata, imposero una tassa aggiuntiva ai meridionali, per pagare le spese della guerra di conquista del Sud, fatta senza nemmeno dichiararla. Ignoravo che l’occupazione del Regno delle Due Sicilie fosse stata decisa, progettata, protetta da Inghilterra e Francia, e parzialmente finanziata dalla massoneria (detto da Garibaldi, sino al gran maestro Armando Corona, nel 1988). Né sapevo che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati del mondo (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima di essere invaso). E non c’era la “burocrazia borbonica”, intesa quale caotica e inefficiente: lo specialista inviato da Cavour nelle Due Sicilie, per rimettervi ordine, riferì di un «mirabile organismo finanziario» e propose di copiarla, in una relazione che è «una lode sincera e continua». Mentre «il modello che presiede alla nostra amministrazione», dal 1861, «è quello franco-napoleonico, la cui versione sabauda è stata modulata dall’unità in avanti in adesione a una miriade di pressioni localistiche e corporative» (Marco Meriggi, Breve storia dell’Italia settentrionale). Ignoravo che lo stato unitario tassò ferocemente i milioni di disperati meridionali che emigravano in America, per assistere economicamente gli armatori delle navi che li trasportavano e i settentrionali che andavano a “far la stagione”, per qualche mese in Svizzera. Non potevo immaginare che l’Italia unita facesse pagare più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul lago di Como. Avevo già esperienza delle ferrovie peggiori al Sud che al Nord, ma non che, alle soglie del 2000, col resto d’Italia percorso da treni ad alta velocità, il Mezzogiorno avesse quasi mille chilometri di ferrovia in meno che prima della Seconda guerra mondiale (7.958 contro 8.871), quasi sempre ancora a binario unico e con gran parte della rete non elettrificata. Come potevo immaginare che stessimo così male, nell’inferno dei Borbone, che per obbligarci a entrare nel paradiso portatoci dai piemontesi ci vollero orribili rappresaglie, stragi, una dozzina di anni di combattimenti, leggi speciali, stati d’assedio, lager? E che, quando riuscirono a farci smettere di preferire la morte al loro paradiso, scegliemmo piuttosto di emigrare a milioni (e non era mai successo)? Ignoravo che avrei dovuto studiare il francese, per apprendere di essere italiano: «Le Royaume d’Italie est aujourd’hui un fait» annunciò Cavour al Senato. «Le Roi notre auguste Souverain prend pour lui-même et pour ses successeurs le titre de Roi d’Italie.» Credevo al Giosue Carducci delle Letture del Risorgimento italiano: «Né mai unità di nazione fu fatta per aspirazione di più grandi e pure intelligenze, né con sacrifici di più nobili e sante anime, né con maggior libero consentimento di tutte le parti sane del popolo». Affermazione riportata in apertura del libro (Il Risorgimento italiano) distribuito gratuitamente dai Centri di Lettura e Informazione a cura del ministero della Pubblica Istruzione Direzione Generale per l’Educazione Popolare, dal 1964. Il curatore, Alberto M. Ghisalberti, avverte che, «a un secolo di distanza (…), la revisione critica operata dagli storici possa suggerire interpretazioni diversamente meditate (…) della più complessa realtà del “libero consentimento” al quale si riferisce il poeta». Chi sa, capisce; chi non sa, continua a non capire. Scoprirò poi che Carducci, privatamente, scriveva: «A Lei pare una bella cosa questa Italia?»; tanto che, per lui, evitare di parlarne «può anche essere opera di carità». (Storia d’Italia, Einaudi). Io avevo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda di Garibaldi. Non sapevo nemmeno di essere meridionale, nel senso che non avevo mai attribuito alcun valore, positivo o negativo, al fatto di essere nato più a Sud o più a Nord di un altro. Mi ritenevo solo fortunato a essere nato italiano. E fra gl’italiani più fortunati, perché vivevo sul mare. A mano a mano che scoprivo queste cose, ne parlavo. Io stupito; gli ascoltatori increduli. Poi, io furioso; gli ascoltatori seccati: esagerazioni, invenzioni e, se vere, cose vecchie. E mi accorsi che diventavo meridionale, perché, stupidamente, maturavo orgoglio per la geografia di cui, altrettanto stupidamente, Bossi e complici volevano che mi vergognassi. Loro che usano “italiano” come un insulto e abitano la parte della penisola che fu denominata “Italia”, quando Roma riorganizzò l’impero (quella meridionale venne chiamata “Apulia”, dal nome della mia regione. Ma la prima “Italia” della storia fu un pezzo di Calabria sul Tirreno). Si è scritto tanto sul Sud, ma non sembra sia servito a molto, perché «ogni battaglia contro pregiudizi universalmente condivisi è una battaglia persa» dice Nicholas Humphrey (Una storia della mente). «Perché non riprendi una delle tante pubblicazioni meridionaliste di venti, trent’anni fa, e la ristampi tale e quale? Chi si accorgerebbe che del tempo è passato, inutilmente?» suggeriva ottant’anni fa a Piero Gobetti, Tommaso Fiore che poi, per fortuna, scrisse Un popolo di formiche. E oggi, un economista indomito, Gianfranco Viesti (Abolire il Mezzogiorno), allarga le braccia: «Parlare di Mezzogiorno significa parlare del già detto, e del già fallito». Perché tale stato di cose è utile alla parte più forte del paese, anche se si presenta con due nomi diversi: “Questione meridionale”, ovvero dell’aspirazione del Sud a uscire dalla subalternità impostagli; e “Questione settentrionale”, di recente conio, ovvero della volontà del Nord di mantenere la subalternità del Sud e il redditizio vantaggio di potere conquistato con le armi e una legislazione squilibrata. Dopo centocinquant’anni, questo sistema rischia di spezzare il paese. Si sa; e si finge di non saperlo, perché troppi sono gl’interessi che se ne nutrono. Così, accade che la verità venga scritta, ma non sia letta; e se letta, non creduta; e se creduta, non presa in considerazione; e se presa in considerazione, non tanto da cambiare i comportamenti, da indurre ad agire “di conseguenza”. Alcuni frammenti storici per capire un po' meglio. Studi in archivi e su periodici di Edimburgo mi hanno permesso di rilevare e confermare il versamento a Garibaldi di una somma veramente ingente, durante la sua breve permanenza a Genova, prima che la Spedizione sciogliesse le ancore. La somma, riferita con precisione, è di tre milioni di franchi francesi. Questo capitale tuttavia non venne fornito a Garibaldi in moneta francese, bensì in piastre d’oro turche. Non è agevole valutare il valore finanziario di tale somma. Riferito alle valute dell’epoca dei principali Stati europei, e rapportandolo al reddito nazionale, con larga approssimazione si tratta di molti milioni di dollari di oggi". Tratto della relazione tenuta da Giulio Di Vita al convegno “La liberazione d'Italia ad opera della Massoneria” organizzato a Torino (24 e 25 settembre 1988) dal Centro per la storia della Massoneria e dal Collegio dei Maestri Venerabili di Piemonte e Valle d'Aosta. Il Palazzo Reale fu spogliato di tutto, gli oggetti più preziosi furono spediti a Torino, altri venduti al miglior offerente. L’11 settembre l’oro della Tesoreria dello Stato, patrimonio della Nazione meridionale ( equivalente a 3235 miliardi di lire dei giorni nostri, 1670 milioni di euro) e anche i beni personali che il Re aveva lasciato nella Capitale "sdegnando di serbare per me una tavola, in mezzo al naufragio della patria” (assommavano a 40 milioni di lire dell’epoca, circa 300 miliardi di vecchie lire, 150 milioni di €), tutti depositati presso il Banco di Napoli furono requisiti e dichiarati "beni nazionali”. Con i frutti del saccheggio furono decretate svariate e lucrose pensioni vitalizie: ai vertici della Camorra, di cui la prima beneficiaria fu Marianna De Crescenzo [detta la Sangiovannara] sorella di Salvatore che era il capo assoluto della malavita e che aveva garantito l’ordine pubblico a Napoli dietro l’incarico del ministro Liborio Romano; alla famiglia di Agesilao Milano (mancato regicida nel 1856 e definito "eroe senza esempio tra antichi e moderni, superiore a Scevola” ), ad ufficiali piemontesi e garibaldini; per questi ultimi, grazie all’inflazione dei gradi militari nelle camicie rosse (il rapporto tra ufficiali e truppa era diventato 1:4 quando la regola era 1:20) ci fu un notevole esborso; 800 comandanti non prestavano alcun servizio perché non avevano nessun soldato agli ordini ma percepirono lo stesso il soldo. Sei milioni di ducati [180 miliardi di vecchie lire, 90 milioni di €], con un decreto firmato il 23 ottobre, vennero spartiti tra coloro che avevano sofferto persecuzioni dai Borboni (la maggior parte di essi in ottima salute), undici anni di stipendi arretrati furono corrisposti ai militari destituiti nel 1849 "tenendo conto delle promozioni che nel frattempo avrebbero avuto”, sessantamila ducati andarono a Raffaele Conforti per stipendi arretrati dal 1848 al 1860 spettatigli perché "ministro liberale in carica ancorché per poche settimane" e molti altri denari finirono in altrettante tasche con le più disparate e a volte pittoresche motivazioni come al Dumas padre "perché studiasse la storia” al De Cesare "perché studiasse l’economia ". Il saccheggio fu così completo che ad un certo punto Garibaldi fece minacciare di fucilazione i banchieri napoletani in caso di rifiuto "a questo modo venne uno dei primi banchieri di Napoli e sborsò uno o due milioni”; illuminanti alcuni commenti di contemporanei non borbonici sulla situazione creatasi a Napoli: "indescrivibile è lo sperpero che si fa qui di denaro e di roba; furono distribuiti all’armata di Garibaldi, che non arriva a 20mila uomini, più di 60mila cappotti e un numero proporzionato di coperte, eppure la gran parte dei garibaldini non ha nè coperte nè cappotti; in un solo mese, oltre alle ordinarie, si pagarono dalla Tesoreria per le sole spese straordinarie dell’Armata non giustificate 750mila ducati”; "nelle cose militari regna un assoluto disordine, manca ogni disciplina, ognuno fa quello che vuole…le spese giornaliere ascendono a una somma enorme. Le intendenze militari hanno prese razioni per il triplo degli uomini che devono mantenere”; "in questo momento il disordine è spaventoso in tutte le branche dell’Amministrazione…i mazziniani rubano e intrigano”; "la finanza depauperata, i dazi non si pagano, il commercio è perduto…tutto è furto ed estorsioni”; "qui si ruba a man salva, tutto andrà in rovina se non si pensa a un riparo”; "l’attuale ministero è sceso nel fango, ed il fango lo imbratta. Certi ministri si sono abbassati fino a ricevere circondati da què capopoli canaglia, che qui diconsi camorristi”. Fonte: GIUSEPPE RESSA, IL SUD E L’UNITÀ D’ITALIA - dalla storiografia ufficiale alla realtà dei fatti - Edizione risale al dicembre 2005.
Il 7 settembre del1860 Giuseppe Garibaldi entra a Napoli con pochi fidi precedendo di due giorni l'armata attardata in Calabria. La città è ancora presidiata da 6.000 soldati borbonici che se ne stanno disciplinati nelle caserme. Ma Liborio Romano, Ministro degli Interni e della Polizia delle Due Sicilie, gli ha assicurato che non ci sono problemi: da tempo si è accordato con Salvatore De Crescenzo (detto Tore 'e Criscienzo), il capo riconosciuto della Camorra, detenuto in carcere. Romano ha patteggiato la sua liberazione e quella di tutti i camorristi in cambio dell'aiuto "patriottico" a Garibaldi, consistente nell'eliminazione "per coltello" dei delegati di polizia e nella presa di controllo della città. Fonte: Colpa di Garibaldi se la malavita la fa da padrona di GILBERTO ONETO - Libero 5 Novembre 2006
Nelle campagne donde uscivano i picciotti garibaldini, i mafiosi avevano armi e cavalli e già facevano, per mestiere e natura, i capipopolo e conoscevano strade e percorsi ad altri ignoti, ragion per cui si adattarono perfettamente alla guerriglia sudamericana in cui il Generale era esperto. Ma c'è di più: uno storico liberal-moderato, il senatore del Regno Raffaele De Cesare, testimone diretto, amico e confidente di molti protagonisti di quei tempi, ha scritto che già sul finire del 1859 i liberali italianizzanti di Palermo avevano commissionato alla mafia l'incarico di uccidere Maniscalco, intelligente capo della polizia borbonica e perciò il primo degli ostacoli per la futura rivoluzione, che proprio quei nobili andavano preparando in vari comitati. In uno di questi gruppi figurò Filippo Cordova, poi Gran Maestro della Massoneria italiana nel 1867. Sicurissima e ben documentata, infine, è rimasta la presenza nelle file garibaldine dei mafiosi Miceli e Badia e di altri meno noti. Fonte: LE RADICI DEL POTERE CRIMINALE MAFIOSO: misteriditalia.com
Tratto da: Indietro Savoia! Storia controcorrente del Risorgimento (Lorenzo Del Boca). Da piccolina ho avuto la fortuna di poter ascoltare ciò che la mia bisnonna, siciliana, di buona famiglia e con una immensa cultura mi raccontava. Lei il risorgimento l'aveva vissuto in parte, in parte gliel'aveva raccontato la sua mamma. La "Nonna-Bis" come la chiamavo io mi narrava di come furono fregati i siciliani con referendum falsi sull'annessione al regno d'Italia, di come i Savoia avessero fatto man bassa dei tesori (economici e culturali) del sud e li avessero portati via su lunghi, lunghi treni, di come le fabbriche del sud furono chiuse e gli operai costretti ad emigrare al nord e di tanti altri soprusi subiti da lei e dai suoi conterranei. Soprusi dei quali nessun libro di storia faceva cenno. Non una parola sui testi scolastici dei lager per siciliani e napoletani dissidenti nel freddo Nord, non una parola sulle vedove "politiche" lasciate a morir di fame dopo la scomparsa misteriosa dei loro mariti...Ebbene, il Dottor Lorenzo del Boca, giornalista pluripremiato, nato nel Novarese ha finalmente reso giustizia ai racconti della bisnonna. Dall'inettitudine, agli intrighi, alle ruberie: ha scavato alla ricerca di documenti sepolti e ha ridato dignità a chi se l'era vista scippata dal revisionismo storico. Lorenzo Del Boca ha anche scritto i libri "Maledetti Savoia" e "il dito dell'anarchico". Alcuni stralci del libro: ... Cominciarono a rubare con la scusa dell'unità d'Italia. E questioni di moneta - a volte sporche, sempre imbarazzanti - accompagnano - passo a passo - le vicende del Risorgimento....... Per esempio. Goffredo Mameli, indicato come l'autore dell'inno nazionale, non ha mai inventato un bel nulla ma avrebbe soltanto rubato la musica scritta da un frate, nel convento di Carcare, in Liguria....Del resto si sa: la storia la scrivono i vincitori, ma non sempre la verità resta sepolta! Infatti in queste 280 pagine ne troverete parecchia... ad esempio qualcuno sa quale fu il primo tratto di ferrovia costruita in Italia? Leggete questo libro e vi si aprirà un mondo nuovo!
IL GENOCIDIO DEI CARNEFICI.
Sapevate che da noi ci fu un genocidio? La tesi di Pino Aprile nel nuovo libro «Carnefici» Viaggio in un Risorgimento crudele e feroce tra idee e commenti, scrive Lino Patruno il 2 giugno 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ora la conferma: fu genocidio. Sappiamo cosa avvenne qualche anno fa, quando Pino Aprile lo scrisse per la prima volta nel suo libro bestseller Terroni sull’unità d’Italia. Una sollevazione della casta accademica che tentò di ridicolizzarlo perché addirittura parlò di metodi nazisti ai danni del Sud. Ma che dice, come osa. Ora non solo lo ripete. Non solo titola esplicitamente il suo nuovo libro Carnefici (Piemme, pag. 465, euro 19,50). Ma ci aggiunge tutte le prove. Aggiunge cioè quanto nessuno storico di professione si è finora degnato di cercare ma che c’era. E che getta una luce ancòra più cupa e inquietante su quel Risorgimento accompagnato da tante trombe ma da poca verità. Un lavoro improbo, come era prevedibile e come dimostrano le pagine sofferte anche per il lettore tra una mole immane di documenti. Perché non è che tu vai alla caccia di qualcosa di molto compromettente e indegno per i vincitori e lo trovi così. Fra archivi reticenti allora e più inaccessibili di Fort Knox ora. Fra manomissioni, cancellazioni, alterazioni, reticenze per camuffare quella che fu fatta passare per una liberazione del Sud quando fu invece una feroce occupazione militare. Con sprezzo di ogni rispetto dei diritti umani. E l’aggravante che avveniva non contro un nemico ma contro un popolo altrettanto formalmente italiano. Bisognava fare l’Italia, è vero. Ma per farla, secondo Aprile, l’odio e l’arbitrio andarono ben al di là di ogni raffronto tranne quello, appunto, del nazismo. Perché centinaia di migliaia di italiani del Sud furono fucilati, uccisi, incarcerati, deportati, torturati oltre che derubati. E le cifre dicono che non fu solo lotta al brigantaggio. Ma un metodo applicato sempre e ovunque. Una unità nata in un dolore che non risparmiò nessuna famiglia meridionale. Che è rimasto nella loro vita come un sottofondo che le segna ancòra oggi. E che svela un segreto terribile per un Paese che non ha voluto finora aprire la porta della sua stanza della vergogna. Dal 1765 alla sua caduta, nel Regno delle Due Sicilie la popolazione era sempre cresciuta. Negli ultimi cinquant’anni, di 50mila l’anno. In sei anni fra il 1862 e il 68, invece, i morti superarono i nati. Ma il dato più impressionante è che mancano all’appello di qualsiasi censimento e di qualsiasi conto incrociato non meno di 600mila persone (un milione secondo la rivista Civiltà cattolica): che fine hanno fatto? Una su dieci. Come se fossero scomparse le attuali città di Bari, Taranto e Brindisi. E, fatte le proporzioni, come se oggi sparissero dal Sud 2 milioni di abitanti. Non c’era ancòra in quegli anni l’emigrazione che fu l’unica alternativa alla miseria un paio di decenni dopo. Non erano morti di brigantaggio né di scontri militari conosciuti. Quei 600mila furono fatti sparire. Non può essere altro, scrive Aprile, che la somma di ciò che non si è mai saputo: arbitrarie stragi segrete, fucilazioni non registrate, finiti di stenti in carcere senza che se ne seppe più nulla, svaniti in campi di concentramento senza lasciare tracce, volatilizzati in sconosciuti luoghi di deportazione. O scomparsi per suicidi indotti dalla disperazione. Compresi quei 5mila militari all’anno dichiarati morti per misteriose cause indipendenti dal servizio, poco meno di tutti gli italiani vittime nelle guerre di indipendenza. E’ stato questo il prezzo della cosiddetta liberazione. Del «supremo bene» della nuova patria senza neanche il coraggio della verità. Desaparecidos come nelle più atroci dittature contemporanee. Ma senza una plaza nella quale le madri li potessero invocare. E senza una sanzione per i responsabili anzi onorificenze per il buon lavoro fatto. Un genocidio, insiste Aprile, se genocidio è lo sterminio di massa pianificato da uno Stato. Se genocidio è la cancellazione di una economia, di una cultura, di una gente e della sua colpa di appartenere a un gruppo nazionale diverso. Quando ci si poteva arrivare senza il «necessario dolore» se non fosse stata anche una non necessaria umiliazione di sangue e di disprezzo per i vinti. Ai quali poi si è inferta l’ulteriore condanna del silenzio. Così le tombe di chi vinse sono archi di trionfo. E per gli sconfitti neanche un ceppo di ricordo. Ma si può fare la pace soltanto facendo la pace con la storia, la vera storia, come ha scritto lo scrittore turco Hasan Cemal memore del negato sterminio degli armeni da parte del suo Paese. La pace fondata sulla giustizia che ancòra manca in Italia. Anche perché prima o poi la storia racconta. E se non è la storia, come dicevano i nostri vecchi, quando una cosa nessuno te la vuole dire, allora la terra si crepa, si apre. E parla. Un giorno, conclude Aprile, in uno o l’altro luogo del martirio, arriveranno migliaia di terroni, ognuno con una pietra o un fiore. E li lasceranno lì da soli, se gli italiani non volessero farlo insieme. E su ogni mattone, il nome di un paese distrutto, e ogni fiore per ogni giovane vita andata. Per diventare poi nomi di strade e piazze, per avere una data sul calendario. Unico modo per rifare davvero l’Italia, per riparare al «supremo sacrificio» con cui non fu fatta allora.
Il Sud è una colonia interna: 32 domande per chi non ci crede, scrive Francesco Pipitone il 15 settembre 2014 su "Vesuvio On line". Questo non è articolo, non è un testo tradizionale in cui cerco di spiegare la mia visione di uno o più fatti, un insieme di parole atte a dimostrare una tesi. Leggerete una serie di domande rivolte a chi non ci ascolta, a chi ci liquida come raccontatori di frottole, di nostalgici di un tempo che è andato e non c’è più, un tempo dove il Mezzogiorno d’Italia era indipendente ed era fautore della propria sorte. L’Unità d’Italia era un passo da compiere, o forse no, non è questa la cosa essenziale: essa è avvenuta, inutile pensare a quale sarebbe la situazione odierna senza le azioni militari nell’allora Regno delle Due Sicilie, tuttavia dopo oltre 150 anni è innegabile che un’identità nazionale non ci sia, che non ci sia un popolo italiano veramente unito. “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, è questa una delle frasi dove si scorge maggiormente il supremo errore, quello di voler manipolare alcuni milioni di persone e renderli un corpo unico, quello di aver fatto una nazione senza i propri abitanti – dovevano essere gli italiani a fare l’Italia, non il sangue. A prescindere dalle trame della storia, dal 1861 ad oggi l’operato delle classi dirigenti italiane via via susseguitesi hanno fatto scelte che hanno portato alla prosperità di una parte della penisola a scapito dell’altra e, come da titolo, ecco 32 domande (ma sarebbero potute tranquillamente essere di più) per chi non crede che il Sud sia una colonia interna:
1) Qual è l’area più ricca del Paese?
2) Dove sono più aeroporti?
3) Dove sono più treni?
4) Dove arriva l’Alta Velocità?
5) Dove sono più autostrade?
6) Dove funzionano meglio i trasporti pubblici?
7) Dove sono più scuole?
8) Dove vengono offerti più servizi ai cittadini?
9) Dove si trovano più asili nido?
10) Dove c’è meno disoccupazione?
11) Il Sud ha i due terzi delle coste italiane, perché non vengono costruite infrastrutture?
12) Emigrano di più i Meridionali o i Settentrionali?
13) Sapevi che prima dell’Unità il Sud non aveva mai conosciuto l’emigrazione come fenomeno?
14) In quale parte del Paese c’è una migliore copertura ADSL?
15) Dove hanno sede legale le maggiori imprese italiane?
16) Lo sai che il 94% di quello che spendi va al Nord?
17) Lo sai che più del 90% dei fondi della cassa per il Mezzogiorno è stato dirottato alle grandi aziende del Nord?
18) Quando si parla del Sud in giornali e TG nazionali, quali sono i temi affrontati?
19) Lo sai che prima dell’Unità Napoli era principale città italiana?
20) Lo sai che Garibaldi si pentì di aver conquistato le Due Sicilie?
21) Lo sai che secondo dati ufficiali, Milano, Roma, Torino, Bologna e Firenze sono più pericolose di Napoli? In questa classifica Napoli è 36esima, le altre città elencate sono tra le prime sette posizioni.
22) Lo sai che al Nord, secondo dati ufficiali, vengono fatti più incidenti stradali? Perché al Sud si paga molto di più per l’assicurazione?
23) Lo sai che la spazzatura della Terra dei Fuochi proviene quasi tutta dal Nord?
24) Lo sai che la Pianura Padana è la zona più inquinata d’Europa? Perché i Media non ne parlano come per la Terra dei Fuochi?
25) Lo sai che in Basilicata c’è il petrolio, viene estratto, e l’unica cosa di cui “beneficiano” i Lucani sono inquinamento e tumori?
26) Lo sai che vogliono trivellare l’Irpinia nonostante sia una zona altamente sismica, oltre a essere un punto cruciale dove scorre l’acqua che arriva nelle case di milioni di persone che abitano tre regioni?
27) Lo sai che anche in Calabria sono stati sotterrati rifiuti, e il disastro potrebbe essere maggiore rispetto alla Terra dei Fuochi?
28) Lo sai che in Basilicata si sono verificati dodici incidenti nucleari, e sono stati riscontrati livelli di radioattività simili a quelli di Fukushima?
29) Lo sai che a Gela, in Sicilia, la percentuale di neonati nati con malformazioni è almeno sei volte superiore alla media nazionale? È una zona di raffinerie come tutta la Sicilia, ma, guarda un po’, la benzina costa più che al Nord.
30) Hai mai sentito i media nazionali parlare dell’Ilva di Taranto e del gruppo Riva? Se sì, quanto approfonditamente?
31) Perché lo Stato Italiano ha posto il segreto, negli anni Novanta, sul disastro nella Terra dei Fuochi?
32) Ti bastano queste domande a farti riflettere, o sei ancora convinto che dire che il Sud è una colonia interna non abbia fondamento alcuno?
I Bersaglieri in festa a Palermo. E le centinaia di palermitani scannati nel 1866? Scrive Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri" il 29 maggio 2016. Certo che le autorità cittadine di Palermo non hanno molta memoria storica. Hanno invitato i Bersaglieri a festeggiare in città – non si capisce bene che cosa – proprio nell’anno in cui noi ricordiamo i 150 anni della ‘Rivolta del Sette e mezzo’, quando le truppe dei Bersaglieri, al comando del generale Raffaele Cadorna, per conto dei Savoia, repressero nel sangue una giusta rivolta contro i predoni piemontesi che stavano affamando la Sicilia. Dei bersaglieri ricordiamo anche le stragi di Genova e, soprattutto, la strage di Pontelandolfo e Casalduni. Dal 23 al 29 Maggio Palermo – oggi è l’ultimo giorno di questa ‘festa’ – con il coinvolgimento delle istituzioni locali, sindaco in testa ed autorità militari, tra sfilate, manifestazioni, esibizioni di fanfare, annulli postali, inaugurazioni di monumenti commemorativi e corse a passo di carica che hanno assordato la città, si è svolto il 64° Raduno Nazionale dei bersaglieri. Si tratta quegli stessi bersaglieri eredi e discendenti di quei militari che, nel 1866, esattamente 150 anni fa, in occasione della "Rivolta del Sette e Mezzo" (una rivolta puntualmente ignorata dalla storiografia ufficiale), uccisero centinaia di palermitani per conto di casa Savoia! Insomma, un bel modo per ricordare, a Palermo, la "Rivolta del Sette e mezzo!". Le cronache raccontano che, nel reprimere la rivolta, i bersaglieri agli ordini del generale Raffaele Cadorna – che nel nome del re galantuomo mise in stato d’assedio Palermo – attraversando a passo di carica la città e, con le baionette innestate, misero a ferro e a fuoco la capitale della Sicilia, massacrando ed uccidendo centinaia e centinaia di rivoltosi e quanti capitavano loro a tiro. Del resto, i nostri “eroi” bersaglieri non si comportarono meglio – anzi si comportarono peggio – quando, ancor prima dei fatti di Palermo del 1866, nell’Aprile del 1849, agli ordini del generale Alfonso La Marmora, fondatore qualche anno prima del corpo, furono mandati dal re “galantuomo” a reprimere la rivolta di Genova che voleva rendersi indipendente dal Regno di Sardegna. In quell’occasione il corpo speciale dei bersaglieri fece di tutto e di più. “In quei drammatici giorni la soldataglia sabauda si abbandonò alle più meschine azioni contro la popolazione civile, violentando donne ed uccidendo padri di famiglia e fratelli che si opponevano allo scempio, sparando alle finestre alla gente che vi si affacciava e correndo per le strade al grido: Denari, denari o la vita, a cui fecero seguito irruzioni e predazioni. Neppure i luoghi sacri vennero risparmiati e le argenterie razziate; i prigionieri, anche quelli che si erano arresi, vennero uccisi o stipati in celle anguste e costretti addirittura a dissetarsi della propria urina. Così scriveva l’allora re di Sardegna, Vittorio Emanuele, per ringraziarlo, al comandante dei bersaglieri La Marmora: “Mio caro generale vi ho affidato l’affare di Genova perché siete un coraggioso. Non potevate fare di meglio”. I genovesi, che “i piemontesi non potevano fare di meglio”, se lo ricordarono e non dimenticarono per lungo tempo le barbarie, i saccheggi e le ruberie commesse dai fanti piumati a danno della loro città e avendo memoria di tutto questo fu per lungo tempo consuetudine che le famiglie genovesi non inviassero i figli a prestare servizio militare nei bersaglieri. Solo qualche anno fa i genovesi hanno consentito al corpo dei bersaglieri di potere mettere piede nella loro città. Ma quello che superò tutti in barbarie ed atrocità si verificò il 4 agosto del 1861, quando il generale Enrico Cialdini, sempre in nome del re galantuomo, si rese protagonista – insieme con il corpo speciale di Bersaglieri agli ordini del Maggiore Negri – della strage di Pontelandolfo e Casalduni, di due paesi della provincia di Benevento. Saprete certo quello che fecero i nazisti per rappresaglia nell’estate del 1944 a Marzabotto e Sant’anna di Stazzena definito dal mondo civile un crimine contro l’umanità. Ebbene, i bersaglieri di Cialdini a Pontelandolfo e Casalduni, per rappresaglia, fecero anche di peggio di quello che fecero i nazisti 83 anni dopo. I nazisti, in quel lontano Agosto del 1944, uccisero e massacrano gli abitanti di Marzabotto e di Sant’Anna lasciando però in piedi le abitazioni dei due paesi. I bersaglieri, a Pontelandolfo e Casalduni, dopo avere ucciso e massacrato tutti gli abitanti – uomini, vecchi, donne e bambini – non lasciarono alcuna abitazione in piedi bruciando tutte le case dei due paesi. Le chiese furono assaltate, le case furono dapprima saccheggiate per poi essere incendiate con le persone che ancora vi dormivano. In alcuni casi, i bersaglieri attesero che i civili uscissero delle loro abitazioni in fiamme per poter sparare loro non appena fossero stati allo scoperto. Gli uomini furono fucilati mentre le donne (nonostante l’ordine di risparmiarle) furono sottoposte a sevizie o addirittura vennero violentate appunto come avevano fatto 12 anni prima a Genova i bersaglieri di Alfonso La Marmora. “Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora”. Così scriveva il maggiore Negri per rendicontare a Enrico Cialdini la conclusione dell’eccidio. E saranno poi i bersaglieri di Emilio Pallavicini a ferire sull’Aspromonte il “disubbidiente” Giuseppe Garibaldi nell’agosto del 1862 e a rendersi protagonisti, a loro volta, dell’eccidio di Fantina (un paesino della provincia di Messina) in cui furono trucidati senza pietà alcuni volontari in fuga dall’Aspromonte che avevano avuto la sventura di seguire il nizzardo. Non va dimenticata, in questo lungo corollario di orrori, la repressione della rivolta che va sotto il nome della “Rivolta dei Cutrara” effettuata a Castellammare del Golfo il 1 gennaio del 1862 dai bersaglieri del generale Quintino che, oltre a trucidare vecchi e donne, misero al muro e fucilarono una bambina di solo nove anni, Angelina Romano. E poi ancora che dire di un’altra strage dimenticata, compiuta dal corpo dei bersaglieri ad Auletta, un paese in provincia di Salerno, nel luglio del 1861, dove furono uccisi ed imprigionati centinaia e centinaia di cittadini. L’elenco delle stragi dimenticate in cui furono tristemente protagonisti i fanti piumati è molto lungo e potrebbe continuare. Per una maggiore e più puntuale informazione al riguardo vi rimando alla lettura del libro di recentissima pubblicazione di Pino Aprile che, nel descrivere e documentare gli eccidi che furono compiuti nel Sud del paese agli albori dell’Unità d’Italia e in cui i bersaglieri furono tristemente protagonisti primari, non poteva scegliere titolo migliore Carnefici – Ecco le prove. Ecco perché, alla luce di tutti questi eccidi e massacri perpetrati agli albori dell’Unità d’Italia e nel nome del re galantuomo, ai bersaglieri di oggi che ritualmente celebrano i loro i raduni, come in questi giorni a Palermo, mi sento di dare il mio sommesso consiglio: ossia quello di ritrovare la memoria dei crimini contro l’umanità commessi nel Sud e in Sicilia dai loro antesignani. Sarebbe a questo punto opportuno che, tra feste, celebrazioni, sfilate e commemorazioni trovassero pure il tempo di chiedere scusa per i tanti eccidi e crimini commessi in passato dal “glorioso” corpo dei bersaglieri. Iniziando a chiedere scusa alla città di Palermo che, come già ricordato, fu teatro, nel Settembre del 1866 della "Rivolta del sette e mezzo" dove furono commessi, al pari di altri paesi del Mezzogiorno, eccidi e massacri e dove in questi giorni di Maggio si svolge il 64° raduno dei Bersaglieri. Palermo aspetta ancora queste scuse.
Carnefici di Pino Aprile. Pino Aprile, giornalista, già vicedirettore di Oggi, e pugliese d’origine, ritorna ad un tema già affrontato in precedenza, quello del conflitto tra Nord e Sud. Con Carnefici, ritorna all’ultima pagina di Terroni in cui aveva spiegato ai lettori come centocinquant’anni non fossero stati sufficienti a risolvere il problema di un divario tra regioni del Nord e del Sud Italia. Ma se così è stato, è accaduto perché non si è voluto risolvere l’eterna questione meridionale: troppi interessi la caratterizzano da sempre. Le Due Germanie, pur divise da un muro, in vent’anni sono tornate ad essere una sola Germania. Perché in Italia questo non è accaduto? Partendo da questo grande interrogativo, Pino Aprile continua una fredda analisi della situazione. Carnefici è un’analisi di una sorta di rapporto di dipendenza che si è creato tra Nord e Sud, rendendo il meridione assolutamente succube del settentrione. Si diventa dipendenti dei propri carnefici e così è accaduto ad una parte d’Italia che non può far altro che fare la parte della vittima, mentre il Nord si diverte a prendere il ruolo di chi comanda, di chi lavora meglio e in modo più efficace. La verità non è questa, sono solo maschere che ci si abitua a portare. Questo ce lo ricorda Pino Aprile in Carnefici.
«Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove». È il cuore di un celeberrimo atto d’accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul Corriere della Sera. Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”. Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, Terroni, che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un’incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l’ordine di grandezza che emerge dall’incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l’Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L’Italia “liberata” è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l’organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie. Sono atrocità degne della ferocia dell’Isis. Per molto meno, sono stati processati e condannati ufficiali e gerarchi nazisti. Ma in Italia, invece, agli autori di quei crimini di guerra sono andate medaglie, promozioni e, talvolta, piazze e strade dedicate in quegli stessi paesi che insanguinarono. Monumenti ai carnefici. Con pagine di rara potenza, appassionate e documentate, forte di reperti e fonti che per troppo tempo sono stati celati, Pino Aprile svela il vero volto di molti dei presunti eroi della storia Patria, ed evidenzia le ripercussioni di questa tragedia negata e cancellata. È questa la sua opera fondamentale, la più sconvolgente e ambiziosa. Quella dopo la quale davvero non si potrà più dire: io non sapevo. "Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove". È il cuore di un celeberrimo atto d'accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul "Corriere della Sera". Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero "meridionali". Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, "Terroni", che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un'incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l'ordine di grandezza che emerge dall'incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l'Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L'Italia "liberata" è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l'organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie.
“Carnefici”: l’indicibile genocidio dei meridionali. Il nuovo libro di Pino Aprile, scrive Raffaele Vescera il 7 maggio 2016. Se le parole sono pietre, il termine genocidio è un macigno. Pesante da scagliare per chi lo lancia, difficile da digerire per chi lo riceve. Ancora più greve se la parola genocidio, come fa Pino Aprile nel suo nuovo libro “Carnefici”, viene usata per definire l’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie al Piemonte. Annessione, tale è stata, non unità, visto che gli stessi re sabaudi, conquistando il Sud con inenarrabili atrocità, si vantavano di aver allargato il Regno del Piemonte, piuttosto che aver fatto l’Italia. Allora, se di macigno si tratta, proviamo a dargli una misura, un peso: che cos’è un genocidio, e quando è consentito l’uso di questa parola? Perché lo sterminio degli Ebrei è stato immediatamente definito come un genocidio nella stessa Germania che l’ha compiuto, mentre quello degli Armeni, a distanza di un secolo, è ancora negato dallo Stato turco, che processa chi ne parla? La storia, com’è noto, la scrivono i vincitori, se in Europa avesse vinto la follia di Hitler, lo sterminio di sei milioni di esseri umani, sarebbe stato sminuito, negato e rimosso dalla storiografia ufficiale, e i partigiani sarebbero ancora oggi chiamati “banditen”, come i resistenti all’occupazione del Sud, prima ai francesi e poi ai piemontesi, sono chiamati briganti, lazzari, sanfedisti, straccioni. Hitler ha perso, e per gli ebrei c’è giustizia storica. Gli Armeni hanno perso, e per il milione di Armeni sterminati in Turchia, non c’è verità. Pino Aprile c’informa che la definizione di “genocidio” si deve all’avvocato polacco Raphael Lemkin, la cui famiglia fu coinvolta nell’Olocausto, dai nazisti: si intende per genocidio un «piano coordinato di azioni differenti che hanno come obiettivo la distruzione dei fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali attraverso la distruzione delle istituzioni politiche e sociali, dell’economia, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali o della religione, della libertà, della dignità, della salute e perfino della vita degli individui non per motivazioni individuali ma in quanto membri di un gruppo nazionale». Il Mezzogiorno d’Italia in seguito all’occupazione violenta dell’esercito piemontese, subì tutto questo? Lo stesso Antonio Gramsci, un secolo fa, scrisse: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.” Tuttavia, nonostante le significative dichiarazioni di alcuni tra i maggiori uomini di cultura, di ieri e di oggi, quali Paolo Mieli e altri, la storiografia ufficiale, gestita dai baroni universitari di scuola liberal-massonica, negano, seppure al loro interno molte crepe si siano aperte. La loro critica al cosiddetto revisionismo del Risorgimento, nel migliore dei casi, è quella dell’insufficienza di prove documentali sull’enorme numero dei morti di parte meridionale, da noi quantificato in centinaia di migliaia, nei peggiori dei casi parlano di “pura invenzione”, poiché, pur ammettendo un piccolo numero di morti in campo meridionale, le atrocità sarebbero state commesse da parte dei briganti, piuttosto che da quella piemontese. Come mettere sullo stesso piano chi difende la propria terra e un invasore straniero? Analizziamo le condizioni del genocidio definite da Lemkim. Il libero Stato delle Due Sicilie fu privato delle sue istituzioni politiche e sociali, sostituite non da nuove ma da quelle già in uso in Piemonte, lo stesso accadde per la sua economia, fu distrutto il tessuto industriale e mercantile del Mezzogiorno per favorire la crescita di quella del Nord. Altresì distrutta la cultura e la dignità dei Meridionali, che pur appartenendo ad un popolo faro di civiltà da tre millenni, si videro bollati dai conquistatori come selvaggi e incivili, letteralmente “peggio degli affricani”, con due effe, come gentilmente ci descrivevano gli arroganti e vieppiù incolti ufficiali piemontesi nei loro grossolani rapporti, e come tuttora siamo classificati con epiteti insultanti. Stesso disprezzo ha subito la nostra lingua e il nostro sentimento di appartenenza ad uno Stato, quello del Regno di Napoli, in auge da sette secoli, dagli svevi di Federico II alla dinastia dei Borbone, riconosciuto nel mondo come civilissimo, tenendo conto dei canoni del tempo, si capisce. Tutto questo è stato ampiamente indagato e dimostrato mediante vasta documentazione da storici ed economisti, lo stesso Pino Aprile ce ne dà conto nel suo best seller Terroni, un saggio che, nelle sue sconvolgenti rivelazioni sulle atrocità compiute dall’esercito piemontese in dieci anni di guerra di conquista del Sud, mascherata da guerra al brigantaggio, ha cambiato la stessa percezione identitaria dei Meridionali, favorendo un processo di autostima. Ma tutto ciò viene giustificato dai risorgimentalisti come il prezzo da pagare al “progresso” al nuovo mondo che avanzava. Chissà se la raccontano allo stesso modo agli indiani d’America sopravvissuti allo sterminio operato dai nostri “civilissimi” bianchi. Manca però l’ultimo passo, quello decisivo per giustificare l’uso della definizione genocidio, ovvero quello della privazione della salute e della vita degli individui, non in quanto colpevoli di qualcosa, ma perché appartenenti ad un gruppo nazionale. Al di là dei singoli episodi di atrocità compiuti contro i cosiddetti briganti e contro l’inerme popolazione, va dunque dimostrato che da parte sabauda vi fu un piano preordinato di sterminio. Il nuovo saggio di Pino Aprile “Carnefici” colma la lacuna con una poderosa mole documentale, rintracciata attraverso minuziose ricerche archivistiche, sui singoli episodi di sterminio ma soprattutto sugli scompensi demografici, risultanti dalla comparazione dei censimenti di prima e dopo l’unità d’Italia. Su una popolazione di poco più di sette milioni di persone, a distanza di pochi anni mancava all’appello quasi mezzo milione di abitanti, in tempi in cui nessuno emigrava dal Sud, cui va aggiunta la mancata crescita demografica, in una terra la cui popolazione cresceva regolarmente da sempre. Con i “nati mancati” Il numero dei “desaparecidos” sale a circa il dieci per cento della popolazione meridionale. E’ come se di colpo oggi sparissero dal Sud due milioni di abitanti. La seconda volta che vi fu decrescita della popolazione al Sud accadde a causa della prima guerra mondiale, combattuta più di tutto dai meridionali usati come carne da macello, combinata con l’epidemia spagnola. La terza volta è oggi, in virtù dell’avanzato stato di impoverimento e disoccupazione del Mezzogiorno. Certo, se si sommano i morti delle fucilazioni immediate “sul campo” ai paesi distrutti per rappresaglia con lo sterminio dei loro abitanti, anche donne, bambini e anziani, alla carcerazione di un numero enorme di uomini, detenuti senza accusa e senza processo e lasciati morire di stenti e malattie nelle patrie galere, come lo stesso Crispi dovette ammettere, e alle deportazioni dei militari dell’esercito borbonico, per i quali, riempiti i lager subalpini come Fenestrelle, si cercava “una landa desolata in Patagonia”, i conti dello sterminio tornano. Non ci fu famiglia meridionale che non fu coinvolta dal massacro, anche quella mia, e quella vostra. Senza contare i milioni di uomini successivamente emigrati nelle Americhe per sfuggire alla miseria e alle vessazioni provocate dal nuovo Stato italiano. Il nuovo lavoro di Pino Aprile, di 468 pagine, edito da Piemme, è dunque un libro “necessario” affinché nessuno possa più negare o possa dire “io non sapevo”. Fu genocidio, ora ci sono le prove, e tanto basti affinché il popolo meridionale presenti il conto dei misfatti allo Stato italiano. I morti non si possono certo restituire alla vita, ma la loro dignità sì. C’è un solo modo per farlo: lo stato italiano riconosca il genocidio e chieda scusa ai Meridionali, come lo stato americano ha fatto con i suoi abitanti originari. Senza verità non ci può essere Unità, un paese civile non si può fondare sulla menzogna. Si cambino i testi scolastici e si formino i giovani sul rispetto della Storia e dei loro padri.
I MIGLIORI COMANDANTI DELLA STORIA...E GIUSEPPE GARIBALDI NON C'E'!!!
I 7 migliori comandanti militari di tutti i tempi, secondo Napoleone Bonaparte (uno dei migliori di ogni tempo), scrive Daniel Brown su /it.businessinsider.com il 4 novembre 11 2018. Napoleone è stato uno dei più grandi comandanti militari di tutti i tempi. Con la sua campagna d’Italia del 1796 e 1797 evitò il disfacimento della Francia rivoluzionaria, e gettò nel ridicolo lo Zar Alessandro I nel corso della battaglia di Austerlitz del 1805. Nello stesso anno circondò l’intero esercito austriaco costringendolo alla resa nella battaglia di Ulm. E sono solo alcune delle sue gesta. Era anche uno studente di storia, e imponeva ai suoi sottoposti di studiare approfonditamente le campagne di sette condottieri in particolare, persuadendoli che quello fosse l’unico modo di imparare l’arte della guerra e diventare un grande capitano. “Il vostro genio sarà illuminato e migliorato da questo studio, e imparerete a rigettare tutte le massime estranee ai principi di questi grandi comandanti.”, diceva Napoleone. Abbiamo classificato i condottieri basandoci sui commenti di Napoleone e sulle loro stesse conquiste:
Il Principe Eugenio di Savoia (1663-1736). Eugenio era maresciallo di campo e uomo di stato di Casa Savoia, al servizio del Sacro Romano Imperatore d’Austria. Ferito tredici volte in battaglia durante una carriera lunga trentanove anni, una delle sue più importanti conquiste fu l’assedio di Belgrado nel 1717 contro l’Impero Ottomano, durante il quale egli condusse una carica di cavalleria che aiutò a invertire le sorti della battaglia. “La scienza militare,” avrebbe affermato Napoleone secondo una citazione riportata da Madame de Remusat, “consiste in primo luogo nel calcolare accuratamente tutte le possibilità, e poi nel mettere esattamente al suo posto l’errore, nel modo più matematico possibile, in quei calcoli.” “Il principe Eugenio è uno di quelli che l’hanno capito meglio,” disse Napoleone.
Gustavo Adolfo di Svezia (1594-1632). Gustavo Adolfo è stato re di Svezia dal 1611 al 1632, e aiutò ad assicurare al suo paese un posto sulle carte geografiche. Una delle sue più grandi vittorie è stata durante la Guerra dei Trenta Anni alla battaglia di Breitenfeld, quando le sue truppe, insieme ai Sassoni, combatterono sui fianchi dell’esercito cattolico, annientando il nemico. Fu ucciso nel corso della stessa guerra mentre era alla testa di una carica di cavalleria nella battaglia di Lutzen.
Federico il Grande (1712-1786). Federico II, o Federico il Grande, è stato re di Prussia dal 1740 al 1786, e con le sue vittorie militari ampliò notevolmente il territorio del regno. Conseguì molte delle sue più prestigiose vittorie durante la Guerra dei Sette Anni alla battaglia di Rossbach e Leuthen, quando sconfisse eserciti più numerosi del suo, grazie a una grande capacità di manovra. Nonostante Federico sia nel novero dei sette comandanti di Napoleone, il condottiero francese sembrò tenere in maggior conto il prossimo della lista.
Henri de la Tour d’Auvergne, visconte di Turenne (1611-1675). Turenne era un maresciallo francese che servì Luigi XIV, conosciuto come il Re Sole. Le sue più importanti vittorie furono forse quelle riportate negli inverni del 1674 e 1675, durante la guerra Franco-Olandese. Nel dicembre del 1674 manovrò intorno allo schieramento tedesco, sorprendendolo settimane più tardi, all’inizio di gennaio, attaccando i fianchi del nemico e costringendolo a lasciare l’Alsazia. Fu ucciso nel luglio del 1675 da una palla di cannone mentre osservava le linee nemiche, quando la guerra Franco-Olandese era ancora furibonda. Nel 1793, la Francia della Rivoluzione era decisa a cancellare qualsiasi cosa avesse a che fare con la regalità e la religione, e iniziò a distruggere le tombe reali a St. Denis, fuori Parigi. Ritenuto un uomo del popolo, il corpo di Turenne fu uno di pochi lasciato intatto. I suoi resti sono oggi al cimitero militare dell’Hotel des Invalides. “Sembrate ammirare immensamente [Federico il Grande],” disse una volta Napoleone a un suo sottoposto, secondo quanto riportato dal suo segretario, Bourrienne. “Cosa ci trovate di tanto strabiliante? Non è certo al pari di Turenne.” “Generale,” rispose il sottoposto di Napoleone, “non è soltanto il guerriero che stimo in Federico; non si può certo rifiutare la propria ammirazione a un uomo che, pur seduto sul trono, fu anche un filosofo.” “Vero… ma tutta la filosofia non m’impedirà di cancellare il suo regno dalla carta geografica d’Europa,” disse Napoleone. Qualche anno più tardi, dopo esserci incoronato imperatore, Napoleone annientò la Prussia durante la campagna di Jena-Auerstadt del 1806, annettendo il regno nel suo impero.
Annibale Barca (247-183 a.C). Annibale era un generale e governante cartaginese, l’attuale Tunisia, che diede filo da torcere all’Impero Romano. Si può dedurre che la sua maggiore vittoria fu durante la battaglia di Canne, dove costrinse i Romani ad attaccare in condizioni sfavorevoli, annientandone la cavalleria e quindi l’intero esercito. Lo storico romano Polibio riferisce che l’esercito di Annibale sterminò settantamila Romani. Annibale è anche conosciuto, prima di essere entrato in Italia e della battaglia di Canne, per aver attraversato le Alpi in modo sbalorditivo, sopravvivendo ai feroci assalti dei Galli. Il suo potere diminuì, ed egli si avvelenò intorno al 183 d.C.
Giulio Cesare (100-44 a.C.). Cesare era un generale e un politico romano, tra i maggiori conquistatori di tutti i tempi. Molto conosciuto per la sua vittoria alla battaglia di Alesia e per la conquista delle Gallie, nel 59 a.C. fu nominato console durante il primo triumvirato di Roma, insieme a Pompeo il Grande e a Marco Licinio Crasso. Più tardi esplose la guerra civile tra Cesare e Pompeo. Nel 48 a.C., dopo aver sofferto una serie di sconfitte da parte di Cesare, Pompeo fu assassinato in Egitto. “Ammiro le ottime campagne di Cesare in Africa,” ha riportato Bourriene dalle parole di Napoleone. Poco più tardi, combatté brevemente in Anatolia – l’attuale Turchia – sconfiggendo velocemente il re del Bosforo Cimmerio. Le sue famose parole, “Veni, vidi, vici (Sono andato, ho visto, ho vinto)” vengono da questa campagna militare. Cesare fu in seguito eletto dittatore, ma finì assassinato – pugnalato a morte dei senatori Romani – nel 44 a.C.
Alessandro il Grande (356-323 a.C.). Alessandro fu il re di Macedonia che conquistò l’Impero Persiano, invase l’India e diffuse la cultura greca nella maggior parte del mondo antico. Istruito in giovane età da Aristotele, divenne re dopo che il padre, Filippo II, fu assassinato. Anche se Napoleone non stilò mai ufficialmente la classifica dei sette condottieri, sembrò aver considerato Alessandro il migliore tra questi, insieme a molti altri storici. “Metto Alessandro al primo posto” disse Napoleone a Bourrienne. “Il motivo per il quale preferisco il re macedone è per aver concepito e soprattutto condotto la campagna in Asia” aggiungendo di aver ammirato ancora di più l’assedio di Tiro, la conquista dell’Egitto e la marcia verso l’Oasi di Ammone. Alessandro morì di malattia nel 323 a.C. Come i suoi stessi eroi, Napoleone Bonaparte è oggi considerato uno dei più grandi comandanti militari di tutti i tempi.
Ecco ciò che Napoleone ebbe a dire delle “campagne di Alessandro, Annibale, Cesare, Gustavo Adolfo, Turenne, Eugenio e Federico”. “Fatevi simili a loro. È l’unico modo di diventare un grande capitano, e acquisire il segreto della guerra. Il vostro genio sarà illuminato e migliorato da questo studio, e imparerete a rigettare tutte le massime estranee ai principi di questi grandi comandanti”.
Longanesi Cattani. Il miglior comandante fra i comandanti migliori. Libro di Enrico Gurioli pubblicato da Mursia. "Der beste der besten italienischen Kommandanten" ("Il migliore fra i migliori comandanti italiani"), così scrive Karl Dönitz, comandante delle forze sottomarine tedesche, in una dedica a Luigi Angelo Longanesi Cattani. Longanesi Cattani, nato a Bagnacavallo in provincia di Ravenna nel 1908, ha poco più di trent'anni quando assume il comando del sommergibile Brin. E' l'inizio di una carriera militare che lo porterà nel dopoguerra ai vertici della Marina Militare italiana dopo aver vissuto le pagine più tragiche del conflitto tra le fila dei "marinai degli abissi": dopo le missioni in Atlantico al comando del Brin e del Da Vinci, nel 1942 viene destinato dai vertici di Supermarina alla Xa Flottiglia MAS, per coordinare l'allestimento di tre sommergibili, Murena, Sparide e Grongo. Le sue imprese navali gli sono valse quattro medaglie d'argento al Valor Militare, due di bronzo, due croci al merito di guerra, una croce di guerra al Valor Militare, due croci di ferro. L'8 settembre 1943 lo trova al comando del Murena, impegnato nella preparazione dell'attacco a Gibilterra e successivamente a New York. Ma la storia ha preso un'altra direzione. Il destino del Murena è segnato: verrà autoaffondato come tutte le navi rimaste a La Spezia, mentre la corazzata Roma è in mare verso il suo tragico destino. Per Luigi Longanesi Cattani è la fine di una missione in mare ma non di un impegno che lo lega sino alla fine dei suoi giorni alla Marina Militare.
Top ten migliori generali/condottieri/strateghi di sempre...scrive Seija, il 22 Giugno 2016 su "La Barriera". Visto l' "entusiasmo" suscitato dalla Battle of the Bastard e soprattutto visto come sono fioccati i pareri su quale strategia militare sarebbe stata la migliore da adottare per Jon Snow, apro questo topic sui migliori 10 generali/ condottieri /strateghi di sempre. Quali sono stati secondo voi i migliori? Mettete 10 nomi dal primo al decimo. Nel fare la mia classifica ho usato 4 criteri: strategia/tattica/comando/rilevanza storica.
1) Napoleone per aver combattuto e vinto quasi sempre, con metodo scientifico e spesso in condizioni di inferiorità; non è stato solo uno stratega, ma pure un tattico ed un organizzatore dal plotone al Corpo d'Armata. Si deve inoltre considerare che aveva a disposizione lo scarso materiale umano del soldato francese.
2) Giulio Cesare per gli stessi motivi di Napoleone, ma era avvantaggiato dall'avere dalla sua il soldato romano.
3) Alessandro Magno per aver distrutto un impero immenso ed aver portato i suoi uomini oltre i confini del mondo conosciuto.
4) Gengis Khan,non lo metto prima degli altri, solo perché si è trovato a combattere per lo più in territori spopolati e in condizioni di superiorità di mezzi.
5) Annibale, il miglior tattico di sempre ed il miglior comandante in battaglia, nonché l'inventore della guerra di movimento.
6) Orazio Nelson, non ha mai perso una battaglia e Trafalgar è un capolavoro di tattica ed abnegazione.
7) Guderian/Von Maistenn, per aver inventato la sistemistica nelle operazioni militari, coordinando fanteria, carri ed aerei.
8) Yi Sun Sin, grandissimo tattico navale riuscì più volte a sconfiggere il Giappone in condizioni dì inferiorità grazie a tattiche innovative e a significative evoluzioni tecnologiche.
9) Doenitz, perché con gli U-boot ha quasi vinto una guerra ed ha tenuto operativa fino all'armistizio la sua armata subacquea mentre la Germania si disfaceva.
10) Raimondo Montecuccoli, grande stratega e pianificatore, praticamente un Napoleone del '600.
Avrei voluto inserirne tanti altri, ma i posti sono solo 10. Aspetto quindi le vostre classifiche e i vostri pareri per sopperire alle mie eventuali dimenticanze.
Avendo io fatto una valutazione su 4 criteri mi viene quella classifica. Se avessi "valutato di pancia" sicuramente al primo posto avrei messo Hannah Ba'al....:) che da solo, seppe tenere sotto scacco per quasi vent'anni la più grande potenza militare del tempo (perché questo era già Roma),riportando clamorose vittorie in battaglie che ancora vengono insegnate nelle accademie militari. Annibale, prima ancora di vincere sul campo, vinceva sulla progettazione e la pianificazione. L'esercito cartaginese era in massima parte formato da mercenari, ma lui non sceglieva mercenari qualsiasi, voleva (e otteneva) il meglio di quanto si trovasse sul mercato. Si dotava di fanteria libica e iberica, cavalieri numidi, frombolieri delle Baleari, assaltatori gallici. Si dotava già di truppe di riserva. Arrivava sempre prima degli avversari. Faceva sempre in modo di arrivare a mettere il campo serale con almeno 2 ore di luce, in modo da poter mandare gli esploratori tutt'intorno ad osservare la situazione. A Canne la sua trappola funzionò "con la precisione di un orologio". In enorme inferiorità numerica (i romani erano più del doppio) seppe approfittare immediatamente della tattica suicida dei romani, che avevano ammassato quasi 90.000 uomini in un fronte troppo stretto: poco più di 1,5 km. Per quanto riguarda battaglia del Trasimeno, appena un anno prima, raramente in una battaglia dell'antichità così poca gente restò viva di un esercito sconfitto, come in quell'occasione. Grazie agli esploratori, Annibale aveva intuito il percorso delle legioni, che ad un certo punto passava fatalmente tra le rive del lago e le colline sovrastanti. E quando quella mattina di giugno la foschia si fu diradata, i legionari già in marcia sul fatale percorso poterono vedere i cartaginesi schierati sulle colline pronti a riceverli. Poi,3 ore di lotta disperata (i romani non ebbero neanche il tempo di schierare l'esercito) e l'annientamento totale. Ma forse il suo massimo capolavoro Annibale lo fece proprio a Zama. Rispetto a Scipione era in lieve vantaggio numerico (poco meno di 50.000 uomini contro quasi 40.000), ma per quasi i 2/3 il suo esercito era composto da reclute inesperte. Inoltre, era praticamente privo di cavalleria, a parte qualche sparuto squadrone. E tuttavia, arrivò vicinissimo alla vittoria, mettendosi in vantaggio fin dall'inizio. Sapendo infatti che Scipione usava una tattica per la quale, ad un certo punto della battaglia, la fila posteriore dell'esercito si divideva per attaccare sui fianchi l'avversario, mandò alla carica da subito gli elefanti. Questo impedì a Scipione di schierarsi su più file e lo costrinse, invece, a schierarsi con manipoli "a scacchiera", in modo da dare ai pachidermi lo sfogo per passare oltre. Poi, dette ordine ai suoi pochi squadroni di tenere impegnati quanto più possibile i numidi alleati dei romani e questi obbedirono magnificamente, pur votati al sacrificio, portandosi i ben più numerosi nemici dal campo di battaglia. A quel punto, combattè con l'esercito schierato su tre fila, delle quali solo l'ultima era formata dai veterani libici della campagna d'Italia, quindi la più efficiente. Annibale aveva previsto tutto. Sapeva che la prima fila avrebbe ceduto quasi subito e quindi le aveva ordinato che, una volta sconfitta al centro, le sue due ali sarebbero dovute arretrare per unirsi alla seconda fila, aumentando così il fronte. Lo stesso fece con la seconda da fila, le cui due ali si andarono a congiungere all'ultima fila dei libici. A quel punto, Scipione si trovò con l'esercito stanco, a combattere su un fronte diventato larghissimo, con davanti i migliori soldati di Annibale. Le cose si erano messe per lui veramente male, ma a quel punto tornò la cavalleria numida, che finalmente si era sbarazzata dei suoi pochi avversari, che risolse la situazione travolgendo le truppe appiedate. Fu questione di un'ora, forse meno: la vittoria era sfuggita di un soffio. Ammirato e rispettato dai suoi soldati, anche se mercenari, Annibale fu sempre coerente con se stesso e fece quasi sempre la scelta giusta. La conquista di Roma dopo Canne era semplicemente impossibile: il suo esercito, che forse non arrivava a 35.000 unità, non sarebbe stato in grado neanche di circondare a dovere le mura della città. L'unica cosa che non girò, dei suoi progetti, fu la sollevazione dei popoli italici e gallici a proprio favore. Era un rischio da correre, ma senza il quale la campagna in Italia non avrebbe avuto senso. E i soli Sanniti simpatizzanti e alleati non bastarono. Morì di sua mano, all'età di 64 anni. I romani avevano trovato il suo rifugio e si apprestavano a catturarlo, ma lui, quell'ultimo confronto, riuscì a vincerlo lo stesso, battendo gli avversari sul tempo, come del resto aveva sempre fatto.
Euron Gioiagrigia, Confratello:
1) Scipione l'Africano: ha risollevato Roma dalla sconfitta contro Annibale con mezzi limitatissimi, dimostrando acume, ingegno e usando le strategie dello stesso Annibale contro di lui. Secondo me il migliore in assoluto;
2) Annibale: personaggio di rara genialità in campo strategico, gran motivatore di uomini e molto ingegnoso anche dal punto di vista politico visto che la sua strategia per abbattere Roma (disgregare la confederazione) era l'unica che potesse funzionare, e infatti ha quasi funzionato;
3) Napoleone: poco da dire, per quasi quindici anni ha dominato l'Europa, mettendo a terra tutti gli eserciti avversari con la sua grande intelligenza militare. Peccato che si sia messo contro la Russia...;
4) Erich von Manstein: uno dei motivi per cui la Germania ha quasi conquistato l'Europa e ha fatto soffrire così tanto la Russia. Le sue tattiche nella campagna dell'Est sono state eccellenti e sono uno dei motivi per cui i sovietici ci hanno messo ben due anni per recuperare il terreno perduto. Se Hitler gli avesse dato ascolto avrebbe evitato la catastrofe di Stalingrado. Fortunatamente non è andata così;
5) Giulio Cesare: il quinto posto gli sta sicuramente stretto visto che la sua figura è legata ad uno dei fatti storici più importanti, ossia la trasformazione della Repubblica Romana in Impero. Come generale ha fatto del carisma e della capacità di legare gli uomini a sé i suoi punti forti, più che la strategia teorica. Qualche battaglia l'ha persa, ma ha vinto tutte le guerre;
6) Erwin Rommel: come Manstein, ma sul fronte africano. E' riuscito a porre rimedio ai disastri della gestione italiana ed è arrivato non lontano dal Cairo. Ha scontato la superiorità di mezzi inglese, ma gli si può rimproverare poco;
7) Aureliano: si è ritrovato a difendere l'Impero Romano in uno dei suoi periodi più bui, e l'ha riportato ad un livello di grande potenza sconfiggendo tutti i suoi nemici. Peccato che non sia sfuggito all'aspetto che accomuna quasi tutti gli imperatori romani del III secolo, cioè essere assassinato precocemente;
8) Raimondo Montecuccoli: essenzialmente per i motivi detti da Seija;
9) Alessandro Magno: ha fatto a pezzi da solo un impero ed è arrivato fino in India. La sua conquista però si è rilevata effimera ed è il motivo per cui non lo metto tra le prima cinque posizioni;
10) Alfred von Schlieffen: ha ideato il piano per mettere a tappeto la Francia nella Prima Guerra Mondiale, e ha quasi funzionato. Fortunatamente la resistenza di inglesi e francesi lo ha mandato in malora.
Ser Balon Swann, Confratello:
1. Napoleone Bonaparte
2. Tran Hung Dao
3. Aureliano
4. Alessandro Magno
5. Vo Nguyen Giap
6. Giulio Cesare
7. Raimondo Montecuccioli
8. Basilio II (imperatore bizantino)
9. Heinz Guderian
10. John Churchill duca di Malborough
Tra i nominati secondo me molto sopravvalutato è Rommel. Ha condotto una, seppur brillante, breve campagna (persa) su un fronte secondario. Inoltre aveva il "vizio" di essere sempre in ferie durante gli scontri decisivi. Un po' poco per la top10.
Volendo interpretare la definizione "i migliori" non in senso "abili/geniali/vincenti" ma più che altro decisivi, fondamentali, determinanti nelle svolte storiche della nostra civiltà, la mia top10 è questa. Premessa: quali sono i tratti caratteristici della nostra civiltà (mi limito all'occidente, l'asia/oriente ha una sua storia, altrettanto importante), gli eventi/idee/condizioni che più delle altre hanno plasmato e influenzato la società in cui viviamo? Direi (ovviamente iper-semplificando):
1. Il pensiero/filosofia della Grecia classica
2. Roma, le sue leggi, il suo ordinamento
3. L'affermazione del cristianesimo
4. La germanizzazione dell'orbe romano (in altri termini, la caduta dell'impero d'occidente)
5. Il millenario scontro/resistenza/rifiuto dell'Islam
6. Il fallimento di qualunque disegno egemonico in Europa(1500-1700)
7. l'Illuminismo (rivoluzione americana + rivoluzione francese)
8. La colonizzazione del nuovo mondo (e poi dell'oriente) da parte degli Europei
9. La vittoria dell'asse atlantico stati uniti/impero britannico + sul mondo tedesco-germanico (WWI e soprattutto WW2)
E quali sono i condottieri che più hanno contribuito all'affermazione/creazione delle condizioni necessarie per la realizzazione dei punti precedenti?
1. Alessandro Magno (in subordine: Milziade, Temistocle, Pausania, insomma i leader della fase "difensiva" del mondo greco)
2. Scipione l'Africano (direi che vincere la seconda guerra punica è stata la svolta per Roma, e nessuno vi ha contribuito maggiormente di Scipione, in Spagna e Africa)
3. Costantino (per come ha determinato, accelerato e indirizzato su precisi binari l'affermazione del cristianesimo)
4. Fritigerno (Arminio praticamente a pari merito, ma è stata Adrianopoli e la successiva guerra gotica a mettere in moto, più di ogni altra cosa, la catena di eventi che ha determinato l'ascesa dei "barbari" nell'esercito, e poi in tutta la struttura di comando anche civile, a ovest)
5. Leone III Isaurico (in realtà c'è l'imbarazzo della scelta qui, 1200 anni di legnate quasi ininterrotte, da Poiters a Lepanto a Malta a Vienna alle Crociate, ma forse l'unico momento che davvero poteva determinare il trionfo totale o pressoché totale dell'Islam sono stati gli assedi di Costantinopoli del 674 e del 717. Prendo quello del 717)
6. Maurizio di Nassau (chi poteva creare un Impero egemonico sul continente? La dinastia degli Asburgo, forse. Quantomeno, ci hanno provato, per oltre un secolo. Carlo V, Filippo II. Dove hanno fallito? Le cause sono molteplici, tantissime, economiche, sociali, politiche, religiose, non certo solo militari. Nondimeno, forse è stata la guerra degli ottant'anni contro le province unite a dissanguare maggiormente le finanze e gli eserciti della Spagna. Anche la disfatta dell'Armada ne è stata, di fatto, un'appendice, una conseguenza. e Maurizio è stato il leader più importante e di successo, nella fase decisiva del conflitto). Ma anche qui c'è l'imbarazzo della scelta.
7. Napoleone (in subordine, Washington)
8. Cortez (in subordine, Robert Clive)
9. Zhukov (direi che Stalingrado + Kursk sono abbastanza; in subordine, ma parecchio, Montgomery)
Iceandfire, Confratello:
Alessandro Magno il re macedone ragazzo che conquistò un impero cercando di assorbire anche le tradizioni dei vinti,una mente che davvero era avanti per i suoi tempi;
Giulio Cesare,basta leggere il De bello Gallico;
Marco Vipsanio Agrippa il braccio Armato di Cesare Augusto e non solo (vedi Pantheon);
Robert Edward Lee guidò per oltre tre anni, con grande abilità strategica e tattica, la prestigiosa Armata della Virginia settentrionale, la formazione più efficiente e combattiva delle forze confederate. Negli ultimi mesi della guerra divenne anche ufficialmente il comandante in capo dell'esercito sudista;
Rommel, la volpe del deserto, grande capacità tattica nella guerra del NordAfrica;
Napoleone Bonaparte un generale che assunse anche il potere;
Annibale che fu fregato dagli ozi di Capua;
Michail Illarionovič Kutuzov che nella campagna di Russia ebbe la meglio su Napoleone;
Patton, il generale d’acciaio;
Leonida re ma anche generale che alle Termopili ha salvato la civiltà greca (e ci aggiungo pure Temistocle via).
Maestro Aemon, Confratello:
1) Napoleone. Perchè riunisce in se tutto quello che un generale doveva essere: geniale stratega e tattico, enorme motivatore, innovatore, politico scaltro e chi più ne ha più ne metta. Austerliz è il suo gioiello e le repubbliche sorte attorno alla francia la dimostrazione della sua strategia. "Nè sa quando una simil orma di piè mortale la sua cruenta polvere a calpestar verrà".
2) Cesare. Non solo enorme uomo politico ma generale di indiscussa bravura e fama. Alla sua volontà indomita si devono tanti successi, alla sua mente fredda e calcolatrice Roma deve tutto, (principalmente a livello strategico ma anche a livello tattico). Farsalo e la sua politica del divide et impera in Gallia sono i suoi capolavori.
3) Alessandro Magno. Per quanto non lo reputi geniale ha dalla sua i risultati ottenuti sul campo e fuori, senza considerare che il suo Sogno ha cambiato per sempre il mondo quasi quanto Roma.
4) Annibale. Grandissimo tattico (canne è una sinfonia) con buona strategia che però non ha avuto le capacità di sfruttare al meglio. Come capita anche ai migliori ha capito cosa fare ma ha esitato a farlo. (e meno male!)
5) Edward di Woodstook (il principe nero). Uno dei migliori generali medievali se non il migliore. Acume tattico e brillante stratega senza la possibilità di sfruttare a fondo queste sue grandi qualità. Non Crecy, non Poitiers ma Nàjera è il suo capolavoro. Strategicamente ha ridotto la Francia in ginocchio con guerre fuori porta e l'invenzione su grande scala delle chevauchée.
6) Erich von Manstein. Nonostante sia un grande fan di Guderian Von Manstein è indubbiamente il miglior generale della seconda guerra mondiale, anche più di Von Rundstedt e sicuramente più di Rommel (che rimane un grande comandante nonostante tutto). Tra i suoi capolavori le operazioni in Crimea ed il tentativo di salvataggio della 6a armata.
7) Ezzelino III da Romano. Non so perche abbiate allergia per i comandanti medievali ma vi assicuro che anche lui sia strategicamente che tatticamente era formidabile. Cortenuova è fantastica e la sua "feroce" mano di ferro sul nord Italia ha necessitato di una crociata per essere tolta.
8) Eugenio di Savoia. C'è da commentare? Zenta è uno spettacolo mentre le operazioni in Italia settentrionale dimostrano il suo acume strategico e la sua capacità di improvvisazione.
9) Tokugawa Ieyasu. Per inserire un generale orientale, sicuramente di enorme successo. Praticamente tutta la sua vita è stata un successo costante!
10) George Washington. Spesso sottovalutato considero il lavoro da lui fatto nel creare un esercito e renderlo vittorioso meritevole, senza considerare la ritirata di New York che è un capolavoro di tattica!
Menzione speciale a Belisario che è stato uno dei più grandi generali esistiti nonostante la sua valenza singola storica sia inferiore rispetto ai personaggi precedentemente citati!
Aegon il mediocre, Confratello:
1) Napoleone
2) Alessandro Magno
3) Cesare
4) Gengis Khan
5) Alessandro Farnese
6) Yi Sun Sin
7) Vo Nguyen Giap
8) Annibale
9) Khalid ibn al-Walid
10) Guderian
Iceandfire, Confratello:
E comunque valutando anche le forze in capo, le possibilità materiali oltre alle reali capacità, mi è venuto di pensare proprio al generale Lee che a lungo ha tenuto in scacco i nordisti che avevano mezzi superiori.
GIL GALAD, Confratello:
Non mi pare di aver ancora letto il suo nome ma avete dimenticato un condottiero che non subì mai sconfitte e che per noi occidentali magari non acchiappa molto l'immaginario ma in Asia solo a nominarlo incute ancora terrore e alcuni sostengono pure che sulla sua tomba ci sia una maledizione: mi riferisco a Tamerlano
Egli si considerava un Ghazi cioè un combattente per la fede ma non attaccò mai un impero cristiano mentre invece fece incetta di avversari mussulmani nel corso del'1300. Spazzò via l'Orda d'Oro dato che si considerava come l'unico vero erede di Gengis Khan, terrorizzò la Persia e il nascente impero Ottomano colpendo sin nell'Anatolia e anche il Sultanato mamelucco e infine sottomise pure l'India dei Tug. Insomma era zoppo ma furono i nemici a uscire con le ossa rotte.
DaenerysArya2510, Confratello:
1. Napoleone
2. Alessandro Magno
3. Gengis Khan
4. Scipione l'Africano
5. Cesare
6. Annibale
7. Federico II
8. Ciro Il Grande
9. Guglielmo il Conquistatore
10. Erwin Rommel
hacktuhana, Confratello. Mi limito a fare tre nomi:
1) Alessandro Magno.
2) Genghis Khan.
3) Annibale.
Avrei messo Annibale primo, ma la grandezza e l'espansione degli imperi dei primi due restano scolpiti nel mito, per sempre. Detto questo, da Napoleone e Cesare, a tutti gli altri nomi che vi ho visti elencare, non posso che dire: giusto, vero, complimenti. Per personale simpatia ricordo: Toro Seduto, capo Giuseppe e Alarico (quest'ultimo per i miei "limitati" punti di vista, fu un grande, che ad esempio preferisco al "mito" di Attila).
GARIBALDI E I MILLE? UN INVESTIMENTO.
Garibaldi e i Mille? Un investimento, scrive Luciano Canova su "Lavoce.info" il 28 dicembre 2011 e pubblicato su "Il Fatto Quotidiano". La spedizione dei Mille è stato uno degli eventi cruciali per l’unificazione d’Italia. Ai tempi non c’era internet ma il telegrafo, Parigi era la Borsa di riferimento e i prestiti erano erogati dalle grandi famiglie dei banchieri e non dall’Fmi. Eppure mercati finanziari e debito pubblico ebbero un ruolo nello sgretolamento del regno borbonico e nel successo dei garibaldini. E, col senno di poi, è un po’ come se Garibaldi avesse detto “obbedisco!” non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild. Studiando la serie storica delle quotazioni del debito pubblico borbonico, durante il 1860, è possibile rispondere a una domanda assai interessante, anche per i suoi riflessi attuali: i mercati finanziari dell’epoca avevano scontato la spedizione dei Mille? Indubbiamente, i mercati anticipano accadimenti incerti, che valutano attraverso la lente deformante delle aspettative. Se, però, nell’era di Internet, i mezzi di comunicazione consentono un aggiornamento immediato di quello che avviene ai piani alti, è lecito chiedersi se le cose funzionassero in modo simile anche in passato, in particolare per un evento che ha segnato la storia di questa penisola. Un’analisi è possibile andando a recuperare le quotazioni giornaliere della rendita di Sicilia del 1860, pubblicate sulla pagina commerciale del quotidiano dei Borbone, Il Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, conservate presso l’Archivio storico municipale del comune di Napoli e presso l’Archivio storico della Fondazione Banco di Napoli. Come riportato dal lavoro La borsa di Napoli di Maria Carmela Schisani, anche nel diciannovesimo secolo esisteva una borsa valori in cui venivano negoziati titoli, prevalentemente del debito pubblico, dei vari stati. La borsa venne istituita a Napoli nel 1788 da Ferdinando I di Borbone e attraversò la storia del regno delle Due Sicilie fino al 1860, con la caduta di Francesco II. Il titolo del debito pubblico era emesso in ducati, la moneta del regno, e aveva una rendita fissa del 5 per cento alla scadenza. Parigi costituiva la Wall Street dell’epoca e sui suoi valori risultavano agganciate le quotazioni dei titoli napoletani. Come a dire che lo spread si sarebbe misurato sui titoli francesi. La finanza, allora, era organizzata attorno a grandi famiglie: un ruolo di primo piano, in particolare, fu esercitato dai Rothschild, che erogarono ai Borbone diversi prestiti nel corso della loro storia. In sostanza, la famiglia di banchieri agiva come una sorta di Fondo monetario internazionale ante litteram, che garantiva prestiti onerosi dietro l’impegno ad approvare riforme politiche e fiscali rigorose da parte dei beneficiari. Non è un caso se Ferdinando II, re di Napoli dal 1830, iniziò un programma radicale di modernizzazione del regno proprio in concomitanza con uno di questi prestiti. E non è un caso che, dopo il 1848, il regno cominciò a sfaldarsi, anche per via del disimpegno dei Rothschild stessi dalle finanze partenopee. Tornando all’avventura garibaldina, poco prima dell’inizio della spedizione, il titolo del debito pubblico borbonico raggiunse il suo massimo: 120,06 ducati nel 1857. Si tratta di una fase che potremmo considerare come una sorta di bolla speculativa. Prima dell’inizio della spedizione dei Mille, l’Europa guardava al Regno delle Due Sicilie come a una monarchia in crisi irreversibile. Si trattava soltanto di capire di che morte il regno dovesse morire, un po’ come capitato con la fine del governo Berlusconi. Il grafico in alto (visibile qui) mostra l’andamento della serie delle quotazioni giornaliere del debito pubblico borbonico durante il 1860. La retta verticale segna l’inizio della spedizione. Come è possibile evincere, le quotazioni del debito crollano con l’avanzare dei garibaldini. La spedizione di Garibaldi è un’impresa decisamente non lineare, che procede per salti discreti. Indubbiamente, da un punto di vista numerico, lo scontro appariva impari: un migliaio di volontari, male armati e peggio equipaggiati, contro le 100mila unità di cui contava, almeno sulla carta, l’esercito regolare di Francesco II. Seguire la spedizione attraverso le contrattazioni sul mercato ci consente di fare luce, in un modo assai originale, sull’evento. Dallo sbarco avvenuto a Marsala l’11 maggio alla battaglia di Calatafimi, quattro giorni dopo (il primo grosso smacco per l’armata borbonica) il titolo perse 4,4 punti percentuali. Dopo Calatafimi, i Mille puntarono verso Palermo, dove, a protezione della città, stava il grosso del contingente borbonico sull’isola (25 mila unità). In pratica, Garibaldi conquistò la città senza combattere, sfruttando insieme la sua abilità tattica e la disorganizzazione delle truppe regie, guidate da Ferdinando Lanza. Al 19 giugno, data di caduta della città, il titolo aveva perso 10 punti percentuali, fermo a 103 ducati. Luglio fu sostanzialmente un mese di stasi: i garibaldini si organizzarono in Sicilia mentre, allo stesso tempo, pianificavano lo sbarco in continente; i borbonici, a Napoli, preparavano invece la controffensiva. Quest’incertezza si concretizzò, non casualmente, in un periodo di immobilismo delle contrattazioni, con il titolo che reagisce, sì, alla battaglia di Milazzo (19 luglio) perdendo altri 5,5 punti percentuali (96 ducati), ma rimane, poi, sostanzialmente stabile, un po’ come lo spread italiano oggi, fermo da giorni sulla soglia dei 500 punti. Dallo sbarco in Calabria e fino alla caduta di Napoli e del Regno, con la battaglia del Volturno che si conclude il 1° ottobre 1860, e l’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano il 26 ottobre, il valore del titolo scese a 87 ducati, con una perdita di altri 9,2 punti percentuali. Il crollo si arrestò nel momento in cui i Savoia proclamarono ufficialmente che, con l’istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico, avrebbero onorato il pagamento del debito anche degli Stati pre-unitari annessi, da vero e proprio last resort lender. Il titolo borbonico, da quel momento, andò assestandosi sui valori della rendita sabauda. La scaltrezza di Cavour e della casa regnante di Torino, dapprima informalmente ostili all’avventura garibaldina e, successivamente, pronti a sfruttare l’opportunità politica offerta dal successo della spedizione, si riflesse nei corsi del debito, che fotografano come in un elettrocardiogramma le pulsazioni della finanza dell’epoca, pronta a sintonizzarsi sui ritmi di un cuore Savoia. A nulla valsero le promesse di riforma costituzionale di Francesco II, dopo il 25 giugno 1860. A nulla servì la controinformazione del regno, ben evidenziata dal Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, che parlava di brillanti successi dell’esercito regio contro una masnada di “filibustieri”, proprio mentre i “buoni del tesoro”, inesorabili, cadevano sotto gli occhi della casa regnante in crisi. Uno degli aspetti più interessanti di questa straordinaria vicenda è appunto l’informazione, che aumentò l’incertezza attorno all’evento e, con essa, le fibrillazioni del mercato internazionale. Ibookies dell’epoca avrebbero avuto le loro difficoltà a scommettere sugli eventi. Era chiara, da un lato, la decadenza del regno borbonico; meno chiara, la via d’uscita: un trionfo elettorale della coalizione Garibaldi-Mazzini o un governo tecnico Cavour, per rassicurare i mercati? Col senno di poi, è un po’ come se Garibaldi avesse detto “obbedisco!” non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild. Luciano Canova è attualmente docente di economia ed economia comportamentale alla Scuola Mattei di Enicorporateuniversity, si occupa di economia pubblica, economia dello sviluppo ed economia ambientale. Di ritorno in Italia dopo due anni di esperienza alla Paris School of Economics nell’unità Microsimula (valutazione delle politiche pubbliche) ha conseguito il dottorato in Modelli Quantitativi per la Politica Economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore e, in precedenza, un Master of Arts in Development Economics alla University of Sussex.
GIUSEPPE GARIBALDI, MERCENARIO DEI DUE MONDI.
Giuseppe Garibaldi, mercenario dei due mondi. Scritto da Alessandro Lattanzio, il 24/6/2011 su “Aurora”. Per mettere un pietra tombale sul mito di Garibaldi. I festeggiamenti per il 200° anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, e per il 150° anniversario dallo sbarco a Marsala e dalla proclamazione della cosiddetta Unità d’Italia, pur con tutto lo stantio corteo di corifei e apologeti, non hanno suscitato dibattiti né analisi sul processo di unificazione dell’Italia. Questi eventi non sono diventati occasione per affrontare i nodi della storia italiana, o meglio italiane. Niente di niente. Neanche gli atenei o le accademie, né ricercatori e né docenti, hanno avuto il coraggio di affrontare, in modo serio e complessivo, la natura del processo storico italiano che va dall’Unità ad oggi. Anzi, il General Intellect italiano, a ennesima dimostrazione della sua subalternità e del suo provincialismo, ha solo prodotto qualche raccolta di ‘memorie’ dei garibaldini, veri o presunti poco importa, spacciandola come lavoro storico e di analisi storica. Nulla di più falso, poiché ogni vero storico sa che la memorialistica è altamente inaffidabile; e l’Italia è la patria delle ‘memorie’ scritte per secondi fini politico-personalistici. Inoltre, voler costruire la storia patria raccogliendo le memorie di una parte sola, che ha una memoria… appunto parziale, ha più il sapore dell’opera di indottrinamento e della retorica, piuttosto che della onesta e disinteressata ricerca storica. Capisco che in questi anni di disfacimento nazionale, di contestazione dell’Italia quale nazione unica, e dell’italianità quale sentimento patriottico, alcuni settori ideologicamente e strumentalmente legati al cosiddetto risorgimento sentano il bisogno di ravvivare un patriottismo nazionale che almeno salvaguardi la concezione, attualmente propagandata nelle scuole e nei media, che si ha della storia italiana. Soprattutto proprio quella riguardante il periodo della costituzione della sua statualità unitaria. Ma il fatto è che, con il riproporsi di schemi patriottardi e di affabulazioni devianti, non si renda proprio un buon servizio neanche alla storia dell’Italia. La figura di Giuseppe Garibaldi, in tal caso, è centrale; non in quanto super-uomo o eroe di uno o più mondi. Ma in quanto strumento di forze superiori, ma non sto parlando della Storia con la S maiuscola, ma più prosaicamente di mercati, risorse, capitali, commerci, banche e finanza, ecc. Insomma, delle regole e dinamiche dettate dai rapporti di forza tra potenze coloniali, tra i nascenti imperialismi, l’equilibrio tra potenze regionali e mondiali. E in questo contesto deve essere inserita, appunto, la figura di Garibaldi. Lasciamo agli affabulatori e agli annebbianti i raccontini sull'eroe dei due mondi e sul Cincinnato di Caprera. Partiamo, quindi, dall’analizzare il ruolo e la posizione dell’obiettivo principe della più notoria spedizione dell’avventuriero nizzardo: la Sicilia. La Sicilia, granaio e giardino del Regno di Napoli (o delle Due Sicilie), oltre ad avere una economia agricola abbastanza sviluppata, almeno nella sua parte orientale, ovvero una agrumicoltura sostenuta e avanzata, necessaria ad affrontare il mercato internazionale, sbocco principale di tale tipo di coltura; possedeva una forte marineria, assieme a quella di Napoli, tanto da essere stata una nave siciliana la prima ad inaugurare una linea diretta con New York e gli Stati Uniti d’America. Marineria avanzata per sostenere una avanzata produzione agrumicola destinata al commercio estero, come si è appena detto. Capitalismo, altro che gramsciana arretratezza feudale. Ma il fiore all’occhiello dell’economia siciliana era rappresentata da una risorsa strategica, all’epoca, ovvero lo zolfo. Lo zolfo e i prodotti solfiferi, erano estremamente necessari per il nascente processo di industrializzazione. Lo zolfo veniva utilizzato per la produzione di sostanze chimiche, come conservanti, esplosivi, fertilizzanti, insetticidi; oltre che per produrre beni di uso quotidiano, come i fiammiferi. Era insomma il lubrificante del motore dell’imperialismo, soprattutto di quello inglese. Con la rivoluzione nella tecnologia navale, ovvero la nascita della corazzata, e la diffusione delle ferrovie in Europa, e non solo, ne fanno montare la domanda e, quindi, la necessità di sempre maggiori quantità di acciaio, ferro e ghisa. Perciò, i processi produttivi connessi richiedono sempre più ampie quantità di zolfo; cosi come la richiedono l’economia moderna tutta, industriale e commerciale. Tipo quella dell’Impero Britannico. La Sicilia, alla luce dei mutamenti epocali che si vivevano alla metà dell’800, diventa un importante obiettivo strategico, un asset geo-politicamente e geo-economicamente cruciale. Difatti l’Isola possedeva 400 miniere di zolfo che, all’epoca, coprivano circa il 90% della produzione mondiale di zolfo e prodotti affini. Come poteva, l’Isola, essere ignorata dai centri strategici dell’Impero di Sua Maestà? Come potevano l’Ammiragliato e la City trascurare la posizione della Sicilia, al centro geografico del Mediterraneo, proprio mentre si stava lavorando per realizzare il Canale di Suez? La nuova via sarebbe divenuta l’arteria principale dei traffici commerciali e marittimi dell’Impero Britannico. Come potevano ignorare tutto ciò i Premier e i Lord, gli imperialisti conservatori e gli imperialisti liberali, i massoni e i missionari d’Albione? Come? E come potevano dimenticare che, all’epoca, il Regno di Napoli e le marinerie di Sicilia e della Campania, marinerie mediterranee, fossero dei temibili concorrenti per la flotta commerciale inglese? Come potevano? Il General Intellect dell’imperialismo inglese, il maggiore dell’epoca, non poteva certo ignorare e trascurare simili fattori strategici. Loro no. Semmai a ignorarlo è stato tutto il circo italidiota dei cantori del Peppino longochiomato e barbuto. Tutti i raccoglitori di cimeli garibaldineschi, più o meno genuini, non hanno mai avuto il cervello (il cervello appunto!) di capire e studiare questi trascurabili elementi. La Sicilia è terra di schiavi e di africani, barbara e senza storia, non vale certo un libro che ne spieghi anche solo il valore materiale. Così vuole la vulgata dei nostrani storici accademici; o di certe ‘storiche’ contemporanee venete che, invece delle vicende dell’assolata terra triangolata, preferiscono dedicarsi alle memorie della masnada di mercenari vestiti delle rosse divise destinate, non a caso, agli operai del mattatoio di Montevideo. Tralasciando la biografia e gli interessi dei fratelli Rubattino, che attuarono quella vera e propria False Flag Operation detta Spedizione dei Mille, giova ricordare che Garibaldi, dopo la riuscita missione (covert operation), venne accolto presso la Loggia Alma Mater di Londra. Vi fu una festa pubblica, di massa, che lo accolse a Londra e lo accompagnò fino alla sede centrale della massoneria anglo-scozzese. La più grande pagliacciata a cui abbia mai assistito scrisse un testimone diretto dell’evento. Un tal Karl Marx. Giuseppe Garibaldi venne scelto da Londra, poiché si era già reso utile alla causa dell’impero britannico. In America Latina, quando gli inglesi, tramite l’Uruguay, favorirono la secessione della provincia brasiliana di Rio Grande do Sul dall’impero brasiliano, alimentandola guerra civile in Brasile, Garibaldi venne assoldato per svolgere il ruolo di raider, ovvero incursore nelle retrovie dell’esercito brasiliano. Il suo compito fu di sconvolgere l’economia dei territori nemici devastando i villaggi, bruciando i raccolti e razziando il bestiame. Morti e mutilati tra donne e bambini abbondarono, sotto i colpi dei fucili e dei machete dei suoi uomini. Durante quelle azioni, Garibaldi ebbe la guida delle forze navali riogradensi. “Il 14 luglio 1838, al comando della sua nave, la Farroupilha, affrontò la navigazione sull’Oceano Atlantico, ma a causa del mare in tempesta e dell’eccessivo carico a bordo, la Farroupilha si rovesciò. Annegarono sedici dei trenta componenti dell’equipaggio, tra cui gli amici Mutru e Carniglia; il nizzardo fu l’unico italiano superstite.” Dimostrando, così, il suo vero valore sia come comandante militare, che come comandante di nave. Per la sua inettitudine e crudeltà, tanti di coloro che lo circondavano morirono per causa sua. Il compito svolto da Garibaldi rientrava nella politica di intervento coloniale inglese nel continente Latinoamericano; la nascita della repubblica-fantoccio del Rio Grande do Sul, rientrava nel processo di controllo e consolidamento del flusso commerciale e finanziario di Londra verso e da il bacino del Rio de la Plata; la regione economicamente più interessante per la City. Escludere l’impero brasiliano dalla regione era una carta strategica da giocare, perciò Londra, tramite anche Garibaldi, al soldo dell’Uruguay, provocò la guerra civile brasiliana. La borghesia compradora di Montevideo era legata da mille vincoli con l’impero inglese. Ivi Garibaldi svolse sufficientemente bene il suo compito. Divenne un bravo comandante militare, sia grazie ai consigli di un carbonaro suo sodale, tale Anzaldo, e sia perché si trovò di fronte i battaglioni brasiliani costituiti, per lo più, da schiavi neri armati di picche. Facile averne ragione, se si disponeva della potenza di fuoco necessaria, che fu graziosamente concessa dalla regina Vittoria. Ma alla fine la guerra fu persa, e nel 1842 Garibaldi si rifugiò in Uruguay, dove ottenne il comando della insignificante flotta locale. “Il diplomatico inglese William Gore Ouseley lo assolda assieme ad altri marinai per fare razzie e impedire i traffici marini degli stati latinoamericani. Erano tutti vestiti con camicie rosse.” Tentò di pubblicare il Legionario Italiano, ma la sua distribuzione venne vietata in Uruguay: si era attirato l’odio della popolazione locale; per i continui massacri di inermi cittadini veniva visto come il demonio. E’ grazie agli articoli di quel giornale, da lui stesso pubblicato, che nacque la leggenda dell’Eroe dei due mondi. Tra l’altro, l'anticlericale Garibaldi, nel 1847 scrisse al cardinal Gaetano Bedini, nunzio in Brasile, per “offrire a Sua Santità (Pio IX) la sua spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa cattolica” ricordando “i precetti della nostra augusta religione, sempre nuovi e sempre immortali” pur sapendo che “il trono di Pietro riposa sopra tali fondamenti che non abbisognano di aiuto, perché le forze umane non possono scuoterli”. La sua proposta di mettersi al soldo del cupolone venne respinta. Qualche anno dopo, l’eroe dei due mondi venne richiamato a Londra, distogliendolo dal suo ameno lavoro: il trasporto di coolies cinesi, ovvero operai non salariati, da Hong Kong alla California. La carne cinese era richiesta dal capitale statunitense per costruire, a buon prezzo, le ferrovie della West Coast. Garibaldi si prodigava nel fornire l’‘emancipazione’ semischiavista agli infelici cinesi, in cambio di congrua remunerazione dai suoi presunti ammiratori yankees. Coloro che richiesero l’intervento di Garibaldi, in Sicilia, effettivamente furono due siciliani, Francesco Crispi e Giuseppe La Farina. Crispi venne inviato a Londra, presso i suoi fratelli di loggia, per dare l’allarme al gran capitale inglese: Napoli stava trattando con una azienda francese per avviare un programma per meccanizzare, almeno in parte, le miniere e la produzione dello zolfo. Il progettato processo di modernizzazione della produzione mineraria siciliana, avrebbe alleviato il popolo siciliano dalla piaga del lavoro minorile semischiavistico delle miniere di zolfo. Ma i baroni proprietari delle miniere, stante l’alto margine di profitto ricavato dal lavoro non retribuito, e timorosi che l’interventismo economico della ‘arretrata amministrazione borbonica’, potesse sottrarre loro il controllo dell’oro rosso, decisero di chiedere l’intervento britannico, allarmando Londra sul destino delle miniere di zolfo. Non fosse mai che lo stolto Luigi Napoleone potesse controllare il 90% di una materia prima necessaria alle macchine e alle fornaci del capitale imperiale inglese. Tutto ciò portò alla chiamata alle armi del loro eroe dei due mondi. E i ‘carusi’ delle miniere solfifere devono ringraziare Garibaldi, e i suoi amici anglo-piemontesi, se la loro condizione semischiavista si è protratta fino agli anni ’50 del secolo scorso. Le due navi della Rubattino, della Spedizione dei Mille, arrivarono a Marsala l’11 maggio 1860. Ad attenderli non vi erano unità della marina napoletana o una compagnia del corpo d’armata borbonico, forte di 10000 uomini, stanziata in Sicilia e comandata dal Generale Landi. In compenso era presente una squadra della Royal Navy, la Argus e l‘Intrepid, posta nella rada di Marsala, a vigilare affinché tutto andasse come previsto. I 1089 garibaldini, di cui almeno 19 inglesi. In realtà, erano solo l’avanguardia del vero corpo d’invasione; tra giugno e agosto, infatti, sbarcò in Sicilia un’armata anglo-piemontese di 21000 soldati, per lo più mercenari anglo-franco-piemontesi, che attuarono, già allora, la tattica di eliminare qualsiasi segno di riconoscimento delle proprie forze armate. Il corpo era costituito, in maggioranza, da carabinieri e soldati piemontesi, momentaneamente posti in congedo o disertori riarruolati come volontari nella missione d’invasione, e anche da qualche migliaio di ex zuavi francesi, che avevano appena esportato la civiltà nei villaggi dell’Algeria e sui monti della Kabilya. Anche nei pressi di Pachino, sbarcò un piccolo corpo di spedizione garibaldino, costituito da 150 uomini, che trasportavano in Sicilia i quattro cannoni acquistati a Malta dagli sponsor inglesi dell’invasione. Inoltre, erano presenti dei veri e propri volontari/mercenari, finanziati per lo più dall’aristocrazia e dalla massoneria inglesi; si trattava di un misterioso reggimento di uomini in divisa nera, comandati da tal John Dunn. Infine, i 21000 invasori furono protetti da ben quaranta tra vascelli e fregate della Mediterranean Fleet della Royal Navy. Il primo scontro a fuoco, tra garibaldini e l’8.vo battaglione cacciatori napoletani, del 15 maggio, si risolse ufficialmente nella sconfitta di quest’ultima. Fatto sta che nella breve battaglia di Calatafimi, a fronte delle perdite dell’esercito napoletano, che ebbe una mezza dozzina di feriti, i garibaldini vennero letteralmente sbaragliati, subendo circa 30 morti e 100 feriti. In realtà, nella mitizzata battaglia di Calatafimi, i soldati napoletani che cozzarono con l’avventuriero Garibaldi dovettero sì abbandonare il campo, ma perché il comandante di Palermo, generale Landi, aveva loro negato l’invio di rifornimenti e di munizioni, costringendo la guarnigione borbonica non solo a smorzare l’impeto con cui affrontarono i garibaldini, ma anche ad abbandonare il terreno, quindi, lasciando libero Garibaldi nel proseguire l’avanzata su Palermo. L’armata di Landi, di circa 16000 uomini, era accampato nei pressi di Calatafimi, ma il generale napoletano preferì ritirarsi e rinchiudersi a Palermo. A Palermo, il 28 maggio 1860, dopo due gironi di scontri presso Porta Termini, nell’allora periferia della capitale siciliana, contro un centinaio di soldati napoletani, i garibaldini entrarono in città. Il comandante della guarnigione borbonica, Generale Lanza, sebbene avesse il comando di ben 24000 uomini e fosse sostenuto dall’artiglieria della pirofregata Ercole, li fece invece asserragliare nel palazzo del governatore, e quando parte delle truppe napoletane respinsero i garibaldini, arrivando a cento metri dal posto di comando di Garibaldi, ricevettero l’ordine di ritirata dal Lanza stesso, che l’8 giugno decise di consegnare la città agli anglo-garibaldini. Contribuì alla decisione, probabilmente, la consegna da parte inglese di un forziere carico di piastre d’oro turche. La moneta franca del Mediterraneo. Il 31 maggio, a Catania, sebbene i garibaldini occupassero la città, nell’arco di ventiquattrore vennero sloggiati dalle truppe napoletane comandate da Ruiz-Ballestreros. Ma anche costui ricevette l’ordine di ritirata dal comandante della piazza di Messina, generale Clary, che a sua volta, col pieno appoggio del corrotto e fellone ministro della guerra di Napoli, Pianell, abbandonò Messina il 24 luglio. Rimase a resistere la cittadella, che cadde quando cedette anche Gaeta. L’avanzata dei garibaldini, rincalzati dal corpo d’invasione che li seguiva, incontrò un ostacolo quasi insormontabile presso Milazzo. Qui, il 20 luglio, la guarnigione napoletana impose un pesante pedaggio ai volontari di Garibaldi. Infatti la battaglia di Milazzo ebbe un risultato, per Garibaldi, peggiore di quella di Calatafimi. A fronte dei 120 morti tra i napoletani guidati dal Colonnello Beneventano del Bosco, le ‘camicie rosse’ al comando del primo luogotenente di Garibaldi, Medici, subirono ben 800 caduti in azione. La guarnigione napoletana si ritirò, in buon ordine e con l’onore delle armi da parte garibaldina! Ma solo quando, all’orizzonte sul mare, si profilò una squadra navale anglo-statunitense, con a bordo una parte del vero e proprio corpo d’invasione mercenario, e dopo che la pirocorvetta ex-napoletana Veloce, ribattezzata Tukory, al comando del disertore Amilcare Anguissola, bombardasse parte delle truppe napoletane schierate sulla spiaggia. Inoltre, le navi napoletane, lasciarono che il corpo anglo-piemontese sbarcasse alle spalle della guarnigione nemica di Milazzo. Va sottolineato che i vertici della marina borbonica, come quelli dell’esercito napoletano, erano stati corrotti con abbondanti quantità di oro turco e di prebende promesse nel futuro regno unito sabaudo. Così si spiega il comportamento della marina napoletana, che alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, sequestrò una nave statunitense carica di non meglio identificati soldati (i notori mercenari), ma che subito dopo la rilasciò. Così come, nello stretto di Messina, la squadra napoletana (pirofregata Ettore Fieramosca, pirocorvette L’Aquila e Fulminante) evitò di ostacolare, ai garibaldini, il passaggio del braccio di mare, permettendo a Garibaldi e a Bixio, a bordo dei piroscafi Torino e Franklin (battente bandiera statunitense), di sbarcare il 18 agosto, a Mileto Porto Salvo, in Calabria. La guarnigione di Reggio si arrese senza sparare un colpo, mentre il generale napoletano Briganti venne fucilato a Mileto dalla sua truppa, per fellonìa. Dal reggino in poi, fu una corsa fino all’entrata ‘trionfale’ a Napoli, dove Garibaldi fece subito assaggiare il nuovo ordine savoiardo: i suoi ufficiali fecero sparare sugli operai di Pietrarsa, poiché si opponevano allo smantellamento delle officine metalmeccaniche e siderurgiche fatte costruire dall'arretrata amministrazione borbonica. Certo, il regno delle Due Sicilie era fu reame particolarmente limitato, almeno sul piano della politica civica, ma nulla di eccezionale riguardo al resto dei regni italiani. Di certo fu che la monarchia borbonica, dopo il disastro della repressione antiborghese della rivoluzione partenopea del 1799, avviò una politica che permise il prosperare, nell’ambito della proprio apparato amministrativo e di governo, degli elementi ottusi, malfidati e corrotti. Condizione necessaria per poter perdere, in modo catastrofico, la più piccola delle guerre. In seguito ci fu la battaglia del Volturno, già perduta dai borbonici, poiché presi tra due fuochi: i mercenari di Garibaldi a sud e l’esercito piemontese a nord. E quindi l’assedio di Gaeta e Ancona, e poi la guerra civile nota come Guerra al Brigantaggio. Una guerra che costò, forse, 300000 vittime. Prezzo da mettere in relazione con i 4000 morti, in totale, delle tre Guerre d’Indipendenza italiane. Solo tale cifra descrive la natura reale del processo di unificazione italiana. La Sicilia, in seguito, venne annessa con un plebiscito farsa; poi nel 1866 scoppiò, a Palermo, la cosiddetta Rivolta del Sette e mezzo, che fu domata tramite il bombardamento dal mare della capitale siciliana. Bombardamento effettuato dalla Regia Marina che così, uccidendo qualche migliaio di palermitani in rivolta o innocenti si riscattò dalla sconfitta di Lissa, subita qualche settimana prima e da cui stava ritornando. Poco dopo esplose, a Messina, una catastrofica epidemia di colera, la cui dinamica stranamente assomigliava alla guerra batteriologica condotta dagli yankees contro gli indiani nativi d’America. Migliaia e migliaia di morti in Sicilia. Tralasciamo di spiegare il saccheggio delle banche siciliane, che assieme a quelle di Napoli, rimpinguarono le tasche di Bomprini e di altri speculatori tosco-padani, ammanicati con le camarille di Rattazzi e Sella; la distruzione delle marineria siciliana; lo stato di abbandono della Sicilia per almeno i successivi 40 anni; la feroce repressione dei Fasci dei Lavoratori siciliani; l’emigrazione epocale che ne scaturì. Infine un novecento siciliano tutto da riscrivere, dall’ammutinamento dei battaglioni siciliani a Caporetto alle vicende del bandito Giuliano, uomo forse legato al battaglione Vega della X.ma MAS, e che fu al servizio degli USA e del sionismo; per arrivare alla vicenda del cosiddetto Milazzismo e a una certa professionalizzazione dell'antimafia (che va a braccetto con quella di certo antifascismo) dei giorni nostri. Garibaldi, una volta sistematosi a Caprera, aveva capito che la Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia, non gli avrebbero perdonato ciò che gli aveva fatto. Rendiamoci conto di una cosa; Garibaldi non agiva in quanto massone, ma in quanto agente dell’impero inglese. Tra l’altro come afferma Lucy Riall, Garibaldi era una aderente alla setta cristologica di Saint Simon. Ora, come spiega benissimo lo Storico dell’Economia Paul Bairoch, la setta cristologica (nemica del papato) guidata dal guru Saint Simon, aveva come scopo occulto il favoreggiamento dell’imperialismo londinese. Nel saggio di Bairoch, Economia e Storia Mondiale Garzanti, a pag. 38 si può leggere: “Quel che i protezionisti francesi (…) chiamarono Coup d’état fu rivelato da una lettera di Napoleone III al suo ministro di stato. Ciò rese pubblici i negoziati segreti, che erano cominciati nel 1846, con l’incontro a Parigi tra Richard Cobden (apostolo inglese del libero scambio, legato all’industria inglese) e Michel Chevalier, seguace di Saint Simon e professore di economia politica. Il trattato commerciale tra Inghilterra e Francia venne firmato nel 1860 (notare la data), e doveva durare 10 anni. Fu trovato il modo di eludere la discussione al parlamento (francese), che probabilmente sarebbe stata fatale per il progetto di legge. Perciò un gruppo di teorici riuscì a introdurre il libero scambio in Francia e, di conseguenza, nel resto del continente, contro la volontà della maggior parte di coloro che guidavano i diversi settori dell’economia. La minoranza a favore del liberoscambismo, che era energicamente sostenuta da Napoleone III (un vero utile idiota, NdR), il quale era stato convertito a questa dottrina durante le sue lunghe permanenze in Inghilterra e che vedeva le implicazioni politiche del trattato. Il trattato anglo-francese, che fu rapidamente seguito da nuovi trattati tra la Francia e molti altri paesi, condusse a un disarmo tariffario dell’Europa continentale… Tra il 1861 e il 1866, praticamente tutti i paesi europei entrarono in quella che fu definita ‘la rete dei trattati di Cobden’.” Garibaldi, seguace della setta di SaintSimon, a sua volta legata ai circoli dominanti inglesi, effettuò l’azione contro il Regno delle Due Sicilie, con il preciso scopo sia di possedere un’Isola (la Sicilia) strategica sia sul piano geo-economico che geo-strategico, ma anche di eliminare un concorrente, Napoli, che aveva le carte in regola per non cadere nella rete di Cobden. Il resto, sulle gesta di Garibaldi, dell’assassino schiavista Nino Bixio, ecc., è solo fuffa patriottarda italidiota.
QUANDO GARIBALDI LADRO LEGITTIMO’ LA MAFIA E LA CAMORRA.
Quando Garibaldi rubò i soldi al Banco di Sicilia e al Banco di Napoli, scrive su "Time Sicilia" Ignazio Coppola. Sulla gloriosa spedizione dei Mille in Sicilia ci hanno raccontato un sacco di menzogne. Non solo non ci fu nulla di eroico, ma Garibaldi svuotò le casse del Banco di Sicilia (depredando 5 milioni di ducati corrispondente a 82 milioni di Euro dei nostri giorni) e poi le casse del Banco di Napoli (depredando 6 milioni di ducati equivalenti a 90 milioni degli attuali Euro). Tutti soldi portati ai Savoia. E noi ancora oggi ricordiamo questo bandito di passo! 11 Maggio 1860, esattamente 156 anni fa, con lo sbarco di Garibaldi a Marsala inizia la invasione del Sud e la sistematica colonizzazione della Sicilia. Uno sbarco che come tutto il resto della spedizione dei Mille, da Calatafimi alla presa di Palermo, sarà un’indegna sceneggiata caratterizzata da squallidi episodi che in termini militari si usano definire di “intelligenza con il nemico”. E di intelligenza con il nemico, a differenza di quanto da sempre ci è stato propinato dalla storiografia ufficiale, è macchiato ed inficiato lo sbarco dei garibaldini a Marsala. Basta rivisitare obbiettivamente le cronache dello sbarco indisturbato della camice rosse di quel lontano giorno alle ore 13,00 del 11 maggio 1861 per rendersi conto dell’accordo sottobanco tra Garibaldini e gli ufficiali della marina borbonica che avrebbero dovuto ostacolare e non lo fecero, se non in ritardo ed a sbarco avvenuto, e tutto questo con la complicità degli inglesi che avevano un forte radicamento economico a Marsala con una notevole presenza di loro bastimenti ancorati in quel porto. Non a caso, da parte di Garibaldi, essendo tutto, con chiare complicità, preparato a dovere, si scelse di sbarcare a Marsala. Le due navi il Piemonte ed il Lombardo – precedentemente prese a Genova non requisendole manu militari (come falsamente viene raccontato dalla storiografia ufficiale), ma pagate attraverso una fidejussione di 500 mila lire (una somma enorme per quei tempi) dagli industriali fratelli Antongini alla società Rubattino – entrano senza colpo ferire nel porto di Marsala, come anzidetto, alle ore 13,00 iniziando, indisturbate, a sbarcare il loro contingentamento mentre le navi della marina borbonica, la corvetta a vapore Stromboli e la fregata a vela Partenope, al comando del capitano Guglielmo Acton che si erano lanciate, con colpevole e sospetto ritardo, all’inseguimento del Piemonte e del Lombardo giungendo in vista del porto di Marsala alle ore 14 pomeridiane rimanevano, restando a guardare, inattive ed assistendo allo sbarco. Restare a guardare Un bel modo davvero per impedire un ‘aggressione armata al territorio sovrano delle Due Sicilie Tutto andava svolgendosi secondo il programma da parte del comandante Acton ossia di dichiarata e manifesta complicità ed “intelligenza con il nemico”. Guglielmo Acton, successivamente ricompensato da tale vergognoso comportamento e tradimento, diverrà ufficiale di grado superiore della marina-italo piemontese. Il tradimento alla fine paga. Ecco quanto scrive al proposito il capitano Marryat, ufficiale della marina inglese, presente e testimone degli avvenimenti di quel giorno, in un suo rapporto che lo si può considerare un vero e proprio atto di accusa nei confronti dell’incomprensibile atteggiamento di Acton: “L’altro vapore era però arenato (si tratta del Lombardo che Bixio aveva mandato a schiantarsi contro il molo) quando i legni napoletani furono a portata con i loro cannoni. I parapetti erano già calati ed i legni a posto. Noi aspettavamo e seguivamo – prosegue Marryat nel suo rapporto – con ansietà per vedere il risultato della prima scarica (che ovviamente non ci fu). Invece di cominciare il fuoco, abbassarono un battello e lo mandarono verso i vapori sardi, ma – a nostra sorpresa – ecco che il vapore napoletano spinge la sua macchina verso l’Intrepido (una nave inglese), anziché impedire più oltre lo sbarco della spedizione”. Di una chiarezza disarmante il rapporto di Murryat sulla espressa volontà di Acton – che ritardò il suo intervento – di non volere ostacolare lo sbarco dei garibaldini giunti sani e salvi a terra e senza un graffio. Solo alcune ore dopo, a sbarco avvenuto e dopo che l’ultimo garibaldino avrà messo piede sul molo di Marsala ed assicuratosi che non vi fossero più ostacoli di sorta allo sbarco degli invasori, Guglielmo Acton si deciderà – troppo tardi, bontà sua – a fare fuoco. Risultato, molti dei colpi finirono in mare, uno uccise un cane che fu l’unica e sola povera vittima di quella giornata e altri ferirono di striscio due garibaldini. A dimostrazione della sua intelligenza e complicità con il nemico dopo il finto cannoneggiamento, il comandante Acton non si preoccupò minimamente di fare sbarcare gli equipaggi delle sue navi per combattere ed inseguire i garibaldini che poterono così entrare a Marsala indisturbati. Con questo atto di ignavia e di tradimento iniziava in Sicilia l’impresa dei Mille. Le battaglie-farsa caratterizzate da tradimenti e corruzioni si ripeteranno poi a Calatafimi e più avanti nella presa di Palermo. Protagonisti, i generali Landi a Calatafimi e Lanza a Palermo. Entrato a Marsala, Garibaldi troverà, tranne il console inglese Collins e qualche rappresentante della stessa colonia inglese presente in quella città, una popolazione ostile ed avversa alla sua venuta. Altro che accoglienze trionfali che falsamente riportano i testi della storiografia ufficiale e scolastica. Ecco quanto scrive Giuseppe Bandi, uno dei maggiori protagonisti dell’impresa garibaldina nel suo libro I Mille a proposito della fredda accoglienza ricevuta dalle camice rosse a Marsala da parte della popolazione locale: “Appena entrato in città, qualche curioso mi si fè incontro, che udendomi gridare: ‘Viva l’Italia e Vittorio Emanuele’, spalancò tanto d’occhi e tanto di bocca e poi tirò di lungo. Le strade erano quasi deserte. Finestre ed usci cominciavano a serrarsi in gran fretta, come suole nei momenti di scompiglio, quando la gente perde la tramontana. Tre o quattro poveracci mi si accostarono stendendo la mano e chiamandomi eccellenza, non altrimenti che io fossi giunto in città, per mio diporto, ed avessi la borsa piena per le opere di misericordia. Si sarebbe detto che quella gente, colta così di sorpresa, non avesse capito un’acca del grande avvenimento che si compiva in quel giorno”. (Purtroppo i siciliani e i meridionali lo capiranno molto bene sulla loro pelle negli anni a venire e sino ai nostri giorni). Questa l’autorevole è testimonianza dello scrittore e ufficiale dell’esercito garibaldino, Giuseppe Bandi, sulle “entusiastiche” accoglienze dei cittadini di Marsala all’ingresso di Garibaldi nella loro città. Garibaldi, nella sua breve sosta a Marsala, incontrandosi poi con il Sindaco ed i decurioni della città non perderà tempo a pretendere che gli consegnassero il denaro contenuto nelle casse comunali. La stessa cosa farà poi depredando ed appropriandosi indebitamente del denaro contenuto nelle casse del Banco di Sicilia a Palermo: 5 milioni di ducati (corrispondente a 82 milioni di Euro dei nostri giorni). Giunto a Napoli fece altrettanto con il Banco di Napoli, impossessandosi di 6 milioni di ducati (equivalenti a 90 milioni degli attuali Euro) depositati nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Così, con questi atti di pirateria e con il saccheggio e la spoliazione sistematica del Sud iniziava la predatoria spedizione dei Mille tanta cara e tanto celebrata dalle menzogne dei nostri storiografi e dai nostri risorgimentalisti.
Quando Garibaldi, i garibaldini e l’Unità d’Italia legittimarono mafia e camorra, scrive il 26 agosto 2016 Ignazio Coppola su "Time Sicilia". Ieri, nella quarta puntata della Controstoria dell’impresa dei Mille, abbiamo sottolineato il ruolo di Garibaldi e dei garibaldini in quella che, alla fine, è stata la prima trattativa tra Stato italiano allora nascente e mafia. Oggi approfondiamo l’argomento avvalendoci della testimonianza di storici e valenti magistrati che si sono occupati di mafia e di rapporti tra la stessa mafia e lo Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’Unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia e sin dai tempi dell’invasione garibaldina che si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860 infatti accorsero, con i loro “famosi picciotti” in soccorso di Garibaldi i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola, di Erice; i fratelli Sant’Anna di Alcamo; i Miceli di Monreale; il famigerato Santo Mele così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi addirittura diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nell’agosto del 1863 nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro” Storia della mafia”, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo, Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joeph Banana, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra “tradizione” (= mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’Unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese. E di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia dei primi anni ’80 del secolo passato, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana, ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo – ed ideatore come anzidetto del pool antimafia di cui allora fecero parte, tra gli altri, gli allora giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione, a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e, successivamente, con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’Unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’Unità d’Italia, ha insanguinato la nostra terra per iniziare con la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e, purtroppo, anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle rispettive scorte. Su Paolo Borsellino le nuove risultanze processuali hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi. Così abbiamo appreso che si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia”. Per essersi opposto alle connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato ha pagato con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgente continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro. Connivenze criminali che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.
ANITA GARIBALDI. LA MENZOGNA DEL GRANDE AMORE.
Garibaldi e Anita? Ma quale grande amore! La vera storia della moglie morta strangolata. Da chi? Scrive Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri" l'8 aprile 2017. Un bell’interrogativo che la dice lunga – ma veramente molto lunga – su un personaggio del risorgimento sul quale gli storici ‘officiali’ del nostro Paese hanno scritto e continuano a scrivere cumuli di bugie. Anche nella vicenda della morte della moglie Anita, Garibaldi ne esce malissimo. Ombre pesanti che non sono legate a dicerie, ma a fatti di cronaca ancora oggi rintracciabili: fatti che sono stati semplicemente nascosti per dare al mondo un’immagine sbagliata di questo personaggio torbido. Ed è del periodo riograndese l’incontro di Giuseppe Garibaldi con Anita, che la dice, anche qui lunga, su questo “gentiluomo” senza scrupoli. È lui stesso nelle sue memorie a raccontare dettagliatamente dell’incontro avvenuto nell’ottobre del 1838 con la donna che poi lo seguirà per undici anni nella sua avventurosa esistenza, condividendo le sue peripezie prima di finire abbandonata, morente, in fuga dagli austriaci nella pineta di Ravenna. “Passeggiavo sul cassero della mia nave – ricorda il nizzardo – perso nei miei cupi pensieri. A un tratto, posai lo sguardo all’ingresso della Laguna dove vi erano alcune pittoresche e semplici abitazioni. Puntando il cannocchiale, che abitualmente tenevo a portata di mano quand’ero sul cassero, vidi una giovane e ordinai che mi portassero immediatamente a terra in quella direzione. Appena sbarcato, mi diressi dove avrebbe dovuto essere la meta del mio viaggio. Ma non trovai nulla. Per caso incontrai un abitante del luogo, che avevo conosciuto subito dopo il mio arrivo in città (si trattava di Manoel Duarte, il legittimo marito di Anita) e egli mi invitò a prendere un caffè a casa sua. Entrammo e la prima persona che vidi era la donna che mi aveva spinto a sbarcare. Era Anita”. “Restammo affascinati, guardandoci come persone che non si vedono per la prima volta e che cercano, sul viso dell’altra, qualcosa che aiuti a ricordare – scrive sempre Garibaldi -. La salutai e le dissi: devi essere mia (coupe de foudre, da vero tombeurs des femmes). Parlavo poco il portoghese e pronunciai in italiano queste parole impertinenti. Comunque, la mia insolenza fu magnetica. Avevo stretto un nodo, una sentenza che solo la morte poteva distruggere. Se vi fu colpa, fu interamente mia. E vi fu colpa. Due cuori si univano e si annientava l’esistenza di un innocente. Ora lei è morta, io sono infelice e lui è vendicato. Così capii il male che avevo fatto”.
Una confessione postuma, nelle sue memorie, di colpevolezza e di rimorso nei confronti di Anita ma, soprattutto, nei confronti dell’incolpevole marito. Che fine abbia fatto Manoel Duarte non si sa. Qualcuno azzardò a dire che, per non essere d’ingombro, lo sfortunato marito fu eliminato. A rafforzare questa tesi, la testimonianza postuma di un discendente del marito tradito, Taciano Barreto Nascimento, che così riferisce nel 1935 a proposito delle memorie della sua famiglia: “Anita, sposatasi con Manoel, andò a vivere in casa del bisnonno, Joao Duarte, sulla collina di Barra, di fronte al molo dove ancoravano le navi dei farrapos. Garibaldi, frequentando la casa dei Duarte, conobbe Anita e se ne innamorò. Il marito di Anita fu arrestato dai soldati di Garibaldi e quest’ultimo si impossessò della ragazza con la quale già amoreggiava”.
L’eroe dei due mondi, secondo la versione del discendente del legittimo marito, s’era impegnato a liberare il Duarte ma, a quanto pare, i soldati lo avevano già ucciso. All’atto del matrimonio, celebrato a Montevideo il 26 marzo 1842, Aña Maria de Jesus Ribeiro da Silva, stranamente, risultava nubile. Dall’unione con Anita, Garibaldi ebbe quattro figli: Menotti, Rosita (morta a 2 anni), Teresita e Ricciotti. Ma, se un alone di dubbio e mistero caratterizzò l’incontro tra Garibaldi e Anita a proposito della scomparsa del suo marito legittimo, ancora più di giallo si tinge la morte della stessa Anita avvenuta il 4 agosto del 1849. Garibaldi, in fuga dalla Repubblica Romana e inseguito dalle truppe austriache e papaline, ai primi di agosto, lasciata San Marino con i pochi uomini che gli erano rimasti e con Anita in gravissimo stato, cercava di arrivare alla costa romagnola per poi raggiungere Venezia. Braccato dagli inseguitori, trovò alla fine rifugio nella fattoria Guiccioli, in località delle Mandriole, nei pressi di Ravenna.
Il fattore Ravaglia e la moglie assieme al medico Piero Nannini prestano i soccorsi alla morente Anita che, a detta di Garibaldi, cessò di vivere tra le sue braccia alle 7 e tre quarti del 4 agosto 1849. Così riporta nelle sue memorie: “Le presi il polso, più non batteva. Avevo davanti il cadavere di colei che io tanto amava. Piansi amaramente la perdita delle mia cara Anita. Raccomandai alla buona gente che mi circondava di dare sepoltura a quel cadavere e mi allontanai sollecitato dalla stessa gente di casa che io compromettevo rimanendo più tempo”.
Fin qui il racconto di Garibaldi che non fa una grinza. Ma la vicenda si tinge a forti tinte di giallo quando, sei giorni dopo la morte, il 10 agosto, una ragazzina del luogo, tale Speranza, rientrando nella propria casa che sorgeva a breve distanza della fattoria Guiccioli, inciampa in qualcosa di indefinito e, con grande raccapriccio e paura, s’accorge che si tratta di una mano che emerge da uno strato di sabbia ed è scarnificata perché probabilmente divorata dai cani. Intervengono la polizia del luogo e le autorità competenti. Viene dissotterrato un cadavere. È quello del corpo in decomposizione e martoriato di Anita Garibaldi. “Trattasi del cadavere di Anita Garibaldi incinta e moglie del bandito Giuseppe Garibaldi, che tra l’altro presenta segni non equivoci di sofferto strangolamento”, scriverà poi nel suo rapporto il delegato di polizia riprendendo il referto, in seguito all’esame autoptico eseguito dal medico legale, il professor Luigi Foschini primario dell’ospedale di Ravenna.
Certificata morte per strangolamento, dunque. Ma allora che cosa accadde alle ore 7 e tre quarti del 4 agosto? Anita era ancora viva, a differenza di quanto sostiene Garibaldi nelle sue memorie? E chi la uccise, strangolandola per eliminare, essendo lei debole e malata, un ostacolo alla fuga del marito o un pericolo compromettente la sua presenza alla fattoria Guiccioli? Motivi per cui, essendo ancora viva, era opportuno in qualunque modo disfarsene. Sorge per questo una miriade di interrogativi e illazioni. Le autorità, in un primo momento, fanno balenare l’ipotesi che sia stato lo stesso Garibaldi a uccidere la moglie incinta. Poi procedono all’arresto del fattore Ravaglia e di sua moglie sotto l’accusa di correità e complicità nel supposto omicidio dell’incognita donna del ben noto Garibaldi e di ospitalità al ricercato. Al processo, i Ravaglia saranno assolti. Tutto chiaro? Mica tanto!
Ma, allora, chi ha strangolato Anita? Si mormorò allora che il processo fosse pilotato per evitare lo scandalo che sicuramente avrebbe coinvolto il marchese Guiccioli, persona di grande prestigio e notabile del luogo. Per i Ravaglia, finiti i guai giudiziari, continuarono quelli con il più terribile brigante romagnolo di quei tempi: Stefano Pelloni, detto il Passator Cortese, il quale, convinto che i Ravaglia si fossero impossessati di un tesoro abbandonato da Garibaldi in fuga, cercò in tutti i modi di far loro rivelare, con le buone e con le cattive, il luogo dove avevano nascosto l’ipotetico tesoro. Di ciò non se ne seppe più niente, sottaciuto da storiografi e agiografi compiacenti, ma rimane il be-neficio del dubbio su una vicenda poco chiara da cui Garibaldi, certamente, ancora una volta non ne esce molto bene. Come altrettanto poco bene, anzi ridicolizzato, se ne uscirà dal suo secondo matrimonio da commedia all’italiana, quando lui aveva già 52 anni con la giovanissima marchesina Giuseppina Raimondi, e celebrato a Como il 24 gennaio del 1860. Un matrimonio che durò in tutto poco meno di un’ora e che all’epoca, fece ridere mezzo mondo (qui potete leggere l’articolo del matrimonio boccaccesco di Giuseppe Garibaldi).
IL PERCHE’ DEL SEPARATISMO.
Separatismo. Opera, 21 agosto 1998. Scritto da Vincenzo Vinciguerra.
Premessa. Il documento che segue non persegue fini di carattere personale né segna una svolta nella mia posizione nei confronti di uno Stato e di un regime che disprezzo. Il volto cristiano della giustizia rappresenta solo un pro-memoria per coloro che hanno finto di dimenticare come, in passato, hanno chiuso capitoli ancor più sanguinosi della nostra storia solo perché le responsabilità di vertice non potevano essere diversamente occultate. Mettere a confronto, quindi, la ‘clemenza’ degli Scalfaro e C. per i duchi, i principi, i mafiosi protagonisti della ribellione separatista siciliana, con la ‘faccia feroce’ che oggi stabiliscono nei confronti di quanti non si sono proposti di vendere agli Stati uniti una parte del territorio nazionale ma, al contrario, di liberarsi della tutela opprimente e liberticida degli americani – e con essa dei loro servi italioti – ci è parso doveroso. Altrettanto doverosa ci appare la risposta a quanti dagli Scalfaro e compari attendono il condono condizionato al loro ravvedimento ed al riconoscimento dei loro ‘crimini’ con conseguente condanna di un passato che, contrariamente al loro presente, è dignitoso e andrebbe difeso e rivendicato. Non è l’attesa della ‘grazia’ che devono attendere ma, eventualmente, un provvedimento di giustizia, non dettato da pelose clemenze, che si basi sul riconoscimento della responsabilità dello Stato e del regime nella guerra politica. Un provvedimento che riapra – non chiuda – il capitolo sugli anni di piombo per concluderlo solo dopo che esso sarà interamente chiarito. La scarcerazione dei detenuti politici deve quindi rappresentare il primo passo verso un chiarimento storico definitivo, facendo saltare gli accordi presi da democristiani e pidiessini, con la complicità dell’immancabile magistratura italiana, per cancellare le loro responsabilità e i servigi resi a Stati uniti ed Unione sovietica sulla pelle degli italiani tutti. Perché coloro che sono ancora in carcere servono ancora oggi a questa classe dirigente senza dignità per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dal tradimento da essa perpetrato nei confronti degli interessi nazionali da oltre mezzo secolo. Depongano le illusioni quanti potrebbero intravedere in queste pagine un invito, implicito od esplicito, fatto da chi scrive a promulgare un decreto di indulto ovvero a compiere un gesto di clemenza nei confronti suoi e di quanti come lui sono ancora in carcere. E’ un’illusione che possono coltivare gli sciocchi e i disonesti, non coloro che comprendono come la clemenza dei servi suoni ad offesa per coloro che, al pari di chi scrive, sono signori di se stessi e dei loro destini.
“Onorevoli senatori. Il disegno di legge sul quale, d’incarico della Commissione da me presieduta, ho l’onore di riferirvi, ha la sua prima origine nelle dichiarazioni che il Presidente del consiglio faceva al Senato il giorno 19 agosto u.s. Egli dichiarava allora che il governo, mentre intendeva riaffermare la esigenza di difendere la maestà della legge, accogliendo tuttavia l’invito da varie parti ad esso rivolto, avrebbe presentato un provvedimento di clemenza, ispirato a sensi di larga umanità, nell’intento anche di contribuire ancora di più alla distensione degli animi e nella persuasione che la clemenza è il volto cristiano della giustizia”.
Corre l’anno democristiano 1953. A pronunciare queste alate parole è Adone Zoli, relatore di un disegno di legge per la promulgazione di un decreto di amnistia e indulto nei confronti di coloro che hanno commesso “reati… per fine politico” fino al 18 giugno 1946 (varato con legge 18 dicembre 1953 n.920). La guerra è finita il 25 aprile 1945 ma il parlamento, compatto, avverte la necessità di promulgare una legge che allontani lo spettro del carcere o determini il ritorno a casa di quanti sono detenuti per fatti compiuti fino alla data del 18 luglio 1946, oltre un anno e due mesi dalla cessazione del conflitto. E’ il riconoscimento ufficiale di uno stato di guerra non dichiarato che aveva continuato ad insanguinare il Paese anche dopo che le armi avevano taciuto e i ‘liberatori’ avevano conquistato l’intero territorio nazionale. Nell’Italia tornata alla pace, dopo il 25 aprile 1945 era difatti esploso con virulenza lo scontro tra anticomunismo e comunismo ma, parallela alla guerra politica, in Sicilia era divampata la ribellione separatista. Erano i protagonisti di quest’ultima quelli che i partiti politici, solidali fra loro, dal Movimento sociale italiano al Partito comunista, sorretti dalla benedizione vaticana, hanno allora inteso salvare con un decreto di amnistia e indulto che l’opportunismo, non il tempo trascorso, hanno fatto dimenticare in anni in cui sarebbe stato più che necessario, doveroso, rammentarlo. La rivolta separatista siciliana non fu un moto spontaneo di popolo ma in esso, provato e sfinito dalla guerra, trovò molti consensi ed alimentò le speranze di quanti nell’infame casa Savoia vedevano il simbolo di un’oppressione brutale che durava da oltre ottant’anni; da quel 1860 che aveva visto un avventuriero di pochi scrupoli sbarcare a Marsala per sostituire una tirannide indigena con quella straniera del regno di Piemonte e Sardegna. Nell’estate del 1943 sprazzi di rivolta avevano illuminato la tormentata terra di Sicilia insanguinandone le contrade già segnate dolorosamente dalla guerra. Provocati dal desiderio legittimo di una popolazione che non voleva partecipare alla ‘guerra di Badoglio’ che nella libertà della propria terra vedeva quel tempo della pace che lo Stato italiano le aveva sempre negato furono soffocati con l’usuale durezza dall’esercito di Vittorio Emanuele III. Nella sola Comiso vi furono, secondo i reticenti dati ufficiali, fra i rivoltosi 19 morti e 63 feriti (F. Gaja, L’esercito della lupara, Milano Maquis 1990, p.166), senza contare gli arrestati, i torturati nelle caserme, i condannati. Ma in una terra in cui la dignità è più preziosa della vita non si uccide impunemente, così l’esercito di Badoglio contò 18 morti.
Se la ribellione separatista, che traeva forza e ragion d’essere da un anelito di libertà, fosse stata fomentata dal basso, e avesse trovato in se stessa e per suo esclusivo conto i propri condottieri, sarebbe stata scritta una pagina di storia sanguinosa ma onorata. Invece, così non fu.
Alla testa del movimento separatista, a strumentalizzare quel sogno di libertà, vi erano difatti i complici degli oppressori, quelli che dallo Stato sabaudo in versione ‘democratica’ prima, fascista dopo, avevano ottenuto privilegi e benemerenze e che ora, con l’arrivo degli angloamericani, avevano intravisto la possibilità di divenire i padroni dell’isola, facendosi umili servi dei vincitori. Politici emarginati ma mai perseguitati durante il Ventennio, tornati alle loro lucrose professioni cumulando denaro e rancore; mafiosi rientrati dal confino con l’odio nel cuore; nobili che sognavano il ritorno all’antico potere non importa come e al servizio di chi. Durante la guerra avevano contribuito a ‘liberare’ dalla vita migliaia di siciliani falciati dai bombardamenti terroristici su città e paesi, collaborando segretamente coi loro massacratori; con lo sbarco ‘concordato’ fra questi ultimi, casa Savoia e lo Stato maggiore delle Forze armate italiane videro la prossima concretizzazione delle loro aspirazioni. Fra loro vi fu chi salvò faccia ed apparenze, inneggiando al “diritto alla libertà e all’indipendenza della Sicilia” (ivi, p.133) fin dal 22 luglio 1943; e chi, invece, distribuì senza ritegno e senza vergogna migliaia di distintivi “recanti il semplice numero 49, ad indicare la Sicilia come quarantanovesima stella degli Stati uniti d’America” (ivi, p.136), rendendo in tal modo esplicite le sue intenzioni di passare da un padrone all’altro. I nomi dei capi separatisti più noti appartenevano alla politica: Antinio Varvaro, Antonio Canepa, Andrea Finocchiaro Aprile, Concetto Gallo. Poi vi era la melma mafiosa dei Calogero Vizzini e dei suoi compari e comparielli, picciotti e quaquaraqua. Ma a tirare i fili, c’erano i rappresentanti di una nobiltà più che avida, ricca e disonorata: il duca di Carcaci ed i suoi rampolli, i baroni La Motta, Cammarata, Di Benedetto, Bordonaro, Bonanno di Linguaglossa etc., solo per citare i più noti. La truppa era altrettanto composita. Vi erano i volontari e i banditi. I primi attratti dall’ideale separatista, i secondi richiamati da Concetto Gallo per conto di principi, duchi e baroni. E furono proprio i banditi il braccio armato del movimento separatista. Banditi lo erano certamente anche se in molti avevano una parvenza di ideali come, ad esempio, due degli esponenti più rappresentativi della banda dei niscemesi, Rosario Avila senior e Rosario Avila junior, padre e figlio che si erano iscritti, rispettivamente, l’8 marzo 1944 e il 28 aprile 1945 alla sezione del Movimento separatista di Niscemi. Gli altri “guidati ed infiammati –scriveva l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana- dalla diabolica esaltazione di Concetto Gallo, agivano nella illusione di rifarsi la perduta verginità morale camuffandolo con il sacrificio per un ideale…” (ivi, p.229). Senza di loro, il separatismo siciliano non avrebbe avuto storia né peso politico. I niscemesi guidati da Salvatore Rizzo erano stati arruolati, senza molti problemi, nel luglio del 1945. Più difficile era stato l’avvicinamento di Salvatore Giuliano con il quale il primo contatto ufficiale si ebbe il 15 maggio 1945 con esiti positivi (E. Magrì, Salvatore Giuliano, Mondadori, Milano 1987, p.50-51), tanto che il bandito di Montelepre nel mese di luglio poteva essere considerato un militante separatista a tutti gli effetti. L’arruolamento dei banditi trovò sanzione definitiva il 15 agosto 1945, nel corso di una riunione svoltasi a Palermo in casa del barone Stefano La Motta. Vi parteciparono tutti quelli che contavano: “Muniti di regolari deleghe, intervennero – scrive Filippo Gaja – don Lucio e Giuseppe Tasca, i fratelli duchi di Carcaci, Attilio Castrogiovanni, il barone Stefano La Motta, Sirio Rossi, il barone Cammarata, Concetto Gallo Nicotra, Antonino Varvaro e Finocchiaro Aprile. Intervenne anche, disdegnando qualsiasi delega e accompagnato da due guardie del corpo, don Calogero Vizzini, capo della mafia siciliana” (F. Gaja, L’esercito…cit., p. 197).
Con la sola opposizione di Antonino Varvaro, respinta da Lucio Tasca con l’obiezione che “anche Garibaldi si era rivolto ai criminali” e l’assicurazione di Calogero Vizzini che “garantì di poter assumere in qualsiasi momento il controllo dei fuorilegge, dicendo esplicitamente che contro questi ultimi nulla avrebbe potuto la polizia senza l’aiuto della mafia” (ivi, p.198), i banditi divennero soldati dell’unico ideale al quale, in fondo, potevano aderire con la speranza che il giorno della vittoria avrebbe coinciso con quello della loro redenzione. Si ingannavano e venivano ingannati, ma erano importanti per la corrotta nobiltà siciliana. E pur di poterli avere qualcuno fra i capi del separatismo siciliano aveva provveduto a far liquidare fisicamente Antonio Canepa, legato non agli americani ma all’Intelligence service britannico, contrario ad ogni ipotesi di inquinamento della purezza dell’armata separatista con l’immissione di criminali comuni e, quel che era peggio, dotato di un carisma in grado di annullare quello di Concetto Gallo. Era Antonio Canepa il capo militare e politico dell’Evis, fino a quel 17 giugno 1945 quando, a Randazzo in provincia di Catania, i carabinieri aprirono il fuoco senza preavviso e senza motivazioni sul furgone sul quale viaggiava insieme ad alcuni suoi compagni. I carabinieri, si sa, sono coscienziosi. E anche quella volta fecero un lavoro accurato: su sei separatisti ne morirono tre, due dissanguati per le ferite ed uno sul colpo: Antonio Canepa. L’esercito da lui creato si sgretolò: “Oltre alla brigata Canepa accampata a Cesarò – ricorda Gaja – al momento dello scontro a fuoco di Randazzo erano già in formazione in tutta la Sicilia i sedici gruppi di guerriglieri previsti da Canepa i quali, rimasti senza capo, si sciolsero” (ivi, p.196). Ora si poteva costituire un nuovo esercito separatista con a capo Concetto Gallo.
Il primo attacco, i miliziani separatisti e niscemesi insieme, lo sferrarono il 16 ottobre 1945 attaccando, in località Ape nei pressi di Niscemi, una pattuglia di carabinieri, quattro dei quali furono uccisi e un quinto ferito. La guerra contro l’Italia era iniziata. Una guerra all’italiana, con trattative segretissime fra i capi del movimento separatista siciliano e Giuseppe Romita, ministro degli Interni, per conto del governo che giunse a ricevere una delegazione di ‘rivoltosi’ al Viminale, facendola accompagnare da un aereo militare appositamente inviato a Catania; e l’esercito ribelle che si concentrava apertamente in località San Mauro di sopra da dove avrebbe dovuto iniziare la sua marcia ‘liberatrice’ conquistando Caltagirone, patria del non compianto don Luigi Sturzo. Nell’attesa che sorgesse l’alba del giorno fatale, i separatisti, con e senza banditi, procedettero a compiere requisizioni forzate per procurarsi viveri e sequestri di persona per autofinanziarsi. Principi, duchi e baroni non sborsavano che spiccioli: prima – ovvio- il patrimonio, poi l’ideale. Il secondo attacco lo sferrò Salvatore Giuliano. Fallite le trattative col governo di Roma, le truppe italiane si erano disposte attorno a San Mauro, pronte ad attaccare. Era necessaria una diversione nella speranza, poi rivelatasi vana, che una parte delle forze militari italiane fosse spostata dalla Sicilia orientale a quella occidentale. Così venne impartito a Giuliano l’ordine di attaccare. Il bandito ubbidì assalendo la caserma dei carabinieri di Bellolampo, il 26 dicembre 1945, e facendo prigionieri i quattro militi che la difendevano. Troppo tardi e troppo poco. Il 29 dicembre 1945, le truppe italiane attaccarono il campo separatista di San Mauro, impegnandosi in uno scontro a fuoco impari per la evidente sproporzione di mezzi e di uomini proprio confrontati con quelli dei rivoltosi. Lo sprovveduto ed inetto capo militare, Concetto Gallo, si auto-eliminò subito dalla scena andando con cinque uomini a catturare una pattuglia di soldati italiani, senza accorgersi che “era fiancheggiata da altri reparti, e si trovò improvvisamente sotto il fuoco” (ivi, p.239). Obbligato a rintanarsi in una buca, Gallo sparò fino all’esaurimento delle munizioni per essere poi catturato, insieme a due giovanissimi volontari, alle quattro del pomeriggio. Ad assumere le redini del comando fu Salvatore Rizzo, il capo dei niscemesi, che diresse “la manovra di sganciamento. Fece la rapida ispezione di un sentiero e –scrive Gaja- appena la notte fu caduta, il silenzio, e in fila indiana, tenendo i cavalli per le redini, i guerriglieri si addentrarono nel bosco di San Pietro” (ivi, p.240).
La guerra guerreggiata dichiarata dal separatismo siciliano all’Italia si conclude qui, con la cosiddetta battaglia di San Mauro che suddivise equamente le perdite: un morto e due feriti, fra i separatisti; un morto e cinque feriti fra i militari italiani. Iniziò, quindi, la guerriglia vera e propria affidata alle capacità militari dei banditi che scrissero una pagina sanguinosa, intrisa di uccisioni di appartenenti alle forze di polizia e dell’esercito, di assalti ad installazioni militari e caserme, di sequestri di persona per finanziare il movimento e poter continuare a combattere. La storia politica del movimento separatista potè così proseguire poggiandosi sulla determinazione feroce con la quale Salvatore Giuliano e la sua banda, i niscemesi ed altri continuarono a battersi per un ideale ormai definitivamente tradito, restando soli quando gli ultimi volontari rimasti furono mandati a casa con la garanzia che la polizia non li avrebbe arrestati, pur restando a tutti gli effetti dei latitanti. La svolta, che segna anche l’inizio della manovra di sganciamento dei banditi, era stata determinata dall’ingresso in scena di Umberto II, consapevole di quanto fosse vacillante il suo trono nella primavera del 1946, ed alla ricerca di una soluzione che ponesse rimedio a quella che già si profilava come una sconfitta nelle elezioni del 2 giugno 1946. La nobiltà separatista, in questa contingenza, dimentica degli ideali, si propone di affidare la ‘libera Sicilia’ all’erede di chi della sua libertà l’aveva privata, offrendo a Umberto II il trono dell’isola, con l’entusiastico consenso delle gerarchie militari. E’ l’ennesima pagina di fango, scritta con la complicità dei vertici politici, militari ed ecclesiastici, con latitanti di alto rango ricevuti al Quirinale, patti stipulati con i mafiosi, generali che fomentavano ‘movimenti rivoluzionari’ monarchici, soldi elargiti senza risparmio da casa Savoia agli amici ed agli amici degli amici. Ad una distanza siderale da questo mondo di operetta tragica e dai suoi burattinai, sul terreno arido e pietroso dei contrafforti montuosi della Sicilia, si consumava intanto la tragedia autentica dei banditi – separatisti. I niscemesi di Salvatore Rizzo avevano catturato, il 10 gennaio 1946, otto carabinieri, un’intera pattuglia che si era subito arresa senza sparare un colpo. Obbedivano ancora una volta agli ordini del comando separatista di Palermo che esigevano l’attacco alle forze militari e di polizia italiane, ma questa volta non disarmano i loro prigionieri, neanche li uccidono, se li portano invece appresso, benché braccati da migliaia di uomini dell’esercito e dei carabinieri, per ben diciotto giorni, senza torcere loro un capello.
Filippo Gaja nota che “a rigor di logica, un gruppo di guerriglieri in continuo spostamento non prende prigionieri, che possono rallentare la marcia, se non è costretto dalla necessità, o se non ha uno scopo ben definito, oppure se non ha l’ordine di farlo. Né è possibile – continua Gaja – attribuire l’iniziativa ai banditi per puro desiderio di vendetta, poiché questa sarebbe stata consumata subito. Tanto meno è naturale che dei banditi si portino dietro otto carabinieri legati per diciotto giorni, come in effetti avvenne” (ivi, 244-245). Diverse sono state le ipotesi avanzate per spiegare la logica del comportamento dei niscemesi in questo frangente e comprenderne il fine, mancando in assoluto elementi di certezza. La più vicina alla verità appare essere quella di uno scambio di prigionieri: gli otto carabinieri in cambio di Concetto Gallo, arrestato a San Mauro, come abbiamo visto, il 29 dicembre 1945. Se questa è la verità – e non può non esserlo a rigor di logica – Salvatore Rizzo ed i suoi uomini obbedivano con disciplina e a rischio della propria vita agli ordini dei dirigenti del Gris (Gioventù rivoluzionaria per l’indipendenza della Sicilia). Ammette Filippo Gaja che, effettivamente, “molti anni dopo si seppe che vi fu effettivamente un principio di trattativa fra lo Stato e la guerriglia, sotto forma di colloqui segreti fra Guglielmo Carcaci e l’ispettore Messana”; e rileva come “dall’andirivieni di messaggeri sembrava che i capi dei banditi stessero discutendo con i responsabili della rivolta sul cosa fare dei prigionieri” (ivi, p.248).
Poi, come in ogni oscuro mistero, sulla vicenda e la sua tragica conclusione cala la nebbia del silenzio. Da Rosario Avila jr. si sa solo che “…un giorno verso la fine di gennaio furono raggiunti da un giovane sui vent’anni che indossava un impermeabile chiaro, il quale dopo aver salutato i presenti, parlando aveva accennato a macchine già pronte per portar via i carabinieri” (ivi, p.249), ma è doveroso dubitare della parola di un uomo incarcerato, facilmente condizionabile dai suoi carcerieri interessati ad addossare ogni responsabilità ai niscemesi sollevandone il comando separatista.
Salvatore Rizzo aveva sempre obbedito agli ordini dei dirigenti del Gris e non si comprende perché avrebbe dovuto fare eccezione in quella sola ed unica occasione, così che di certo c’è solo la visita di un emissario del duca di Carcaci e dei suoi complici. Poche ore più tardi, Salvatore Rizzo “a notte fatta ordinò a sei dei suoi uomini di fare uscire i carabinieri dalla stanza dove erano rinchiusi, legandoli a due a due con le loro stesse manette. Quindi tutti si avviarono nell’oscurità. Li fecero camminare un’ora e mezzo nella notte, poi fu dato l’alt davanti a una miniera di zolfo abbandonata in contrada Bubbonia. L’ex ergastolano Francesco Saporito disse ai carabinieri che sarebbero stati liberati e li invitò a spogliarsi senza far rumore, con la scusa che gli indumenti servivano a loro. Ma dopo che furono nudi, nel gelo della notte – ricorda Gaja – cominciò l’esecuzione. Il brigadiere aveva ancora la panciera e due carabinieri i calzini di cotone bianco d’ordinanza. Furono fucilati uno alla volta. Il più giovane, un ragazzo di vent’anni, si calò la bustina sugli occhi per non vedere, e morì così. Il costume delle stragi politiche era entrato nella storia d’Italia. Questa fu la prima” (ivi, p.195).
Fu anche la prima i cui mandanti e responsabili organizzativi vennero lasciati impuniti dalla magistratura italiana su ordine del potere politico. Agguati a pattuglie di polizia e militari, sequestri di persona a scopo di auto-finanziamento, requisizioni forzate, omicidi individuali, rivolte collettive, rastrellamenti, arresti, torture. La misconosciuta – ancora oggi – guerriglia separatista siciliana fu la prima guerra civile che sconvolse l’Italia ‘liberata’. Guerriglia che aveva come fine dichiarato il distacco di una parte del territorio nazionale per un’indipendenza da burla o, più realisticamente, il suo passaggio sotto l’amministrazione degli Stati uniti d’America. E Stati uniti ed Inghilterra appaiono come i veri responsabili di una tragedia che il regime ed i suoi storici asserviti hanno, poi, fatto dimenticare. Ha raccontato il prudentissimo e inetto Concetto Gallo: “Il 17 giugno (1945 nda), mentre sto per lasciare Catania, ricevo una telefonata da Guglielmo duca di Carcaci, comandante della Lega giovanile e comandante generale dell’Evis. Mi dice: ‘Hanno ammazzato Canepa. Non ti muovere. Ti verrò a prendere io’. Partimmo insieme verso Cesarò e ci rifugiammo nella ducea di Wilson, presso Bronte. Trascorsi alcuni giorni, arriva un’automobile. Alla guida c’è un ammiraglio degli Stati uniti. Accanto, una bella signora. Dietro, Guglielmo di Carcaci con un cappello da commodoro. Entro in fretta e furia nell’automobile, mi infilo una giacca da ammiraglio degli Stati uniti, metto in testa un berretto da commodoro e l’automobile si avvia. La città è circondata da polizia e carabinieri. Un vero presidio con posti di blocco ovunque. Ovunque uomini e barriere che si alzano solo dopo che la polizia ha controllato i documenti di chi vuole lasciare la città. Noi – prosegue Concetto Gallo – arriviamo al posto di blocco di Ognina. L’ammiraglio si fa riconoscere e la pattuglia dei carabinieri ci fa un perfetto saluto aprendo la barriera. Questo episodio mi diede personalmente –conviene il protettissimo dalla magistratura italiana Concetto Gallo- la misura della simpatia che il Movimento godeva presso gli alleati. E infatti la sera stessa, dopo una sosta con colazione a Taormina, giungemmo a Palermo dove, insieme col duca di Carcaci, fummo ospiti a villa Wittinger, che era la sede del comando alleato in Sicilia…”(ivi, p.445).
E’ più di un indizio, come lo stesso Filippo Gaja lo presenta: è una prova, inconfutabile e pesante come un macigno che avrebbe dovuto pesare sulla coscienza di quanti politici, militari e magistrati l’hanno rimossa in nome di una ragion di Stato che appare, viceversa, come l’ennesimo atto di servilismo nei confronti dei vincitori della seconda guerra mondiale. I lacchè seppellirono la verità sulla sanguinosa guerriglia separatista in Sicilia, e presentarono gli ‘alleati’ (di chi non lo hanno ancora spiegato) come i difensori dell’unità nazionale minacciata dall’accordo fra il partito comunista italiano e la Jugoslavia di Tito per privarci di Trieste e di qualche altro lembo di terra sul confine nord- orientale. Con il complice assenso-silenzio dei comunisti italiani hanno rimosso dal ricordo una guerriglia vera in Sicilia rimpiazzandola con un’altra, solo ipotetica, dalla parte opposta della penisola. Ma a motivare questo processo di rimozione – sostituzione non fu la presenza esclusiva degli anglo-americani. Ad eseguire un piano accuratamente elaborato, ad arruolare uomini capaci di combattere, a fornire loro le motivazioni per farlo in modo determinato e duraturo nel tempo non potevano essere stranieri ma indigeni per di più, come abbiamo visto, fra i più facoltosi ed influenti dell’isola: nobili, politici, preti e mafiosi.
L’Ispettorato generale di P.S. della Sicilia, in un suo rapporto del 7 marzo 1946, ne aveva indicati alcuni: “Promotori ed organizzatori: Guglielmo Carcaci, Giuseppe Tasca, Rosario Cacopardo, Stefano La Motta, Concetto Gallo. Capi: Salvatore La Manna, Cammarata inteso Pippi, da identificare, Antonio Velis, Giovanni Li Mandri, Giuseppe Calabrò, Francesco Tornabene, Salvatore Giacomo Maria Graziano, don Ciccio da Caltagirone, da identificare, Pasquale Sciortino, Bordonaro, da identificare, altro Bordonaro, da identificare, Pietro Franzone…” (ibidem). Ma, in quel rapporto, di rilievo non c’erano solo i nomi, c’era anche il riconoscimento esplicito di un’unità di comando che aveva reso possibile lo sviluppo coordinato ed armonico della guerriglia in Sicilia: “All’unità di comando –scriveva difatti l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana- delle due formazioni ribelli operanti nella Sicilia orientale ed occidentale si credette contrapporre la unicità di indirizzo e di coordinamento nelle indagini che andavano svolgendo i vari organi di polizia dell’isola…” (ivi, p.284). E la conferma giunge dall’interno della stessa organizzazione separatista, come diretta conseguenza dei “primi arresti dei responsabili dalle cui dichiarazioni emergeva subito la colpa dei dirigenti del Gris tra cui troneggiano le figure del duca di Carcaci, di Giuseppe tasca e del barone La Motta” (ibidem). Vi erano tutti i presupposti per fare un processo clamoroso, alla cui conclusione la verità sarebbe necessariamente emersa in ogni suo risvolto, anche il più oscuro e recondito. Ma a chi poteva convenire l’accertamento della verità e la sua proclamazione in sede giudiziaria e storica? A nessuno. Tutti, semmai, avevano l’interesse opposto: soffocare la verità, distruggerne financo i frammenti sia per evitare che venisse riconosciuta la responsabilità degli ‘alleati’ e dei vertici politici, militari ed ecclesiastici italiani che con la gerarchia separatista avevano trattato, brigato, preso accordi rendendosene complici, sia perché i capi e una parte dell’esercito separatista si erano avviati a divenire la milizia politica e militare della Democrazia cristiana, dell’anticomunismo trasformandosi nel braccio armato dello Stato. La polizia, consapevole di questa realtà, aveva proceduto subito a salvare i propri complici e confidenti in coppola e lupara. Nel citato rapporto del 7 marzo 1946, l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana, uno dei protagonisti di questa ignobile pagina di storia, si era premurato di specificare che “nessuna responsabilità concreta è stata accertata a carico del Calogero Vizzini, il quale pur separatista, nulla avrebbe avuto a che fare con il Gris…” (ivi, p.266). E con il riconosciuto pubblico capo della mafia siciliana “nessun altro elemento di spicco della mafia – rileva Filippo Gaja – ebbe l’onore della citazione nei rapporti di polizia “ (ibidem).
Lo stesso accadde con i capi separatisti. “…Lucio Tasca barone di Bordonaro – scrive ancora Gaja – rimase tranquillamente nella sua sontuosa villa in attesa degli avvenimenti…In definitiva, furono perseguiti quali ispiratori ed organizzatori della guerriglia soltanto il duca Guglielmo di Carcaci, Giuseppe Tasca, l’avvocato Rosario Cacopardo, il barone Stefano La Motta e Concetto Gallo; ma solo gli ultimi due raggiunsero il carcere, in attesa dell’amnistia, e dopo pochi mesi riottennero la libertà” (ibidem). Le ragioni ufficiali di tanta benevolenza le spiega il comandante dell’Arma dei carabinieri, Brunetto Brunetti, in una relazione inviata il 18 febbraio 1946 ad Alcide de Gasperi: “A loro carico –scrive- non sono affiorati convincenti elementi di diretta partecipazione all’organizzazione del Gris e delle bande armate, per cui finora non sono state raccolte prove sufficienti a giustificare il loro arresto e la conseguente denuncia all’autorità giudiziaria. Al loro fermo si è anche soprasseduto perché, da quanto ha riferito il commendator Messana, il ministero dell’Interno non intenderebbe allargare troppo le repressioni, che verrebbero limitate alle sole persone direttamente coinvolte nelle azioni criminose, e ai loro fiancheggiatori…” (ivi, p.267).
Ministro degli interni, all’epoca, era il socialista Giuseppe Romita, ministro di Grazia e giustizia il comunista Palmiro Togliatti. Con questi rappresentanti del popolo, nobili e nobilastri sarebbero rimasti fuori dalle inchieste, e a pagare per tutti sarebbero stati i proletari che li avevano ingenuamente seguiti in nome di un ideale di libertà che, per loro, significava anche la fine dell’oppressione economica e dello sfruttamento. Nell’ipocrita distinzione operata dal socialista Giuseppe Romita in concorso con il comunista Palmiro Togliatti fra coloro che possono essere ‘repressi’ perché ‘direttamente coinvolti nelle azioni criminose’ e coloro che lo devono essere, c’è una filosofia politica e giudiziaria che, da allora, è rimasta inalterata: gli esecutori pagano, i mandanti e gli organizzatori no.
In quanto alle ‘prove’ si nega con estrema disinvoltura che esistano o che siano sufficienti, come ha fatto il comandante Brunetti che ha ignorato bellamente quanto gli aveva messo per iscritto il suo subalterno, generale Branca, responsabile dei carabinieri in Sicilia: “l’idea di aggregare ad elementi di fede separatista malfattori comuni è una trovata di Lucio Tasca, capo del Gris –aveva scritto Branca, specificando che- capi del Gris e promotori delle violenze sono: don Guglielmo Carcaci, Giuseppe Tasca, figlio di Lucio Tasca, barone Cammarata, barone Stefano La Motta, avvocato Silvio Rossi, avvocato Di Benedetto” (O. Barrese – G. D’Agostino, La guerra dei sette anni, Rubbettino, Messina 1997, p.83). Dopo polizia e carabinieri, a completare con precisione chirurgica l’ingiustizia salvando i forti e condannando i deboli interviene la magistratura italiana, da sempre gelosa custode della sua dipendenza da ogni potere politico, non importa quale purché garantisca carriera e stipendio. Inizia la Procura generale di Palermo a compiere l’opera di divisione fra i volontari del Gris, da salvare, e i banditi, da condannare, applicando il 9 marzo 1947 l’amnistia Togliatti a 183 imputati e inviando “alle Corti d’assise competenti secondo criteri territoriali i giudizi per fatti che non potevano rientrare nell’amnistia” (F. Gaja, L’esercito… cit., p. 446). La frammentazione del processo in tanti rivoli è, difatti, la premessa indispensabile per non fare emergere il disegno unitario del separatismo siciliano, coordinato da un unico vertice che aveva avuto ai suoi ordini non bande separate ma un solo esercito.
Una realtà, questa, che era presente negli atti processuali come nei rapporti di polizia e carabinieri nei quali la banda Avila e la banda Giuliano erano inserite nell’organico del Gris. Ma cosa vale la verità, quand’anche conosciuta dall’intera popolazione, per l’arrogante magistratura italiana? Nulla. Dopo aver salvato i capi del separatismo, i ‘promotori delle violenze’, bisognava chiudere il capitolo concedendo clemenza ai volontari per riservare ai soli banditi un trattamento feroce e vendicativo. Un esempio emblematico e significativo di una disparità di trattamento, che non può che definirsi ignobile, viene fornito dal raffronto di quanto hanno scritto i magistrati nelle sentenze emesse, rispettivamente, a carico di Concetto Gallo e dei superstiti della ‘banda dei niscemesi’. Sul conto del primo, i giudici della Corte d’assise, rievocando la ‘battaglia di San Mauro’, non esitarono a scrivere: “…L’ambiente è quello della battaglia che vede contrapposti due piccoli eserciti, il regolare comandato da tre generali e quello dei ribelli contro l’ordine costituito comandato da Concetto Gallo che agiva per un ideale, sia pure condannevole per il sovvertimento che si proponeva, ma pur sempre un ideale…” (ivi, p.288). Sui secondi, in tutto quattro imputati fra i quali Vincenzo Milazzo, i giudici della Corte d’assise di Caltanissetta, territorialmente competente per la strage di Feudo nobile, risolsero così il problema rappresentato dalla milizia degli accusati nell’esercito separatista: “…la predetta banda (composta tutta di avanzi di galera, di evasi e di pregiudicati) successivamente si aggregava (al Grsi, nda) al solo intimo proposito di mascherare e rafforzare il raggiungimento delle proprie finalità, rivolte unicamente alla consumazione dei più gravi delitti…” (ivi, p.286).
Giustizia era fatta. Se questi furono i giudici, non migliore di loro fu il codardo Concetto Gallo che dei niscemesi era stato l’arruolatore ed il capo, e per la cui liberazione erano stati prima fatti prigionieri, poi uccisi, gli otto carabinieri di Feudo nobile. Non una parola o un gesto sprecò Concetto Gallo in loro difesa. Assistette in silenzio allo spettacolo miserando del massacro giudiziario di quel che restava dei suoi uomini cumulando i benefici che a lui venivano concessi in nome della sua complicità con il potere politico. La storia giudiziaria di Concetto Gallo è difatti quella di un salvataggio sistematico e sfacciato. In relazione alla costituzione ed all’attività dell’Evis il 19 settembre 1946 il giudice aveva rinviato a giudizio quaranta persone riuscendo nell’impresa di accusare i subalterni di essere i capi e i capi di essere i vivandieri, tanto che il duca di Carcaci e Concetto Gallo vennero ritenuti colpevoli “solo di ‘aver fornito informazioni e viveri’ “(ivi, p.441). Nel processo, svoltosi a Catania, contro la banda dei niscemesi “inizialmente – ricorda Filippo Gaja – era imputato anche Concetto Gallo, esattamente per undici capi di imputazione. Ma poi fu prosciolto” (ivi, p.285). Nel processo per l’uccisione del brigadiere dei carabinieri Giovanni Cappello, avvenuta a San Mauro il 29 dicembre 1945, la Corte d’assise giunse al punto – fatto di eccezionale rarità in un tribunale italiano- di disattendere la testimonianza di un ufficiale dei carabinieri, ritenendola meno attendibile di quella dell’imputato Concetto Gallo, pur di evitargli il carcere. Riuscirono, così, quei giudici a condannarlo per omicidio preterintenzionale il 28 ottobre 1950, e “il reato – annota Gaja – fu dichiarato estinto per amnistia e il mandato di cattura contro Gallo revocato” (ivi, p.288). La famiglia del sottufficiale dei carabinieri ucciso si ribellò ad una sentenza che le apparve scandalosa. Propose appello e chiese ed ottenne il trasferimento del processo ad altra sede per legittima suspicione. Questa volta, la Corte d’assise di appello riconobbe Concetto Gallo responsabile di omicidio volontario e, il 18 novembre 1954, lo condannò a quattordici anni di reclusione. Ma, per effetto del decreto di amnistia ed indulto promulgato dal Presidente della repubblica il 18 dicembre 1953, la pena venne interamente condonata.
Giustizia era fatta. Dopo la discriminazione fra i capi e i gregari del separatismo siciliano, quella fra questi ultimi e i banditi, ve ne fu una terza fra banditi e banditi. Risparmiati dai mitra dei carabinieri e dalle lupare dei mafiosi, Salvatore Giuliano ed i suoi uomini vennero graziati anche dal bisturi giudiziario che su di loro non intervenne. Anzi, il procuratore generale di Palermo, Emanuele Pili, risulta documentalmente provato che incontrò almeno una volta Giuliano recandogli “grande conforto” (ivi, p.333). “Un bandito inseguito da centinaia di ordini di arresto, che incontra privatamente il capo della giustizia – commenta Filippo Gaja – è un fatto oggettivamente molto insolito, spiegabile solo con motivazioni straordinarie che però non sono mai state spiegate” (ivi, p.336). Negli anni Settanta e successivi si sarebbe visto anche di peggio, perché gli anni passano ma la magistratura resta. A parere di Filippo Gaja, l’impunità di Salvatore Giuliano derivò dal fatto che “se fosse comparso in Corte d’assise forse avrebbe potuto documentare la sua alleanza con i finanziatori e dirigenti del Gris e avrebbe fatto delle chiamate di correo, poiché non aveva una natura remissiva. Era uno che non perdonava. Difficilmente avrebbe acconsentito di essere il solo a pagare per i delitti dei quali si era macchiato in nome dell’indipendentismo, se era convinto, come era convinto, d’essere stato indotto a compierli per uno scopo politico” (ivi, p.288.289). Noi siamo meno ingenui perché riteniamo che mai, nemmeno per un momento, a politici, magistrati e uomini delle forze di polizia è venuto in mente di condurre Salvatore Giuliano vivo dinanzi ad una Corte d’assise. A nostro giudizio, quindi, la discriminazione fra Salvatore Giuliano e Salvatore Rizzo non derivò dalla maggiore capacità di ricatto del primo rispetto al secondo, quanto dal fatto che il bandito di Montelepre, dopo la causa separatista, aveva abbracciato quella anticomunista, mentre il secondo non aveva compreso la realtà che si era determinata in Sicilia e nel paese o, più semplicemente, non gli interessava.
“Uccidetemi se per caso diventassi comunista”, aveva ordinato Giuliano ai suoi gregari Pisciotta e Ferreri. Si comprende – scrive Gaja – perché alle elezioni del 2 giugno 1946 si ebbero solo 21 voti comunisti e socialisti a Montelepre” (ivi, p.301). Si comprende anche perché a Salvatore Giuliano e alla sua banda venne concessa una proroga sulla vita e piena libertà di azione, culminata nella strage di Portella delle ginestre il 1 maggio 1947. La Democrazia cristiana, la Chiesa di Roma, le forze anticomuniste italiane e straniere avevano bisogno di uomini come lui per imporre con il terrore il nuovo ordine che in Sicilia si rappresentava, in quegli anni, con la croce e la lupara. Poi, anche Salvatore Giuliano divenne un subalterno scomodo, da uccidere. E gli ammazzati rappresentano l’altra faccia della giustizia italiana, altrettanto efficiente di quella ufficiale. “Ho già riferito all’inizio della presente relazione – scriveva il 28 aprile 1947 l’ispettore generale di P.S. Ettore Messana al capo della polizia – che gli ultimi tre componenti della banda, fra cui il capo di essa, il pericoloso pregiudicato Salvatore Rizzo, sono stati eliminati con l’ultima decisa azione del 19 febbraio scorso. Il bandito Rizzo, ferito, ha continuato a fare fuoco fino agli estremi contro i carabinieri ed è morto addentando la canna rovente del suo mitra, mentre in una mano teneva stretta una bomba a mano, a cui aveva già tolto la linguetta di sicurezza… Prego codesto ministero – concludeva Messana – perché la taglia di L. 500 mila promessa per la cattura del capo della banda dei niscemesi sia concessa al confidente che è riuscito a far cogliere il bandito Rizzo Salvatore, capo della banda stessa durante tutte le vicende dell’Evis, in occasione dell’eccidio dei militari della stazione di Feudo nobile e in tutte le altre imprese criminose” (O. Barrese – G. D’Agostino, La guerra…cit., p. 92). Rosario Avila senior era stato già eliminato, come altri componenti la banda, da sicari mafiosi; Rosario Avila junior morirà in carcere senza che si conoscano la data né le circostanze. In poco più di un anno la ‘banda dei niscemesi’ era stata così annientata, fisicamente liquidata, dall’azione congiunta di polizia, carabinieri, polizia e mafia. I pochi superstiti vennero sepolti all’ergastolo.
Non diversa fu la sorte riservata a Salvatore Giuliano ed ai suoi uomini. Il 27 giugno 1947, informati dalla solita ‘fonte confidenziale’, i carabinieri tendono ad Alcamo un’imboscata ai banditi-confidenti dell’ispettore generale di P.S. Ettore Messana, colpevoli di conoscere qualche particolare di troppo sulla strage di Portella delle ginestre ed i suoi mandanti. Vengono uccisi sul colpo Caraci Antonio, Giuseppe e Fedele Pianello, mentre Salvatore Ferreri, conosciuto come Fra’ Diavolo, viene trascinato nella caserma e liquidato con due colpi di pistola in fronte sparati dal capitano Giallombardo. Il 24 novembre 1948 tocca a Giuseppe Passatempo cadere sotto il fuoco dei carabinieri. Lo seguono, nei primi mesi del 1950, Salvatore Pecoraro, il 24 gennaio, e Rosario Candela, il 14 marzo. Passatempo Giovanni, Di Maria Emanuele e Giammone vengono eliminati dalla mafia. Il 5 luglio 1950 tocca a Salvatore Giuliano essere eliminato dalla scena; il 9 febbraio 1954, viene chiusa per sempre la bocca di Gaspare Pisciotta mentre il 6 marzo 1954 l’avvelenamento di Angelo Russo, sempre nel carcere dell’Ucciardone permette la scarcerazione del secondino Selvaggio accusato di aver avvelenato Pisciotta.
Per gli altri fu la morte civile. “La clemenza – aveva detto con voce ispirata il democristiano Adone Zoli – è il volto cristiano della giustizia”. Ma rivolta verso chi? Non passeranno molti anni e, a metà degli anni Sessanta, la guerra politica ridiviene guerreggiata perché tanto esigeva lo Stato di Portella delle ginestre. Questa volta la Sicilia rimane esclusa, affidata al controllo della mafia, mentre il centro-nord del Paese conosce il volto di una guerra nella quale si ritrovano gli stessi, identici elementi di ambiguità, misteri e complicità fra lo Stato presunto aggredito ed i suoi presunti aggressori. Le bande del neofascismo atlantico e di regime assumono il ruolo che fu di Salvatore Giuliano e dei suoi uomini. Delinquenti, e non politici, conosceranno però durante e dopo la guerra la ‘clemenza’ ed il ‘volto cristiano della giustizia’ in misura proporzionale ai servigi resi allo Stato ed al regime. Come già i dirigenti separatisti eletti all’Assemblea costituente, i ‘promotori delle violenze’ sono sempre stati seduti – e ancora oggi siedono – sui banchi della Camera dei deputati e del Senato, fanno parte delle Commissioni parlamentari d’inchiesta e ostentano indignazione al solo sentir parlare di ‘clemenza’ nei confronti dei ‘terroristi’ ancora in galera, avendo già provveduto a far concedere ai propri stragisti quei benefici che la legislazione penitenziaria riserva, appunto, ai delinquenti.
A sinistra, la situazione è storicamente diversa ma non eticamente migliore. La corsa ai benefici di legge, ottenuti e da ottenere ripudiando ideali e passato, rinnegando compagni vivi e morti, umiliandosi dinanzi a secondini e magistrati di sorveglianza, ha visto tagliare il traguardo, tra i primi, i capi, secondo una tradizione italiana che pesa come una maledizione su un popolo dove pure dignità non è parola di ignoto significato. Ne sono testimonianza alcune decine di ragazzi e ragazze, divenuti uomini e donne in carcere, che nulla hanno mai chiesto e niente vogliono. Non ai semiliberi, ai lavoranti esterni, ai permessanti, a quanti invocano il diritto di avere ‘pietà verso se stessi’ abbiamo pensato tratteggiando la storia tragica e terribilmente attuale del separatismo siciliano e della sua conclusione. Le abbiamo invece dedicate ai soldati di una guerra ideologica che lo Stato ha dichiarato, fomentato, inasprito e, infine, fermato dichiarandosene vincitore. A questi ex ragazzi e ragazze, a questi uomini e donne, le dedichiamo con rispetto pari al disprezzo che riserviamo ai politici italiani di ogni partito, nessuno escluso. Non c’è difatti politico italiano che abbia vissuto gli anni del dopoguerra, che non conosca il testo del provvedimento di amnistia ed indulto concesso con legge 18 dicembre 1953 n.920. Oscar Luigi Scalfaro, Nilde Iotti, Giorgio Napolitano, Armando Cossutta, Giulio Andreotti, Pino Rauti, Marco Pannella, Giulio Maceratini, Sergio Flamigni, solo per citarne alcuni, non hanno certo dimenticato la storia infame della guerriglia siciliana e la sua ancor più infamante conclusione, così come ricordano quali interessi politici ed ideologici furono alla base di quel provvedimento di amnistia e indulto che chiuse il capitolo bellico fino alla cessazione ufficiale della guerriglia separatista in Sicilia. Ognuno in quell’occasione salvò i propri: il Partito comunista italiano, i Moranino; il Movimento sociale, i residui prigionieri della Repubblica sociale italiana; la Democrazia cristiana, i propri assassini. Ma, pur contro la volontà dei suoi promotori di allora e degli interessati smemorati di oggi, quel provvedimento di amnistia e indulto rimane modello per quanti oggi cercano una soluzione che chiuda, in maniera definitiva, il capitolo della guerra politica.
Ricordiamo anche noi, qui, cosa stabiliva l’art. 2 del decreto di amnistia ed indulto del 18 dicembre 1953: “Il Presidente della repubblica è delegato a concedere indulto: per i seguenti reati commessi dall’8 settembre dall’8 settembre 1943 al 18 giugno 1946: reati politici ai sensi dell’art. 8 del codice penale e i reati connessi; nonché i reati inerenti a fatti bellici, commessi da coloro che abbiano appartenuto a formazioni armate:
commutando la pena dell’ergastolo nella reclusione per anni dieci e, qualora l’ergastolo sia stato già commutato in reclusione per effetto dell’indulto, riducendo ad anni dieci la pena della reclusione sostituita a quella dell’ergastolo;
2. riducendo ad anni due la pena della reclusione superiore ad anni venti e condonando interamente la pena non superiore ad anni venti;
per ogni reato commesso non oltre il 18 giugno 1946 da coloro che appartennero a formazioni armate, e non fruiscano del beneficio indicato nella precedente lettera a):
commutando la pena dell’ergastolo nella reclusione per anni venti e, se l’ergastolo è stato già commutato in reclusione per effetto di indulto, riducendo di anni otto la pena della reclusione già sostituita a quella dell’ergastolo;
In nessun caso la pena residua può superare gli anni venti.
I benefici previsti nelle lettere a) e b) del presente articolo si cumulano con quelli concessi dai precedenti provvedimenti di clemenza e devono essere applicati anche a coloro si siano trovati o si trovino in stato di latitanza” (legge 18 dicembre 1953 n.920). Non ci sono errori. L’Italia del 1953 riconosceva ancora, senza ipocrisia, che esistevano reati politici i cui autori non potevano essere equiparati, per evidenti ragioni, a chi i reati veri li commetteva per fine di lucro e interessi personali. Sulla base di una verità incontrovertibile, sancita anche dal codice penale, si potevano adottare provvedimenti che di questa differenza tenevano debito conto.
L’Italia del 1998 pretende viceversa che il ladrocinio sia considerato l’unico reato politico e quanto determinato da ragioni ideali sia valutato alla stregua del crimine comune, e come tale trattato. I ladri democristiani ed i loro complici del 1953 avevano ancora, insieme alla convenienza, un minimo di pudore; i ladroni democristiani oggi sparsi nelle varie formazioni sorte in questi ultimi anni, insieme ai loro complici del partito democratico della sinistra, hanno perso anche quello e, in quanto alla convenienza di mostrare che ‘la clemenza è il volto cristiano della giustizia’ non ritengono di averne necessità: il cardinale Marcinkus è scappato con la benedizione papale; Roberto Calvi lo hanno impiccato; Michele Sindona lo hanno avvelenato e agli altri ci ha pensato la loro magistratura a condurre un’inchiesta che alla fine, di nuovo, ci ha gratificato della entrata in scena del plurinquisito Antonio di Pietro lasciando tutto come prima, peggio di prima. E’ vero, l’Italia politica, clericale, finanziaria delle mezze calzette rivoltate ostenta la faccia feroce nei confronti di quanti hanno inseguito il sogno bellissimo di liberarsi di loro una volta per sempre. Non ce lo perdoneranno mai, questo sogno. Ma quanti in questo regime non si identificano, in questi partiti non si riconoscono, a questo mondo giudiziario e pretesco che imperversa nei tribunali e nelle tribune televisive non intendono uniformarsi, possono rilevare ora quanto inutili siano le ciarle di tutti coloro che, in televisione e nei giornali, ostentano il bisogno di chiudere il periodo degli anni di piombo con un gesto di clemenza che permetta ai ‘terroristi’ di lasciare il carcere entro il 2010! (Non è una barzelletta, è il calcolo fatto da Roberto Formigoni). Possono ora, costoro, fare il confronto fra un provvedimento assunto per le esigenze del regime e quelli proposti per spezzare la volontà e l’orgoglio di quanti ancora detenuti non se la sentono proprio di recitare mea culpa, di riconoscere che hanno avuto torto a sognare un paese liberato dai suoi parassiti politici, di spezzare il sogno dopo aver infranto per ragioni ideali la loro vita. Lo vieta il rispetto di se stessi, quello per i propri caduti ed anche quello per gli uccisi dell’altra parte della barricata, anch’essi traditi dallo stesso Stato, che sul sacrificio di tutti ha potuto sopravvivere e rafforzarsi. Il confronto fra il provvedimento di amnistia ed indulto del 18 dicembre 1953 e quelli via via enunciati in questi anni da tutte le parti politiche denuncia l’ipocrisia del regime ed indica la via da seguire, non perché il parlamento possa esibire ‘clemenza’ ed ostentare il ‘volto cristiano della giustizia’, ma semmai perché venga piegato alla necessità di compiere un atto di giustizia. Una giustizia senza aggettivi, vergognosa di se stessa e del tempo perduto. Vincenzo Vinciguerra
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
La Storia violata, scrive Valerio Rizzo il 17 maggio 2009. Gli storici continuano a voler ignorare una storia piena di dolore, disperazione e di morte che da quasi 150 anni aspetta di essere scritta sui testi scolastici. L’esempio più emblematico di questa continua censura storica è il Lager di Finestrelle. Ma facciamo un piccolo passo indietro, cosa ha comportato l’Unità d’Italia? Le cifre ufficiali, anche se molto sotto-valutate, sono terrificanti: 5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Una vera e propria repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia e forse la si può definire come la prima pulizia etnica dell’epoca moderna, operata sulle popolazioni meridionali, dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti. Se queste argomentazioni ci indignano, niente può farci venire il ribrezzo più delle vicende che hanno coinvolto il forte di Fenestrelle dal 1860 al 1870. In quel periodo si concretizzò il primo campo di sterminio della storia moderna, in esso trovarono la morte più di 8.000 soldati del Regno delle Due Sicilie, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di letterati, preti, briganti e miseri contadini. Ma tutto ciò continua ad essere ignorato dalle menti illustri della storiografia “ufficiale” italiana e dai letterati; addirittura sul sito dell’Amministrazione Provinciale la fortezza viene presentata come “Monumento simbolo della Provincia di Torino” (con tanto di foto in notturna per decantarne implicitamente la bellezza), mentre sul sito ufficiale del Forte, si invita alla devoluzione del 5 per mille! Sempre sul sito De Amicis scrive: “Uno dei più straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni, un ammasso gigantesco e triste di costruzioni, che offriva non so che aspetto misto di sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un’invasione di popoli, o per contener col terrore milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la fortezza di Finestrelle”. Si chiude con “Guardiano immobile e supremo della nostra indipendenza e del nostro onore”. E’ la pura esaltazione dell’inferno! Ora immaginate se invece di Fenestrelle si parlasse di Auschwitz, e con in mente il nome del famoso lager nazista rileggete le parole di De Amicis appena sopra riportate!! Noi popolo meridionale abbiamo l’obbligo morale di dire tutte le verità sulla cieca e razzista politica di aggressione che i Savoia e i Piemontesi hanno fatto nelle nostre meravigliose regioni! Di seguito riporterò la vera storia, quella che non troverete mai nei testi scolastici dei vostri figli, leggetela con attenzione e con una lacrima nel cuore, come quella che avevo io mentre la trascrivevo. Fenestrelle, storia di un lager sconosciuto. “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce” (iscrizione messa in epoca fascista). E’ l’iscrizione che un visitatore legge oggi su un muro, entrando a Fenestrelle, fortezza ubicata sulle montagne piemontesi dove, dal 1860 al 1870, furono deportati i migliaia di meridionali che si opposero all’unità d’Italia e alla colonizzazione piemontese. Gli internati erano soprattutto poveri contadini ed ex soldati borbonici, gli stessi che sarebbero morti di stenti e vessazioni perpetrati da chi si reputava un liberatore! Un insieme di forti protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala di 4000 gradini scavata nella roccia: ecco cos’era a quel tempo Fenestrelle, una gigantesca cortina fortificata resa ancor più spettrale dalla naturale asperità di quei luoghi e dalla rigidità del clima. Assassini, sacerdoti, giovani, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura privi di luce e coperte, senza neanche un pagliericcio lottavano tra la vita e la morte in condizioni disumane; perfino i vetri e gli infissi venivano smontati per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti passavano le giornate standosene appoggiati ai muraglioni nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi di sole invernali, e chissà che in quei momenti non ricordassero con nostalgia il calore di climi più mediterranei. Pochissimi riuscirono a sopravvivere: le aspettative di vita in quelle condizioni non superavano i tre mesi e spesso i carcerati venivano uccisi anche solo per aver proferito ingiurie contro i Savoia. Nessuna spiegazione logica dunque alla base della loro misera prigionia, molti non erano nemmeno registrati, da qui la difficoltà di conoscere oggi il numero preciso dei morti, processati e non. E proprio a Fenestrelle furono imprigionati la maggior parte di quei soldati che, subito dopo la resa di Gaeta nel 1861, avrebbero dovuto trovare la libertà. Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero, invece, subire un trattamento infame: disarmati, derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi, morirono di stenti. Poi, il 22 agosto del 1861 arriva il tentativo di rivolta: uno sforzo inutile, sventato per tempo dai piemontesi e che ebbe come risultato l’inasprimento delle pene tra cui la costrizione di portare al piede palle da 16 chili, ceppi e catene. L’unica liberazione possibile era dunque la morte, delle più atroci: i corpi venivano sciolti nella calce viva, collocata in una grande vasca nel retro della chiesa all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Valerio Rizzo.
1970. LA RIVOLTA DI REGGIO CALABRIA CONTRO LO STATO STRANIERO. Riportiamo gli scritti del grande maestro Nicola Zitara, scomparso nel 2010, sulla rivolta di Reggio. Leggerla fa scaturire rabbia su rabbia! Ringraziamo Angelo Fusco per aver trascritto la nota l'11 febbraio 2015. Prima che vedessi con i miei stessi occhi, avevo immaginato la Rivolta di Reggio come uno di quei fatti insignificanti che la stampa afferra e gonfia, per attrarre lettori e inserzionisti pubblicitari. Il Sud era morto a ogni forma di risentimento. Le offese che la patria italiana ci aveva inferto e ci infliggeva colavano lungo le nostre facce di bronzo lasciandole completamente impassibili. Sempre servili, sempre attenti a non deludere l’Italia, potevamo piegarci a qualunque soperchieria. Chiusa la caotica parentesi postbellica, che ci aveva permesso qualche larghezza, ad esempio le lotte contadine per la terra, una ribellione sudica contro il venerato stato unitario era assolutamente inimmaginabile. Certo, a quel tempo la contestazione giovanile attraversava tutto l’Occidente, scatenando dovunque -oltre al resto- consistenti forme di iconoclastia statuale. Ma che in Calabria, dove anche i mafiosi più spavaldi cercavano l’amicizia dei reali carabinieri, qualcuno alzasse la mano contro lo Stato, era una cosa che stravolgeva ogni coordinata sociologica. Dopo l’annessione sabauda, il paese napoletano e la Sicilia erano scomparsi progressivamente come realtà, degradando, prima, a Questione meridionale - qualcosa che stava tra lo storiografico e l’antropologico - approdando, poi, a mera espressione geografica: territori popolati da uomini che assumevano rilevanza demografica se e quando utili alla patria italiana. Caso eclatante, la guerra all’Impero austriaco, che i fanti padani e le brigate alpine non se l’erano sentita d’affrontare da soli. In tale circostanza i contadini meridionali erano stati proclamati italiani a tutti gli effetti militari e invocati a difesa della lontana, sconosciuta e oppressiva Valle Padana. Casi meno eclatanti, ma non meno importanti: il ripianamento della bilancia estera italiana con lo spudorato uso delle rimesse dei terroni emigranti, e l’impiego della corrispondente valuta per convertire l’immane debito pubblico (padano) e per dotare di impianti moderni la nascente industria (sempre gloriosamente padana); ciò nello stesso momento in cui il Sud invocava spasmodicamente lavoro (in sostanza nuovi investimenti). In verità, l’opera di assoggettamento del Sud era stata condotta con spregiudicata eleganza; quasi senza lasciare tracce. Intonando patriottici inni, facendo squillare vibranti ottoni, sventolando tricolori, labari, gagliardetti e medaglieri, producendo una legislazione apparentemente appoggiata su una sola gamba, ma in effetti articolata su due, come la gru di Chichibio, l’Italia aveva piegato il Sud alle sue necessità di aspirante potenza militare ed economica. Ovviamente la soggezione presupponeva la negazione dell’identità storica meridionale. Ma la cosa funzionava soltanto con le classi istruite, che sin dalla prima elementare -anzi sin dall’asilo- potevano essere rieducate al disprezzo della propria terra e all’esaltazione dell’ethos venale e del verbiloquente epos guerresco dei toscopadani. Non aveva invece senso presso i contadini e il proletariato urbano. Volendo riparare, italianamente e pretescamente si escogitò un darwinismo terronico, contemplante l’inferiorità razziale dell’homo sudico, non sempre erectus, meno che mai sapiens, immancabilmente deficitario di scatola cranica e di materia grigia, di pubblica e privata moralità (su detta linea c’è ancora tanti, per esempio l’americano Putnam e persino il sudico Arlacchi, presidente, o quasi, dell’ONU). Arretratezza storica, malgoverno borbonico, crocianesimo, lombrosismo contribuirono a comporre l’alibi vincente con cui la nazione una poté ribaltare le responsabilità del colonialismo interno addossandole tutte sugli stessi meridionali, quelli vivi e quelli morti. Certo, anche il Sud era Italia, una parte della patria, ma solo come Questione meridionale. Per il suo bene supremo, era necessario che si emendasse, che si riscattasse dalle sue storiche ed etnografiche colpe, ovviamente, servilmente imitando l’Italia restante. Commossi, straziati, i meridionalisti avevano condotto defatiganti inchieste, le quali avevano stabilito che tutto il Sud era uno sfasciume pendulo fra due mari. Senza, però, ricordare né a sé né agli altri che lo sfasciato sfasciume manteneva il paese e pagava, con le sue esportazioni agricole, il debito estero padano. Pur assolvendo a tale nazionale e patriottico ruolo, i contadini sudici rimanevano poveri. Essendo poveri erano anche denutriti. Bisognava quindi che italianamente mangiassero qualche pagnotta di più. Per farlo, erano necessari dei soldi. Ma i soldi non c’erano. A qualcuno venne anche in testa che i soldi non c’erano, perché se li pappava lo stato, cioè il Nord. Ma evidentemente non era una cosa seria, degna dell’Italia una (neanche Arlacchi l’avrebbe ben giudicata). Inoltre i contadini erano analfabeti. Lo erano perché non andavano a scuola. Ma non andavano a scuola perché le scuole non c’erano. E se le scuole non c’erano, la colpa era tutta dei borboni, che non avevano provveduto ad elevare il popolo. Dopo tanto ben architettato trattamento, alla data del 1970, il Sud era ridotto a meno di un morto che parla. In effetti non parlava. Era ammutolito, esterrefatto, inebetito, non possedeva più le idee e le risorse per comunicare umanamente con il mondo. Di esso si sapeva soltanto quel che raccontava Amleto: che c’era del marcio in Danimarca. Un cratere che vomitava clientelismo, malaffare politico e malavita organizzata. La discriminazione nazionale era stata introiettata e aveva messo radici. Il Sud era alla vergogna di sé, alla prostrazione economica e politica. Svisato del passato e del presente, negato a se stesso, aveva sopportato tutto: offese, spoliazioni, sopraffazioni d’ogni genere. Sempre applaudendo i proconsoli di turno; ieri Ferdinando Nunziante e Giovanni Nicotera, all’atto, il colto Misasi e l’intraprendente Mancini. Ciò spiega la sorpresa dell’opinione pubblica nazionale per la Rivolta di Reggio -benché preceduta dal moto di Battipaglia - e contemporaneamente la finta indignazione dei giornali. Battipaglia e Reggio sono due casi esemplari di città che fino agli anni Cinquanta avevano in qualche modo resistito all’oltraggio italiano e al regresso meridionale, giungendo alla resa dei conti con il colonialismo interno e l’ilotismo nazionale solo dopo il miracolo economico italiano. Della Rivolta di Reggio la stampa neosabauda e la televisione governativa furono forse la causa scatenante, comunque delle protagoniste facinorose. Infatti, alla rivendicazione sicuramente legittima del capoluogo regionale, che alla città reggina veniva scippato attraverso una delle congiure di cui è costellata, in Italia, la vicenda politica postbellica, con la faziosità in alto richiesta, esse appiccicarono l’etichetta della gretta rivendicazione municipalistica, il pennacchio. Sarebbe stato divertente leggere cosa avrebbero scritto codesti liberi operatori della penna se Modena avesse rapito la secchia di prima città emiliana, e Bologna fosse insorta. Transeat. Il giornalismo farcito al gusto di anticamera di Palazzo romano è consentito solo quando è di scena il Sud. La politica cosiddetta di corridoio - in effetti le congiure di palazzo - sono state (e sono ancora) un tratto tipico, caratteriale, dei cosiddetti partiti costituzionali. Si autodefinirono in tal modo gli ex Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), poiché toccò ai loro massimi leader dettare, in sede d’Assemblea Costituente, la legge primaria; una costituzione indubbiamente moderna e civile, ma altrettanto sicuramente velleitaria e impotente di fronte alla realtà sociale italiana, organizzata e diretta da un sistema capitalistico parassitario, intrallazzista e geograficamente minoritario. Ovviamente al Sud fu consentito di partecipare solo di nome -e mai di fatto- alla riorganizzazione postbellica, sia a quella costituzionale sia a quella materiale. I suoi interessi non erano in linea -insignificanti, stranieri, retrivi, qualunquisti, anzi beduini- con gli interessi emergenti, con le progressive sorti del capitalismo padano e gli allori della Confindustria. Pur non costituendo niente, il Sud ebbe egualmente i suoi partiti costituzionali, anzi le loro filiali suburbane e sudiche: in pratica gli stessi comitati massonici e papalini dell’epoca notabiliare prefascista, che, l’8 settembre 1943, gli angloamericani avevano restaurati in trono. I quali, forti del vuoto politico creato dalla fellonia del re Savoia -e dovendo essi avvolgerla di nuovi allori e legittimare lo stato quale patria istituzione- ebbero mano libera per reimpiantare nel paese meridionale il malaffare con cui il sistema padano teneva aggiogato il paese sudico durante l’età giolittiana e le precedenti, sicuramente non meno gloriose e meritevoli. Dovettero, però, prima legittimare se stessi, e per far questo si impancarono a CLN (il quale era composto dai partiti democristiano, socialista, comunista, liberale, d’azione, del lavoro), praticamente a governo del paese meridionale. Ovviamente la lotta di liberazione, i loro leader, se l’erano fatta a casa, o magari al mare, e ciò per il semplice motivo che i fascisti erano stati tolti di mezzo dagli angloamericani, i quali ci avevano liberati prima che ci dessimo da fare per liberarci da noi. Eccezion fatta relativamente a singole persone e determinati luoghi, sin dal principio il legame tra i partiti del CLN e le popolazioni meridionali ebbe un carattere deteriore: sostanzialmente clientelare, nei casi migliori paternalistico. In prosieguo, capito che il vento spirava dal Nord, i suddetti impararono il vangelo resistenziale e lo predicarono ai paesani, continuando ad operare impunemente da ladroni pubblici, come al glorioso tempo del glorioso Giolitti. Solo il PCI ebbe un’origine popolare (e naturale), quale espressione delle masse contadine scese in campo contro i proprietari. Ma il legame ebbe presto una poco gloriosa fine. Infatti avendo anch’esso optato per la Ricostruzione solo del Nord, non ebbe altro modo per beccarsi i voti dei cafoni che continuare a vaneggiare di spartizione di latifondi e di continuare a maneggiare, con un ardore degno di miglior causa, l’archeologia economica. Ma ai contadini non ci volle molto per capire l’antifona. A quel punto preferirono la nuova America e presero i treni che Valletta spediva da Torino. Ovviamente pagandosi il biglietto di tasca loro. Resta solo il dubbio se il PCI non abbia saputo o non abbia voluto - poco marxisticamente - capire che il generale processo di modernizzazione in Europa aveva archiviato per sempre Caio e Tiberio Gracco, nonché la millenaria lotta per la proprietà contadina, ponendo in primo piano la lotta contro il sottosviluppo. La Rivolta scoppiò in questo clima di generale estraneazione nordista, con una borghesia che si sentiva nazionale se e quando riceveva i resti dell’italico banchetto e con il proletariato che s’era fatto finalmente nazionale dormendo nelle soffitte di Torino e ungendo di sudore e d’amare lacrime le catene produttive del trionfante Valletta. Alla popolazione di Reggio, che si poneva apertamente contro l’assetto nazionale, i giornali e la TV, dominati funzionalmente e idealmente dai partiti ex CLN, dedicarono malcelati giudizi di primitività, di faziosità, di becerismo. Sull’evento esiste un consistente numero di libri (da ultimo, Francesco Scarpino, La rivolta di Reggio Calabria tra cronaca e mass-media). Non ho argomenti per aggiungerne un altro. Vorrei solo notare qualcosa che mi pare generalmente sfuggita: per la prima volta, in tutti gli ottant’anni della sua storia, la sinistra italiana si pose a fianco della repressione governativa e poliziesca e contro il popolo. Ove occorresse, si tratta di un’ulteriore riprova che, dopo venticinque anni di democrazia, il proletariato meridionale stava nel cuore della sinistra nazionale soltanto per i voti che poteva dare. Il sentimento (o meglio, la sua mancanza) venne in luce proprio in tale circostanza e ad opera delle frange (non storiche) della stessa sinistra italiana. Nel 1970 si era ben lontani dal tetro conformismo attuale, dal plumbeo panorama ideale che esclude ogni forma di critica al sistema imperante, attruppa le idee nella tomistica del capitale, dio e taumaturgo, e piega gli intellettuali a inchinarsi al trono (anche se di cartapesta), chiunque vi sieda: Berlusconi, Agnelli, Veltroni. Fuori del Sud, la contestazione traboccava persino dentro i compatti, impermeabili territori della sinistra comunista e sindacale. Quando gli inviati della stampa di ultrasinistra raggiunsero la provincia marginalizzata del profondo Sud (era questa l’ultima invenzione linguistica che ci toccava subire dagli italiani civili) per cercare di capire come mai il proletariato reggino si facesse strumentalizzare dai boia chi molla, non trovarono sul campo altra spiegazione, se non quella delle cause remote: i moventi di ordine occupazionale di cui parlavano i Quaderni calabresi, una pubblicazione fuori del giro della dorata intellighenzia capitolina, ambrosiana e taurina; i quali Quaderni appartenevano, però, più all’extraitalianità che all’extraparlamentarità. Infatti contestavano proprio alla sinistra nazionale, quella parlamentare e quella non, d’avere un DNA nordista; d’essere appiattita e ligia alla più volgare ipocrisia votocratica; di arrogarsi il diritto di parlare in nome del popolo meridionale per confonderlo e sfigurare la rappresentazione dei suoi veri interessi (di classe). In un’epoca in cui Gramsci era ancora in auge e il proletariato era inteso come classe nazionale, i Quaderni calabresi non si erano peritati d’affermare che nell’ambito della classe nazionale si dava -oggi come al tempo di Gramsci- peso zero ai proletari meridionali e si usava la forza che essi esprimevano sulla bilancia dei rapporti sociali nell’Italia restante. La stessa visione gramsciana di un Sud prettamente contadino era viziata da una debole conoscenza del paese meridionale e costituiva un regalo ideologico al capitalismo padano. In termini non metaforici dicevano che, sul tema della strutturale inoccupazione meridionale, i partiti di sinistra e i sindacati ipocritamente facevano solo parole, e le facevano per acchiappare voti. Aggiungevano che un popolo costretto a non produrre (dalla dominazione coloniale padana) non doveva rassegnarsi a essere guidato dall’esterno, da forze sostanzialmente nordiste. In verità i Quaderni non erano stati i primi a sostenere che la disoccupazione meridionale era a tutti gli effetti popolazione in più, sovrappopolazione; né erano gli unici ad affermare che l’acclamato e reclamizzato miracolo economico italiano era tutt’altro che un fatto nazionale, ma solo regionale, circoscritto a poche regioni, al Triangolo industriale Genova-Torino-Milano; né erano i soli a dire che tutto quel che aveva innalzato il Triangolo in cent’anni, e stava ancora innalzandolo sulle altre regioni, veniva pagato in contanti dal Sud. Però si ritrovavano isolati e malvisti quando ponevano un’alternativa: o (uno) l’uscita della sinistra nazionale dal terreno sindacale e retributivo, per portare lo scontro su un terreno veramente meridionalista, per la classe l’unico veramente nazionale e internazionalista; o (due) la permanenza sul terreno riformista anche del proletariato meridionale, ma con un proprio partito politico. La polemica salveminiana di sessant’anni prima contro il riformismo di Turati e dei socialisti padani, sulla quale erano attestate (peraltro solo a parole) le formazioni storiche di sinistra, risultava sottodimensionata rispetto alla consistenza reale del rapporto Sud/Nord. Questo non andava visto come il prodotto dell’imperialismo straccione italiano, ma come un caso inedito di accumulazione primitiva che si prolungava da oltre un secolo ricevendo la benedizione della sinistra, tanto prima del fascismo, quando era diretta dal riformista Turati, quanto dopo, sotto la direzione del stalinista Togliatti. Bisognava risalire necessariamente alla formazione dello stato nazionale italiano per trovare non solo l’origine del sottosviluppo meridionale, ma anche la causa che lo riproduceva a ogni passaggio della storia. Difatti la questione meridionale si spiegava soltanto con il modo singolare con cui l’Italia s’era avviata al capitalismo. Al momento dell’annessione al Nord, gli esponenti politici e militari del Sud, corrotti con il danaro e le promesse, resi ciechi -i residenti- dalla paura dei contadini, i fuoriusciti dalla voglia di rivalsa, cedettero il paese con le mani legate all’ingordigia e all’arroganza di Cavour, che raddoppiavano a ogni fortunato regalo della storia. Forte di tanti gratuiti e insperati successi, il mellifluo/tracotante Ministro ottenne il diritto-potere di lucrare sullo stato a favore di alcuni suoi compari di briscola. Si trattava di un gruppetto di concussori e malversatori di estrazione genovese, ai quali le circostanze dettero il destro di mettere le mani nel piatto. Però il carattere parlamentare del governo sabaudo (possiamo dire) li costrinse ad allargare la base dei loro intrallazzi. Dalle successive relazioni malavitose scaturì (o se più vi piace, fiorì) il gruppo affaristico che, nonostante gli eventi secolari e la mobilità degli individui, tuttora dirige l’Italia. Questi eupatridi, che fiutavano la preda come un levriero dal pedigree perfetto, s’accorsero subito (o forse lo sapevano da prima) che in seguito all’annessione delle Due Sicilie, la vera greppia era l’uso spregiudicato (potremmo anche dire il saccheggio, senza travisare niente) dei napoletani, dei siciliani e dei territori su cui erano insediati storicamente. Arma dell’azione: il fisco. Anzi l’erario, che contempla oltre alle entrate, anche le uscite. Difatti, il punto in questione sono proprio queste. Se tutta la borghesia italiana avesse potuto approfittare della generosità statale -come sempre accade negli stati a carattere borghese- il profitto non sarebbe stato grande, in quanto le sostanze statali erano alquanto scarse. Così (con buona pace per Tommasi di Lampedusa e per il suo Gattopardo), gli eupatridi decisero di escludere i borghesi napoletani e i borghesi siculi dal bottino. Cosa che, avendo essi la sciabola in mano, non fu difficile. Da allora la guida effettiva dello stato (i vari Crispi, Moro, Colombo, sono solo dei direttori generali che eseguono decisioni d’un superiore consiglio d’amministrazione e non possono firmare assegni se le cifre sono grosse) appartenne esclusivamente alla borghesia tosco-padana. La quale usò e usa spregiudicatamente il potere, in funzione dei suoi profitti. Alla borghesia meridionale furono assegnati i resti del banchetto -quelli che di solito vanno alla gatta di casa- e il ruolo ascaro e servile di mediatore con il popolo sudico degli interessi nordisti; in sostanza una posizione ancillare. Nei fatti essa poté esplicarsi come classe promotrice della produzione capitalistica soltanto in quei settori che non toccavano gli interessi della consorella settentrionale. È superfluo aggiungere che in un paese a economia e legislazione capitalistica, se la borghesia è limitata, anzi impotente, si arriva presto all’improduzione, al sottosviluppo, alla disoccupazione generale, alla sovrappopolazione. Proprio all’avvio degli anni Settanta, Paolo Cinanni (Emigrazione e imperialismo) spiegava, sulla scia di Marx, che le masse disoccupate meridionali si configuravano come un esercito industriale di riserva a favore di altre realtà sociali; una cosa peraltro storicamente sperimentata tra il 1880 e il 1914, quando i cafoni erano andati a stendere rotaie sul continente americano, e replicatasi nel corso del ventennio postbellico, con i lavoratori del Sud chiamati a fare da rincalzo dell’esercito operaio, nelle catene di montaggio tedesche e del Triangolo industriale italiano. Se la borghesia sudica era stata una serva fedele, arrivato finalmente, grazie al miracolo economico (dei salari più bassi, fra i paesi industriali europei), l’arrosto sulla tavola nazione una, anche la morale più gretta avrebbe voluto che i commensali lasciassero alla gatta un po’ di carne sull’osso. Invece, la borghesia settentrionale restò sorda a ogni forma di civismo, di gratitudine, e orba della lungimiranza che qualunque collettività normale avrebbe avuto in simili condizioni. Tra Sud e Nord non ci doveva essere uno spazio comune. Sempre tutto al Nord, secondo il migliore stile del redditiere. Come abbiamo già notato, il carattere parassitario della borghesia padana sta scritto a lettere cubitali nelle procedure intrallazzisti che contrassegnarono la sua assurzione a capitalismo nazionale. Un qualunque sistema capitalistico non nasce con i soldi dell’industria (che ancora non c’è) ma con quelli di altri settori. Marx chiamò questa fase accumulazione primitiva (originaria). Quella compiuta dal capitalismo italiano appartiene a una tipologia unica nella storia mondiale. Non è venuta dal capitale agrario, e neppure da quello marittimo, o commerciale, o manifatturiero; è nata invece da quell’intrallazzo statale e fiscale di cui si è accennato. Infatti la spregiudicatezza di Cavour in materia di danaro pubblico divenne una specie di patrimonio immorale, che passò quale bene ereditario prima alla Destra e poi alla Sinistra, entrambe storiche (tali sicuramente in materia di malaffare). Demani svenduti; concessioni di monopoli statali, in cui lo stato dava la concessione e anche il capitale, pagando per sovrappiù gli interessi sul mutuo che esso aveva concesso; ferrovie private pagate con i soldi dei contribuenti, le stesse in appresso nazionalizzate e pagate ai privati, poi ri-regalate ai privati e alla fine ri-nazionalizzate e pagate nuovamente; baroni che fondevano acciaio con rottami di ferro ricchi solo di impurità; corazzate e incrociatori costati sedici volte il loro effettivo valore; cartelle del Debito Pubblico acquistate da istituti di credito inclini a falsificare i biglietti di banca e da finti risparmiatori al prezzo di svendita di lire 23,00, e alla scadenza ripagate dal Tesoro 100,00 lire-oro: queste cose -e purtroppo non solo queste, ma anche la vergogna di una quadreria di generali e ammiragli non s’è mai ben capito se più incompetenti che arroganti, o viceversa- fecero da humus alla fioritura della nuova borghesia nazionale, quella che dette e dà i quadri dell’industria e formò e forma gli indirizzi di governo. A questo disastro morale originario e risorgimentale si aggiunse trenta anni dopo il parassitismo industriale. L’industria nazionale si avviò intorno al 1895, per mano di quelle famiglie della nuova borghesia parassitaria che Cavour e i suoi epigoni avevano tenuto a battesimo con l’acqua santa della corruttela e il sale sapientiae della speculazione sul debito pubblico. Era gente che non somigliava in nulla al capitano d’industria ambizioso di vincere costruendo, come lo immaginiamo leggendo i romanzi inglesi, francesi e tedeschi. I nostri - piaccia o non piaccia, è storia patria - avviavano industrie non per affermarsi nella competizione produttiva, ma per prolungare la precedente speculazione erariale. E in verità ci riuscirono ampiamente. Naturalmente il risultato produttivo fu così incongruo, meschinello, inefficiente, rachitico, che le loro imprese private costarono ai contribuenti e ai consumatori nazionali cifre iperboliche, perfino difficili da immaginare (Emilio Sereni, Capitalismo e mercato nazionale; un’opera fondamentale sull’accumulazione primitiva in Italia, dotata anche di un apparato bibliografico importante perché i riferimenti più scottanti sono di regola ignorati dagli storiografi accademici). Di certo c’è solo che il prezzo di tale immane e invereconda inefficienza fu messo in conto all’agricoltura, specialmente a quella meridionale. Al tempo dei cosiddetti fatti di Reggio, la tematica dell’industria parassitaria era tutt’altro che nuova in Italia. Un filone del meridionalismo pre e post fascista -non amato a destra e trangugiato malvolentieri a sinistra, tanto che gli illustri compilatori di antologie meridionaliste, di regola, hanno preferito ignorarlo- l’aveva avviata già prima della guerra del 1914-18 e l’aveva ripresa dopo la caduta del fascismo. I pescicani, i padroni del vapore erano stati infatti oggetto dell’informata denunzia di Ernesto Rossi, seguito da qualche meno dignitoso e retto discepolo, che ha preferito farsi foraggiare dal nemico e sterzare la mira sulla sola industria di Stato. La nostrana tipologia di accumulazione primitiva -l’accumulazione parassitaria- non compare nella vivace esemplificazione di Marx sul famoso XXIV capitolo del primo libro de Il capitale, né in quella ancor più efficace che costituisce la parte descrittiva del Manifesto del partito comunista. Senza offendere il padre dell’analisi classista, che non avendo potuto conoscere i padri del capitalismo italiano, pare avesse qualche apprezzamento per i pionieri dell’industria, potremmo definirla accumulazione parassitaria secolare; che poi rappresenta la più solida delle istituzioni nazionali. Nonostante gli alti profitti provenienti dal doppio stadio di intrallazzo realizzato (uno) mettendo le mani direttamente nel cassetto e (due) imponendo per oltre mezzo secolo una politica protezionistica controproducente ai fini della stessa crescita industriale ma grandemente profittevole per i padroni, il capitalismo nazionale italiano non era penetrato tuttavia in alcune situazioni produttive. Mi riferisco all’agricoltura di piantagione e alle produzioni mediterranee. Un settore in cui la borghesia attiva del Sud mostrò d’essere ben più moderna della consorella padana; così moderna ed efficiente da competere sul libero mercato internazionale, senza la copertura di dazi e benefici; da risultare, anzi, vincente nonostante l’inimicizia del suo stesso stato nazionale; e così capace di sorgere e risorgere, che allo stato nemico ci vollero ben cent’anni per abbatterla definitivamente. È questo il punto dove il castello di bugie rivolto a sorreggere l’alibi padano, il falso storico dei mali antichi di cui il Sud sarebbe afflitto, mostra la sua faccia sporca. Come il volpino Cavour aveva intuito fin da giovane, l’abbassamento delle tariffe doganali e la liberalizzazione degli scambi internazionali che, nel 1860, a Italia non ancora ufficialmente nata, egli, divenuto primo ministro nazionale, volle imporre, fece esplodere il potenziale di cui erano gravide le produzioni del Sud: l’olio, il vino, gli agrumi. Solo poche cifre. Secondo la stima di Correnti e Maestri, autori di una celebre ricerca statistica che fu non solo la prima che si faceva in Italia, ma anche l’ultima ispirata a onestà intellettuale, nel Regno borbonico venivano prodotti circa 900mila quintali di olio, il 60% dell’intera produzione italiana. L’esportazione annuale toccava mediamente i 450mila q.li, cioè la metà del prodotto. In realtà il Sud italiano, parecchio più che la Spagna, ebbe per l’intero secolo XIX un quasi-monopolio per la produzione di olio, che esportava in Francia, Inghilterra, Germania, Austria, Russia, America del Nord e del Sud, nonché nell’Italia restante. Oltre che un alimento, l’olio veniva impiegato nelle lucerne, per l’illuminazione, come lubrificante industriale e nella lavorazione dei filati di cotone. Sotto la spinta della domanda internazionale e nazionale, nel 1909 la produzione olearia meridionale aveva superato i due milioni di quintali. Con ben 588mila q.li, la produzione calabrese aveva fatto un tal balzo in avanti da porsi al secondo posto, subito dietro la Puglia, regione madre della produzione olearia mondiale, che ne produceva 617mila q.li (Chino Valenti, L’agricoltura dal 1861 al 1911, in cinquant’anni di storia italiana). Diversamente da quello che la gente immagina, l’ulivo non cresce e l’olio non si produce per grazia divina. Certo la natura ama l’albero sacro a Minerva, e forse anche Dio lo ama, però bisogna investirci dentro lavoro e danari. Dove gli uliveti assumono il carattere della piantagione a filari squadrati, come nella Piana di Gioia e su tutta la collina jonica e tirrenica, sicuramente molti soldi. Quanti? Gli impianti calabresi che coprivano 84mila ettari, nel 1880, erano passati a 151mila ettari nel 1951 (dati Istat, riportati da Ferdinando Milone, L’Italia nell’economia delle sue regioni): 67mila ettari in settant’anni, quasi 1.000 ettari di nuove piantagioni l’anno. Nei nostri uliveti ci sono risparmi di notevolissima consistenza, nonché la fatica di dieci e più generazioni; c’è, soprattutto, uno stringere la cinghia per decenni, perché una pianta d’ulivo impiega quindici o vent’anni per arrivare a pieno frutto. L’ulivo non dava molta occupazione ai contadini d’un tempo. Soltanto la raccolta era l’occasione per un corale coinvolgimento di donne e di uomini, che durava qualche mese ogni due anni. Prima che arrivassero i moderni mezzi di aratura e di raccolta, la scadenza dava lavoro a circa mezzo milione di persone, per un totale di un milione/un milione e mezzo di giornate lavorative, nel biennio. Ed è completamente sbagliato considerare un progresso il sopravvenire di macchine, perché si tratta di lavoro nostro che si sposta in altre regioni, senza che ci sia - come sarebbe naturale - un aumento della domanda in altro settore della produzione. A ottenere cospicue entrate era invece il padronato, i cui maggiori esponenti, in questa parte ultima della Calabria, vivevano signorilmente a Reggio. Il Corso Garibaldi e il Lungomare, che nel 1939 erano considerati fra le più belle e lussuose vie d’Italia, potevano dare l’idea di quanto quelle entrate fossero consistenti. I palazzi che li fronteggiavano erano ricchi e belli. Non solo, ma ricostruiti già una volta dopo il terremoto del 1783, il padronato reggino li aveva dovuti ricostruire per ben due volte, una dopo il terremoto del 1908 e una seconda dopo i bombardamenti americani. I soldi per edificare e riedificare tre volte la città in appena centocinquant’anni non arrivarono da Napoli o da Roma, e neppure da Milano, ma vennero dall’olio e dagli agrumi. Veniva dall’agricoltura anche la spesa vistosa della gente che trascorreva oziose mattinate e indolenti pomeriggi dinanzi al Comunale, indossando fresche camicie di lino e cravatte di seta pura. Perché l’agricoltura di Reggio, per la sua produttività, era quasi un’industria. Anzi nel caso del bergamotto era persino più produttiva dell’industria. Bisogna aggiungere che se, attraverso il fisco e il drenaggio bancario, la quota più consistente del surplus viaggiava verso i padani, la parte che i ricchi consumavano andava per una quota consistente ai lavoratori della città (abbiamo qui una buona esemplificazione del Tableau économique di Quesnay): ai muratori, ai fabbri, ai falegnami, ai camerieri, agli addetti al commercio, a quell’esercito di persone civili e dignitose nonostante la povertà, qual era il popolo di Reggio intorno al 1936. Certo, a tutti i cronisti meridionali piacerebbe poter scrivere che i signori elegantemente accomodati nella sala più riservata del Caffè Pontorieri erano degli intraprendenti cavalieri d’industria, invece che dei redditieri. Ma, a parte il fatto che nel bergamotto e nel gelsomino costoro, come già annotato, erano dei veri industriali, l’organizzazione dello Stato, scaturita dal processo risorgimentale, aveva tolto i capitali necessari e lo spazio tecnico per scalare l’erta parete dell’industria. Gli storici della destra sabauda e della sinistra sedicente gramsciana fanno finta di non sapere che il fatto che ciascuno di loro fosse sufficientemente ricco per costruirsi (o ricostruirsi) un lussuoso palazzo significava poco ai fini imprenditoriali. Infatti non il ricco privato ma solo la volontà bancaria trasforma il capitale in investimento (Joseph A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica). Ho fatto l’inciso perché la pigrizia spagnolesca della borghesia meridionale è soltanto una favola. In effetti, la modernizzazione produttiva era stata avviata in Calabria con piede più sicuro e più europeità che negli altri ex-Stati regionali (basti pensare al setificio di Villa San Giovanni); un passaggio che gli storici dell’economia identificano con la fase della pre-industrializzazione, come dire la manifattura senza ancora il motore e i combustibili fossili, cioè la prima fase del capitalismo, allorché gran parte degli artigiani lavorava (non più su commissione nella propria bottega, ma) in un opificio dove si produceva direttamente per il mercato. Dico di più. Al tempo di Ferdinando II, la Calabria Ultra era la parte più industrializzata (nel senso di cui sopra) del Regno, dopo Napoli. La quale Napoli, poi, era sicuramente l’area d’Italia dove la preindustrializzazione era più avanzata e più integrata che altrove. E a detta del gruppo di urbanisti giapponesi che ultimamente l’hanno studiata con serietà, come è costume di quel popolo, l’area meglio preparata a un successivo passo avanti in tutto il Mediterraneo, non esclusa Marsiglia. Patriotticamente, italianamente, l’arretratezza sudica corrisponde a uno scippo delle sue manifatture. La borghesia attiva del Sud era una cosa ben diversa dalle classi baronali che Cavour prima, Giolitti in appresso, legarono a sé per dividere e dominare il paese napoletano e la Sicilia. Cosicché i massacri e parecchi fra gli stessi baroni non accettarono l’annichilimento italiano e reagirono come poterono concentrando i loro interessi sull’agricoltura di piantagione. La storia economica e sociale della Campania, Puglia, Sicilia, Calabria, nell’infelice prima fase del saccheggio padano, ha del miracoloso. Gli agricoltori fecero qualcosa di più che produrre. “Le esportazioni meridionali salvarono l’Italia” (oggi diremmo hanno salvato l’Italia), sottinteso dalla bancarotta internazionale, si esclamò in Senato al tempo del (finto) pareggio del bilancio, nel 1876 (si badi, siamo al secondo salvataggio in soli dodici anni). I libri di storia patria non amano il Sud, meno che mai ammettono che la questione meridionale l’hanno inventata proprio gli storici di parte sabauda, come alibi dell’assassinio di un popolo che la stessa Italia proclamava italiano. E non amano parlare della rivoluzione agricola che salvò l’Italia. Eppure l’imponenza dello sforzo produttivo e la consistenza dei suoi risultati non sono un’opinione generica, ma fatti. Al tempo dell’inchiesta agraria Jacini, che si svolse a partire dal 1880, gli ettari destinati ad agrumeto erano nelle tre province calabresi non più di 4mila. Nel 1970, il professor De Nardo rilevava ben 24.800 ettari. La progressione, nel settantennio, è di 354 ettari l’anno, che potrebbero sembrare persino pochi, ma trasformare una brughiera, un arido pascolo, adatto solo alle capre, in un lussureggiante giardino di bergamotti o di aranci costa parecchio. La spesa principale è l’irrigazione. Si tratta d’un investimento capitalistico nel significato più completo. Le canalizzazioni spesso sono lunghe chilometri. Captate a monte le acque di una fiumara, esse le derivano verso i fondi posti a valle, non sempre vicini. Altre volte l’acqua si ottiene mediante lo sbarramento delle falde subalvee, in tal caso le opere murarie sono ancor più consistenti; in pratica debbono essere sufficientemente profonde e sufficientemente alte da sollevare l’acqua di una decina di metri, in modo che possa scivolare per caduta verso i quadri a valle. Ancora maggiori sono i costi quando, in mancanza di opere consortili, è il singolo proprietario che scava un pozzo. Difficilmente l’acqua che esso dà è sufficiente a più di un fondo. In questo caso i costi crescono perché è necessario addurre la corrente elettrica; garbatamente la SME caricava l’intera spesa sul portafoglio del produttore privato, anche se poi si appropriava della condotta elettrica, in base alla legge della giungla. Non minore era il costo delle opere di piantagione. Infatti un agrumeto non si pianta col tempo e in tutta comodità, diluendo la spesa negli anni. Esso è come una fabbrica: deve dare un prodotto commerciabile, una merce uniforme per varietà e momento di maturazione. E ciò si ottiene soltanto con un impianto coevo. Ferdinando Milone, un grande e corretto maestro di geografia economica, scrive: “Anche qui le piante di agrumi appaiono un po’ dovunque, nei campi coltivati; risalgono le pendici e i terrazzi dell’Aspromonte; si insinuano nelle valli più apriche; proseguono lungo la costa jonica, dove la loro coltivazione si fa di nuovo più intensa… tra Sant’Ilario e Caulonia… L’agrumicoltura, e specie la coltivazione del bergamotto, ha trasformato il deserto in lussureggianti giardini… (cosicché) dobbiamo pur riconoscere il grande sforzo compiuto da questa gente e sfatare, se possibile, le accuse che a essa si facevano, scambiando per infingardaggine l’inattività che, il più delle volte, derivava dalla mancanza di capitali per l’adatto sfruttamento di una terra dal clima dolcissimo, ma quanto mai avara. Alla rilevata trasformazione, infatti, hanno contribuito in massima parte i capitali derivanti dall’emigrazione e il lavoro assiduo”. Ora, chi investe danaro in proprio, o magari accende un mutuo al fine d’investire, lo fa se e quando si rappresenta la prospettiva di un profitto. È facile concludere, quindi, che, se a Reggio si era arrivati ad alti livelli di spesa in impianti fissi, i profitti sicuramente non mancavano, anche se poi le patrie statistiche ci dicono poco su tale argomento. C’è stato (e c’è tuttora) uno strano atteggiamento intorno all’olio e agli agrumi: valevano moltissimo quando si trattava di classificare i terreni a fini fiscali; era come se non esistessero quando si trattava di glorificare la patria agricoltura. Negli scritti ufficiali -principalmente le statistiche agrarie, ma anche gli scritti di storici accademici, come quelli del tanto lodato (sarò pure fazioso, ma credo lodato solo per i suoi ammanigliamenti bancari) Gino Luzzatto- si ricava il sospetto che affermare, o appena ricordare, che per oltre quarant’anni il valore delle produzioni meridionali fu di gran lunga superiore a quello dell’agricoltura settentrionale sembra un delitto di lesa maestà. Il citato Luzzatto, in un libro che fa testo in materia di storia economica dell’Italia unita, si sofferma sull’esportazione d’olio una sola volta, dedicando alla cosa un solo rigo, mentre la parte dedicata alla seta padana deborda da tutte le parti, zampilla a ogni parola. Peraltro l’Illustre non perde il suo tempo per informare che dopo la caduta del prezzo da 10 lire a 2,50 (a causa dell’arrivo in Europa della seta giapponese) il settore era ormai finito; che la gloria economica del Piemonte e del Lombardo-Veneto non contribuiva granché alla bilancia commerciale, sicuramente non nella misura intravista dall’occhio avido dell’indebitato Cavour. L’avversione a ricordare le esportazioni meridionali ha portato alla pratica scomparsa delle statistiche sull’olio. Oggi possiamo facilmente sapere, per esempio, quanti asini circolavano in Calabria nell’anno 1876 e quanti chili di seta si filavano a Como nel luglio del 1877. Ma a trovare una serie storica sull’olio, il vino e gli agrumi, ci vuole uno Sherlock Holmes in servizio attivo. Fra tante glorie nordiste e tante omissioni sudiche, sappiamo comunque che tra il 1905 e il 1958, le superfici irrigue, in Calabria, passarono da 48mila ettari a 91.247 ettari. In cinquantatré anni sono stati riportati a coltura irrigua 43mila ettari, per una spesa che si può calcolare intorno ai quattro/cinquemila miliardi. Logicamente sborsati dai calabresi. Più espliciti sono gli agronomi, e non solo quelli che avevano cattedra all’università di Portici. In effetti, l’idea di un’agricoltura calabrese sconfitta e impotente non apparteneva a chi giudicava da competente, ma soltanto al giornalismo prezzolato dagli industriali milanesi e in appresso al cinema fintamente realistico. Basti ricordare l’informato saggio di De Marco posto in appendice al volume su Calabria e Lucania dell’Inchiesta Jacini (volume fortemente sgradito al riscrittore, prof. Nicola Caracciolo, non so se piemontese di nascita, sicuramente sabaudo per atti di pensiero). De Marco attribuisce agli aranceti e ai limoneti un valore della produzione di quasi 900 lire (del 1880) l’ettaro e al bergamotto un valore di 1.800 l’ettaro, tre volte le 600 lire della granicoltura lombarda. Credo il valore più alto in Europa. Forse anche nei bergamotti c’era la mano di Dio, ma i bergamotteti li piantano comunque gli uomini, che nel caso non erano lombardi e non erano andati a scuola dal professor Luzzatto. I libri degli agronomi suggeriscono l’idea di un’agricoltura reggina meno povera di quel che ci vogliono far credere, e tuttavia pur sempre un’economia subalterna, in cui la spinta e la controspinta produzione-investimento funzionava nell’ambito di un solo settore. Che, comunque, almeno Reggio fosse meno povera di quel che si ama sostenere a proposito del Sud lo dimostra una precisa circostanza. Negli anni Trenta, allorché il bergamotto e le arance tiravano a tutto vapore -e gli agrumi rappresentavano la prima posta della bilancia commerciale italiana con l’estero- su sette banche nazionali presenti in Calabria, sette avevano la loro filiale a Reggio e due soltanto avevano aperto un’agenzia fuori Reggio. A quel tempo non era un mistero che detti istituti erano scesi da Milano e da Roma - inseguendosi l’un l’altro e gareggiavano fra loro onde accaparrarsi una buona posizione sul Corso Garibaldi - per incettare i cospicui incassi degli agricoltori, che in parte rimettevano al Nord e in parte lavoravano sulla stessa piazza di Reggio. La funzione negativa di una banca forestiera operante su una nostra piazza non sta tanto nel fatto che funziona da pompa per drenare altrove il nostro risparmio, quanto nell’altro che non compie operazioni rischiose, quali sono quelle industriali. In pratica finanzia il commercio. Ed è proprio attraverso il commercio che passa e si rafforza la subalternità coloniale, in quanto il commercio (oggi detto distribuzione: gli alimentari, i tessuti, l’edilizia, il legno, ecc.) si approvvigiona presso gli industriali. In sostanza, con il risparmio locale le banche hanno sempre prefinanziato lo sbocco meridionale dell’industria padana. Solo il Banco di Napoli, che nei decenni precedenti il fascismo aveva convogliato quasi tutto il risparmio in valuta degli emigrati italiani (prima della guerra del 1915-18 la cifra ufficiale era di 25 miliardi dell’epoca, pari a 123mila miliardi in lire attuali), effettuava, attraverso la sezione speciale del credito agrario, operazioni a lungo termine. L’importanza e la proficuità (per l’istituto napoletano; il costo, se si guarda da parte di chi pagava pesanti interessi e subiva troppo facili esecuzioni immobiliari) di tale attività è comprovata dal palazzo che sorge all’angolo tra la Prefettura e la Provincia, al centro del centro di Reggio; un edificio imponente per essere solo la filiale di una banca, e che gareggia in grandezza con la sede barese e con la stessa direzione centrale, a Napoli. Prima della guerra, dunque, Reggio non era povera quanto Catanzaro o Campobasso. Anche se non prosperava, almeno campava. La sua agricoltura era fra le più moderne d’Italia, e la danarosità della classe padronale teneva in vita un consistente artigianato urbano di servizio al palazzo. Certo il settore industriale era poca cosa. Se la memoria non mi tradisce, esso non andava oltre il molino Costantino; praticamente zero, se consideriamo i bisogni occupazionali di una città che contava 200mila abitanti. Anche i servizi culturali, che la benevolenza sabauda le riservava, erano bloccati a livello delle scuole medie superiori, mentre quello stesso Stato -al Sud tanto micragnoso- faceva lo scjalone tra l’Emilia e la Toscana, dove aveva insediato ben sette università -cinque più del necessario e dell’equo (Siena, Pisa, Modena, Ferrara e Parma, oltre a Bologna e Firenze), in quanto rivolte al servizio di cittadine di modesta popolazione. Ciascuna di esse, infatti, non arriva a un quarto della popolazione reggina e tutte assieme ne facevano appena il totale. La crisi reggina va connessa con la crescita demografica che si verifica negli anni a cavallo tra guerra e dopoguerra. Le nuove generazioni non trovano una sistemazione, in quanto proprio nel dopoguerra il Sud perde la battaglia che passa sotto il nome di Ricostruzione Nazionale, ma che tale nome non merita (e neppure le lettere maiuscole) trattandosi della ferma scelta da parte del CLN - quasi una congiura - di concentrare tutte le risorse nazionali e l’apporto degli aiuti americani sullo sviluppo del solito Triangolo padano, come chiedevano Valletta (FIAT) e altri ceffi di pari statura. A contrappeso e come palliativo si procede all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Si proclama che il Sud ha bisogno di infrastrutture (parola allora nuova per dire le strade e gli acquedotti, quelli che né la Destra Storica, né Sinistra egualmente Storica, né il Ministro della malavita, Giovanni Giolitti, e neppure Benito Mussolini, Duce vittorioso e Fondatore dell’Impero, s’erano degnati di fare, né sono venute dopo, nonostante la Cassa, ancorché Bossi e compagnoni padani piangano calde lacrime su una fattura che non è stata mai pagata dai soli paludosi (padani). Il nuovo ente è sotto il comando strategico di politici dotati di grande talento geografico, i quali s’impegnano a ridisegnare l’aspetto del paese meridionale secondo le misure del loro sarto di famiglia. Tanto per fare un esempio Napoli, la vecchia capitale del Regno meridionale, italianamente degradata a capoluogo di provincia, si comincia a trasferirla ad Avellino. Così anche Reggio. La quale è città fastidiosa in quanto elegge un senatore e un deputato fascisti. Non avendo provveduto un terremoto, la briga di accorciarla se la prendono i nostri. In effetti il municipalismo cosentino incide in modo tutt’altro che lieve sulla geografia economica, sociale e umana della vecchia Calabria. La consistenza urbana e il peso politico di Cosenza crescono visibilmente, sospinti dalla mano adunca del notabilato politico clientelista e dall’abile unilateralità politica della Cassa di Risparmio di Calabria (il figlio del capo era asceso a deputato con i voti cosentini e a sottosegretario italiano di stato con la benedizione di frate Colombo). Sebbene strategata dal meno che mediocre Ernesto Pucci, Catanzaro riesce ad arraffare il peculio che di solito va a chi regge il sacco. Reggio paga il fio d’essere incostituzionale, di dare voti ai fascisti, anzi di non darli agli ex CLN, e lentamente decàde. Il diffondersi della coltura e dell’industria del gelsomino, i successi del Caffè Mauro non riescono a nascondere l’involuzione. Decàde, ma non protesta. Il ceto politico che la dirige è perdente a livello romano e cosentino. Il senatore Barbaro poteva ben essere un galantuomo, e anche devoto alla sua città, ma non aveva entrature a Roma, tanto sulla destra quanto sulla sinistra del Tevere. Al tempo della Rivolta operavano in Calabria 37 istituti di credito, con 215 sportelli, i quali totalizzavano una raccolta di risparmio vicina ai 500 miliardi. Reggio, benché alla guida della provincia con il minor numero di comuni e di abitanti, era ancora in testa, sia sul lato dei depositi sia sul lato degli impieghi (cfr. Unione Regionale delle Camere di Commercio I.A.A., Relazione sulla situazione economica della Calabria nel 1970, a cura di Vincenzo De Nardo). Ma si trattava, evidentemente, dell’ultima resistenza. Alcuni successi imprenditoriali, del tipo armatore Matacena, allignavano nel vuoto. Come è ampiamente noto, a partire dai primi anni Cinquanta e poi per tutto il ventennio successivo, l’assetto sociale europeo viene squassato da un sommovimento di portata epocale. L’innesco è di carattere tecnologico e produttivo. L’Italia (dizione generica ed equivoca) segue lo slancio dei tre forti paesi che la precedono: Inghilterra, Francia e Germania. Al contrario il Sud, mancando uno stato suo, si avvia in caduta libera verso il precipizio. La sua precedente posizione di periferia del Settentrione si converte in estraneazione. Il blocco cavourrista e padano del suo sviluppo diventa in tale passaggio sottosviluppo; un fenomeno non economico ma politico, superabile soltanto per via politica (forse è più onesto e corretto dire: militare). A monte della nuova situazione stanno due fenomeni contrapposti e simmetrici: la caduta dei prezzi relativi per le produzioni mediterranee e l’aumento dei salari agricoli. Non v’è dubbio che il dissesto dell’agricoltura meridionale sia stato consapevolmente accettato quale offa nazionale della crescita industriale nordista. L’operazione viene condotta dai governi nazionali con un’aggressività barbarica a tutti evidente. Il Sud viene trattato come un nemico da annientare. La buffonata dell’uguaglianza legale, istituzionale ed elettorale non può e non deve ingannare nessuno. Nonostante sia ferma ogni forma d’investimento e l’occupazione agricola e manifatturiera cada, il livello dei salari sale. La diaspora della manodopera contadina e artigianale verso l’industria padana spopola le campagne e appiattisce la domanda di lavoro. Contemporaneamente (o forse anticipatamente, come sostengono Ferrari-Bravo e Serafini, Stato e sottosviluppo) i cantieri aperti dalla Cassa incettano i non molti rimasti. A partire da questa svolta, i contadini superstiti non sono più costretti a scappellarsi profondamente per ottenere un’affittanza. Anche l’iniqua gara fra braccianti per una giornata di zappa finisce per sempre. In una situazione di libertà economica ciò dovrebbe essere segnato come un grande progresso sociale. Ma, in effetti, il progresso non c’è. A trarne vantaggio sono soltanto gli industriali e i padroni di casa padani. Infatti i primi si trovano di fronte a una curva salariale che non cresce in misura diretta con la loro domanda di manodopera, i secondi decuplicano la rendita di posizione. Invece gli agrumi - l’ultima ricchezza residua - diventano una bolla d’aria. Buona parte delle province siciliane e la provincia reggina vedono andare in malora l’unico loro capitale, i dimenticati slanci (ovviamente in rapporto alle sue forze) della borghesia sudica per crearsi basi nuove di profitto attraverso la piccola -o è più esatto dire, l’atomistica- impresa industriale. Ciò era già avvenuto negli anni dell’immediato dopoguerra, sotto la spinta dei buoni affari realizzati con il mercato nero. Si ripete tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, adesso sull’eco del successo padano. Ma, se la crescita della ricchezza nazionale ha elevato le possibilità di spesa dei consumatori, il mercato meridionale è già da tempo una colonia dell’industria padana. Senza una disciplina politica del mercato -come a quel tempo auspica, solitario, il reggino Demetrio Di Stefano (Il Risorgimento e la questione meridionale) nella cui parabola politica e umana è descritta la sofferenza del vero rivoluzionario meridionale- la spinta in avanti si risolve in un cimitero d’industrie. E il riferimento funebre non va alla Liquichimica di Saline e a tutto l’intrallazzo nordista degli anni Sessanta; va invece alle croci piantate su piccole iniziative locali, fallite al primo incontro con il mercato nazionale. Patrimoni e speranze private vengono distrutti -cosa che è il meno- ma quei facili fallimenti ingenerano un clima diffuso di scoraggiamento che, sommandosi all’annientamento agricolo, fanno tabula rasa d’ogni spirito d’impresa. Uno stato che non fosse il nostro storico nemico avrebbe tentato almeno d’impedire tanta distruzione. Nello stesso tempo, la schiavitù degli agricoltori verso il monopolio chimico (concimi Montecatini) e verso il monopolio elettrico (Bastogi) si estende alla FIAT. Ancora una volta mediano le uguali leggi statali. Altro che rottamazione delle auto. Il ministero dell’agricoltura assume dipendenti e li dissemina per le campagne perché spieghino agli agricoltori che la meccanizzazione dell’agricoltura può tamponare la crescita dei salari. Intanto, o lo stesso ministero o quello degli esteri manovra e briga a Bruxelles per non estendere il protezionismo agricolo comunitario alle produzioni mediterranee. Agnelli deve ben vendere le sue macchine in Spagna. Gli agricoltori vengono presi al laccio con l’esca delle comode rate, spavaldamente fornita dai Consorzi agrari. Ovviamente si trattava di una spesa governativa a esclusivo favore delle industrie meccaniche produttrici di attrezzature e macchine agricole, che abilmente viene fatta passare per un aiuto all’agricoltura meridionale. In tal modo il monopolio ottiene ciò che gli serve e il capitale finanziario nascosto nei Consorzi (padani) può confiscare con largo anticipo le future, presunte entrate degli ex padroni dei terroni emigrati. Ovviamente, trattori e motocoltivatori vennero pagati non certo con le rendite, ma o stringendo la cinghia o vendendo un pezzo di terra. I cambiamenti correlati alla grande trasformazione del Nord italiano coinvolgono il Sud, in quanto oggetto della storia padana sin dal 1860, imponendogli un ulteriore regresso, ma questa volta relativo. È bene chiarire in cosa consista questo concetto, e non perché esso sia ambiguo, ma perché ambivalenti sono i fatti. Fra questi, i più rilevanti sono: Uno. Come è a tutti noto, la concentrazione geografica (la centralizzazione capitalistica) della tecnologia -al tempo della Rivolta- abbatteva immancabilmente il lavoro nelle aree sottosviluppate che venivano raggiunte dalle nuove merci (oggi la politica capitalistica del labour saving danneggia anche le aree elevate a centro). Tra il 1953 e il 1970, oltre agli emigrati, il Sud perde più di tre milioni di occupazioni. Due. Con l’aumento della ricchezza nazionale, la quota incassata e ridistribuita dallo stato cresce in termini assoluti e anche in rapporto alla porzione che rimane ai privati. Ciò permette che i pubblici servizi possano essere dilatati. Il Sud ottiene un primo vantaggio dal fatto che il numero degli impiegati cresce in assoluto in percentuale. La remunerazione che questa quota di popolazione ottiene è a un livello italiano, cioè più alto rispetto a quello che la produttività media del paese meridionale consentirebbe. Il Sud ricava un secondo vantaggio dal fatto che ottiene servizi in precedenza riservati solo al Centronord (le università, la sanità pubblica, ecc.). Tre. Lo sviluppo industriale porta con sé una crescita del livello medio delle aziende. Ciò danneggia il quadro concorrenziale, ma fa salire il livello medio dei profitti industriali; consente così alle industrie di cedere alla distribuzione -quindi anche alla sua frazione meridionale- una parte più larga del plusvalore estorto. Quanto sub Due e Tre permette al Sud di non perdere la posizione che aveva nelle statistiche nazionali in termini di reddito medio pro-capite, storicamente oscillante intorno al 65%. C’è però una significativa novità: detto percento, un tempo, era legato alla produttività complessiva del paese meridionale, mentre adesso viene insufflato dall’esterno. Tutte cose che, se arricchiscono il Sud, ne scombussolano, però, l’armonia sociale. Per essere passabilmente chiaro, esemplifico. Un insegnante meridionale lavorerebbe per metà dello stipendio vigente. L’aggiunta è un regalo italiano. Così un medico, un giudice, un poliziotto, un bancario, l’operaio di un’azienda nazionale tipo ENEL, Telecom, ecc. Anche un commerciante-distributore meridionale lavorerebbe per un ricarico pari alla metà di quel che ottiene. Pure in questo caso l’aggiunta è collegata a una nazionalizzazione, precisamente a quella burocratica vigente nelle grandi aziende, in forza della quale vengono sottoposti a disciplina coattiva fenomeni che di per sé sarebbero economici e di mercato. Ovviamente, il vantaggio che arriva nelle tasche di una parte dei meridionali è pagato dagli stessi meridionali, che sono costretti a dare di più allo stato e di più ai monopolisti padani. C’è, tuttavia, subito da osservare che, se gli stipendi e i ricarichi fossero dimezzati, al Sud non verrebbe alcun vantaggio contabile. Infatti la differenza in più non sarebbe risparmiata dai contribuenti e dai consumatori, ma andrebbe ai professori, ai medici, ecc. settentrionali sotto forma di un maggiore stipendio e alle aziende industriali sotto forma di più lauti profitti (Bossi è meno scemo di quel che sembra). Ma come sopra segnalato, nel quadro economico meridionale i vantaggi non pagati costano carissimi. Infatti nel Sud, mancante di un suo Stato e di economie esterne tali da consentire una migliore produttività del lavoro, la nazionalizzazione del livello dei salari e degli stipendi ha come contropartita il tragico declino, la caduta, senza possibilità alcuna di ritorno, dell’agricoltura, non essendo questa protetta da sbarramenti comunitari. Aggiornando il tema alla data attuale, si può aggiungere che la caduta ha toccato ogni produzione lecita a carattere arretrato e ha portato alla crescita di quella illecita, alla fioritura del lavoro in nero, tanto fra i cittadini italiani quanto fra gli extracomunitari, nonché alla dilatazione della sovrappopolazione, che adesso potrebbe essere considerata non più un esercito industriale di riserva, ma umanità superflua, come nel Terzo Mondo, e da qui a non molto soltanto zoologia antropica. I partiti stanno tornando sui propri passi. Ma si tratta di un ripensamento vano e contraddittorio se non accompagnato da un forte vincolo valutario (o se più vi piace, bancario) a finanziare con risparmio sudico l’importazione di merci forestiere. Infatti i sindacati, consapevoli dell’inefficacia di una unilaterale decurtazione dei salari, sono fermamente decisi a combattere le gabbie salariali senza la contropartita di un investimento che bilanci la sottrazione di valuta. Naturalmente neanche questo basta, ma anche i sindacati sono italiani. L’approdo alla disarmonia sopra accennata precede la Rivolta, ma, a quel momento, la gente -che pure ne soffre il disagio- non ne ha ancora concettualizzato le cause. Avvertite sono invece le ripercussioni di carattere sociologico della trasformazione italiana. Quando il morso della fame durava da un anno all’altro, e segnava, uno dopo l’altro, tutti i giorni della vita, la comune povertà legava il proletariato. Nella nuova fase, la fame vera è scomparsa, ma il modo di produrre (il lavoro) si riorganizza a raggi, il cui sole è spesso lontano. Ciò frantuma la dimensione umana della città, il senso del vicolo e del rione. Chi lavora diventa la macchina di un dio cieco, chi non lavora è la vittima di un demone irraggiungibile. L’umanesimo antico evapora, un nuovo umanesimo (un sindacato, un partito aderente ai problemi periferici) non spunta. Per usare il linguaggio del sindacalista, la grande trasformazione si allarga al Sud senza ammortizzatori sociali. La durezza della transizione (per esempio, il riverbero locale dell’emigrazione) lascia insensibili i politici e i sindacalisti. In effetti ciò che non cambia, o cambia in peggio, è l’organizzazione clientelare delle filiali sudiche di tutti i partiti costituzionali. L’Italia ricca è scesa al Sud con altre sue merci, e per i fortunati anche con i suoi stipendi e salari, ma senza farsi accompagnare dalle regole di una libera democrazia. Perché? Credo si debba dare una risposta veritiera anche a rischio d’apparire faziosi: perché, al Sud, il primo atto di vera democrazia sarebbe la liberazione. Una cosa che va oltre le manette e arriva ai carri armati. I maggiori benefici dell’allargamento al Sud delle condizioni sociali raggiunte nell’Italia restante, li ricavano i ceti medi scolarizzati. Legioni di redditieri ormai senza più rendita, e perciò promessi alla misurazione dei marciapiedi cittadini, hanno trovato facilmente un posto. Altri posti si lasciano sperare e si sperano. Legioni di figli del proletariato, in salita sociale per via degli studi, s’infilano anche loro da qualche parte. Ragionieri, medici, ingegneri, avvocati si sistemano in un modo o nell’altro. Altri s’infileranno, almeno si spera. Alla fine del mese lo stato paga. Sarebbe inopportuno mettersi a fare della sociologia senza possederne gli strumenti, ma una cosa è chiara a chiunque: questa nuova quadreria che, attraverso la politica e l’invasione politica della società civile, diventa la parte sub-dirigente del Sud, manca di virtù. In fondo non è che l’erede statuale di quella borghesia padronale e redditiera che si concesse a Cavour per mancanza di decoro, d’onore e d’amor di patria. D’altra parte non è una classe, e neppure una classe in formazione. Manca il punto di riferimento sociale e quello autenticamente politico. Certo, un punto di riferimento non manca, ed è il civismo rovesciato in disvalore. Esso aggrega le persone, ma non può essere dichiarato all’esterno. Soltanto ristagna nel sottobosco familiare e municipale come necessaria arte del campare. A questo punto, se sommiamo la crisi produttiva, il non possedere altro che braccia per pagare le merci forestiere, e ancora il sommovimento sociale, lo scardinamento dei vecchi valori classisti, la disperazione occupazionale, abbiamo il Sud degli anni Sessanta. Un Sud impoverito che dovrebbe solamente e puramente liberarsi d’ogni torchiatura esterna e farsi (al suo interno) finalmente quei conti sociali che i bersaglieri piemontesi impedirono, facendo colare sulla sollevazione contadina un fiume di sangue. Comunque, la Rivolta reggina non ebbe tale idealità, né prima né poi. La rabbia contro lo stato straniero, o quantomeno estraneo, fu scioccamente vanificata da un personale politico che non seppe far altro che prendere il tram elettorale. Allora cosa fu questa Rivolta? Perché Reggio? Intanto l’occasione. Poi la singolarità va cercata nella sua splendida agricoltura. Quella stessa classe di redditieri fondiari che aveva invocato i bersaglieri piemontesi e che s’era pappato con poca spesa il demanio ecclesiastico e gratis quello statale e comunale, s’era lentamente ricostruita moralmente. Sicuramente spremendo sangue dalle ossa dei coloni, aveva piantato milioni di ulivi e decine di milioni di aranci, limoni, bergamotti. Li aveva lavorati, commerciati, imposti sui mercati stranieri (il Nord era ancora troppo povero per presentare una domanda effettiva). Spesso s’era indebitata fino alle mutande, in attesa che arrivasse il momento della fruttificazione. Anni, decenni di attesa, durante i quali il Banco di Napoli li aveva vessati con i suoi avvocati e gli ufficiali giudiziari. Poi un limitato benessere privato e anche un surplus provinciale consistente. Allo scadere del luglio 1970, l’agraria reggina non era del tutto appassita; era ancora detentrice di qualche quattrino e s’era fatta un certo orgoglio di classe. Una cosa che nei tempi prosperi appariva solo sussiego, ma che oggi dobbiamo storicamente rivalutare, poiché era in effetti frutto della fiducia in sé, la stessa che mostrava il cavaliere d’industria. O forse -e più giustamente- quella di Esiodo, di Virgilio, di Plinio, di Columella, del cremonese Stefano Jacini: l’agricoltura come esplicazione del sapere umano, del vichiano conoscere la storia, in quanto produttori delle cose e di sé. Insomma Reggio era stata una città effettivamente capace di partecipare alla produzione nazionale in una posizione d’avanguardia; una città autentica. Nei decenni precedenti, l’insolita identità reggina si era espressa mediante l’uso di un partito non costituzionale come podio, come palco per la rappresentazione scenica: il MSI. Ma senza per questo essere fascista. C’era solo una circostanza casuale a determinarla. Il podio era preso a prestito, quel che contava era l’uomo, forse il simbolo della sua rifiutata decadenza. Il senatore Francesco Barbaro è descritto come un aristocratico d’altri tempi, democraticamente alla mano; come un vir dotato di severo spirito di servizio. Barbaro morì qualche anno prima della Rivolta, ma l’idea che la gente di Reggio ne aveva, faceva del suo ricordo un punto di riferimento, e non solo per l’agraria in decomposizione, ma per tutte le famiglie oneste: per quelle dei lavoratori, gli antichi e i nuovi, per quelle della nuova burocrazia, dove crescevano giovani destinati alla nuova guerra dell’uomo contro l’uomo, per quelle dei bottegai e prestatori di servizi, per cui la decadenza decisa per decreto rappresentava un atto ostile, persino per operatori economici di respiro nazionale come Mauro e Matacena, nonché per una larga parte dei colti, ai quali la conoscenza del passato dava conto della misura del declino. Volendo concludere, l’input impresso dalle idee di Cavour al quadro sociopolitico italiano ha diviso un paese che aveva avuto parecchi stati, ma strutture produttive di uguale livello. Al Centronord l’intrallazzo finanziario e il parassitismo industriale alimentarono la formazione di un esercito del lavoro agricolo e industriale di tipo metropolitano, che è stato ed è rappresentato da formazioni politiche e sindacati coerenti con la sua condizione; al Sud, il saccheggio del capitale storico, dei surplus normali e dei surplus popolari da astinenza, la centralizzazione padana del capitale bancario di rischio, la mancanza di un proprio stato organizzatore, l’espropriazione del credito internazionale derivante dal massiccio afflusso della valuta rimessa dagli emigrati, non lasciarono altro spazio alla crescita capitalistica che una modesta nicchia in agricoltura; una situazione ben lontana dalla richiesta popolare di dar lavoro alle masse che la penetrazione di merci capitalistiche forestiere proletarizzava. Le forze politiche e i sindacati italiani, coerenti con l’assetto occupazionale settentrionale, forse avrebbero voluto, ma oggettivamente non potevano e storicamente non poterono rappresentare gli interessi di un proletariato in larghissima parte esterno ai rapporti capitalistici di produzione. Quando questa versione del proletariato contemporaneo recepisce la lezione marxista, nega la negazione imperialistica e si afferma come il protagonista storico della liberazione nazionale dal sottosviluppo produttivo. Insomma la Rivolta, per la partecipazione popolare che ebbe, poteva ben essere il principio della rivoluzione meridionale, se il proletariato non fosse stato da sempre solo. Invece, rimasta in mano al nazionalismo dannunziano di Ciccio Franco, si tramutò nel parto di una vecchia, in un aborto politico, nella contorta contrimmagine dell’impresa fiumana. Nicola Zitara
Un saggio "definitivo" svela i segreti dell'eccidio di Cefalonia. Aga Rossi ricostruisce le vicende della Acqui depurandole dalla retorica "resistenziale", scrive Francesco Perfetti, Sabato 10/12/2016, su "Il Giornale". La notizia della firma dell'armistizio giunse a Cefalonia ai militari della divisione di fanteria Acqui, comandati dal generale Antonio Gandin, nel tardo pomeriggio dell'8 settembre 1943 grazie a una intercettazione della radio delle Nazioni Unite. Fu accolta con sentimenti contrastanti che viravano dallo stupore al dispiacere per la resa e, quindi, per la sconfitta, fino alla gioia legata all'illusione che la guerra fosse finita. Dopo qualche giorno di indecisioni sull'atteggiamento da assumere consegnare le armi ai tedeschi o rifiutarsi e resistere all'ultimatum dell'ex alleato i militari della Acqui furono impegnati, a partire dal 15 settembre, in furiosi combattimenti che si conclusero con la vittoria tedesca. E, soprattutto, con l'eccidio della divisione, una vendetta sanguinosa destinata a fissarsi nella memoria collettiva come uno degli episodi più tragici del Secondo conflitto mondiale. A Cefalonia e a Corfù, subito dopo la resa, vennero trucidati migliaia di ufficiali e soldati il numero esatto è controverso senza alcun processo e in aperta violazione di ogni norma di diritto nazionale o internazionale. Fu una strage pianificata e del tutto ingiustificata voluta da Hitler come vendetta per il «tradimento» italiano. L'enormità e la brutalità dell'eccidio, perpetrato al di fuori di ogni convenzione internazionale, furono riconosciute al processo di Norimberga dove il generale Telford Taylor, pubblico accusatore, dichiarò: «Questa strage deliberata di ufficiali italiani che erano stati catturati o si erano arresi è una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli. Questi uomini indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra. Erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, a considerazione umana e a trattamento cavalleresco». Elena Aga Rossi ha dedicato un volume dal titolo Cefalonia. La resistenza, l'eccidio, il mito (Il Mulino, pagg. 256, Euro 22) proprio alla ricostruzione delle vicende delle quali fu protagonista la Acqui, ma anche, e soprattutto, al tentativo di spiegare i motivi per i quali, attorno al sacrificio dei militari italiani, sia stata creata, attraverso aggiustamenti e falsificazioni, una «memoria divisa». È un volume documentato e importante, per molti versi definitivo, che resterà, per la ricchezza del materiale e la finezza e l'equilibrio dell'indagine, un punto fermo nella storiografia. La «mitologizzazione» dei fatti di Cefalonia, come esempio paradigmatico di «uso pubblico della storia», cominciò presto quando, già nell'ultimo scorcio del 1945, Ferruccio Parri, prima, e Alcide De Gasperi, poi, celebrarono l'episodio come prima manifestazione di «resistenza partigiana». Ciò avvenne perché, come osserva l'Aga Rossi, quell'episodio di resistenza ai tedeschi, nel particolare momento storico che si stava attraversando, poteva essere valorizzato dal punto di vista politico: «poteva servire a riscattare, sia per fini interni sia sul piano della legittimazione internazionale, l'immagine di un Paese allo sbando che, per il modo in cui era avvenuta la resa, era stata prevalente fino a quel momento». Così, da più parti, si cominciò ad avallare l'idea che la divisione Acqui fosse assimilabile a una «formazione partigiana». La ricostruzione in dettaglio dei fatti di Cefalonia sulla base di materiale documentario, oltre che memorialistico, ha consentito ad Aga Rossi di mettere in discussione, senza peraltro diminuire né il valore sacrificale dell'eccidio né la sua portata storica, la vulgata propria della letteratura e della pubblicistica della sinistra filo-resistenziale. In questa ottica, alla studiosa gli episodi di ribellione o sedizione e il «referendum» stesso fra i militari all'origine della decisione di combattere i tedeschi non appaiono affatto come un «gesto di eroismo resistenziale» come, in seguito uno dei protagonisti, l'allora tenente Renzo Apollonio, avversario del generale Gandin, avrebbe cercato di avallare per presentare quello che accadde a Cefalonia come una sorta di «atto primo» della rifondazione del Paese. In realtà, tra i militari di stanza a Cefalonia e a Corfù, ve ne erano molti che non pensavano affatto a una discontinuità storico-istituzionale, quasi un nuovo inizio, della storia italiana post-fascista, ma, fedeli al giuramento prestato, guardavano alla monarchia come alla istituzione che avrebbe dovuto guidare e gestire la ricostruzione del Paese. Peraltro tra le molle che spinsero i militari a non cedere le armi e a imbracciarle contro i tedeschi non vi erano tanto «motivazioni antifasciste», quanto piuttosto ragioni diverse e concorrenti quali il senso della dignità e dell'onore, la stanchezza della guerra, la frustrazione e il desiderio di tornare a casa. È sintomatica, in proposito, la testimonianza di un reduce riportata dall'autrice: «è ancora vivo in noi il senso del dovere e dell'obbedienza e solo per questo abbiamo imbracciato le armi contro i tedeschi, come d'altra parte le avremmo imbracciate contro gli alleati se ci fosse stato ordinato. Quale interesse possiamo avere noi ad affiancarci ai tedeschi o agli alleati quando è stato firmato un armistizio senza condizioni, che ci umilia e ci avvilisce? In noi tutti manca la volontà di combattere una guerra perduta ed è vivo solo il desiderio di tornare al più presto in Patria». E, uno dei promotori della resistenza ai tedeschi, il capitano Amos Pampaloni, di convinzioni antifasciste, avrebbe confermato in una delle sue ultime interviste: «Noi pensavamo che cedendo le armi diventavamo prigionieri. E invece noi, con l'armistizio, volevamo tornare in Italia. E questo è il concetto principale». C'era, pure, nei soldati della divisione Acqui, con molta probabilità, la convinzione che gli anglo-americani, dopo lo sbarco a Salerno, sarebbero intervenuti nelle isole Ionie e avrebbero dato man forte contro i tedeschi. Ciò non avvenne anche perché gli alleati, impegnati nell'azione di consolidamento delle loro posizioni nell'Italia meridionale, sopravvalutarono l'effettiva capacità di resistenza delle truppe italiane. E non mostrarono, dopo tutto, un vero interesse ad «appoggiare» o «incoraggiare» più di tanto la resistenza italiana in vista delle decisioni postbelliche sull'assetto territoriale di quelle zone. In un certo senso, come emerge dal bel lavoro di Elena Aga Rossi, si potrebbe parlare anche di responsabilità sia del governo Badoglio per gli ordini impartiti di resistere sia degli alleati per il loro cinismo. L'eccidio di Cefalonia, che secondo le stime di Elena Aga Rossi comportò il sacrificio di oltre 2000 italiani morti in combattimento o fucilati dopo la resa, fu il più brutale e imponente massacro compiuto dai tedeschi nei confronti degli italiani. E questo fatto, combinato col momento nel quale esso fu perpetrato, spiega perché esso sia diventato un vero e proprio «mito» funzionale alla «ragion politica». Un «mito» che Elena Aga Rossi, liberandolo dalle pulsioni ideologiche, ha riportato sul terreno concreto della storia. Rendendo, in tal modo, giusto omaggio ai martiri.
Cefalonia 1943, non tutti eroi. I militari della divisione Acqui si opposero ai tedeschi e molti vennero fucilati dopo la resa. Un libro di Elena Aga Rossi (il Mulino) ricostruisce la vicenda della strage, scrive Paolo Mieli il 4 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Il 3 gennaio 1945, mentre la Seconda guerra mondiale non si era ancora conclusa, erano trascorsi appena sette mesi da quando gli Alleati avevano liberato Roma e l’Italia rimaneva divisa in due (al Nord Benito Mussolini con la Repubblica di Salò, al Centrosud gli alleati e il governo antifascista presieduto da Ivanoe Bonomi), un ufficiale dell’esercito, Renzo Apollonio, diede appuntamento a don Romualdo Formato per le otto e mezza del mattino, in un bar della capitale, a Porta Pia. Tema del colloquio una versione comune di quel che era accaduto a Cefalonia dove erano stati entrambi quindici mesi prima, tra il 15 e il 22 settembre del 1943. Nell’isola, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, i militari italiani appartenenti alla divisione Acqui, dopo qualche esitazione e una sorta di referendum tra i soldati, avevano rifiutato di arrendersi, si erano scontrati con i tedeschi e in molti erano stati uccisi. A cominciare dal loro comandante, il generale Antonio Gandin. Ma torniamo al bar di Porta Pia. Apollonio e don Formato sono entrambi reduci da quell’esperienza di fine settembre 1943 e il primo, che ha da farsi perdonare d’aver successivamente collaborato con i nazisti, vorrebbe che il sacerdote avallasse la sua versione dei fatti e cioè che era stato lui a spingere alla ribellione contro i tedeschi un recalcitrante Gandin. Don Formato annota sul proprio diario che, di fronte alle sue puntualizzazioni in difesa di Gandin, «Apollonio va su tutte le furie» e «per fortuna ci ha raggiunto un mio amico, professore d’archeologia» perché il colloquio «aveva preso una brutta piega». Anche tra gli storici quello che il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi celebrò nel 2001 come «il primo atto della Resistenza di un’Italia libera dal fascismo», prese fin dall’inizio «una brutta piega». Nel senso che, come ricostruisce Elena Aga Rossi in uno straordinario libro che sta per essere pubblicato dal Mulino, Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito, qualcosa non funzionò (e ancora non funziona del tutto) nel racconto di quegli accadimenti di oltre settant’anni fa. A partire dal numero di morti italiani, novemila secondo un comunicato ufficiale della Presidenza del Consiglio emesso nel settembre 1945 (ai tempi era capo del governo Ferruccio Parri) destinato a restare nei libri di storia. «Un dato totalmente fuori dalla realtà», lo definisce la Aga Rossi, che riduce i caduti della divisione Acqui a un numero tra i 1.600 e i 2.500. Il che, precisa la storica, «lungi dallo sminuire il significato della tragedia», attribuisce «al di fuori di mitologie ed esagerazioni, proprio nella sua aderenza al vero, maggior valore al caso di Cefalonia, al sacrificio di quanti — e sono sempre circa duemila italiani — morirono combattendo o fucilati dai tedeschi dopo la resa». In quello che peraltro resta «il più grande massacro commesso dai militari tedeschi nei confronti degli italiani». Come andarono davvero le cose nell’isola greca del Mar Ionio, in quella fine di settembre del 1943? A seguito dell’armistizio, i nazisti intimarono agli italiani di arrendersi e di consegnare le armi; il generale Gandin, dopo aver attentamente valutato le opzioni di cui disponeva, decise di trattare la resa per avere il tempo di ricevere aiuti dagli angloamericani; alcuni dei soldati reagirono però con episodi di insubordinazione a questa tattica temporeggiatrice; qualcuno tra gli ufficiali suggerì di indire un referendum che si tenne e diede luce verde alla ribellione. Che condusse all’ecatombe di cui si è detto. Il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi nel novembre del 1945 tenne a sottolineare come l’eccidio di Cefalonia andasse tenuto nel conto di un esempio di «resistenza partigiana». Ma il generale Gandin, che precedentemente era stato definito dal giornale dei comunisti, «l’Unità», un «eroe antifascista», nonostante avesse pagato con la vita il suo eroismo, da qualche mese veniva criticato dallo stesso quotidiano, che contrapponeva la sua presunta «esitazione» alla «determinazione di buona parte dei soldati e dei marinai guidati da alcuni sottufficiali». Padre Formato incontrò il Papa Pio XII, che «assunse un atteggiamento molto prudente, quasi filotedesco» sulla vicenda. E poi il principe Umberto, all’epoca luogotenente del Regno, che espresse una profonda «riconoscenza» verso il generale Gandin e gli uomini della divisione Acqui. Già allora, dunque, i giudizi si divisero. Ma perché a Cefalonia i soldati si ribellarono? Secondo un’indagine militare condotta all’inizio degli anni Sessanta, ciò accadde in seguito a «gravi episodi di sobillazione sediziosa da parte di taluni ufficiali», mentre il generale Gandin era «impegnato nelle trattative con il locale comando tedesco». L’accaduto era riconducibile anche ad «arbitrarie intese segrete con elementi partigiani greci ai quali furono perfino cedute da qualche reparto armi e munizioni». Il rapporto rimproverava, neanche tanto velatamente, a Gandin una «certa debolezza», non già verso i tedeschi, bensì nei confronti di alcuni suoi ufficiali e soldati che in quei giorni avevano fomentato la rivolta. Una debolezza manifestatasi, secondo il rapporto, «con la mancata adozione di severe misure contro i principali responsabili di attività sediziosa e di intemperanze disciplinari». In effetti, ancorché eroica, quella ribellione — sottolinea Aga Rossi — non si configurò come un episodio della Resistenza. Quei soldati consideravano il loro non come «un gesto di eroismo resistenziale», bensì come «la via più diretta per tornare a casa». La vicinanza dell’Italia e la speranza dell’arrivo di aiuti da parte degli anglo-americani ebbero un ruolo fondamentale nel convincere una parte della divisione che, combattendo i tedeschi, sarebbero tornati a casa «prima». Prima di quello che sarebbe stato il loro destino «se avessero accettato di arrendersi». È difficile, prosegue la storica, individuare «nell’azione della truppa la motivazione antifascista presente soltanto in pochi militari che provenivano da famiglie contrarie al regime». Allo stesso modo «sarebbe sbagliato vedere nel cosiddetto referendum una dimostrazione di democrazia». Studiate con attenzione carte edite e inedite, Aga Rossi conclude che «molti reparti non furono interpellati e quelli che lo furono risposero in base al modo in cui era stata posta la domanda e all’autorità del comandante». In che senso? I documenti parlano chiaro: «Anche chi avrebbe voluto cedere le armi o passare dalla parte dei tedeschi accettò e seguì le posizioni dei propri comandanti e della maggioranza dei commilitoni». Quanto poi ai partigiani dell’Elas, la storiografia resistenziale ha proposto «una mitica fratellanza antifascista italo-greca» che nella documentazione non trova riscontro. Anzi. Una volta ricevute le armi dai soldati italiani, i resistenti dell’Elas «non parteciparono ai combattimenti» e nelle relazioni sugli scontri «non si parla di azioni di partigiani se non per il giorno 13 settembre». È vero invece che la propaganda dell’Elas contribuì a diffondere tra gli italiani «l’illusione» che, combattendo, anche con l’ausilio della resistenza greca, si sarebbe «dato tempo alle forze anglo-americane di intervenire e si sarebbe così aperta la strada per il ritorno a casa». Sono a questo punto individuabili responsabilità del governo italiano (in quel momento presieduto da Pietro Badoglio) e degli Alleati in merito a quel che accadde a Cefalonia. Poiché «gli anglo-americani all’inizio non si erano nemmeno posti il problema di fornire aiuti alle isole Ionie», scrive Aga Rossi, «la decisione del governo di ordinare di resistere senza essere in grado di assicurare l’aiuto militare promesso equivalse a una condanna a morte dei resistenti». Gli anglo-americani, «prima impegnati totalmente e con scarse forze nello sbarco a Salerno e poi nel consolidamento dell’occupazione nell’Italia meridionale, si resero conto solo gradualmente della situazione». Quando «presero finalmente in considerazione la possibilità di intervenire e di cogliere l’occasione loro offerta dalla resistenza italiana, era troppo tardi». Lo stesso accadde per la vicina isola di Corfù, dove «la decisione alleata di intervenire arrivò undici giorni dopo l’inizio dei bombardamenti e quando i tedeschi, sbarcati indisturbati, stavano ormai annientando le truppe italiane». Come per altre vicende, scrive Aga Rossi, «anche in questo caso l’uso politico della storia ha favorito l’affermazione di una versione piuttosto che di un’altra a prescindere dal dibattito storiografico su fatti e protagonisti di quegli avvenimenti». Nel clima del secondo dopoguerra c’era «poca disponibilità a valutare caso per caso» l’operato dei comandanti che si consegnarono ai soldati di Hitler. Quelli che si arresero furono ritenuti comunque «corresponsabili della guerra fascista», mentre quelli che si schierarono contro i tedeschi vennero celebrati come eroi. Con qualche eccezione, come quella di Apollonio. Antonio Gandin — il cui operato è in questo libro giudicato sostanzialmente saggio e che pagò con la vita — fu tenuto nel conto di un ufficiale che aveva avuto «un comportamento indeciso e ambiguo al limite della collusione con i tedeschi». Il suo principale oppositore, il tenente Renzo Apollonio, riuscì invece a farsi considerare l’eroe di Cefalonia, nonostante avesse in seguito collaborato con i militari nazisti. Ottenne questo riconoscimento presentandosi come il fomentatore della «rivolta dal basso» dei soldati, cosa che gli valse un importante riconoscimento nel libro Un popolo alla macchia (Res Gestae) del leader comunista Luigi Longo e nella Storia della Resistenza italiana (Einaudi) di Roberto Battaglia. Reso forte da questi giudizi, Apollonio «divenne nel dopoguerra il principale accusatore di Gandin, su cui raccolse un serie di dichiarazioni», e rivendicò il proprio comportamento a Cefalonia come «fondato sull’eroismo e sulla fedeltà ai valori militari, nel quale patria e onore erano incompatibili con la resa». Eppure sono sempre più numerosi gli storici che, ricorda Aga Rossi, evidenziano nella sua successiva collaborazione con i tedeschi e in molti altri episodi «un atteggiamento ambiguo e opportunista». Ma come fu possibile questo pasticcio? Nelle relazioni italiane redatte a guerra finita, spiega la studiosa, vi sono pesanti reticenze. Gli episodi di insubordinazione e di violenza della truppa, che poi emergeranno negli studi successivi, «vengono in genere minimizzati e a volte negati». Le stesse memorie dei protagonisti «appaiono lacunose e ingannevoli». Il costo della rimozione e della connessa volontà di mantenere un mito di Cefalonia — fondato per alcuni aspetti sull’occultamento della verità — «è stato altissimo», scrive Elena Aga Rossi; «fino ad oggi su Cefalonia c’è una memoria divisa, che è passata dai superstiti alle loro famiglie, ha provocato polemiche e il proliferare di versioni contrastanti». Mentre soprattutto per quelli che non sono tornati, «che sono morti facendo fino alla fine il loro dovere e combattendo contro i tedeschi», è ormai tempo «di por termine alle polemiche e di recuperare una memoria per quanto possibile unitaria di una delle prime iniziative della Resistenza, e di certo di quella che ebbe l’esito più drammatico». Come? Forse è più semplice di quanto possa apparire, sostiene Elena Aga Rossi: basta rifarsi alle «due leggi della storia» contenute nel De oratore di Cicerone. La prima è di «non asserire il falso». La seconda «che non si taccia il vero». Bibliografia. Esce il 22 settembre in libreria il saggio di Elena Aga Rossi Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito (il Mulino, pagine 272, e 22). A quella controversa vicenda della Seconda guerra mondiale sono stati dedicati molti volumi. Tra i più rilevanti: Gian Enrico Rusconi, Cefalonia. Quando gli italiani si battono (Einaudi, 2004); Giorgio Rochat e Marcello Venturi, La divisione Acqui a Cefalonia (Mursia, 2002). Sul versante tedesco: Hermann F. Meyer, Il massacro di Cefalonia e la 1ª divisione da montagna tedesca (Gaspari, 2013). Da segnalare anche la raccolta di saggi Né eroi né martiri, soltanto soldati, a cura di Camillo Brezzi (il Mulino, 2014). Sul numero dei morti: Massimo Filippini, I caduti di Cefalonia: fine di un mito (Ibn, 2006). Assai critico verso il generale Gandin: Paolo Paoletti, Cefalonia 1943: una verità inimmaginabile (Franco Angeli, 2007).
La politica usa la storia tra feste nazionali e memoria "di Stato". La proliferazione di ricorrenze e leggi chiude la porta a letture differenti dei fatti. E lo dice un uomo che ha subito il peso della Shoah..., scrive Francesco Perfetti, Sabato 14/05/2016, su "Il Giornale". Alcuni anni or sono Pierre Nora, il grande storico accademico di Francia e capostipite di un filone storiografico basato sui «luoghi della memoria», fu l'animatore insieme a René Rémond di un'associazione chiamata «Liberté pour l'histoire» che promosse un appello contro i rischi della «moralizzazione retrospettiva della storia e di una censura intellettuale». Quel documento, firmato da un gruppo di studiosi di formazione diversa da Pierre Milza a Mona Ozouf, da Marc Ferro a Paul Veyne , sosteneva che «la storia non deve essere schiava dell'attualità né essere scritta sotto dettatura da memorie concorrenti» e si rivolgeva ai politici di ogni schieramento perché comprendessero che «se hanno l'obbligo di custodire la memoria collettiva, con devono istituire, con una legge e per il passato, delle verità di Stato la cui applicazione giudiziaria» avrebbe potuto avere «gravi conseguenze per il mestiere dello storico e per la libertà intellettuale in generale». Il documento suscitò molte polemiche ma riscosse anche molti consensi, ed era un autorevole atto d'accusa contro ogni forma di «storia ufficiale» o ideologica, contro la gestione politica della memoria collettiva. Nora è uno studioso di origine ebraica che ha saputo coniugare l'attività di ricerca accademica con il lavoro di direttore editoriale di una importante casa editrice francese. La sua preoccupazione principale è sempre stata quella di contribuire al recupero del senso di appartenenza nazionale da parte dei francesi, troppo a lungo indottrinati dalla versione resistenziale della guerra imposta alla memoria collettiva e nazionale dal generale Charles de Gaulle in un famoso discorso in cui aveva sostenuto che, con l'eccezione di poche pecorelle smarrite, tutta la Francia era entrata nella Resistenza. Per Nora ciò non era vero perché un tale approccio metteva in ombra o sottovalutava tradizioni storiche diverse. Il punto fondamentale, tuttavia, era che l'imposizione di questa vulgata implicava una «politicizzazione della storia» sotto «il peso della contemporaneità» e con una «chiusura nel presente»: si consumava un «allontanamento dal passato» e si realizzava «il consumo generalizzato di una storia senza nessun possibile ricorso alla minima forma di discriminazione critica». In un piccolo ma succoso libro, introdotto da Antoine Arjakosky, dal titolo Come si manipola la memoria. Lo storico, il potere, il passato (La Scuola, pagg. 96, euro 8,50), Nora sottolinea, con riferimento alla Francia (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi), come fossero apparsi nell'ultimo ventennio due fenomeni, paralleli e in certa misura collegati, rivelatori della tendenza mistificatrice a leggere e considerare il passato con gli occhi della contemporaneità e della visione politica dominante. I due fenomeni sono la proliferazione delle ricorrenze nazionali e le leggi sulla memoria storica. Nora ricorda come, fra il 1880 e il 1990, fossero state istituite soltanto sei festività a carattere nazionale (tra le quali quella del 14 luglio e quella dedicata a Giovanna d'Arco), mentre nel solo periodo 1990-2005 ne fossero state create altre sei (come quelle che ricordano le persecuzioni antisemite o la fine della guerra d'Algeria). La differenza tra le prime e le seconde è, a parere dello studioso, netta e sostanziale: «le sei grandi manifestazioni nazionali del XIX e XX secolo costituivano grandi momenti collettivi di tregua nazionale; le sei più recenti non mobilitano che gruppi ristretti ed esprimono soltanto la pressione sul potere da parte dei militanti e il successo delle rivendicazioni sostenute dalle loro associazioni». Il discorso potrebbe essere traslato nella realtà italiana con riferimento a date si pensi, per esempio, al 25 aprile o al 2 giugno che per molti potrebbero apparire più divisive che unificanti. Il secondo fenomeno denunciato da Nora è quello delle cosiddette «leggi sulla memoria» volute o dalla sinistra o dalla destra, gli interventi legislativi cioè che puniscono la negazione del genocidio degli ebrei o condannano lo schiavismo e la tratta degli schiavi e via dicendo. Si tratterebbe, secondo Nora, di una deriva legislativa inquietante e pericolosa, sia perché rischia di «paralizzare la ricerca» e di «ricordare in modo spiacevole le logiche totalitarie», sia perché appare contraria a ogni forma di approccio storiografico. Scrive Nora che questa deriva legislativa esprime «la tendenza a leggere e a riscrivere l'intera storia dal punto di vista esclusivo delle vittime e una propensione, inaccettabile, a proiettare sul passato dei giudizi morali che non appartengono che al presente, senza tenere nella minima considerazione quella differenza tra periodi storici che è lo stesso oggetto della storia, la ragione del suo apprendimento e del suo insegnamento». Naturalmente Nora, la cui esistenza è stata marcata profondamente dalla Shoah, pur diffidando della legislazione francese contro il negazionismo, non propone una messa in discussione di tale normativa, perché questa ipotesi potrebbe essere vista come un incoraggiamento per chi nega il genocidio. Avverte però che il rapporto fra storia e politica è molto delicato. I politici, a suo parere, hanno il dovere di interessarsi del passato per comporre la memoria collettiva riparando i torti subiti dalle vittime e onorandone la memoria, ma «non attraverso leggi che definiscano i fatti e ne scrivano la storia». Il compito di stabilire i fatti e di cercare la verità è essenzialmente dello storico. Quella di Nora è una riflessione sofferta da parte di uno studioso di grande e riconosciuto spessore il quale, partito dalla storiografia delle Annales, è approdato, attraverso la critica alla storiografia positivistica e a quella marxista, ai lidi di una Nouvelle Histoire dai confini più ampi che recupera l'insegnamento di Marc Bloch. È una riflessione che, rifiutando le vulgate storiografiche di ogni colore e volendo liberare la ricerca dai condizionamenti del potere politico, nasce da profondo di uno spirito autenticamente libero e liberale.
Il plebiscito del Veneto fu una truffa ma la sinistra non vuole dirlo. Un saggio diffuso dalla Regione Veneto dice la verità sul plebiscito di annessione del 1866. Ed è subito polemica, scrive Carlo Lottieri, Venerdì 02/09/2016, su "Il Giornale". È polemica: ed è bene che sia così. La diffusione di un volume di Ettore Beggiato (1866: la grande truffa. Il plebiscito di annessione del Veneto all'Italia, Editrice Veneta) sul modo in cui il Veneto 150 anni fa è stato «italianizzato» dopo la terza guerra d'indipendenza, a seguito di un referendum truffaldino, disturba gli intellettuali progressisti. Sul quotidiano veronese L'Arena ieri si riportavano alcune prese di posizione negative nei riguardi del libro. Secondo Carlo Saletti saremmo di fronte a «un uso distorto della storia», piegata a ragioni politiche. Una tesi condivisa da Federico Melotto, direttore dell'Istituto veronese della storia della Resistenza, per il quale con questo volume «si vuole dare un messaggio politico partendo dal plebiscito per lanciare una critica all'Italia di oggi». Il tono è di contestazione, ma con ogni probabilità l'autore sarebbe in parte d'accordo. Già assessore regionale e appassionato cultore della storia della Serenissima, Beggiato si propone di smontare la lettura tradizionale di una popolazione veneta ben felice di lasciare l'Impero asburgico per unirsi alle popolazioni italiche. Il volume è tutt'altro che paludato: vuole interessare e farsi leggere. Chi l'ha scritto, per giunta, non cela in alcun modo la propria speranza che Venezia e gli altri territori possano presto decidere del proprio futuro (con un referendum democratico), tornando indipendenti come furono per secoli. Beggiato ha insomma esaminato il passaggio storico del 21 e 22 ottobre 1866 per illuminare l'attualità: per far comprendere ai veneti di oggi per quale motivo devono pagare le tasse a Roma, e non a Vienna. Guarda il passato per criticare il presente, senza dubbio. Ma dove sarebbe il problema? Non è forse utile leggere la storia per capire il nostro tempo? I due studiosi evocano controverse questioni di metodologia, ma le loro parole lasciano perplessi: specie pensando che per Benedetto Croce ogni storiografia è contemporanea, dato che il passato ci interessa in quanto esso ha di tuttora vivo. Una cosa non viene detta da Saletti, né da Melotti: che Beggiato racconti falsità. Il libro, in effetti, è inattaccabile e il plebiscito fu un inganno da ogni punto di vista. Non fu garantito l'anonimato, votarono soggetti che non ne avevano titolo (i soldati italiani di stanza in Veneto, ad esempio) e, soprattutto, i dati resi noti non possono corrispondere ai voti reali. È significativo che gli storici «accademici» nulla contestino, sul piano dei fatti, a quanto Beggiato afferma, né difendano la regolarità del referendum: anche perché si renderebbero ridicoli. Di fronte a risultati ufficiali che parlano di 647.246 voti favorevoli e solo 69 voti contrari (l'equivalente del 99,9%), chi conosce cosa sia l'errore statistico sa che l'annessione del Veneto all'Italia fu costruita su un imbroglio. Un argomento è usato dai due storici contro il volume di Beggiato: ed è la decisione della Regione di regalarlo alle biblioteche del Veneto, anche scolastiche. La critica potrebbe avere una sua plausibilità (può un ente pubblico sostenere un'iniziativa culturale di parte?) se solo non sapessimo che le scuole pubbliche sono «apparati ideologici di Stato», per usare la formula del marxista Louis Althusser: sono da sempre realtà schierate a difesa del potere vigente e delle sue retoriche (dal Risorgimento alla Resistenza, dall'ecologia all'Europa, dalla solidarietà alla legalità). È allora soltanto positivo che una pecora nera come Beggiato trovi spazio tra tante pecore bianche, che belano tutte nello stesso modo. È poi interessante rilevare come per Melotto il referendum fosse sì ridicolo, ma perché tale doveva essere: «L'annessione fu decisa dal punto di vista diplomatico», dato che «il plebiscito serviva a sancire una situazione di fatto». Fu insomma una truffa, come dice Beggiato, ma «non può essere definito scandaloso questo modo di procedere perché nell'800 era la diplomazia a prendere le decisioni, non il popolo». Per Melotto non ci si deve proprio scandalizzare se nell'Ottocento la gente non contava e neppure a questo punto se in varie parti del mondo c'era ancora la schiavitù. Se però i veneti conoscessero meglio la loro storia, forse anche certa retorica nazionalista avrebbe assai meno presa. E questo sarebbe solo positivo.
Così l'Italia vinse la guerra perdendo tutte le battaglie. Grazie alla Prussia ottenemmo il Veneto e parte del Friuli. Ma il disastro militare ci segnò per sempre, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 20/07/2016 su "Il Giornale". Si può vincere una guerra perdendone quasi tutte le battaglie. Si può anche scatenare, a cose fatte, uno psicodramma che trasformi due scontri finiti male, ma senza reali conseguenze, in un dramma nazionale con tanto di processi eccellenti, e privi di qualunque equità. Poi si può continuare a sentirsi defraudati per anni della dignità nazionale e mascherare il tutto sotto un'enorme dose di retorica che esalti il sacrificio, senza però prendersi la briga di indagare sulle magagne della propria macchina bellica. Andò così nella Terza guerra di indipendenza italiana (durata dal giugno all'ottobre 1866) di cui ricorrono i 150 anni. Una bella e approfondita analisi di quel conflitto la compie Hubert Heyriès (storico militare dell'università Montpellier III) nel suo Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta (Il Mulino, pagg. 348, euro 25). Il saggio racconta come l'Italia fu abile diplomaticamente a intuire le potenzialità della montante tensione tra l'Austria e la Prussia del cancelliere Bismarck (1815-98). Era l'occasione giusta per liberarsi della presenza asburgica nella Penisola. Con i buoni uffici di Napoleone III, il conte Giulio Cesare di Barral e il generale Giuseppe Govone apposero la loro firma, in nome dell'Italia, su un trattato offensivo valido unicamente per 3 mesi. Era l'8 aprile 1866. L'Austria si sarebbe trovata chiusa in mezzo a una tenaglia di ferro. Combattere su due fronti l'avrebbe quasi di sicuro costretta alla sconfitta. Sin qui la parte logica del piano, a prescindere delle immediate diffidenze tra Firenze (allora era la capitale) e Berlino. Così il 20 giugno Vittorio Emanuele II diede ottimisticamente il via alle ostilità: «Voi potete confidare nelle vostre forze, italiani, guardando orgogliosi il florido esercito e la formidabile marina...». E su questo ottimismo si allineò subito tutta la nazione. L'entusiasmo portò con sé - come spiega Heyriès - due ulteriori buoni risultati. La mobilitazione fu rapidissima e Garibaldi si vide piombare addosso un gran numero di volontari che usò nel modo che gli era più consono: attaccare verso in Trentino in un territorio frastagliato e montagnoso. Per un genio indiscusso della guerriglia era l'ideale. Ma fuori dalle montagne trentine la macchina bellica italiana iniziò a mostrare tutti i suoi limiti. La Prussia premeva per un attacco rapido. Per colpire efficacemente a nord le serviva che le truppe austriache fossero impegnate a sud. Ma gli italiani si trovavano di fronte le fortezze del Quadrilatero e nessuno aveva sviluppato un vero piano per superarle. Un attacco dal mare con sbarco, a partire dalla netta superiorità navale italiana, era un qualcosa di cui si era solo fantasticato. Le nostre navi erano eterogenee (quanto gli equipaggi nati fondendo tre marine) e non certo adatte a un attacco di questo tipo. Così l'enorme esercito italiano (per la prima volta il Paese aveva un esercito di massa) nel dubbio e senza un chiaro piano d'attacco fu schierato in due tronconi. Centoventimila fanti e 7mila cavalieri sul Mincio comandati dal generale La Marmora. Altri 64mila fanti e 3500 cavalieri affidati invece al generale Enrico Cialdini sulla linea del Po. Gli Austriaci erano in netta minoranza numerica ma ebbero così la possibilità di giocare sulla velocità per colpire uno dei due tronconi. A questo si sommò la deficienza logistica degli italiani. Risultò un problema persino fornire le coperte. Oltre il fatto che molti soldati non avevano mai combattuto, o soltanto contro i «briganti». In più, la litigiosità degli alti ufficiali...Le truppe di La Marmora, mentre cercavano di sorprendere gli austriaci oltre l'Adige, si fecero sorprendere dal nemico appena passato il Mincio. Ne nacque uno scontro disordinato: la seconda battaglia di Custoza. Nonostante tutto gli italiani si batterono bene. Gli Ulani del battaglione «Conte di Trani» e la brigata di Cavalleria di Ludwig von Pulz vennero massacrati a Villafranca dal quadrato di fucilieri comandato dal principe Umberto. I granatieri sul Monte Torre e sul Monte Croce fecero pagare agli austriaci ogni palmo di terra. Ma nel momento più critico alcuni ufficiali, come il generale Della Rocca, non inviarono rinforzi, seppur richiesti nella zona più a rischio, Custoza. Il risultato fu che le truppe italiane dovettero ritirarsi. Gli austriaci non le inseguirono: avevano subito colpi altrettanto gravi. Gli italiani avevano perso tra morti, feriti, e prigionieri 7.403 uomini. Gli austriaci 7.956. Ma era il morale degli italiani a essere crollato. E le cose peggiorarono ancora quando i Prussiani travolsero gli austriaci a Sadowa, il 3 luglio. Ne nacque una sorta di psicosi: bisognava vincere «qualcosa» al più presto. E così ci si rivolse alla Marina. Gli italiani cercarono di attirare la flotta del contrammiraglio Tegetthoff verso Ancona. L'austriaco sapeva fare il suo mestiere e non uscì dal porto. Allora il ministro Depretis piombò ad Ancona e «sobillò» contro l'ammiraglio Carlo Pellion di Persano i suoi diretti e gelosissimi sottoposti, l'ammiraglio Vacca e l'ammiraglio Albini. Il risultato fu che venne allestito in fretta e furia l'attacco all'isola di Lissa che era ben fortificata e per di più collegata via telegrafo. Fu lì che la flotta austriaca subito allertata piombò sulle navi italiane. Anche in questo caso lo scontro (l'anniversario è oggi, 20 luglio) non era perduto a priori, anzi, alcune navi austriache come la «S.M.S. Kaiser» se la videro brutta. Ma se i rapporti tra Persano, Albini e Vacca erano pessimi in condizioni normali, si rivelarono tragici in battaglia. Le reazioni di Persano furono confuse, ma anche quando diede ordini chiari i suoi sottoposti si sforzarono di eluderli. Bilancio di 37 minuti di battaglia: l'affondamento della «Re d'Italia» e della «Palestro» e la morte di 638 marinai. Se Custoza era una quasi sconfitta trasformata in disfatta dalla stampa, Lissa fu una sconfitta senza se senza ma. Lo choc fu fortissimo e non bastarono i successi di Garibaldi in Trentino ad anestetizzarlo. Men che meno l'annessione del Veneto e del Friuli sprezzantemente ceduti dall'Austria alla Francia e dalla Francia a noi (a mezzo plebiscito) che pure fu indubitabilmente un grandissimo passo verso la completa unificazione del Paese. Gli italiani incorporarono un senso di fragilità militare che non hanno mai smesso di portarsi dietro. E per colmarlo misero sotto processo l'ammiraglio Persano che fu radiato dalla Marina. Ma quale fosse la differenza tra lui e gli altri ammiragli che gli avevano messo i bastoni tra le ruote nel bel mezzo dello scontro non fu mai chiarito. Sulle responsabilità degli ufficiali del Regio esercito invece ci si limitò alle polemiche velenose. Anche questo lavacro di coscienza collettivo a mezzo capro espiatorio si trasformò in una brutta prassi nazionale. Anzi forse è il cascame, sociologico, più grave di questa guerra vinta senza vincere.
La truffa dell’Unità d’Italia. La propaganda è sempre esistita ogni qual volta c'è stato un potere organizzato che ha operato su una massa di popolazione relativamente concentrata. Poteva trattarsi o d'integrare maggiormente i gruppi e gli individui nella società, o di stabilire la legittimità del potere politico, o di ottenere un determinato numero di comportamenti e di adesioni, o infine di lottare contro le influenze esterne. La propaganda delle società tradizionali, tuttavia, non presentava gli stessi caratteri della propaganda moderna. Si trattava allora di una propaganda generalmente legata a una persona, un capo carismatico, un propagandista che agiva per intuizione, per abilità personale. Era dunque un fenomeno occasionale e limitato, che appariva e scompariva a seconda delle circostanze. Si trattava sempre d'interventi circoscritti, fondati spesso su sentimenti religiosi, e che non presentavano nessun carattere di razionalità o, ancora meno, di tecnicità. (Enciclopedia Traccani)
Si dice che Mazzini sia stato anti monarchico e anti Savoia, scrive Giovanni Greco, su questo nutro dubbi in quanto lo reputo un massone per conto della Regina in Gran Bretagna! Un paradosso tutto Repubblicano; comunque Mazzini, ad esempio, appoggiò moralmente la spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, che egli considerava una valida opposizione a Cavour. Quindi si giungerà all'Unità d'Italia. In seguito numerosi repubblicani confluiranno nei Fasci di combattimento di epoca ormai Mussoliniana. E se ho ricostruito bene i fatti - mi auguro di non sbagliare - il progetto mazziniano era teso a favorire gli interessi inglesi nei traffici commerciali del tempo, che erano legati ai cavalli, alle carrozze, alle mongolfiere, alle navi e ai treni. Infatti il predominio nelle comunicazioni era di fondamentale importanza per l'epoca oltre ad essere stata una decisione iniziale delle famiglie di banchieri ebreo/tedesche/americane dei Rothschild e dei Rockefeller, i quali avevano finanziato la Regina inglese per l'invasione del Regno dei Borbone. Bene Mazzini, dopo la conquistata del Regno delle Due Sicilie, potè favorire i commerci della famosa "Valigia delle Indie"; e il re Borbone e le sue terre infatti erano l'unico impedimento al progetto originario dei Rothschild. Gli stessi Rothschild che con il gruppo Bilderberg regnano tutt'ora le pagine della real politik e delle primavere arabe e degli autunni italiani del III millennio.
Ciò che la storia ha sempre cercato di insabbiare. Tutti noi siamo soliti considerare l’Unità d’Italia una grande impresa e Giuseppe Garibaldi un grande eroe. Ma è davvero così? Scrive Enrico Novissimo per Collana Exoterica. Il processo che portò all’Unità d’Italia vide come protagonisti una lunga fila di uomini più o meno celebri, i cosiddetti padri del Risorgimento. Ancora oggi infatti, se si va dal nord al sud dell’’Italia, troviamo piazze o vie principali che si fregiano di nomi illustri come Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele ecc … Consideriamo infatti questi personaggi dei veri eroi, raffigurati dagli artisti che ne esaltano il loro valore in maniera da rafforzare il mito che li circonda; innumerevoli sono infatti le opere d’arte che ritraggono l’eroe dei due Mondi ora a cavallo, ora in piedi che impugna alta la sua spada, alcune volte indossando la celebre camicia rossa, altre volte reggendosi su un paio di stampelle come un martire. Tuttavia un ritratto che di certo non vedremo mai vorrebbe il Gran Maestro massone, Giuseppe Garibaldi (ebbene sì, che lo crediate o no era massone, così come Cavour e forse Mazzini), privo dei lobi delle orecchie. Sembra incredibile eppure la vicenda sembra vera. Al nostro “falso” eroe furono davvero mozzate le orecchie; la mutilazione avvenne esattamente in Sud America, dove l’intrepido Garibaldi fu punito per furto di bestiame. Dunque il grande Garibaldi, icona della spedizione dei Mille e dell’’Unità italiana sarebbe stato un ladro di cavalli? Difficile crederlo. Naturalmente nessuna fonte ufficiale racconta questa vicenda. È dunque lecito chiedersi quante altre accuse infanghino le gesta degli eroi risorgimentali? Quante altre macchie vennero lavate a colpi d’inchiostro da una storiografia corrotta e pilotata? Ma soprattutto, quale fu il ruolo dei banchieri Rothschild nel processo di Unità d’Italia? La Banca Nazionale degli Stati Sardi era sotto il controllo di Camillo Benso conte di Cavour, grazie alle cui pressioni divenne una autentica Tesoreria di Stato; difatti era l’unica banca ad emettere una moneta fatta di semplice carta straccia. Inizialmente la riserva aurea ammontava ad appena 20 milioni di lire, ma questa somma ben presto sfumò perché reinvestita nella politica guerrafondaia dei Savoia. Il Banco delle Due Sicilie, sotto il controllo dei Borbone, possedeva invece un capitale enormemente più alto e costituito di solo oro e argento: una riserva tale da poter emettere moneta per 1.200 milioni ed assumere così il controllo dei mercati. Cavour e gli stessi Savoia avevano ormai messo in ginocchio l’economia piemontese, si erano indebitati verso i Rothschild per svariati milioni e divennero in breve due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo mascherato però come un movimento patriottico. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. La storia ufficiale racconta che i Mille guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei banchieri Rothschild; attraverso i soldi dei Rothschild, infatti, i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia. Neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il Sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza: in questa situazione gli stupri, le esecuzioni di massa e le violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa per scampare a questo fu l’emigrazione. Il popolo cominciò così a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti; si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione. A 150 anni di distanza si parla ancora di “questione meridionale”. Enrico Novissimo per Collana Exoterica
Cavour e gli stessi Savoia avevano messo in ginocchio l’economia piemontese, indebitata verso i Rothschild per svariati milioni, scrive Enrico Novissimo. Divennero due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo sotto mentite spoglie. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. "I Mille" guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei Rothschild, con i loro soldi i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia, neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza, l’oro dei Borbone scomparve per sempre. Stupri, esecuzioni di massa, crimini di guerra e violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa alla morte fu l’emigrazione. Il popolo cominciò a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti, si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione.
La spedizione dei Mille è stato uno degli eventi cruciali per l’unificazione d’Italia. Ai tempi non c'era internet ma il telegrafo, Parigi era la Borsa di riferimento e i prestiti erano erogati dalle grandi famiglie dei banchieri e non dall’Fmi. Eppure mercati finanziari e debito pubblico ebbero un ruolo nello sgretolamento del regno borbonico e nel successo dei garibaldini. E, col senno di poi, è un po’ come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild, scrive Luciano Canova. Studiando la serie storica delle quotazioni del debito pubblico borbonico, durante il 1860, è possibile rispondere a una domanda assai interessante, anche per i suoi riflessi attuali: i mercati finanziari dell’epoca avevano scontato la spedizione dei Mille? Indubbiamente, i mercati anticipano accadimenti incerti, che valutano attraverso la lente deformante delle aspettative. Se, però, nell’era di Internet, i mezzi di comunicazione consentono un aggiornamento immediato di quello che avviene ai piani alti, è lecito chiedersi se le cose funzionassero in modo simile anche in passato, in particolare per un evento che ha segnato la storia di questa penisola. Un’analisi è possibile andando a recuperare le quotazioni giornaliere della rendita di Sicilia del 1860, pubblicate sulla pagina commerciale del quotidiano dei Borbone, Il Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, conservate presso l’Archivio storico municipale del comune di Napoli e presso l’Archivio storico della Fondazione Banco di Napoli. Come riportato dal lavoro La borsa di Napoli di Maria Carmela Schisani, anche nel diciannovesimo secolo esisteva una borsa valori in cui venivano negoziati titoli, prevalentemente del debito pubblico, dei vari stati. La borsa venne istituita a Napoli nel 1788 da Ferdinando I di Borbone e attraversò la storia del regno delle Due Sicilie fino al 1860, con la caduta di Francesco II. Il titolo del debito pubblico era emesso in ducati, la moneta del regno, e aveva una rendita fissa del 5 per cento alla scadenza. Parigi costituiva la Wall Street dell’epoca e sui suoi valori risultavano agganciate le quotazioni dei titoli napoletani. Come a dire che lo spread si sarebbe misurato sui titoli francesi. La finanza, allora, era organizzata attorno a grandi famiglie: un ruolo di primo piano, in particolare, fu esercitato dai Rothschild, che erogarono ai Borbone diversi prestiti nel corso della loro storia. In sostanza, la famiglia di banchieri agiva come una sorta di Fondo monetario internazionale ante litteram, che garantiva prestiti onerosi dietro l’impegno ad approvare riforme politiche e fiscali rigorose da parte dei beneficiari. Non è un caso se Ferdinando II, re di Napoli dal 1830, iniziò un programma radicale di modernizzazione del regno proprio in concomitanza con uno di questi prestiti. E non è un caso che, dopo il 1848, il regno cominciò a sfaldarsi, anche per via del disimpegno dei Rothschild stessi dalle finanze partenopee. Tornando all’avventura garibaldina, poco prima dell’inizio della spedizione, il titolo del debito pubblico borbonico raggiunse il suo massimo: 120,06 ducati nel 1857. Si tratta di una fase che potremmo considerare come una sorta di bolla speculativa. Prima dell’inizio della spedizione dei Mille, l’Europa guardava al Regno delle Due Sicilie come a una monarchia in crisi irreversibile. Si trattava soltanto di capire di che morte il regno dovesse morire, un po’ come capitato con la fine del governo Berlusconi. Il grafico in alto (visibile qui) mostra l’andamento della serie delle quotazioni giornaliere del debito pubblico borbonico durante il 1860. La retta verticale segna l’inizio della spedizione. Come è possibile evincere, le quotazioni del debito crollano con l’avanzare dei garibaldini. La spedizione di Garibaldi è un’impresa decisamente non lineare, che procede per salti discreti. Indubbiamente, da un punto di vista numerico, lo scontro appariva impari: un migliaio di volontari, male armati e peggio equipaggiati, contro le 100mila unità di cui contava, almeno sulla carta, l’esercito regolare di Francesco II. Seguire la spedizione attraverso le contrattazioni sul mercato ci consente di fare luce, in un modo assai originale, sull’evento... Dallo sbarco avvenuto a Marsala l11 maggio alla battaglia di Calatafimi, quattro giorni dopo (il primo grosso smacco per l’armata borbonica) il titolo perse 4,4 punti percentuali. Dopo Calatafimi, i Mille puntarono verso Palermo, dove, a protezione della città, stava il grosso del contingente borbonico sull’isola (25 mila unità). In pratica, Garibaldi conquistò la città senza combattere, sfruttando insieme la sua abilità tattica e la disorganizzazione delle truppe regie, guidate da Ferdinando Lanza. Al 19 giugno, data di caduta della città, il titolo aveva perso 10 punti percentuali, fermo a 103 ducati. Luglio fu sostanzialmente un mese di stasi: i garibaldini si organizzarono in Sicilia mentre, allo stesso tempo, pianificavano lo sbarco in continente; i borbonici, a Napoli, preparavano invece la controffensiva. Questa incertezza si concretizzò, non casualmente, in un periodo di immobilismo delle contrattazioni, con il titolo che reagisce, sì, alla battaglia di Milazzo (19 luglio) perdendo altri 5,5 punti percentuali (96 ducati), ma rimane, poi, sostanzialmente stabile, un po’ come lo spread italiano oggi, fermo da giorni sulla soglia dei 500 punti. Dallo sbarco in Calabria e fino alla caduta di Napoli e del Regno, con la battaglia del Volturno che si conclude il 1° ottobre 1860, e l'incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano il 26 ottobre, il valore del titolo scese a 87 ducati, con una perdita di altri 9,2 punti percentuali. Il crollo si arrestò nel momento in cui i Savoia proclamarono ufficialmente che, con l'istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico, avrebbero onorato il pagamento del debito anche degli Stati pre-unitari annessi, da vero e proprio last resort lender. Il titolo borbonico, da quel momento, andò assestandosi sui valori della rendita sabauda. La scaltrezza di Cavour e della casa regnante di Torino, dapprima informalmente ostili all'avventura garibaldina e, successivamente, pronti a sfruttare l'opportunità politica offerta dal successo della spedizione, si riflesse nei corsi del debito, che fotografano come in un elettrocardiogramma le pulsazioni della finanza dell'epoca, pronta a sintonizzarsi sui ritmi di un cuore Savoia. A nulla valsero le promesse di riforma costituzionale di Francesco II, dopo il 25 giugno 1860. A nulla servì la controinformazione del regno, ben evidenziata dal Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, che parlava di brillanti successi dell'esercito regio contro una masnada di filibustieri, proprio mentre i buoni del tesoro, inesorabili, cadevano sotto gli occhi della casa regnante in crisi. Uno degli aspetti più interessanti di questa straordinaria vicenda è appunto l'informazione, che aumentò l'incertezza attorno all'evento e, con essa, le fibrillazioni del mercato internazionale. I bookies dell'epoca avrebbero avuto le loro difficoltà a scommettere sugli eventi. Era chiara, da un lato, la decadenza del regno borbonico; meno chiara, la via d'uscita: un trionfo elettorale della coalizione Garibaldi-Mazzini o un governo tecnico Cavour, per rassicurare i mercati? Col senno di poi, è un po come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild.
LUCIANO CANOVA. Docente e ricercatore alla Scuola Enrico Mattei, dove insegna i corsi di Economia Sperimentale e di Comunicazione Scientifica al Master MEDEA (Management dell’Economia dell’Ambiente e dell’Energia). Ha studiato Economia a Milano, laureandosi al DES in Bocconi nel 2002. Ha conseguito un master in Development Economics alla University of Sussex e il dottorato in Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Per due anni, è stato post-doc alla Paris School of Economics. iProf di Economia della felicità su Oilproject.org, collabora con diverse testate di divulgazione scientifica.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
SOLDI ED ANTICLERICALISMO.
Anticlericalismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'anticlericalismo (nella sua accezione più comune) è una corrente di pensiero laicista, sviluppatasi soprattutto in riferimento alla Chiesa cattolica, che si oppone al clericalismo, ossia all'ingerenza degli ecclesiastici e della loro dottrina, nella vita e negli affari dello Stato e della politica in generale. In quanto "tendenza", non convogliata in un manifesto o in qualche movimento principale, l'anticlericalismo ha subito una serie di evoluzioni storiche e si è sviluppato in molteplici sfaccettature, tanto che è difficile darne una definizione condivisa. Per alcuni esso è l'opposizione allo sconfinamento del clero in qualsiasi ambito diverso dalla pura spiritualità (quindi economia, politica, interessi materiali). Questa forma di pensiero si colloca ideologicamente sia nell'ambito del liberalismo, sia delle sinistre radicali ma anche in alcuni partiti socialisti democratici, ed in Italia, storicamente, nei partiti che traggono origine dal pensiero mazziniano (in particolare, il Partito d'Azione ed il Partito Repubblicano Italiano), nel Partito Socialista Italiano e nel Partito Radicale. Dal punto di vista ideologico e filosofico, talvolta l'anticlericalismo si sviluppa parallelamente a quello della non credenza. L'anticlericalismo esplicito o velato da quella che Torquato Accetto chiamava la «dissimulazione onesta» è tanto più diffuso quanto più il clero, in particolare nei suoi vertici cardinalizi e vescovili, tende a sovrintendere alla vita e all'organizzazione politico-civile dello Stato. In Europa, l'anticlericalismo si è sviluppato lungo parte della storia cristiana ed ha avuto come precursori figure di cristiani come Erasmo da Rotterdam, Immanuel Kant, Paolo Sarpi, Gottfried Arnold e Thomas Woolston, che considerava quale vero unico autentico miracolo di Gesù la cacciata dei mercanti dal Tempio. L'anticlericalismo italiano (tra i primi esponenti sono oggi annoverati personaggi come Marsilio da Padova, Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, il Platina e Giordano Bruno), giungerà ad avere i suoi primi "martiri" nella prima metà del settecento con Pietro Giannone, morto in carcere a Torino, e Alberto Radicati di Passerano, morto esule all'Aia. Vanno poi ricordati gli illuministi francesi - tra i quali Voltaire e Diderot - che si opposero a ogni forma di clericalismo. Elementi anticlericali, secondo alcuni, sono presenti nella prima fase della Riforma luterana che abolisce gli ordini regolari, non riconosce né il sacramento dell'ordine, né l'obbligo del celibato ecclesiastico, proclamando il sacerdozio universale di ogni cristiano che ha la sua guida nella sola Sacra Scrittura. In particolare, gli anabattisti riconoscevano Cristo come unico capo della Chiesa, e negavano il valore della gerarchia e del magistero, affidandosi all'insieme dei credenti e dalla loro quotidiana imitazione dell'esempio di Cristo. La Controriforma inaugurata dal Concilio di Trento è stata anche una risposta a tali istanze antigerarchiche presenti, sia pure con grandi diversità e con differenti gradi di intensità, nel mondo protestante e, per Paesi come l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Austria, la Baviera, la Polonia, la Croazia, l'America Latina un'istanza di rinnovata clericalizzazione non solo della vita religiosa, ma anche nella vita socio-politica, in particolare attraverso il controllo della formazione scolastica e del costume femminile. Nel Settecento si diffonde l'anticurialismo, una tendenza giuridica che si ergeva a difesa dello Stato assolutista contro i privilegi della Chiesa e particolarmente contro le prerogative del Tribunale dell'Inquisizione, che sottraeva allo Stato parte del suo ruolo nell'amministrazione della giustizia. L'origine dell'anticurialismo risale alla seconda metà del Cinquecento, quando a Napoli il viceré spagnolo Pedro Afán de Ribera, che pure represse duramente i valdesi in Calabria, si oppose alla pubblicazione dei decreti del Concilio di Trento e all'istituzione dell'Inquisizione spagnola nel Regno di Napoli. Nel Settecento l'anticurialismo assume l'aspetto di una corrente filosofica e giuridica con autori come il sacerdote salernitano Antonio Genovesi, il cavese Costantino Grimaldi, autore delle Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (Napoli, 1708) e delle Discussioni istoriche teologiche e filosofiche (Lucca, 1725) e il foggiano Pietro Giannone, che a Ginevra, patria del calvinismo, già inviso alla Chiesa per la sua opera storica, compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale Il Triregno. Del regno terreno, Del regno celeste, Del regno papale, che sarà pubblicato postumo solo nel 1895. Nel 1730 Alberto Radicati di Passerano, esule a Londra, pubblicò un opuscolo anticlericale, sotto il titolo A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion, in cui rigetta il cattolicesimo e ne dipinge una mordace caricatura, sulla scorta degli autori illuministi francesi. Nel 1732 pubblicò la Dissertazione filosofica sulla morte, un'opera in cui rivendicava il diritto al suicidio e all'eutanasia. In tutto il secolo si rafforza anche l'antigesuitismo, un movimento di ostilità contro la Compagnia di Gesù, un istituto religioso simbolo della fedeltà al papa, che si riteneva protagonista di ingerenze clericali in politica e nella scienza. Mentre l'aspirazione illuministica alla libertà diveniva il marchio del secolo, la presenza dei gesuiti si faceva via via inaccettabile, tanto che furono espulsi da tutti gli Stati cattolici, a cominciare dal Portogallo (1750). Il primo Stato italiano ad espellere i Gesuiti fu il regno di Napoli (1767), seguito dal ducato di Parma e Piacenza. Nel 1773 papa Clemente XIV con il breve Dominus ac Redemptor decise la definitiva soppressione della Compagnia di Gesù. Nella seconda metà del XVIII secolo l'infante Filippo I di Parma e il suo ministro Guillaume du Tillot adottarono nel ducato di Parma e Piacenza una politica anticlericale, che poneva pesanti limitazioni nella capacità della Chiesa di acquisire e possedere beni immobili e di ereditare. Addirittura gli ecclesiastici furono esclusi della successione ereditaria delle loro famiglie. Ai vescovi furono proibiti impiegati che non fossero laici e fu loro sottratta la giurisdizione sugli ospedali e sulle opere pie. Con Ferdinando di Borbone non cessarono le vessazioni del clero e papa Clemente XIII fece affiggere un breve di protesta (Monitorium), che suscitò tali reazioni che in breve tempo quasi tutti gli Stati d'Europa presero posizione contro il Papa. A Napoli la tendenza anticuriale è rappresentata in politica dal primo ministro Bernardo Tanucci. Con il concordato del 1741, la Santa Sede aveva concesso larghi privilegi ai monarchi napoletani che erano sempre stati vicini al papato, non prima di lunghe trattative condotte dall'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, che agiva come ministro plenipotenziario del Regno di Napoli ed era egli stesso un uomo di cultura, fiancheggiatore delle tendenze anticuriali. Il Tanucci volle applicare il Concordato in una chiave di imposizione di una politica ecclesiastica statale (regalismo), che andava a infrangere la tradizionale armonia tra il potere civile e quello religioso. Sulla scorta delle rivendicazioni gallicane già applicate in Francia, le entrate di episcopati e abbazie vacanti affluirono alla corona, conventi e monasteri superflui vennero soppressi, le decime abolite e nuove acquisizioni di proprietà da parte delle istituzioni ecclesiastiche tramite la manomorta vietate. La pubblicazione delle bolle papali necessitava della previa autorizzazione reale (il cosiddetto exequatur). Anche le nomine vescovili nel Regno caddero, seppure non direttamente ma solo tramite raccomandazioni, grazie anche all'abilità politica del Tanucci, nelle mani del sovrano. Il Re era soggetto soltanto a Dio, gli appelli a Roma erano proibiti a meno che non vi fosse stato l'assenso del re, il matrimonio venne dichiarato un contratto civile. Papa Clemente XIII reagì con la scomunica, al che Tanucci rispose occupando le enclave pontificie nel territorio napoletano di Benevento e Pontecorvo, che saranno restituite alla Santa Sede solo dopo la soppressione della Compagnia di Gesù. Le proteste dei vescovi contro i nuovi insegnamenti nelle scuole a seguito dell'espulsione dei Gesuiti vennero liquidate come non valide. Uno degli ultimi atti di Tanucci fu l'abolizione della chinea (1776), il tributo annuale che i re di Napoli versavano al papa come segno del loro vassallaggio sin dal tempo di Carlo I d'Angiò. Tuttavia, le proteste popolari costrinsero a ritirare il provvedimento di Tanucci e la chinea fu regolarmente corrisposta fino al 1787. Durante il periodo napoleonico, molti dei regni italiani furono trasformati in stati satelliti della Francia e i loro sovrani vennero deposti; lo stesso papa Pio VII fu deportato in Francia. Proclamando a gran voce i principî della Rivoluzione francese, si abolirono i privilegi tanto del clero che della nobiltà. In realtà la rivoluzione fu, a livello locale, spesso condotta da ecclesiastici e nobili subalterni, che talora colsero l'occasione di tentare in tal modo di ottenere una promozione sociale loro preclusa secondo il precedente ordine tradizionale socio-politico. Le autorità napoleoniche appoggiarono all'interno della Chiesa cattolica le posizioni dei gallicani e dei giansenisti contro quelle degli ultramontani. Furono aboliti ed espropriati gli ordini contemplativi, mentre i beni della Chiesa furono a vario titolo espropriati per finanziare lo Stato. Per la prima volta si mise in discussione l'egemonia sociale del clero a favore delle autorità civili. L'anticlericalismo italiano ebbe notevole sviluppo nella lotta al potere temporale del papa, che costituiva oggettivo impedimento all'unificazione sotto la monarchia sabauda ed alla modernizzazione del Paese. Papa Pio VII, rientrato in Italia, tornò a segregare gli ebrei nel ghetto di Roma, dove resteranno fino alla liberazione nel 1870. Papa Gregorio XVI (1831-1846) bollava il treno come "opera di Satana", mentre il suo segretario di Stato, il cardinal Luigi Lambruschini (1776-1854), osteggiava l'illuminazione a gas e instaurava nello Stato pontificio un regime di arbitrio poliziesco, censura e inquisizione. In questo clima, anche tra gli stessi cattolici liberali italiani presero corpo posizioni di stampo anticlericale; ad esempio, una violenta polemica oppose il padre del cattolicesimo liberale italiano, Vincenzo Gioberti (1801-1852), ai gesuiti e ai cattolici reazionari. Giuseppe Garibaldi, l'eroe nazionale italiano, fu il più celebre degli anticlericali del Risorgimento e definì la Chiesa cattolica una «setta contagiosa e perversa», mentre rivolse a papa Pio IX l'epiteto di "metro cubo di letame". La formazione dello Stato nazionale del 1861 fu preceduta e accompagnata dal tentativo di una riforma religiosa di ispirazione cristiana protestante, sul modello della Chiesa nazionale d'Inghilterra, appoggiata dalle chiese valdesi, memori delle persecuzioni, che, nei propositi di alcuni esponenti delle classi dirigenti piemontesi, si proponeva l'ambizioso obiettivo di sradicare dal cuore del popolo la fede cattolica: la cosiddetta Chiesa Libera Evangelica Italiana. San Leonardo Murialdo scrisse: «Gesù Cristo è bandito dalle leggi, dai monumenti, dalle case, dalle scuole, dalle officine; perseguitato nei discorsi, nei libri, nei giornali, nel papa, nei suoi sacerdoti». Alla Camera, il deputato Filippo Abignente si augurava «che la religione cattolica sia distrutta d'un colpo». Un altro deputato, Ferdinando Petruccelli della Gattina, giornalista e patriota durante le insurrezioni del 1848 nel Regno delle Due Sicilie si riprometteva di eliminare con il potere temporale anche il potere spirituale della Chiesa. Il 20 luglio 1862, espresse senza giri di parole la sua avversione contro il Cattolicesimo: «Noi dobbiamo combattere la preponderanza cattolica nel mondo, comunque, con tutti i modi. Noi vediamo, che questo Cattolicismo è uno strumento di dissidio, di sventura, e dobbiamo distruggerlo.... La base granitica della fortuna politica d'Italia deve essere la guerra contro il Cattolicismo su tutta la superficie del mondo». Dopo la presa di Roma, Petruccelli della Gattina promosse l'abolizione della Legge delle Guarentigie e, durante una seduta alla Camera, gridò: «Il principio generale della rivoluzione Italiana è stato l'abolizione del Papato!». Egli voleva fare del sacerdote «un uomo e un cittadino», dargli «la libertà individuale nei limiti dello Stato» e il «diritto d'invocare la protezione della legge comune», il che significava l'abolizione del foro ecclesiastico. Il giornalista fu anche autore di una controversa opera, Memorie di Giuda, in cui l'apostolo viene raffigurato come un rivoluzionario che combatte l'oppressione romana. Il romanzo suscitò un enorme scandalo e trovò problemi di distribuzione, e La Civiltà Cattolica, il maggiore organo di stampa pontificio, lo etichettò «libraccio infame» e l'autore «sporco romanziere». Secondo il laico Giovanni Spadolini, Cavour volle «fissare e delimitare le competenze specifiche della Chiesa nel suo magistero ecclesiastico, escludendola dalla società civile, dal mondo della politica, dall'istruzione, dalla scienza, dove il dominio incondizionato sarebbe stato quello dello Stato e dello Stato soltanto». Tale tentativo prese avvio nel Regno di Sardegna, con la legge del 25 agosto 1848 n. 777 che espelleva tutti i gesuiti stranieri, ne sopprimeva l'ordine e ne incamerava tutti i collegi, convertendoli ad uso militare. Negli anni seguenti i gesuiti furono nell'occhio del ciclone in tutta Italia e dopo il 1848 (durante il quale alcune residenze gesuite furono assaltate da folle inferocite), saranno soppressi in tutti gli Stati italiani (escluso lo Stato pontificio). La legge del 1848 e le analoghe successive saranno caratterizzate da ostilità verso la Chiesa cattolica che, nella visione dei politici di ispirazione liberale (sovente aderenti alla Massoneria), costituiva un freno al progresso civile, ritenendo che la religione non fosse altro che superstizione, mentre la verità andava ricercata avvalendosi del metodo scientifico. Si trattava di un aperto contrasto con la realtà italiana - e soprattutto piemontese - del primo Ottocento, in cui per assenza d'intervento dello Stato era la Chiesa ad organizzare e finanziare scuole, istituzioni sociali e ospedali. Non di rado docenti e scienziati erano essi stessi ecclesiastici. Secondo la studiosa cattolica Angela Pellicciari «la nuova identità che i grandi del mondo progettano per la nazione culla dell'universalismo romano e poi cristiano è anticattolica, mentre la storia, la cultura e la popolazione sono tutte cattoliche.» A partire dal 1850, furono promulgate le leggi Siccardi (n. 1013 del 9 aprile 1850, n. 1037 del 5 giugno 1850, e n. 878 del 29 maggio 1855), che abolirono tre grandi privilegi di stampo feudale di cui il clero godeva nel Regno di Sardegna: il foro ecclesiastico, un tribunale che sottraeva alla giustizia dello Stato gli uomini di Chiesa oltre che per le cause civili anche per i reati comuni (compresi quelli di sangue), il diritto di asilo, ovvero l'impunità giuridica di chi si fosse macchiato di qualsiasi delitto e fosse poi andato a chiedere rifugio nelle chiese, nei conventi e nei monasteri, e la manomorta, ovvero la non assoggettabilità a tassazione delle proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici (stante la loro inalienabilità, e quindi l'esenzione da qualsiasi imposta sui trasferimenti di proprietà). Inoltre, tali provvedimenti normativi disposero il divieto per gli enti morali (e quindi anche per la Chiesa e gli enti ecclesiastici) di acquisire la proprietà di beni immobili senza l'autorizzazione governativa. L'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni venne processato e condannato ad un mese di carcere dopo aver invitato il clero a disobbedire a tali provvedimenti. Fu del 29 maggio 1855 la legge che abolì tutti gli ordini religiosi (tra i quali agostiniani, carmelitani, certosini, cistercensi, cappuccini, domenicani, benedettini) privi di utilità sociale, ovvero che «non attendessero alla predicazione, all'educazione, o all'assistenza degli infermi», e ne espropriò tutti i conventi (334 case), sfrattando 3733 uomini e 1756 donne. I beni di questi ordini soppressi furono conferiti alla Cassa ecclesiastica, una persona giuridica distinta ed autonoma dallo Stato. L'iter di approvazione della legge, proposta dal primo ministro Cavour, fu contrastato da re Vittorio Emanuele II e da un'opposizione parlamentare agitata dal senatore Luigi Nazari di Calabiana, vescovo di Casale Monferrato, che determinarono le temporanee dimissioni dello stesso Cavour. Con l'avvento del Regno d'Italia avvenuto nel 1861, il Governo adottò nei confronti della Chiesa (che contrastava l'affermarsi di "compiti di benessere" dello Stato a favore dei cittadini) una politica limitativa, in particolare rispetto agli enti ecclesiastici tramite le cosiddette Leggi eversive:
La Legge n. 3036 del 7 luglio 1866 con cui fu negato il riconoscimento (e di conseguenza la capacità patrimoniale) a tutti gli ordini, le corporazioni, e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi furono incamerati dal demanio statale, e contemporaneamente venne sancito l'obbligo di iscrizione nel libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto (in sostituzione della precedente cassa ecclesiastica del Regno di Sardegna). Venne inoltre sancita l'incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, fatte salve le parrocchie.
La Legge n. 3848 del 15 agosto 1867 previde la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui dallo Stato per la vita religiosa del Paese. Da tale provvedimento restarono esclusi seminari, cattedrali, parrocchie, canonicati, fabbricerie e gli ordinariati. Nel tentativo di colmare i gravi disavanzi causati dalla terza guerra d'indipendenza, nel 1866 il primo ministro Giovanni Lanza estese l'esproprio dei beni ecclesiastici a tutto il territorio nazionale e, con la legge del 19 giugno 1873 anche a Roma, la nuova capitale. Negli anni Settanta del XIX secolo il ministro dell'istruzione Cesare Correnti abolì le facoltà teologiche, sottrasse gli educandati femminili siciliani al controllo dei vescovi e infine tentò la soppressione dei direttori spirituali nei ginnasi, ma in seguito alle proteste della Destra dovette rassegnare le dimissioni il 17 maggio 1872. Il tentativo mazziniano di instaurare la Repubblica Romana (febbraio-luglio 1849) fu accompagnato da assassinii di sacerdoti, saccheggi di chiese e requisizioni forzose. Nei pochi mesi di vita della Repubblica, Roma passò dalla condizione di stato tra i più arretrati d'Europa a banco di prova delle nuove idee liberali che allora si diffondevano nel continente, fondando la sua vita politica e civile su principi - quali, in primis, il suffragio universale maschile, la libertà di culto e l'abolizione della pena di morte (facendo seguito, in questo caso, all'esempio del Granducato di Toscana che aveva definitivamente abolito la pena capitale nel 1786) e - che sarebbero diventate realtà in Europa solo circa un secolo dopo. Nella difesa di Roma dall'esercito francese, che accorse a sostenere lo Stato pontificio insieme alle armate austriache, borboniche e spagnole, persero la vita numerosi padri della patria tra cui Goffredo Mameli. Tra i politici di maggior spicco in questa fase storica emerge la figura di Camillo Benso Conte di Cavour, che nel 1861, poco dopo la proclamazione dell'Unita d'Italia, formulò, inascoltato, il principio della «Libera Chiesa in libero Stato», tentando con questa principio di regolare la convivenza tra Chiesa e Stato. Nel 1869 quando venne convocato il Concilio Vaticano I, a Napoli si riunì un anticoncilio di liberi pensatori, soprattutto massoni, organizzato dal deputato Giuseppe Ricciardi. Il Concilio Vaticano I fu poi interrotto dalla presa di Roma e non più convocato. Negli anni seguenti Roma divenne teatro di numerosi episodi di anticlericalismo, soprattutto in occasione di manifestazioni pubbliche: «fra il 1870 e il 1881 si possono contare oltre trenta casi gravi di intolleranza, di provocazione, talora scontri fisici». Per lungo tempo il Papa, rifugiatosi in Vaticano, impose ai cattolici di non partecipare alla vita pubblica del Regno d'Italia con un pronunciamento conosciuto come non expedit. Nel 1850 dopo l'approvazione delle leggi Siccardi nel Regno di Sardegna l'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni fu arrestato per un mese e poi mandato, nelle stesso anno, in esilio a Lione per la sua ferma opposizione alle leggi anticlericali. Dopo l'Unità, circa la metà delle diocesi italiane resterà vacante, per il rifiuto del Governo di concedere il necessario 'placet' o 'exequatur' ai vescovi. Nel 1864 ben 43 vescovi erano in esilio, 20 in carcere, 16 erano stati espulsi e altri 16 morti per le vessazioni subite. A metà degli anni sessanta di 227 sedi vescovili, 108 erano vacanti. I motivi di questi arresti erano spesso arbitrari: il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa, fu arrestato il 13 maggio 1860 per non aver voluto cantare il "Te Deum" per Vittorio Emanuele II. Nel luglio dello stesso anno il vescovo di Piacenza Antonio Ranza e dieci canonici furono condannati dal tribunale a quattordici mesi di reclusione per antipatriottismo. Si trattò di una condanna politica, perché il vescovo si era allontanato dalla città in occasione della visita del re e non aveva celebrato la festa dello Statuto. Nelle province meridionali, dopo la spedizione di Garibaldi con vari pretesti furono arrestati e processati 66 vescovi. Durante i quattro anni successivi subirono la stessa sorte anche nove cardinali. Il problema delle sedi vacanti si avviò verso la soluzione nell'ottobre del 1871, quando furono nominati 41 nuovi vescovi. Altri 61 saranno nominati negli anni successivi. Tuttavia, nel 1875 Minghetti annunciava ancora alla Camera che delle 94 domande di exequatur presentate per la nomina di nuovi vescovi, soltanto 28 erano state accettate dal Governo. Dopo l'Unità d'Italia si verificarono episodi di intolleranza anticlericale come l'assalto al Congresso cattolico di Bologna del 9 ottobre 1876 e i tumulti in occasione della traslazione della salma di Pio IX il 13 luglio 1881. Nel 1889, l'erezione del monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori avvenne in un contesto di violenta lotta politica in cui si confrontarono le posizioni più oltranziste delle fazioni anticlericali e clericali. L'opera fu realizzata dallo scultore Ettore Ferrari, che più tardi divenne gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Fra i promotori non mancarono toni di sfida al Pontefice, che minacciava di lasciare Roma per rifugiarsi in Austria, e il monumento divenne uno dei simboli dell'anticlericalismo. Francesco Crispi ottenne dal re Umberto I un decreto di destituzione nei confronti del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che aveva fatto una visita ufficiale al cardinale vicario Lucido Maria Parocchi, portando un messaggio per papa Leone XIII. Nello stesso periodo a Roma la Massoneria metteva in scena sotto i Palazzi apostolici banchetti nei venerdì di Quaresima, per dileggiare il digiuno cristiano. Gli episodi di violenza continueranno anche nella prima parte del XX secolo: fra questi l'assalto alla processione del Corpus Domini a Fabriano, avvenuto il 21 giugno 1911, condotto da socialisti e anticlericali, terminò in un clamoroso processo. Il principale esponente dell'anticlericalismo in ambito accademico e culturale fu il poeta e poi docente di letteratura italiana Giosuè Carducci. Pubblicò nel 1860 nella raccolta Juvenilia la poesia Voce dei preti: «Ahi giorno sovra gli altri infame e tristo, Quando vessil di servitù la Croce. E campion di tiranni apparve Cristo!» (Giosuè Carducci, Voce dei preti), e nel 1863 l'Inno a Satana, che poi ristamperà nel 1868 in occasione del Concilio Vaticano I. L'anticlericalismo accademico derivò in larga parte dall'adesione di molti docenti al positivismo e allo scientismo. All'università di Torino il positivismo fece la sua comparsa negli anni sessanta del XIX secolo presso la facoltà di medicina, dove insegnava l'olandese Jacob Moleschott. Cesare Lombroso, fondatore dell'antropologia criminale, Salvatore Cognetti de Martiis, professore di economia politica garibaldino, e Arturo Graf, docente di letteratura italiana, furono celebri esponenti di teorie anticlericali. Il darwinismo ebbe come centri di diffusione Torino, Pavia e Firenze. Anche l'associazionismo studentesco risentì della polemica anticlericale e costituì un anello di quella che poteva apparire una «koinè positivista e anticlericale largamente condivisa nel mondo accademico». Nel 1871 i professori dell'Università di Roma furono chiamati a pronunziare il giuramento di fedeltà al re e allo Statuto. I professori della facoltà di teologia furono esentati dal giuramento, ma in maggioranza si rifiutarono di riprendere l'insegnamento in un ambiente ora ostile. Papa Pio IX li ricevette in udienza dicendo loro: «L'Università, quale ora è divenuta, non è più degna delle vostre dottrine e di voi, e voi stessi vi contaminereste varcando quelle soglie, entro le quali si insegnano errori così perniciosi». Appelli analoghi furono rivolti agli studenti e fu dato vita ad un tentativo di un'università alternativa. Quando però il tentativo fallì, agli studenti fu concesso di frequentare le università statali, ammonendoli però ad evitare l'influsso dei cattivi maestri. All'Università di Catania fu professore di letteratura italiana Mario Rapisardi, spirito anticlericale e garibaldino, che considerava le religioni come intralcio al progresso scientifico e morale. Il ritiro dei docenti della facoltà di teologia diede occasione allo Stato di sopprimere le facoltà di teologia con la legge Scialoja-Correnti del 26 gennaio 1873, determinando la scomparsa degli studi ecclesiastici dalle università di Stato. Al di fuori dell'ambito strettamente accademico, ebbe straordinario successo la letteratura di Edmondo De Amicis, che proponeva con il libro Cuore un codice di morale laica e quella di poeti come Antonio Ghislanzoni, librettista di Giuseppe Verdi, Felice Cavallotti, che fu anche un celebre politico e deputato, e Olindo Guerrini, che nel 1899 fu condannato e poi assolto in appello per diffamazione del vescovo di Faenza. Cavalli di battaglia dell'anticlericalismo divennero in questo periodo una ricostruzione storica in stile illuminista, a volte arbitraria, del Medioevo (i secoli bui), la leggenda della Papessa Giovanna, la classificazione della storia delle Crociate come guerra di religione, e della lotta alle eresie in generale e dell'Inquisizione in particolare come fenomeni dell'intolleranza cristiana (vedi Leggenda nera dell'Inquisizione). L'anticlericalismo non restò confinato alle classi dirigenti, ma trovò eco anche nelle società operaie e di mutuo soccorso di fine ottocento, prevalentemente di ispirazione socialista. Secondo questa ideologia, Gesù Cristo era stato il "primo socialista", ma il suo insegnamento era stato corrotto dalla Chiesa ("dai preti") per tornaconto. Un esempio emblematico di questa ideologia fu La predica di Natale del 24 dicembre 1897 di Camillo Prampolini. Diffuse erano anche le rappresentazioni teatrali di spettacoli anticlericali: ad esempio nel 1851 a Vercelli erano in scena due commedie, intitolate "Gli orrori dell'Inquisizione" e "Il diavolo e i Gesuiti". A Roma il primo carnevale dopo Porta Pia fu organizzato dall'associazione anticlericale "Il Pasquino", che propose numerose parodie. Un enorme dito di cartapesta fu fatto sfilare per le vie di Roma: era il "dito di Dio", una formula tipica con cui la stampa cattolica commentava sventure e disgrazie. L'anticlericalismo trovò eco anche in polemiche giornalistiche, che spesso vedevano confrontarsi giornali di tendenze opposte. A Torino la Gazzetta del Popolo diretta dall'anticlericale Felice Govean, che fu anche gran maestro del Grande Oriente d'Italia, battagliava contro l'Armonia cattolica, diretta da Giacomo Margotti. Le vendite vedevano primeggiare il foglio anticlericale, che distribuiva 10 000 copie contro le 2 000 del concorrente. Il Partito Nazionale Fascista, guidato da Benito Mussolini, fortemente anticlericale e ateo in gioventù, presentava inizialmente, influenzato anche dal futurismo, un programma di "svaticanizzazione" dell'Italia, con progetti di sequestri di beni ed abolizione di privilegi. Ma Mussolini, dopo essere diventato duce dell'Italia fascista, resosi conto del gran peso sociale e culturale che la Chiesa cattolica rivestiva nel Paese, cambiò i suoi propositi iniziali e volle concordare un'intesa con la Chiesa al fine di consolidare e accrescere il proprio potere, ancora instabile, ed ottenere un più ampio consenso di popolo. Tuttavia il capo del fascismo intimamente rimaneva un ateo anticlericale, come testimoniano la sua nota avversione a farsi fotografare accanto a religiosi e la conseguente censura di tutti i ritratti in cui era presente qualche prelato o simile e la confidenza che Dino Grandi fece a Indro Montanelli nella quale raccontava come Mussolini, appena uscito dal palazzo Laterano in cui l'11 febbraio 1929 aveva appena firmato il concordato, bestemmiò pesantemente per sottolineare la sua personale avversione alla Chiesa cattolica e ai preti. L'accordo con la Segreteria di Stato vaticana per la stipula dei Patti Lateranensi, formalmente siglati nel1929 avvenne grazie ad un atteggiamento, nonostante le differenti visuali, diplomaticamente dialogante tra le parti. In cambio il dittatore impose una compressione dello spazio di intervento dell'Azione Cattolica, unica organizzazione giovanile non fascista che sopravvisse durante il regime. Con quest'accordo ci furono alcuni membri del clero, a vari livelli, che diedero la loro adesione, come cittadini italiani, al fascismo. Nello stesso Partito Popolare Italiano, una parte dei membri aderì al governo fascista ante-dittatura, contro il parere di don Luigi Sturzo. Il partito subì una forte crisi che fu determinante per l'ascesa del PNF. Ci furono così aspetti, come nel regime franchista spagnolo, di cosiddetto clericofascismo. Alla caduta del fascismo, mentre i gerarchi e i rappresentanti della monarchia fuggivano, le autorità ecclesiastiche rimasero al loro posto, svolgendo, a volte in collaborazione con il CLN, opere caritatevoli e assistenziali a vantaggio della popolazione, esercitando nel contempo un ruolo civile e sociale. Questo interesse degli ecclesiastici per le questioni politiche ed economiche si scontrava sia con la cultura liberale, che riduceva il problema religioso alla sfera individuale, sia con la cultura marxista, che annoverava le religioni fra le forze reazionarie. Se la Chiesa pretendeva di offrire alla società i valori fondamentali su cui costruire la democrazia, marxisti e liberali consideravano un'indebita ingerenza ogni intervento della Chiesa nell'ambito sociale e politico. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l'anticlericalismo ebbe le sue espressioni, seppur in forma minoritaria ed incostante, nel Partito Comunista Italiano, nel Partito Repubblicano Italiano e nel Partito Socialista per divenire centrale nell'attività del Partito Radicale a partire dagli anni settanta, in contrapposizione alla Democrazia Cristiana e all'influenza vaticana nella politica italiana. Uno dei punti principali di contrasto fu la scure censoria che si abbatté sulle migliori opere cinematografiche italiane del dopoguerra, accusati di offesa alla morale o vilipendio della religione cattolica, partendo da La dolce vita di Federico Fellini, a La ricotta di Pier Paolo Pasolini, fino a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Gli anticlericali sostennero che questi furono solo alcuni esempi tra i tanti di come la morale cattolica influenzasse ed imponesse il proprio punto di vista anche in materia di arte e spettacolo. Si impegnò in una lunga filmografia anticlericale il regista Luigi Magni, che diresse Nell'anno del Signore (1969), In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1990), una trilogia ambientata nella Roma papalina del Risorgimento. Il fronte laico riuscì ad ottenere l'istituzione del divorzio (1970, confermato dopo il referendum abrogativo del 1974) e la legalizzazione dell'aborto (1978). Nel 1984 il presidente del Consiglio socialista Bettino Craxi attuò una revisione dei Patti Lateranensi, rimuovendo la prerogativa di «Religione di Stato» in precedenza accordata alla Chiesa cattolica. Venne mantenuto, seppur rendendolo facoltativo, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, affidato a insegnanti pagati dallo Stato ma nominati dalla Curia, e l'esenzione dal pagamento delle imposte sugli immobili di proprietà della Chiesa cattolica in cui vengono svolte attività "che non abbiano natura esclusivamente commerciale". Contestualmente venne introdotta la destinazione dell'otto per mille del gettito IRPEF dei contribuenti a 7 confessioni religiose, tra cui la Chiesa cattolica. L'otto per mille viene destinato alle varie confessioni in proporzione delle scelte espresse dai soli contribuenti che forniscono un'indicazione al riguardo. La quota del reddito dei contribuenti che non ha espresso alcuna scelta viene, in altre parole, ripartita tra le confessioni religiose che hanno siglato l'intesa con lo stato italiano in misura pari alla percentuale delle scelte espresse. Per esempio, nel 2000 il 35% degli italiani si espresse a favore della Chiesa cattolica, il 5% circa a favore dello Stato o di altre religioni, e il 60% non espresse alcuna scelta. Di conseguenza, l'87% del gettito è stato devoluto alla Conferenza Episcopale Italiana. Dal 1984 gli anticlericali italiani, inizialmente dell'area anarchica e libertaria, in seguito anche i socialisti, i radicali, i liberali e i comunisti si diedero appuntamento per discutere dei maggiori temi politici di confronto e scontro con il Vaticano, ai Meeting anticlericali di Fano presso i quali, nel 1986, venne fondata anche l'Associazione per lo Sbattezzo. Oggi è contestato, da taluni, in una società sempre più secolarizzata, l'intervento della Chiesa cattolica, mediante indicazioni di comportamento ai fedeli e indicazioni di voto ai parlamentari cattolici, sull'azione legislativa e regolamentare dello Stato. Si ricorda la presa di posizione del cardinale Camillo Ruini nel referendum sulla procreazione assistita del 2005, rivolte in particolare contro l'utilizzo delle cellule staminali embrionali, e quelle di vari esponenti e prelati cattolici contro le unioni civili, l'eutanasia e il testamento biologico, oltre che la controversia sull'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane. Dalla parte della Chiesa invece si rivendica un diritto alla parola e un dovere morale nella guida del cristiano su questioni etiche.
FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.
L’inno di Mameli? Non è l’inno della Repubblica italiana, ma quello dei massoni!, scrive Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri". Questo inno massonico ha anticipato e accompagnato la ‘conquista’ del Sud da parte di quei ‘briganti’ dei Savoia. I massoni si schierarono con i piemontesi per massacrare le popolazioni del Mezzogiorno che si ribellavano alle angherie e alle prepotenze di Vittorio Emanuele e dei suoi sgherri. Una ribellione contro un invasore volgare e ignorante che gli storici prezzolati hanno definito “lotta al brigantaggio”. In realtà, i “briganti”, come già detto, erano i Savoia e i massoni che li spalleggiavano! Vi siete mai chiesti perché il nostro inno nazionale inizia con la parola “fratelli”? E, su questo vi siete mai data una risposta? A tal proposito vale bene ricordare che l’inno di Mameli non è mai stato l’inno ufficiale della Repubblica italiana, bensì un inno ufficioso o, per meglio dire “precario” come, del resto, lo è la maggior parte di tutto ciò che avviene in questo nostro Paese. A ben vedere, per quanto infatti diremo, il “precario” e ufficioso inno di Mameli si può definire a buon diritto l’inno che la massoneria impose alle nascente Repubblica italiana nel lontano 1946 in sostituzione della “marcia reale” che aveva caratterizzato il precedente periodo monarco-fascista. “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta”: queste infatti sono le prime parole dell’inno di Mameli. Un inno, come si intuisce, di chiara connotazione massonica, musicato da Michele Novaro e scritto nell’autunno del 1847 dal “fratello” Goffredo Mameli (al quale, a riprova della sua appartenenza e devozione ai liberi muratori, sarà poi dedicata a futura memoria una loggia) che, non a caso e da buon “framassone”, lo fa iniziare con la sintomatica e significativa parola “Fratelli”. Un inno scritto dal “fratello” Goffredo Mameli nel 1848 e riproposto un secolo dopo, il 12 ottobre 1946, da un altro “fratello”, il ministro delle guerra dell’allora governo De Gasperi, il repubblicano Cipriano Facchinetti, da sempre ai vertice della massoneria, con la carica di Primo sorvegliante nel Consiglio dell’Ordine del Grande Oriente d’Italia e affiliato alla loggia “Eugenio Chiesa”. Fu in quella data dell’ottobre del 1946 che Facchinetti, quale ministro della guerra, impose che l’inno fosse suonato in occasione del giuramento delle Forze Armate. E da quel momento “Fratelli d’Italia” divenne, come lo è tuttora, l’inno ufficioso della Repubblica italiana. Ufficioso e provvisorio, perché mai istituzionalizzato con alcun decreto e ancor di più, perché non contemplato dalla nostra Carta costituzionale come lo è sancita, dall’articolo 12 della stessa Costituzione, l’istituzione del tricolore come bandiera nazionale. Un inno che rimane, pertanto, per le cose dette, ancora ad oggi, privo di ogni ruolo e di ogni qualsivoglia definizione istituzionale. Da quanto argomentato si può altresì facilmente desumere che l’inno degli italiani fu un inno, nella sua lunga gestazione, fortemente voluto dai massoni che tanta parte, come abbiamo visto, ebbero e continuano, ancora oggi, ad avere nelle vicende che portarono alla mal digerita unità d’Italia. Fu immediatamente dopo l’unità d’Italia che il Sud si “destò” e si accorse, sulla propria pelle e a proprie spese, di che pasta erano fatti i “fratelli” che erano venuti a “liberarlo”. Non passò molto tempo, infatti, che siciliani e meridionali si resero conto che i garibaldo-italo-piemontesi non erano affatto i liberatori sperati, ma spietati conquistatori. E che di conquista e di colonizzazione, e non di liberazione del Sud e della Sicilia si trattò, ne è testimonianza quanto avvenne nella seduta parlamentare del 29 maggio 1861, a Palazzo Carignano, quando, ai deputati e ai giornali del Nord, che si ostinavano, avendone la piena convinzione, a sostenere di avere conquistato la Sicilia e il Mezzogiorno, si opponeva il siciliano on. Giuseppe Bruno deputato di Nicosia, il quale, in pieno Parlamento così si ergeva a protestare: “Si è detto, in alcuni giornali e qui si è ripetuta l’espressione di province meridionali ‘conquistate’ e siccome questa è un’espressione offensiva, non solo, ma ingiusta, permettetemi che come testimonio oculare la respinga risolutamente. Ciò posto, prego gli onorevoli colleghi a non volere ripetere la frase di ‘conquista’ riguardo nostro e conto che dopo queste parole e le spiegazioni da me date sui fatti di Sicilia accetteranno essi senza offesa la mia protesta”. I piemontesi della protesta dell’on Bruno non ne tennero alcun conto se, negli anni successivi, essendo ben convinti di essere conquistatori e non liberatori, perpetreranno nei confronti delle genti del Sud eccidi e massacri inenarrabili. Del resto, che di conquista, a tutti gli effetti, si trattò ce ne dà ampia e documentata testimonianza anche Antonio Gramsci nel suo autorevole saggio sul Risorgimento. Con la spedizione dei Mille, infatti, ebbe inizio il lungo processo di conquista e di scientifica colonizzazione del Sud e della Sicilia e la “radunata rivoluzionaria”, come ebbe a definirla lo stesso Gramsci, fu resa possibile dal fatto che Garibaldi s’innestava nella forze statali piemontesi e che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala e la presa di Palermo e sterilizzò la flotta borbonica. Gramsci, di fatto, nella sua lucida analisi non faceva altro che evidenziare come la “gloriosa “spedizione non fu altro che una grande mistificazione storica. E fu con questa radunata rivoluzionaria, che Gramsci chiama “rivoluzione passiva” o, meglio ancora, “rivoluzione-restaurazione”, che trionfò la logica gattopardiana che tutto avvenne perché nulla cambiasse. Anzi, per cambiare in peggio. Una rivoluzione-restaurazione che fa dire allo scrittore e uomo politico sardo che, nel suo contesto, il popolo ebbe un ruolo molto marginale, anzi subalterno, così che il risorgimento si caratterizzò, con tutte le sue ineluttabili e deleterie conseguenze, come “conquista regia” e non come movimento popolare, perché appunto mancava al popolo una coscienza nazionale. E in questo vuoto di coscienza nazionale e nella estraneità del popolo al moto unitario fu così possibile ai moderati cavouriani dirigere il processo di unificazione, regolarlo ai propri fini e ai propri interessi, in chiave antimeridionale e a tutela degli interessi del Nord con la creazione di un nuovo Stato che di questi fini e di questi interessi ne fu portatore. Con la “rivoluzione-restaurazione”, il Piemonte assume una funzione di “dominio” e non di dirigenza reale e democratica di un processo di rinnovamento che in effetti non ci fu. Si passò, nelle regioni meridionali, dall’assolutismo paternalistico borbonico al costituzionalismo repressivo piemontese. “Dittatura senza egemonia”, opportunamente la definisce ancora Gramsci, che fece pagare al Sud – e alla Sicilia in particolare – sotto tutti i punti di vista, soprattutto in termini economici e repressivi, il prezzo più alto. Del resto, di recente anche di “risorgimento senza popolo”, sulla stessa lunghezza d’onda di Gramsci, parla nel suo interessante saggio Storia e politica Risorgimento- Fascismo e Comunismo il giornalista, scrittore e saggista Paolo Mieli, il quale nel capitolo dedicato al risorgimento, frutto di approfondite ricerche storiche (Ernesto Ragionieri, Gabriele Turi, Fulvio Camarrano, Giorgio Candeloro e altri) perviene alla conclusione di un risorgimento realizzato da una “ èlite”, in cui il popolo non fu per niente protagonista e, proprio perché èlite, riuscì a creare un’area di consenso popolare assai ristretta o quasi nulla. “Dal 1861 – sostiene Mieli – dunque, il popolo, anziché essere una riserva di consenso, costituì un problema per le èlite che fecero l’Italia, con conseguenze drammatiche nella definizione dei modi di fare e di intendere la politica”. Mieli, in premessa, prende in esame in particolare l’arco di tempo che va dalla fine del Settecento, all’inizio dell’Ottocento e dai movimenti popolari che li caratterizzarono (sanfedismo e insorgenze) sino all’Unità d’Italia. Arco di tempo in cui vennero poste le basi del risorgimento. Ebbene, saltano fuori alcuni “temi scomodi” delle nostra storia patria che la agiografia ufficiale e i testi scolastici hanno sempre occultato. Ossia, a differenza di quanto avvenne nelle rivolte Sanfediste e delle Insorgenze, in cui il popolo fu protagonista attivo di quelle lotte e di quelle rivolte, nel risorgimento, al contrario, registriamo la quasi totale assenza di un consenso popolare e di partecipazione attiva alla sua realizzazione. Insomma che il popolo non fu mai un soggetto protagonista, ma in alcuni casi avverso alle lotte e agli ideali del risorgimento è acclarato da avvenimenti incontrovertibili e documentati per quanto diremo, in questo contesto, riferibili a Carlo Pisacane e a Ippolito Nievo. Carlo Pisacane fortemente impregnato da una ideologia socialisteggiante e libertaria in cui collega l’idea d’indipendenza nazionale alle aspirazioni di riscatto sociale e politico delle masse contadine e per questo propugnatore di un “socialismo utopistico” e libertario, alla fine si troverà, nel giugno del 1857, appena sbarcato a Sapri, assalito e massacrato da quegli stessi contadini e popolani per cui voleva fare la sua personale rivoluzione. E proprio nel suo Saggio sulla rivoluzione, distinguendosi e prendendo le distanze da Garibaldi e dagli altri nei giudizi su casa Savoia, tra l’altro così scriveva: “La dominazione della Casa Savoia e la dominazione della Casa d’Austria sono precisamente la stessa cosa” e poi ancora “che il regime costituzionale del Piemonte è più nocivo all’Italia di quello che lo sia la tirannia del Borbone”. In seguito i fatti gli daranno ampiamente ragione. Un uomo giusto e di grandi ideali che si trovò a operare nel posto e in un contesto sbagliato. Appena sbarcato a Sapri, Pisacane e i suoi 300 compagni, buona parte ex detenuti fatti evadere dall’isola di Ponza, furono affrontati, circondati e massacrati, con circa un centinaio di morti, compreso Pisacane, non come era prevedibile dalle guardie regie, ma dai contadini e dalla stessa popolazione locale. Dell’assenza del popolo nelle lotte risorgimentali e nella stessa spedizione dei Mille, dopo lo sbarco di Marsala avvenuto tra l’indifferenza generale della popolazione, ce ne dà altrettanta buona testimonianza quanto Ippolito Nievo scrive, il 24 giugno del 1860, alla cugina Bice con la quale intrattiene una intensa corrispondenza, a proposito della conquista di Palermo: “Ti giuro Bice… dentro pareva una città di morti, non altra rivoluzione che, sul tardi, qualche scampanio. E noi soli, ottocento al più sparsi in uno spazio grande quanto Milano, occupati, senz’ordine e senza direzione, alla conquista di una città. Noi correvamo per vicoli e piazze in cerca dei napoletani per farli sloggiare e dei palermitani per far fare loro la rivoluzione. Riuscimmo mediocremente più nell’una che nell’altra cosa. In fin dei conti Palermo rimase nostra di noi soli come si direbbe a Milano”. Anche qui, secondo quanto riportato da Nievo nella lettera alla cugina, il popolo, come in tanti altri avvenimenti e circostanze, brillò per la sua assenza. Ma ancor di più, immediatamente dopo l’unità d’Italia, un consenso e una partecipazione popolare attiva si ebbero addirittura, soprattutto, nel Mezzogiorno dalla parte opposta a quella del risorgimento che culminò in una sanguinosa guerra civile con le lotte contadine e di liberazione dall’invasione italo-piemontese, contrabbandata, da sempre dalla storiografia ufficiale, come lotta al brigantaggio. Partigiani e contadini poveri che si batterono per la loro libertà, per le loro terre e per il loro diritto all’esistenza che fece dire, come poi scrisse testualmente Antonio Gramsci su Ordine Nuovo: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”. Questi dunque, anche a parere di Gramsci e di tanti altri scrittori e saggisti che di recente – come Mieli – si pongono l’obiettivo di una serena e imparziale revisione storica, in buona sostanza, i vizi d’origine e le cause di debolezza del nuovo stato italiano e di una mal digerita e mai metabolizzata Unità. Vizi d’origine e debolezze che meritano oggi, più che costose retoriche e trionfalistiche celebrazioni – come spesso è avvenuto nel passato – opportuni e doverosi, per rispetto della verità storica, momenti di riflessione. Con la conquista del Sud inizia infatti il processo di scientifica rapina e di saccheggio dei beni e delle ricchezze del Mezzogiorno e della Sicilia e degli inenarrabili massacri a cui furono sottoposte le popolazioni dei territori “conquistati”.
Quando il massone Garibaldi si mise a disposizione della Chiesa di Roma. E gli storici? Tacciono…, scrive Ignazio Coppola il 10 febbraio 2016 su "I Nuovi Vespri". Solo in Italia, per oltre 150 anni, verità storiche con tanto di testimonianze scritte possono essere nascoste dagli storici di regime. Così, ancora oggi, i libri di storia continuano a negare i fatti. Pensate: il ‘condottiero’ protagonista della breccia di Porta Pia, anni prima, aveva mosso la sua spada a disposizione della Chiesa di Pio IX che gli disse no. In cambio di denaro era pronto, sono parole sua, “servire il Papa, il Duca, il demonio, basta che fosse italiano e ci desse del pane”. E l’hanno fatto ‘padre della patria’ intestandogli viene scuole…Forse non tutti sanno che Giuseppe Garibaldi il massone dei due mondi e primo massone d’Italia si mise per fame, per bisogno e necessità a disposizione del Papa e della Chiesa. A tal proposito vi raccontiamo la storia dell’eroe dei due mondi e il suo lungo e travagliato excursus di adesione alla massoneria e la sua contraddittoria disponibilità, lui massone impenitente, di mettere la sua spada al servizio di Pio IX e della Chiesa romana. Ma cominciamo dall’inizio. Appunto dalla sua iniziazione alla “Fratellanza Universale” che avvenne nelle lontana America del Sud, a 37 anni, nel 1844 per poi concludersi con la sua consacrazione a Gran Maestro nel 1864. Il primo approccio di Giuseppe Garibaldi alla Massoneria avviene nel 1835, ai tempi della sua permanenza in Brasile, in seguito alla frequentazione dell’amico e compatriota Livio Zambeccari, a sua volta affiliato alla loggia massonica di Porto Alegre, ai tempi della Repubblica del Rio Grande do Sul. In seguito, prenderà maggiore dimestichezza con “cappucci, grembiuli, mattoni e cazzuole”, iscrivendosi, nel 1844, a Montevideo alla loggia L’asil de la virtude (loggia irregolare). Sempre nello stesso anno e nella stessa città, aderisce alla loggia Les amis de la patrie sotto il Grande Oriente di Francia. Nel 1850, frequenta le logge massoniche di New York, per poi ritrovarsi negli anni 1853/54 “alloggiato” alla Philadelphes di Londra. Ma è nel 1859 che in Italia è autorevole protagonista della ricostituita loggia del Grande Oriente d’Italia insieme, tra gli altri, a Cavour, a Filippo Cordova, a Massimo D’Azeglio e al gran maestro Costantino Nigra. Siamo nella immediata vigilia della spedizione in Sicilia e, come abbiamo visto, le massonerie di Londra e Torino, preparandola a puntino, avranno un ruolo determinante e incisivo per la buona riuscita dell’impresa. A Garibaldi, entrato da “conquistatore” nella capitale dell’Isola, nel giugno del 1860 verranno conferiti, dal Grande Oriente di Palermo, tutti i gradi della gerarchia massonica (dal 4° al 33°) e la nomina a Gran Maestro. Officianti della cerimonia, che si svolse a Palazzo Federico, in via dei Biscottari, Francesco Crispi e altri cinque fratelli massoni. Alcuni giorni dopo, sempre a Palermo, il neo Gran Maestro, in virtù del massimo grado appena attribuitogli dalla gerarchia massonica, firma le proposte di affiliazione del figlio Menotti (1 luglio 1860) e di alcuni autorevoli componenti il suo stato maggiore: Giuseppe Guerzoni, Francesco Nullo, Enrico Guastella e Pietro Ripari (3 luglio 1860). Il nostro eroe, da buon stakanovista della Massoneria, come vediamo, ha il suo bel da fare. In una lettera inviata ai “fratelli” di Palermo, il 20 marzo 1862 scriveva di “avere (…) assunto di gran cuore il supremo ufficio conferitogli e ringraziava i liberi fratelli per l’appoggio che essi avevano dato da Marsala al Volturno nelle grande opera di affrancamento delle province meridionali. La nomina a Gran Maestro rappresentava, come scrisse, la più solenne delle interpretazioni delle sue tendenze, del suo animo, dei suoi voti, lo scopo per cui aveva mirato tutta la sua vita. Ma il culmine della sua carriera massonica Garibaldi lo raggiungerà a Firenze, nel maggio del 1864. I settantadue delegati della prima costituente massonica, riunitisi nella città in riva all’Arno, lo elessero, a stragrande maggioranza, Gran Maestro dei Liberi Muratori comprendente i due riti, scozzese e italiano. Ma, a causa di divergenze e divisioni tra le varie anime del massimo organo della Massoneria, non durerà che pochi mesi nella suprema carica. Gli succederà Ludovico Frappolli. Nel maggio del 1867, in una successiva assemblea tenutasi a Napoli, a sua parziale consolazione, verrà eletto Gran Maestro Onorario. Nel 1881, infine, a poco meno di undici anni dalla sua morte, ottenne la suprema carica del Gran Hierofante del rito egiziano del Menphís Misrain. Come dicevamo all’inizio, da quanto abbiamo visto, Garibaldi più che eroe dei due mondi può definirsi a pieno titolo il “massone dei due Mondi”. V’è da credere che nella storia della Massoneria nessuno quanto lui abbia avuto più affiliazioni nelle varie logge sparse nel mondo. Roba da guiness dei primati. Eppure, i libri di testo delle nostre scuole, ipocritamente e in mala fede, continuano a ignorare questa sua appartenenza, come protagonista e figura di primo piano delle consorterie massoniche di mezzo mondo, e il ruolo pregnante che la Massoneria ha avuto e ha continuato ad avere sino ai nostri giorni nella storia del nostro Paese. Come altrettanto ipocritamente e in mala fede, nel mancato rispetto della verità storica, tutto questo è stato sempre sottaciuto in occasione delle celebrazioni del bicentenario della sua nascita e delle celebrazioni di qualche anno fa dell’Unità d’Italia. In dispregio alle verità ed alla trasparenza della storia, abbiamo bisogno di eroi a ogni costo sotto le mentite spoglie di massoni, mercenari, avventurieri e predoni. Tra le mancate virtù di Garibaldi a questo punto, ci piace infine sottolineare e ricordare quella della sua incoerenza: come dire, era suo solito, del predicare bene e razzolare male. Siamo a Montevideo nel 1847 mentre, con poca gloria, si sta esaurendo la sua esperienza uruguaiana. Avendo nostalgia dell’Italia e alla ricerca, da buon mercenario ed avventuriero, di un nuovo padrone cui mettere a disposizione la propria spada e i propri compagni d’arme, non trova di meglio che proporsi, egli massone, anticlericale e mangiapreti impenitente, al servizio della Chiesa e di Pio IX. Nell’agosto di quell’anno così scrive a un suo amico: “Io più che mai, siccome i compagni non aneliamo ad altro che al ritorno in patria comunque sia. Dunque, mio amico, se vedeste fosse possibile servire il Papa, il Duca, il demonio, basta che fosse italiano e ci desse del pane. Siamo pronti a qualsiasi condizione purché non indecorosa”. E con questa propensione all’asservimento alla Chiesa ed a Pio IX cosi scrive il 12 ottobre 1847 a monsignor Gaetano Bedini, nunzio apostolico a Rio de Janiero con giurisdizione sui paesi platensi: “Offro a Pio IX la mia spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa. Ricordando (egli sempre massone, ateo e anticlericale) i precetti della nostra augusta religione sempre nuovi e sempre immortali, pur sapendo che il trono di Pietro riposa sopra tali fondamenti che non abbisognano di aiuto, perché le forze umane non possono scuoterli”. Monsignor Bedini, a nome di Pio IX, rispose con molti ringraziamenti e gentilezza, declinando l’offerta di Garibaldi e della legione Italiana. Più avanti, Garibaldi, come era nella sua indole, non dimostrando altrettanta cortesia, definirà Pio IX e i preti un mucchio di letame. Salvo poi, dopo la conquista della capitale della Sicilia, il 15 luglio del 1860, in occasione della festa di santa Rosalia, non aver alcun pregiudizio, egli mangiapreti e impertinente massone, a sedere sul più alto trono della Cattedrale di Palermo per ricevere l’incenso dall’arcivescovo di quella città, secondo la tradizionale cerimonia della così detta “cappella reale” simboleggiante i poteri della Legazia Apostolica. E lo ritroviamo, poco meno di un mese dopo, a Napoli, con altrettanto fervore religioso, rendere omaggio, se pur Gran Maestro Venerabile della Massoneria, alla Madonna Venerabile nella chiesa di Piedigrotta ed a un breve discorso del sacerdote officiante rispose con parole di devoto amore alla religione cristiana e alle sue grandi e sublimi verità. Il 10 giugno, infine, rispettando le consuetudini religiose di questa città, dispose la celebrazione della ricorrenza del patrono San Gennaro, presenziando autorevolmente assieme agli alti prelati della chiesa napoletana al miracoloso scioglimento del sangue del santo. Misteri della fede massonica o cattolica dell’eroe dei due mondi. Fate voi. Ai lettori l’ardua sentenza.
Ma quale gloriosa battaglia di Calatafimi! Solo imbrogli e tradimenti. In stile Garibaldi, scrive "Ignazio Coppola" il 5 gennaio 2016 su "I Nuovi Vespri". In un reportage La Repubblica edizione di Palermo, per la firma di Gianni Bonina, ripropone Garibaldi e la battaglia di Calatafimi. Presentata come una vicenda ‘eroica’. Ragazzi, ormai lo sanno pure le pietre che Garibaldi ‘vinse’ sta battaglia-farsa grazie al tradimento del generale Landi. Altro che gloria! E’ di questi giorni sulla pagina culturale de La Repubblica edizione di Palermo un reportage a puntate dal titolo “Sulle orme dei garibaldini – l’isola in camicia rossa” a firma di Gianni Bonina che va dallo sbarco di Marsala l’11 maggio 1860 e via via descrivendo ad usum delphini tutta l’impresa dei Mille di Garibaldi in Sicilia, con particolare riferimento alla battaglia di Calatafimi pubblicata domenica 31 Luglio. Ebbene, anziché ripetere falsità storiche, come ormai da 156 anni a questa parte ci propinano gli storiografi di regime, il nostro poco attendibile “storico” autore del reportage sui Mille avrebbe fatto meglio a documentarsi e trarre le debite conclusioni su come realmente si svolse la battaglia farsa di Calatafimi. E su come questa battaglia farsa, come tante altre, rientra appunto nell’alveo di quelle verità storiche sottaciute o, peggio ancora, mistificate e contrabbandate come epiche gesta da tramandare ai posteri con frasi ad effetto come quella: “Qui si fa l’Italia o si muore” che a quanto pare Garibaldi non ha mai pronunciato. Una battaglia farsa, quella di Calatafimi, decisa, dal tradimento e dalla corruzione del generale Landi e non dal valore dei garibaldini. Decisiva e galeotta, infatti, fu una “fede di credito” di 14.000 ducati (poi addirittura risultata taroccata e falsa all’atto della riscossione), pagata a Landi dallo stesso Garibaldi. Vicenda in seguito confermata dallo stesso Landi, per cui 3000 borbonici ben addestrati e ben armati s’arresero a circa 1000 garibaldini poco avvezzi all’uso delle armi e animati solamente da spirito d’avventura. Per cui l’episodio della corruzione del generale Landi fu l’unico decisivo e squallido elemento delle sorti della battaglia di Calatafimi. Del resto basta rileggere, a conferma di questo, quanto scritto dagli storiografi al seguito dello stesso Garibaldi per rendersi bene conto di quello che inaspettatamente e scandalosamente avvenne a Calatafimi. Scrive Cesare Abba nel suo diario Da Quarto al Volturno: “E proprio quando pensavamo di avere perso, alla fine ci parve un miracolo avere vinto” (il miracolo della fede di credito frutto della corruzione). E ancora Francesco Grandi nel suo diario I garibaldini testualmente riporta: “Ci meravigliammo non credendo ai nostri occhi e alle nostre orecchie, quando ci accorgemmo che il segnale di abbandonare la contesa, come avevamo temuto, non era lanciato dalla nostra tromba, ma da quella borbonica”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’amministratore della spedizione dei Mille, lo scrittore Ippolito Nievo, il quale nelle sue memorie ebbe a meravigliarsi di una vittoria, giunta, quanto mai inattesa. L’inusuale ritirata di 3000 borbonici al cospetto di 1000 garibaldini male in arnese, trova dunque la sua logica giustificazione nel prezzo della corruzione che Garibaldi pagò a Landi, e dallo stesso successivamente confermato, perché inopinatamente e inaspettatamente desse alle sue truppe l’ordine di ritirasi. E di tutto questo il buon Gianni Bonina avrebbe fatto meglio a documentarsi, magari rileggendosi un articolo scritto proprio su La Repubblica di Palermo qualche anno fa dallo storico Salvatore Falzone dal titolo: “La battaglia di Calatafimi - Eroismo o tradimento? - Battaglia o pagliacciata?” prima di riproporci nel suo reportage lo scontro - farsa di Calatafimi come una epica battaglia da tramandare ai posteri. E proprio ora di finirla.
Quando casa Savoia, 155 anni fa, fece fucilare Angela Romano, una bambina di 9 anni, scrive "Ignazio Coppola" l'1 gennaio 2017 su "I Nuovi Vespri". Parliamo della rivolta dei Cutrara, andata in scena nei primi giorni di gennaio di 155 anni fa a Castellammare del Golfo. Fu la rivolta dei poveri Siciliani, che non volevano passare cinque anni della loro vita al servizio dell’esercito piemontese. I giovani delle famiglie ricche pagavano e venivano esentati dalla leva. I poveri dovevano piegarsi alla prepotenza di casa Savoia. Da qui la ribellione repressa nel sangue dai ‘galantuomini’ di Torino. Che passarono per le armi vecchi, donne e persino una bambina. Una storia di violenza e di crudeltà che i libri di storia del nostro Paese ignorano. Ricorre in questi primi giorni di gennaio il 155° anniversario della rivolta dei “Cutrara”. Una rivolta che, per parecchi giorni, agli albori dell’unità d’Italia, insanguinò Castellammare del Golfo. Avvenimenti dei quali, come è spesso successo nella storia del nostro Paese, s’è persa la memoria e ogni traccia. Una vicenda che gli abitanti di questa cittadina siciliana del Trapanese, attraverso associazioni culturali e le istituzioni locali, con varie iniziative, meritoriamente stanno cercando di riportare alla luce squarciando così un pietoso velo che sinora ha condannato all’oblio quei tragici avvenimenti che, proprio perché facenti parte della nostra storia, ci sembra opportuno ricordare. Il primo gennaio del 1862, a poco meno di un anno dalla proclamazione del regno d’Italia, buona parte degli abitanti di Castellammare del Golfo, stanchi delle sopraffazioni e dei soprusi subiti in così breve tempo, sopratutto per le esose tassazioni e l’imposizione del servizio militare obbligatorio, scese in piazza al grido di “Abbasso la leva e morte ai Cutrara”. La causa scatenante della rivolta fu data, appunto, dall’introduzione della lunga leva militare obbligatoria (alla quale sotto il Borbone i siciliani erano esenti) la cui legge istitutiva, pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale del 30 giugno 1861, prevedeva discriminatamene che i figli dei poveri, non potendosi comprare l’esenzione, prevista dalla legge, erano costretti ad una lunga leva di ben 5 anni, mentre al contrario ai figli dei ricchi – appunto i Cutrara (cappeddi o galantuomini) – potendoselo permettere e pagando profumatamente venivano esentati. Il primo gennaio 1862, esattamente 155 anni addietro, gran parte della popolazione capeggiata da due popolani Francesco Frazzitta e Vincenzo Chiofalo insorse contro questo stato di cose e contro queste ingiustizie. Dopo avere piantato una bandiera rossa al centro del paese si pose alla caccia dei notabili locali – per l’appunto i Cutrara – i nobili e i borghesi, simbolo di queste discriminazioni e di questi privilegi. Furono assaltate la abitazioni del commissario alla leva, Bartolomeo Asaro, e del comandante della guardia nazionale, Francesco Borruso, che vennero catturati catturati ed uccisi e le loro case bruciate. Eccessi esecrabili di una popolazione esasperata da vessazioni ed ingiustizie. Fatti che non possono certo giustificare le rappresaglie e gli eccidi da parte dei piemontesi sbarcati su due navi da guerra con centinaia di bersaglieri nel porto di Castellammare. Militari inviati dal generale Govone al comando dal generale Pietro Quintino, un ex garibaldino che, anziché porsi alla caccia dei colpevoli, non trovò di meglio che passare per le armi, in dispregio ad ogni elementare norma di umanità e legalità, uomini, vecchi, donne e persino un’innocente bambina di appena 9 anni, Angela Romano. Innocenti, rastrellati dalle truppe piemontesi in contrada Villa Falconeria, alla periferia del paese, e massacrati. Vigliaccheria allo stato puro. Gli altri cittadini fucilati alle ore tredici di quel maledetto venerdì 3 gennaio 1862 furono Mariano Cruciata, di 30 anni, Marco Randisi di 45 anni, il sacerdote Benedetto Palermo, di 46 anni, la contadina Anna Catalano, di 50 anni, e i vecchi Angelo Calamia e Antonino Corona, entrambi di 70 anni. A distanza di poco meno di due anni si ripetevano a Castellammare, ad opera dei piemontesi, con pedissequa ferocia e con una sconcertante crudeltà, gli eccidi andati in scena a Bronte perpetrati da Nino Bixio contro ogni aspettativa di libertà, di giustizia e di affrancamento dalla miseria: richieste che i siciliani avevano all’arrivo dei garibaldini prima e dei piemontesi dopo. Di recente, in memoria degli atti di crudeltà perpetrati dai piemontesi le Amministrazioni comunali di Castellammare del Golfo e di Gaeta hanno deciso di intitolare una via cittadina ad Angelina Romano, la più giovane delle incolpevoli e inconsapevoli vittime di quell’esecrabile eccidio. La rivolta di Castellammare del gennaio del 1862 fu poi, quattro anni dopo, propedeutica della grande rivolta palermitana del settembre del 1866 così detta del “Sette e Mezzo” che costò miglia e migliaia di vittime a causa della repressione piemontese (qui potete leggere l’articolo sulla rivolta del “Sette e mezzo” scritto, sempre da Ignazio Coppola, nel settembre dello scorso anno). Rivolte puntualmente ed ipocritamente secretate e ignorate dai testi scolastici e dalla storiografia ufficiale. Questo, ancora una volta, fu il contributo di sangue innocente dato dai meridionali e dai siciliani alla causa dell’unità nazionale. E proprio per questo sarebbe giusto, oltre che festeggiare e celebrare enfaticamente – come spesso avviene -episodici retorici dell’unità d’Italia, ricordare quei morti e quelle vittime innocenti che furono immolate, loro malgrado, al processo unitario. Ed è quello che, con molto merito per rimuovere una damnatio memoriae che per lungo tempo li ha condannati all’oblio, hanno fatto in questi ultimi tempi i cittadini di Castellammare del Golfo, commemorando e ricordando le vittime della rivolta dei cutrara del gennaio del 1862. In piena sintonia con quanto sosteneva Leonardo Sciascia: “Questo è un Paese senza memoria e io non voglio dimenticare”. Ed è per non dimenticare che i Siciliani sono impegnati alla costante ricerca della loro perduta memoria storica.
L’impresa dei Mille vista da Antonio Gramsci: una mistificazione che ha ridotto in schiavitù la Sicilia e il Sud, scrive il 2 aprile 2017 Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri. Quello che ha capito veramente la natura truffaldina dell’impresa del Mille è stato Antonio Gramsci. Se Federico De Roberto, alla fine dell’800, nel romanzo ‘I Vicerè’, mette a nudo la disillusione e l’ipocrisia dell’unificazione italiana, l’intellettuale sardo – grande conoscitore della questione meridionale – vede nell’impresa dei Mille la totale assenza del popolo. Per lui il Sud viene conquistato dai Piemontesi (“conquista regia”) per fare gli interessi del Nord, sulla pelle delle genti del Sud. Nel contesto di quelle che, troppo spesso, sono retoriche manifestazioni sul Risorgimento, tra celebrazioni, polemiche e trionfalismi sarebbe opportuno ricordare quel che del Risorgimento e dell’impresa dei Mille ne pensasse e scrisse un grande intellettuale di sinistra del secolo scorso come Antonio Gramsci, che certo non si può tacciare di derive separatiste, antiunitarie o filo borboniche. Gramsci, nel suo autorevole e lucido saggio intitolato appunto Sul Risorgimento, definisce la spedizione dei Mille una “radunata rivoluzionaria” che fu resa solo possibile per il fatto che Garibaldi s’innestava nelle forze statali piemontesi prima e poi che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala e la presa di Palermo e sterilizzò la flotta borbonica. Gramsci, in buona sostanza, nel suo autorevole saggio sul Risorgimento, non faceva altro che delegittimare la “gloriosa” spedizione garibaldina evidenziando che non fu altro che una grande mistificazione storica. E fu con questa radunata rivoluzionaria, che Gramsci chiama “rivoluzione passiva”, o meglio ancora “rivoluzione-restaurazione”, che trionfò la logica gattopardiana che tutto avvenne perché nulla cambiasse. Una “rivoluzione-restaurazione” che fa dire allo scrittore e all’uomo politico sardo che, nel suo contesto, il popolo ebbe un ruolo molto marginale, anzi subalterno, così che il Risorgimento si caratterizzò come “conquista regia” e non come movimento popolare, perché appunto mancava al popolo una coscienza nazionale. Di questa mancanza di coscienza nazionale, sulla stessa lunghezza d’onda di Gramsci, ce ne parla il giornalista, scrittore e saggista Paolo Mieli nel suo interessante saggio di qualche tempo fa: Storia e politica. Risorgimento, Fascismo e Comunismo, il quale, nel capitolo dedicato al Risorgimento, frutto di approfondite ricerche storiche (Ernesto Ragionieri, Gabriele Turi, Fulvio Camarrano, Giorgio Candeloro e altri) perviene alla analoga conclusione di Antonio Gramsci, ossia un Risorgimento realizzato da una “elite” in cui il popolo non fu per niente protagonista e proprio perché “elite”, riuscì a creare un’area di consenso popolare assai ristretta o quasi nulla. “Dal 1861- sostiene Meli – dunque il popolo, anziché essere una riserva di consenso, costituì un problema per le elite che fecero l’Italia, con conseguenze drammatiche nella definizione dei modi di fare e di intendere la politica”. Paolo Mieli, in premessa, prende in esame l’arco di tempo che va dalla fine delle Settecento all’inizio dell’Ottocento e dei movimenti popolari che li caratterizzarono (sanfedismo ed insorgenze) sino all’Unità d’Italia. Arco di tempo in cui vennero poste le basi del Risorgimento. Ebbene, saltano fuori alcuni “temi scomodi” della nostra storia patria che la agiografia ufficiale ed i testi scolastici hanno sempre occultato. A differenza di quanto avvenne nelle rivolte sanfediste e delle insorgenze, in cui il popolo fu protagonista attivo di quelle lotte e di quelle rivolte, nel Risorgimento, al contrario, registriamo la quasi totale assenza di un consenso popolare e di partecipazione alla sua realizzazione. Insomma, che il popolo non fu mai un soggetto protagonista, ma in alcuni casi avverso alle lotte e agli ideali del Risorgimento, ne è esempio emblematico ciò che accadde a Carlo Pisacane, ucciso e massacrato a Sanza insieme ai suoi compagni dopo la sbarco a Sapri nel luglio del 1857 da quegli stessi popolani e contadini che voleva liberare ed affrancare dalla “tirannide” borbonica. E mal gliene incolse. In questo vuoto di coscienza nazionale e nella estraneità del popolo al moto unitario fu così possibile ai moderati cavourriani dirigere il processo di unificazione, e modellarlo ai propri fini e ai propri interessi in chiave antimeridionalista e a tutela degli interessi del Nord, cosa che dura sino ai nostri giorni, con la creazione di un nuovo Stato che di questi fini e di questi interessi ne fu portatore. Con la “rivoluzione-restaurazione” il Piemonte assume una funzione di “dominio” e non di dirigenza reale e democratica di un processo di rinnovamento che in effetti non ci fu. Si passò, nelle regioni meridionali, dall’assolutismo paternalistico borbonico al costituzionalismo repressivo piemontese.
“Dittatura senza egemonia”, opportunamente la definisce ancora Gramsci, che fece pagare al Sud e alla Sicilia, sotto tutti i punti di vista repressivi ed economici, il prezzo più alto. Ed a proposito delle repressioni e degli eccidi operati dai piemontesi nel Mezzogiorno subito dopo l’Unità d’Italia – repressioni ed eccidi che vanno impropriamente sotto il nome di lotta al brigantaggio, mentre in effetti di una vera e propri guerra civile, una lotta dei contadini contro i piemontesi – ancora una volta Gramsci, nel 1920, in un suo puntuale articolo su Ordine Nuovo, scrive: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare chiamandoli briganti”.
Per questo credo che per un’obiettiva rivisitazione storica degli avvenimenti, dei vizi d’origine e delle cause di debolezza che portarono a una mal digerita e mai metabolizzata Unità d’Italia sia oggi più che mai opportuna. Ben venga, insomma, una attenta rilettura degli scritti di Gramsci e di tanti altri autori sull’argomento, perché al di là di celebrazioni retoriche e trionfalistiche, per rispetto della verità storica, siano anche, in tal modo, consentiti, a ognuno di noi e ad alcuni storici, significativi e doverosi momenti di riflessione. In tal senso che vanno riletti gli scritti di tanti storici ed economisti quali, tra gli altri: Giorgio De Sivo, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Carlo Alianello, Nicola Zitara, Gigi Di Fiore, Lucy Riall, Michele Topa, Lorenzo Del Boca, Pino Aprile e tanti altri che, con il tempo, divengono sempre di più. Scrittori che, sino ai nostri giorni, si sono cimentati nel ricostruire, in un processo di revisionismo storico, quelle verità che purtroppo ci sono state per lungo tempo negate dagli storici di regime. Ripercorrere la storia attraverso queste riletture e ribadire, a differenza da quanto propinatoci dalle storiografie e dalle iconografie risorgimentali ufficiali, che il processo unitario si è realizzato sulla pelle e con il contributo delle genti del Sud, che Garibaldi non fosse tanto eroe più di quanto lo si è dipinto sinora, che Vittorio Emanuele II° non fu affatto il re galantuomo riportato enfaticamente sui libri di storia e che i piemontesi non furono tanto liberatori quanto conquistatori e massacratori delle popolazioni del Sud e che la “questione meridionale” è sorta con l’occupazione manu militari del Mezzogiorno d’Italia, significa, in contrasto ad una cultura storica negazionista, con un atto di verità, rendere giustizia alle popolazioni meridionali e alla Sicilia che ,al processo unitario, hanno sempre dato il loro peculiare contributo. Insomma è proprio l’ora di finirla con le bugie!
LA MASSONERIA ED IL RISORGIMENTO.
L'altro volto della storia: l'attacco della massoneria alla civiltà cristiana, scrive Francesco Pio Meola. La nota di Giorgio Vitali. "L'articolo qui sotto, pur provenendo da ambienti del conservatorismo cattolico, è esemplare e assolutamente degno di essere preso in considerazione per le sue implicazioni storiche e politiche. In effetti, per chi vuole fare politica, queste conoscenze sono essenziali, nella misura in cui si riesce con facilità ad individuare le linee di condotta che motivano certi personaggi della politica e quanto di una qualsiasi iniziativa in campo politico nazionale o comunitario la componente "ideologica" primaria sia quella maggiormente determinante nei confronti di una quasi sempre poco probabile, necessità "contingente". Che a motivare i singoli "uomini politici" ad iniziative di grande respiro pubblico siano l'appartenenza a gruppi iniziatici con le loro credenze e le loro pratiche, è ampiamente dimostrato l'appartenenza di questi "politici" a particolari organizzazioni più o meno occulte. Ma il fatto che queste associazioni siano "occulte" non significa nulla, perchè anche gli Organismi, specie quelli internazionali e/o comunitari sono composti da individui selezionati sulla base dell'appartenenza a queste organizzazioni. Non solo, in un libro che consiglio vivamente, ("L'altra Europa", di Giorgio Galli e Paolo Rumor, ed. Hobby & Work, 2010, euro 16,50) si dimostra con documenti attendibili l'appartenenza a gruppi esoterici di varia natura dei cosiddetti "creatori dell'UE". In particolare il "cattolico" Maurice Schumann. Un altro particolare importante è costituito da Giorgio Galli, famoso politologo, anzi il primo vero politologo italiano, che per decenni ha fatto della politologia un elemento di analisi della realtà nazionale e geopolitica. Questo illustre professore universitario, già di area socialcomunista, giunto alla fine della carriera, ha maturato l'esigenza di approfondire gli aspetti "esoterici" dei rapporti politici sia nazionali che comunitari o internazionali. Ciò significa che, partendo con intelligenza dall'analisi di superficie degli avvenimenti, alla fine ha dovuto confrontarsi con una realtà ben più profonda di quanto la sua cultura d'impostazione materialiste e razionalista gli permettesse di "vedere". Nel suo intervento pubblicato nel libro sopra citato, trovandosi a trattare della "Storia", che è una componente essenziale della base culturale su cui si costruisce il comportamento delle èlites, egli scrive: «... La storia, come teoria del comportamento umano, comprende non solo la "decostruzione", ma anche la "costruzione" del mito». In altre parole, è la storia che costruisce il mito, perchè gli storici sono persone per lo più motivate dalla necessità di diffondere specifici "miti", come possiamo ben vedere in questi decenni post- secondo conflitto mondiale, caratterizzati dalla costruzione di miti dal nulla documentale. Infine è necessario ricordare che in un'opera recente, dedicata al movimento teosofico d'inizio novecento, scritta da Marco Pasi dell'Università di Amsterdam, ("Teosofia ed Antroposofia nell'Italia del primo novecento", in Annale 25 della Storia d'ItaliaEinaudi, dedicata all'Esoterismo) si dimostra quanto un movimento come quello citato, poco conosciuto e valutato fino ad oggi, ad esclusione dei seguaci dell'Antroposofia, che aumentano sempre a livello mondiale a fronte delle constatate conferme scientifiche e tecniche legate a quell'impostazione culturale, o dei lettori di "Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo " di J. Evola (prima ed. Bocca, 1931), abbia invece permeato tutti gli aspetti della cultura italiana, dal Futurismo al Fiumanesimo, fino all'elaborazione della pedagogia montessoriana ed all'istituzione del corso universitario di Storia delle Religioni e dello Studio comparato di Storia delle Religioni voluto da Raffaele Pettazzoni che scrisse anche "Teosofia e Storia delle Religioni", per finire col noto Balbino Giuliano, ministro nel 1929, autore del famoso decreto sul "giuramento dei professori". Su questa capacità di una specifica cultura nell'influenzare il corso dei pensieri di una o più generazioni, creando anche èlites capaci di imporre la loro ideologia, sarà utile riprendere il dibattito." Giorgio Vitali.
La massoneria è una setta segreta le cui origini risalgono alle corporazioni medievali inglesi e tedesche dei liberi muratori (operativa). La Massoneria moderna (speculativa) s'ispira agli ideali razionalisti e illuministi di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Fu fondata a Londra il 24 giugno 1717 dal rifugiato ugonotto Thèophile Desaguliers e dal pastore anglicano James Anderson, i quali riassunsero i suoi principi nelle cosiddette Costituzioni. Essa trae origine anche e soprattutto da un patrimonio di scienze occulte che vanno dalla magia egizia e rinascimentale all'ebraismo cabalistico-talmudico, dal platonismo al Manicheismo, dalla tradizione Rosa Croce al vecchio paganesimo naturalista, dall'astrologia alla teosofia, dall'alchimia ad altre fisime minori. Contiene elementi delle vecchie eresie cristiane e si basa sulla fisica newtoniana. E'chiaro come questo concentrato di dottrine esoteriche non poteva che provocare la scomunica della Chiesa, che l'ha condannata per quasi ben 580 volte, detenendo il primato assoluto. L'insieme di tutte queste tradizioni trova unità nella Gnosi. Essa è una speciale conoscenza religiosa dalla quale per rivelazione, indipendentemente dalla fede e dalle opere, deriva la salvezza, ossia da una sorta di "illuminazione", riservata solo a pochi iniziati. Si noti come questa idea sia radicalmente contraria alla fede cattolica, la quale invece proclama che la salvezza è accessibile a tutti. La Gnosi pretende di concepire il reale come qualcosa di totalmente negativo, per cui viene, di conseguenza, la necessità di aspirare a una sorta di palingenesi, di trasformazione totale, da cui potrà realizzarsi un mondo completamente nuovo, e in cui potrà vivere un uomo completamente nuovo, contrassegnato da una perfetta autosufficienza (C. Gnerre). Il fenomeno gnostico è come un fiume carsico, ritornando improvvisamente in auge nelle varie epoche storiche. Pensiamo alle vecchie eresie cristiane, a quella catara soprattutto, la più pericolosa, al modernismo e a tutte le religioni diverse dalla cattolica o ortodossa, Islam e Giudaismo compresi. Lo gnosticismo sostiene l'opposizione tra lo spirito (il bene) e la materia (il male). Gli gnostici sostengono che un Dio buono non può aver creato un mondo così malvagio, quindi la sua creazione è da disprezzare, mentre il principio del male, Satana, sarebbe il dio buono, il serpente che sedusse Eva e che indusse al peccato Adamo. Da qui la leggenda massonica di Adamo come "primo iniziato", e come lui sono considerati Gesù, S. Giovanni Battista (la Massoneria è nata il 24 giugno), Mosè, Maometto, Buddha, S. Francesco, Lutero, ecc . Per quanto riguarda Cristo e il Battista basta pensare alle folli elucubrazioni gnostiche del "Codice da Vinci" del seguace New Age Dan Brown, mentre S. Francesco oggi è considerato un profeta pacifista ed ecologista. Furono invece influenzati dalla gnosi Lutero, Buddha e Maometto. Mons. Leone Meurin, un sacerdote francese del XIX sec, per tutti questi motivi nella sua opera "La Frammassoneria sinagoga di Satana", considerava la Gnosi il culto di Lucifero, l'angelo decaduto portatore di luce, l'illuminato, il più grande iniziato. In molti testi esoterici Lucifero è accostato a Prometeo, la figura mitologica ribelle a Zeus che voleva donare il fuoco agli uomini, a Dioniso, dio dell'orgia e del divertimento sfrenato, al buddha, inteso come l'individuo iniziato ("buddha" significa appunto "l'illuminato"). I massoni usano chiamarsi tra loro "fratelli"; si distinguono in vari gradi, tra i quali gli apprendisti, i compagni, i maestri, i sublimi cavalieri eletti, i grandi maestri architetti, ecc. Si raccolgono in logge presiedute da un venerabile; più logge associate costituiscono una gran loggia, presieduta da un gran maestro, mentre nell'ambito di uno Stato tutte le logge dipendono da un grande oriente. La Massoneria venera un dio impersonale (il "Dio orologiaio" degli illuministi) chiamato Grande Architetto dell'Universo o Essere Supremo. Essa ha vari riti e obbedienze. Tra i riti più importanti ricordiamo quello scozzese, inglese, nazionale spagnolo, egizio (detto anche di Menfi e Misraim), simbolico italiano, swedemborghiano, noachita, ecc. Il più importante è quello scozzese, che si rifà all'esoterismo templare e ha 33°, tra cui i più alti sono quelli dal 18° in poi. Quando si parla di templarismo in massoneria in realtà viene ripresa una tradizione in parte errata, scorretta e diffamatoria. L'obbedienza più importante al mondo è quella che fa capo alla Gran Loggia Unita d'Inghilterra, detta anche "Sancti Quatuor Coronati", che ha per gran maestro il duca di Kent (attualmente è il principe Edoardo Windsor). Per le sue posizioni deiste, non riconosce la maggiore obbedienza francese, il Grande Oriente di Francia, che è violentemente antireligiosa e ammette anche gli atei. Le massonerie scandinave hanno una particolarità: riconoscono come gran maestro il re dei loro rispettivi stati; ad esempio in Svezia è l'attuale re Carlo Gustavo XVI. Esistono anche massonerie esclusive come la Prince Hall negli USA che ammette solo personalità afroamericane, di cui ne fa parte il presidente americano Barack Obama, oppure la B'nai B'rith, riservata ai soli ebrei. Caratteristiche fondamentali delle logge sono la segretezza e l'esclusione delle donne, anche se ci sono obbedienze rigorosamente femminili o addirittura miste come la Gran Loggia d'Italia di piazza del Gesù. L'Inghilterra di inizio '700 era vista dalla nobiltà liberale europea un faro di civiltà, soprattutto per il suo ordinamento monarchico-costituzionale. Le caste aristocratiche illuminate anglofile erano ambiziose e gelose delle prerogative tradizionali dei re e volevano limitarle. Si studiavano i principi costituzionali britannici con l'ansia di esportare gli ideali illuministi. La nobiltà europea era affascinata dal costituzionalismo, dal deismo, dalla tolleranza religiosa e dal liberismo economico. Insieme a tutte queste suggestioni provenienti da oltre Manica, cominciò a diffondersi la massoneria, dapprima in Olanda, Francia, Germania (Hannover) e poi negli altri paesi europei, tra cui l'Italia; il primo libero muratore italiano fu il medico beneventano Antonio Cocchi, iniziato a Firenze nel 1732 alla loggia detta "degli Inglesi". In Francia uno degli esponenti dell'aristocrazia anglofila fu il barone Charles de Montesquieu, grande teorico del liberalismo e del costituzionalismo, uno dei padri riconosciuti dell'Illuminismo. La Massoneria francese cominciò quasi subito a rivendicare una certa autonomia, ispirandosi all'esoterismo templare e dandosi un'impostazione di tipo cavalleresca; raccoglieva gli esponenti nobili e alto-borghesi riformatori che si fecero portavoce di quel clima culturale che portò alla stagione dell'enciclopedismo illuminista che ha avuto per protagonisti Diderot, D'Alembert e Voltaire. La critica enciclopedista attaccava la società di Ancièn Règime, la Chiesa Cattolica, vista come fonte di oscurantismo, pregiudizi e superstizione, i privilegi nobiliari che causavano diseguaglianze, la storia passata, considerata inutile e piena di errori; esaltava invece il pensiero scientista, la libertà in tutte le sue forme, l'uguaglianza sociale, il progresso in tutti i campi, la fratellanza tra gli esseri umani e il potere illimitato della ragione, identificata come strumento infallibile di indagine della realtà. Lo spirito corrosivo dei liberi pensatori, impregnato di razionalismo e di scetticismo antireligioso, provocò nel 1738 la scomunica da parte della Chiesa, con la bolla di papa Benedetto XIV. In quegli anni la Massoneria prendeva sempre più, soprattutto in Francia, una piega politica radicale e antidispotica; in Inghilterra si tenne invece favorevole al mantenimento dell'ordine costituzionale, appoggiando il partito liberale whig. Intanto però le logge si diffusero anche nelle colonie americane. Nel 1751 fu pubblicato quel feroce manifesto anticristiano che fu l'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert, diretta emanazione delle logge che preparò una forte ostilità nei confronti della tradizione e del cattolicesimo. Un altro illuminista franco-svizzero, Rousseau, teorizzò la "democrazia totalitaria", ossia il rovesciamento violento dell'ordine costituito in favore di un governo popolare, in cui la moltitudine avrebbe delegato il potere a propri rappresentanti in grado di interpretare "la volontà generale", in pratica la prefigurazione del Terrore giacobino della Rivoluzione francese. Nel periodo pre-rivoluzionario furono pubblicati migliaia di libri, pamphlet, riviste, giornali, tutti tesi a screditare e a diffamare la Corona di Francia e la Chiesa cattolica. Il 1776 fu l'anno dell'indipendenza delle 13 colonie americane dalla madrepatria inglese; i capi del movimento anticoloniale da George Washington a Thomas Jefferson, da Benjamin Franklin a John Adams, erano tutti massoni. Il marchese francese di La Fayette, che era un "fratello" e aveva combattuto a loro fianco, sperava che un giorno anche in Francia si potesse lottare per gli ideali rivoluzionari. La Massoneria francese nel frattempo infiltrava suoi uomini nelle istituzioni ecclesiastiche e a corte: il banchiere ginevrino Jacques Necker, ministro delle finanze di Luigi XVI, il cugino del re, il duca Filippo d'Orléans, detto in seguito anche Philippe Egalitè, per il suo acceso fervore rivoluzionario, Jacques Roux , soprannominato il "curato rosso", e l'abate Sieyès. Obiettivo principale era disintegrare il sistema dal di dentro. L'anno stesso della Rivoluzione americana, il 1° maggio 1776 fu fondata a Ingolstadt, grazie all'appoggio finanziario dei banchieri Rothschild, la società segreta cospiratoria degli "Illuminati di Baviera". Il capo di questa potente e pericolosa organizzazione era un ex gesuita discendente da una ricca famiglia di ebrei convertiti, Adam Weisshaupt. Feroce anticattolico, era seguace dell'Illuminismo ateo e materialista ma allo stesso tempo coinvolto nell'occulto, in particolare della tradizione rosacrociana e templare. L'obiettivo della setta era distruggere le monarchie cattoliche o comunque cristiane e il papato, al fine di instaurare una "repubblica universale". Il disegno dei Rothschild era conquistare tutte le nazioni e assoggettarle al potere delle banche e della finanza, nonché stampare privatamente le monete nazionali (signoraggio). Il loro patrimonio era stimabile di gran lunga superiore alla ricchezza dello stesso re di Francia; erano la famiglia più potente dell'epoca. I congiurati di Weisshaupt entrarono nella massoneria ufficiale. Lo storico Alan Stang attesta che nel 1788 tutte le 266 logge del Grande Oriente di Francia erano sotto il controllo degli Illuminati; il gran maestro era diventato Filippo di Orleans. L'ossessione degli Illuminati era vendicare la condanna a morte dell'ultimo gran maestro templare Jacques De Molay (di cui si dicevano continuatori), fatto giustiziare da re Filippo IV il Bello di Francia il 13 ottobre 1314; il loro progetto era sterminare la "razza dei Capeti", i Capetingi. Prima e durante la Rivoluzione, i massoni si riunivano intorno alla tomba di De Molay per celebrare rituali esoterici e giuramenti di vendetta. Il boia che giustiziò materialmente il 21 gennaio 1793 Luigi XVI era un discendente dell'ultimo gran maestro dell'Ordine del Tempio. Con questo orrendo delitto i giacobini dell'Illuminato di Baviera Maximilien Robespierre scatenarono una feroce persecuzione contro i loro nemici, i controrivoluzionari, accanendosi in particolar modo proprio contro quel popolo di cui tanto si facevano paladini, che invece voleva rimanere fedele ai Borbone e alla Chiesa. La persecuzione antireligiosa era cominciata in maniera più blanda già dopo il 14 luglio 1789, ma con il Terrore giacobino raggiunse vette molto più alte. Beni confiscati, ruberie di stato, chiese distrutte e incendiate, ostie e reliquie profanate, preti imprigionati e massacrati, suore stuprate e uccise, credenti umiliati e trucidati, in nome degli "immortali" principi di Libertè, Egalitè, Fraternitè. Da non dimenticare l'orribile genocidio della Vandea (130.000 morti), che disgustò perfino Babeuf e Napoleone, ma di cui nessuno parla. Questa regione doveva diventare, nelle parole del generale giacobino Westerman, un "cimitero nazionale". Il furore spietato e distruttivo contro la Vandea si spiegava perché era la regione più religiosa e lealista della Francia. P. Augustine Barruel scrisse chiaramente in una sua opera che gli Illuminati avevano complottato contro il Trono e l'Altare. Erano membri della setta Robespierre, il duca di Orléans, Necker, La Fayette, Barnave, il duca di Rouchefoucault, Mirabeau, Fauchet, Clootz e Talleyrand, e appartenevano al Grande Oriente di Francia tutti i principali capi rivoluzionari: Sieyès, Saint-Just, Marat, Danton, Desmoulins, Hèbert (l'ideatore della "scristianizzazione") e Brissot. La scristianizzazione portata avanti da Hèbert, accanitamente antireligiosa, non trovò l'appoggio di Robespierre, che sostenne e impose il culto dell'Essere Supremo e della Dea Ragione. Il capo giacobino sperava in tal modo di rendere "popolari" i principi massonici. All'Ente Supremo, equivalente del Gadu, fu conferito come simbolo un grande e robusto albero, una quercia, che alla fine rappresenta la Natura; notiamo bene che questo simbolo pagano era lo stesso che campeggiava sullo stemma del Pds di Achille Occhetto, che nel 1991 aveva appena abbandonato il vecchio nome di Pci. Alla Dea Ragione fu data l'immagine di una donna con il petto scoperto dove spunta l'occhio onniveggente, altro simbolo cabalistico ed esoterico. Che la Rivoluzione francese fosse influenzata dalla massoneria è dimostrato da più parti: basta controllare il frontespizio dell'Enciclopedia e le fedeli riproduzioni della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, dove le allegorie massoniche sono evidentissime. La reazione del 9 Termidoro che portò alla ghigliottina Robespierre e i suoi seguaci il 27 luglio 1794, segnò l'ascesa al potere dei gruppi borghesi liberal-moderati. Intanto le frange più estremiste si organizzavano, e un triumvirato ultragiacobino composto da Gracco Babeuf, Filippo Buonarroti e Silvain Marèchal, tutti e tre massoni, diede vita alla Congiura degli Eguali del marzo-maggio 1797. La cospirazione fu soffocata nel sangue e Babeuf condannato a morte. Buonarroti e Marèchal continuarono nel segreto la loro attività rivoluzionaria, fornendo insieme a Jakob Kats, un patrimonio politico di rilevante importanza, perché questi gruppi proto comunistici furono gli antesignani diretti del socialismo marxista. L'ascesa di Napoleone Bonaparte segnò l'inizio della conquista massonica dell'Europa. L'esercito francese disseminava logge in tutti i territori occupati, Italia compresa. Il 20 giugno 1805 nacque a Milano il Grande Oriente d'Italia, la più grande obbedienza della penisola, però non riconosciuta dalla Loggia Madre di Londra. In quel periodo nacque anche la Carboneria, una metamorfosi rurale della Massoneria, che ebbe come gran protettore il cugino di Napoleone, Gioacchino Murat, "re" di Napoli e delle Due Sicilie. Scopo delle società segrete italiane era "liberare" l'Italia dai vecchi Stati feudali e dalla Chiesa cattolica. Possiamo scorgere l'azione della Massoneria dietro tutte le rivoluzioni in Europa e in America del 1820-21, 1825, 1830-31 e del 1848. Il Risorgimento italiano, guidato dal massone Cavour e aiutato dai "fratelli" Mazzini, Garibaldi, Manin, D'Azeglio e tanti altri, portò alla "indipendenza" italiana nel 1861. Lo Stato Pontificio fu conquistato solo il 20 settembre 1870 con la breccia di Porta Pia per opera dei bersaglieri dell'esercito sabaudo, nonostante l'eroica resistenza di papa Pio IX, spesso ingiustamente accusato dalla storiografia progressista come un anti-italiano. Anzi, esisteva un progetto dello stesso pontefice volto ad unificare in maniera federativa gli Stati italiani, onde evitare il pericolo di una rivoluzione laicista e anticlericale. Fatto sta che dal 1870 al 1929 il papa è stato prigioniero in Vaticano e che dal 1861 al 1922 il Regno d'Italia è stato governato da un regime oligarchico e liberal-massonico, nonostante il patto Gentiloni-Giolitti del 1913. Dalle società segrete socialiste francesi che avevano dato vita alla congiura di Babeuf emigrate in Germania, nacque nel 1834 la Lega dei Proscritti. Questi gruppi cospiratori discendevano in linea diretta dagli Illuminati di Weisshaupt. Nel 1836 ci fu una scissione all'interno dei Proscritti; nasceva così la Lega degli Uomini Giusti. Nel 1840 circa, entrarono a far parte di questo gruppo Kiessel Mordechai Levi, alias Karl Marx e Friederich Engels, i padri del comunismo. Marx, secondo la notizia riportata sulla rivista massonica italiana "Hiram" il 1° maggio 1990, fu iniziato alla loggia "Apollo" di Colonia. Nel 1847 gli Illuminati inglesi affidarono ai due filosofi il compito di rielaborare i principi di Weisshaupt e Babeuf in forma nuova e scientifica, mentre i fondi necessari per la pubblicazione del "Manifesto Comunista" del 1848 provennero da Clinton Roosevelt e Horace Greely (avo di Hjalmar Schact, ministro dell'economia del Terzo Reich), entrambi membri della loggia "Columbia", fondata a New York dagli Illuminati bavaresi. Le agitazioni rivoluzionarie fomentate da comunisti, socialisti, anarchici e radical-democratici sfociarono nella Comune di Parigi del 1871, un violento rivolgimento politico indirizzato contro il governo del conservatore Adolphe Thiers. La rivolta fu domata in poche settimane. A cavallo tra l' '800 e il '900 i principali governi europei e americani erano anticlericali, soprattutto la Francia e l'Italia, egemonizzati da partiti liberal-moderati, progressisti e radical-socialisti. Durante la cosiddetta "belle èpoque" (1900-1914) le logge studiavano come disfarsi dei governi autocratici che ancora resistevano dopo le ondate rivoluzionarie ottocentesche; gli obiettivi da abbattere erano l'Impero Austro-Ungarico, la Germania del Kaiser, la Russia zarista (sconvolta da attentati e moti fino a prima del 1914), ma anche la Turchia Ottomana. L'odio di grembiulini e rivoluzionari era concentrato soprattutto contro gli Asburgo d'Austria, visti come eredi dei Carolingi e del Sacro Romano Impero Germanico, fondatore dell'Europa cristiana. L'Impero asburgico era multietnico e si volevano strumentalizzare le rivendicazioni per l'indipendenza di alcune nazionalità: i serbi ortodossi alleati della Russia, i cechi, gli slovacchi, ma anche l'élite ebraica che mal sopportava essere governata da una dinastia cattolica. Gli ebrei sostenevano il Partito Socialdemocratico, guidato dal loro correligionario Viktor Adler, il cui figlio Friederich uccise il primo ministro Stürgkh. La Massoneria internazionale voleva un grande scontro sul continente che avrebbe dovuto portare alla federazione repubblicana degli Stati europei. Il 28 giugno 1914 il terrorista ebreo serbo Gavrilo Princip appartenente alla società segreta della "Mano Nera" e alla setta democratica "Giovane Serbia", uccise l'erede al trono d'Austria il granduca Francesco Ferdinando e la moglie a Sarajevo, provocando lo scoppio della Prima guerra mondiale. Gli schieramenti erano questi: da una parte gli Imperi centrali, Austria - Ungheria, Germania e Turchia Ottomana, dall'altra la Triplice Intesa che comprendeva Inghilterra, Francia, Russia (poi costretta ad abbandonare per lo scoppio della Rivoluzione bolscevica) e più tardi Italia e Stati Uniti. La Grande Guerra si concluse con la vittoria delle potenze massoniche e la distruzione dei vecchi imperi europei. L'Austria – Ungheria fu smembrata e la Germania umiliata. Ottennero l'indipendenza la Cecoslovacchia, guidata dai "fratelli" Beneš e Masaryk, la Polonia, l'Ungheria e il Regno di Jugoslavia. L'Impero Ottomano fu lentamente logorato all'interno con la presa del potere dei "Giovani Turchi" nel 1908, una setta democratica modernizzante i cui membri risultavano affiliati alla loggia "Macedonia Resurrecta" di Salonicco. Il governo massonico turco pianificò il genocidio armeno nel 1915; furono trucidati 1.500.000 di armeni. Con la fine del conflitto l'Impero si sfaldò. Nel 1923 il generale massone Kemal Atatürk abolì definitivamente il sultanato; nasceva così la Repubblica di Turchia, profondamente occidentalizzata e proiettata verso l'Europa. La Russia fu sconvolta dalla Rivoluzione di febbraio che spodestò lo zar Nicola II, guidata dai massoni L'vov e Kerenskij, affiliati alla Gran Loggia di Russia. La rivolta di febbraio ebbe un carattere liberale e socialdemocratico. Ma il 25 ottobre successivo il potere fu preso dai comunisti bolscevichi, capitanati dagli altrettanti "fratelli" Lenin, Trotzkij, Zinov'ev, Parvus, Litvinov, Bucharin, Sverdlov, Lunačarskij, Radek, Rakowskij, Krasin, tutti iniziati al Grande Oriente di Francia; è forse da escludere l'appartenenza di Stalin, il quale non risulta affiliato. Lenin fu iniziato a Parigi nel 1908 alla loggia "Union de Bellevillle" e ottenne il 31° grado. Il governo sovietico del 1920 era molto particolare: su 21 Commissari del Popolo 17 erano di origine ebraica; su 545 funzionari di Stato, 447 erano ebrei. In effetti la comunità israelitica vedeva di buon occhio la Rivoluzione nel paese degli zar. Non è un mistero che essa fu finanziata da ambienti ebraici anglosassoni nordamericani ed europei contigui alla B'nai B'rith tramite Parvus (Rockefeller, Morgan, Kuhn & Loeb, Rothschild, Schiff, Warburg). Molti correligionari però, appartenenti alla piccola borghesia, furono ferocemente perseguitati e spogliati dei beni perché conservatori e fedeli al vecchio regime. La "Civiltà Cattolica", autorevole rivista dei gesuiti, parlò di un complotto giudaico-massonico-bolscevico. Il governo comunista di Russia è stato il primo a legalizzare la pratica genocida dell'aborto, voluto dal Commissario del Popolo agli Affari Familiari Goichberg su pressione di Lenin, ispirato a sua volta dal "miliardario rosso" americano Armand Hammer, uomo dei Rockefeller (i più grandi pianificatori del controllo delle nascite a livello globale), maestro dell'ecologista radicale Al Gore. Un grande storico magiaro-francese, François Fejtö, ha ammesso nella sua opera più conosciuta "Requiem per un Impero defunto", il ruolo determinante delle società segrete nello scoppio della Prima guerra mondiale. Gli stessi capi politici delle potenze vincitrici, il democratico Wilson (USA), il liberale Lloyd George (Gb), il radical-socialista Clemenceau (Fra) e il liberaldemocratico Orlando (Ita) erano tutti massoni. Woodrow Wilson fu l'ideatore della Società delle Nazioni, un organismo sovranazionale, antenato dell'ONU, che avrebbe dovuto portare secondo lui alla pace universale e ad un unico governo mondiale; essa avrebbe dovuto riuscire dove il Cristianesimo aveva fallito. Clemenceau era un anticlericale incallito; apparteneva ad una loggia i cui membri si facevano tumulare da morti ritti in piedi, in segno di odio e di sfida contro Dio. Nel '900 particolarmente travagliata è stata la storia del Messico. Scosso da rivoluzioni e da vari rivolgimenti politici (1910-1914), la lotta anticristiana fu molto virulenta. Presidenti massoni come Madero, Carranza, Obregòn, Cardenas e soprattutto Calles furono i protagonisti in negativo di un'epoca. Quest'ultimo scatenò una ferocissima persecuzione, che provocò come reazione la guerra cristera del 1927-1929. Il regime era controllato dal Partito Rivoluzionario Istituzionale, che ideologicamente professava un socialismo di tipo ottocentesco con venature democratico-giacobine; per essere più pratici lo si potrebbe paragonare al Psoe di Zapatero. È unanimemente riconosciuto che la Massoneria messicana, secondo anche la testimonianza di P. Carlos Blanco, è la più anticlericale che esiste. Manovrata dagli USA o da ambienti sinarchici europei vicini alla Spagna e alla Francia, si sforza di dare al Messico un'identità laica e protestante in grado di cancellare le radici cattoliche del paese, viste come il maggiore ostacolo alla fusione di tutte le nazioni americane. Il rapporto tra la Libera Muratoria e i grandi nazionalismi europei è stato piuttosto complesso. In Italia Benito Mussolini nel 1922 mise fine a 61 anni di regime oligarchico - liberale, ma inizialmente già dal 1919, il fascismo godette del sostegno della Massoneria italiana, poiché lo credeva un movimento socialista e nazional-giacobino. Il massone anticlericale Arturo Reghini fu, insieme all'esoterista Julius Evola, il principale assertore del "fascismo pagano". Personalmente il Duce detestava i poteri occulti, e nel 1925 li mise fuori legge, suscitando le ire di Antonio Gramsci. Nonostante ciò, molti gerarchi fascisti erano "fratelli" come Grandi, Balbo, Badoglio, Bottai, Costanzo Ciano, Farinacci, Starace, Sante Ceccherini, Acerbo, ma anche due tecnici del governo come Giuseppe Volpi di Misurata e Alberto Beneduce. La cosa a quanto pare fu sottovalutata da Mussolini che se ne rese conto troppo tardi quando il 25 luglio 1943 fu sfiduciato dal Gran Consiglio da un gruppo di fascisti dissidenti capeggiati da Dino Grandi. Quest'ultimo ha scritto nelle sue memorie che voleva far pagare al Duce e al regime le scelte fatte dal 1936 in poi, anno dell'inizio della guerra civile di Spagna, che vide l'Italia fiancheggiare senza riserve i nazionalisti di Franco, impegnati in una dura lotta al bolscevismo e alla massoneria internazionale. Lo stesso Badoglio si oppose all'entrata in guerra dell'Italia. La massoneria negli anni '30 accentuò la propaganda antifascista, e in molte carte segrete, oggi recuperate, si esprimeva la necessità di abbattere il Duce con una grande alleanza internazionale, che si concretizzò con la Seconda guerra mondiale. In realtà la Massoneria non perdonava al regime anche la stipula dei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, che mettevano fine al decennale contenzioso tra Stato italiano e Chiesa cattolica. Il nazismo di Hitler era profondamente avverso alla massoneria, perché la considerava una pedina degli ebrei. Nonostante ciò, ministro dell'Economia del Reich e presidente della Deutsche Bank era il protestante frammassone Hjalmar Schact, "miracolosamente" sfuggito al processo di Norimberga, evidentemente salvato dai "fratelli" americani, inglesi, francesi e sovietici. Bisogna dire che il nazionalsocialismo fu in parte emanazione di circoli iniziatici pangermanisti e neopagani facenti capo alla loggia "Thule". Molti esponenti nazisti facevano parte di questo gruppo esoterico: Adolf Hitler, Alfred Rosenberg, Otto Rahn, Heinrich Himmler e Rudolf Hess; quest'ultimo apparteneva anche all'Ordine Ermetico dell'Alba Dorata, società d'ispirazione rosacrociana. Secondo alcuni storici, si recò in Inghilterra nel 1941 per negoziare una pace separata con gli inglesi proprio a causa della sua affiliazione a questa setta segreta la cui sede e i cui vertici risiedevano in Gran Bretagna. Il Falangismo spagnolo di Francisco Franco fu autenticamente cattolico e rigorosamente antimassonico. La Repubblica, egemonizzata dalle sinistre anticlericali (socialisti, repubblicani, comunisti), e sostenuta dall'esterno dagli anarchici e all'estero dal Messico di Cardenas, dalla Francia del Fronte Popolare del marxista Lèon Blum e in maniera più decisa e diretta dall'URSS di Stalin, cominciò ad innescare un clima di odio e di violenza tale che soprattutto dal 1936 al 1939 raggiunse l'apice massimo. A proposito del dittatore georgiano, urge una precisazione: la volta scorsa ho scritto che non risulta affiliato; ebbene, un massone mi ha riferito invece che Stalin era "fratello". La Massoneria lo ha screditato dopo la morte a causa delle molte epurazioni da lui effettuate all'interno del Pcus. Il presidente repubblicano Manuel Azaña, un massone fanatico, era deciso a portare la Spagna sotto l'orbita sovietica, provocando e alimentando la violenza inaudita dei rivoluzionari contro la Chiesa e tutti coloro che non si piegavano al terrore rosso. Le persecuzioni furono terribili; gli orrori dei comunisti spagnoli superavano in molti casi quelli dei giacobini durante la Rivoluzione francese. Con la risoluta reazione dei nazionalisti di Franco, aiutati in maniera decisiva dalla Germania ma soprattutto dall'Italia, la Repubblica filosovietica fu abbattuta. Franco giunto al potere emanò il 1° marzo 1940 la legge per la repressione della massoneria e del comunismo. Va aggiunto che molti massoni di tutte le tendenze politiche antifasciste si arruolarono nelle Brigate Internazionali, per andare in soccorso dei "fratelli" in pericolo. La vittoria degli Alleati nella II guerra mondiale e la sconfitta dei grandi nazionalismi italiano, tedesco e giapponese, implicò la divisione del mondo in due blocchi, voluto a Yalta nel 1945 dai "fratelli" Roosevelt, Churchill e Stalin: a occidente il predominio americano e a oriente quello sovietico. I due mondialismi materialisti si spartivano il pianeta: da una parte il capitalismo liberaldemocratico, agnostico e tollerante, dall'altro il comunismo ateo e totalitario. Il nazionalismo doveva essere distrutto per far posto al mondialismo, che avrebbe dovuto portare al compimento della Grande Opera, al sogno della massoneria: la Repubblica Universale. I popoli dovevano scegliere. L'Italia decideva il suo destino il 18 aprile 1948: dopo l'unità durante la Resistenza, una parte della Massoneria sostenne i partiti laici minori, il PDA, il PRI e il PLI, apertamente filoamericani, mentre l'altra il Fronte Popolare, costituito da PCI e PSI, che invece erano filosovietici. Simbolo del FP era un'immagine di Garibaldi. La grande vittoria della DC confermò l'Italia nel campo americano, insieme agli altri paesi occidentali. In tutta l'Europa orientale, la Massoneria spianò la strada ai socialcomunisti. La studiosa Angela Pellicciari, tra le migliori esperte di storia del Risorgimento italiano, ha giustamente notato che sull'emblema della DDR (la Germania Orientale comunista) figurava un compasso; ricordiamo che il compasso, con la stella a 5 punte e la squadra sono i principali simboli della massoneria. Un caso oscuro ed emblematico di come i "fratelli" si vogliano bene tra loro riguarda la Cecoslovacchia. Con il colpo di Stato del 1948, il radicale Jan Masaryk, già Gran Maestro della Massoneria ceca al pari di suo padre Tomas e di Edvard Beneš, persecutori e carnefici degli slovacchi cattolici, fu "suicidato" dagli stessi "fratelli" comunisti che lui aveva favorito come alleati al governo (era l'unico non marxista). La famiglia Masaryk fu protagonista di un vero e proprio dramma: Tomas fece di tutto per "liberare" la Cecoslovacchia dall'Impero Asburgico, mentre suo figlio Jan aveva consegnato il suo paese (rimettendoci la vita!) negli artigli del bolscevismo internazionale. Lo stesso anno, il 14 maggio 1948 Ben Gurion fondava lo Stato d'Israele, dando vita al "Risorgimento ebraico" che ha per base ideologica il Sionismo di Teodoro Herzl. Il sionismo predica il ritorno in patria del popolo d'Israele, in base ad un messianismo laico e terreno. Con l'arrivo dei coloni ebrei è iniziato un capitolo triste per la sorte del popolo arabo-palestinese. Nel 1945 a S. Francisco era nata l'ONU, per iniziativa delle potenze vincitrici, al posto della screditata Società delle Nazioni. La sua sede è a New York, edificata in uno spazio donato dai Rockefeller. Le stanze dell'ONU sono piene di simbologie massoniche. Le Nazioni Unite sono una prefigurazione del futuro governo mondiale, controllate da burocrati mediocri ma potenti, influenzati da un tipo di socialismo fabiano e tecnocratico. Esse hanno silenziosamente e subdolamente incoraggiato la decolonizzazione negli anni '40, '50 e '60 delle dipendenze oltre continente di Inghilterra, Francia, Belgio, Portogallo e Olanda. Rozzi e violenti capipopolo di sinistra come Sukarno in Indonesia, Lumumba nel Congo belga, Ho Chi Minh in Vietnam, solo per fare qualche nome, ottennero l'indipendenza delle loro nazioni per poi fare lucrosi affari sottobanco con i grandi capitalisti occidentali, loro che avevano predicato la guerra rivoluzionaria ai bianchi "schiavisti" e "sfruttatori". Lo stesso può dirsi per le rivoluzioni marxiste nei Paesi poveri, la Cina di Mao (istigata dall'agente sovietico del Comintern, il rivoluzionario massone Michail Borodin, detto Gurov) e la Cambogia dei khmer rossi, dove il macellaio comunista Pol Pot ha eliminato 1 milione di persone nel giro di una settimana, ma soprattutto nell'America Latina , guidate dai "fratelli" Castro e Che Guevara a Cuba (entrambi 33° grado del Rsaa della Gran Loggia Cubana), Romulo Betancourt in Venezuela, Jacobo Arbenz Guzmàn in Guatemala e Salvador Allende in Cile (Venerabile della Loggia "Hiram n° 66 di Santiago). Una breve digressione merita il "mitico 68". Esso fu preparato mediante un'efficace suggestione culturale dalla Scuola di Francoforte, un gruppo di filosofi marxisti "eretici", tra cui Theodor Adorno, Herbert Marcuse e Max Horkehimer. Fondata dalla Fabian Society, la società semi-segreta inglese nata nel 1904, fautrice dell'espansione del socialismo nel mondo, da cui sono usciti molti politici laburisti come i premier Tony Blair e Gordon Brown, essa aveva lo scopo di inquinare i costumi dell'Occidente con la mentalità libertaria e nichilista, al fine di facilitare l'avvento della socialdemocrazia universale. Un altro organismo mondialista che ci riguarda molto da vicino è l'Unione Europea (ex Ceca-Euratom, Cee). Nonostante sia stata voluta anche da 3 cattolici ferventi come De Gasperi, Schuman e Adenauer, l'Ue ha preso una piega sempre più tecnocratica, centralista, socialista e laicista. Padri "spirituali" di questa Europa debole e corrotta sono i massoni Blum, Spaak, Monnet, Spinelli, Brandt, Giscard d'Estaing, Felipe Gonzalez, Cohn Bendhit, Mitterrand (che in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese ha riempito Parigi di simboli esoterici) e Delors. Qualcuno non contento, vuole perfino far entrare la Turchia, vista come l'ariete che potrà finalmente distruggere la nostra Civiltà. Del resto è sotto gli occhi di tutti la politica anticristiana praticata dalle istituzioni comunitarie. L'azione della massoneria in Italia nel dopoguerra si è concentrata soprattutto sulla corruzione dei costumi e della famiglia. Forze politiche anticlericali come il Pri, il Psi, il Pci, il Psdi, il Pli, guidate dal Partito Radicale di Marco Pannella ed Emma Bonino, riuscirono a far introdurre il divorzio nel 1970 e l'aborto nel 1978. Esso era stato legalizzato prima nell'URSS e poi nel restante campo comunista, poi diveniva legge negli USA il 22 gennaio 1973, quando la Corte Suprema, controllata dai Rockefeller, si pronunciò a favore di tale provvedimento. Che l'applicazione dell'aborto su scala mondiale sia frutto di una pianificazione a tavolino dei poteri massonici, non c'è dubbio; diceva la femminista francese Edwige Prud'homme, Gran Maestra della Loggia femminile di Francia, intervistata da Le Monde il 26 aprile 1975: «È nelle nostre logge che furono prese, 15 anni fa le prime iniziative che condussero alla legislazione sulla contraccezione, il familial planning e l'aborto». Lo storico François Fejtö su "il Giornale" del 14 dicembre 1982: «Sotto Giscard, il Gran Maestro della Gran Loggia di Francia, Pierre Simon, svolse un ruolo preponderante nella preparazione delle leggi sulla contraccezione e l'aborto». Perfino Giovanni Paolo II diceva che «sono grandi e potenti le forze che oggi, apertamente od occultamente, dispiegano nel mondo la cultura della morte». Molte agenzie dell'ONU e dell'Ue promuovono l'aborto su scala planetaria, soprattutto nel Terzo mondo. L'aborto per i massoni, ha un significato esoterico profondo: è il sacrificio cruento di sangue innocente offerto al Principe di questo mondo, Satana, il vero dio della Massoneria, qualificato come Gadu o Ente Supremo, per nascondere ai profani le vere finalità della setta, come ebbe a sottolineare il grande giurista cattolico e controrivoluzionario francese vissuto tra il '700 e l'800, il conte di Anthenaire, e come confermano molti documenti riservati agli alti gradi, tra cui quelli di Albert Pike, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rssa della Giurisdizione del Sud degli Stati Uniti d'America, vissuto nell'800. Gli anni '80 furono l'inizio del collasso sovietico: l'elezione al vertice del PCUS dello pseudo innovatore Michail Gorbačev, tanto acclamato in Occidente, portò alla fine del comunismo nell'Europa orientale nel 1989 e alla dissoluzione dell'URSS nel 1991. La sua politica riformatrice e allo stesso tempo fallimentare, era dettata dai poteri forti mondialisti, decisi a far crollare il socialismo di Stato per proiettare l'economia russa verso il mercato globale; gli stessi gruppi di potere che furono i burattinai dell'ottobre 1917, i Rockefeller in testa. Non stupirà sapere che Gorbačev è massone e membro del Lucis Trust, un club fondato dalla teosofa ed esoterista Alice Bailey, che si batte per l'unificazione delle religioni; la congrega usa riunirsi spesso nella cappella newyorkese presbiteriana di S.Giovanni il Divino. Esso è inoltre uno degli sponsor più attivi per i meeting sul dialogo interreligioso promossi dall'ONU. Prima del novembre 1989, Gorbačev tenne un incontro molto riservato a Mosca con il Gran Maestro della Massoneria romena, Marcel Shapira, il quale gli confidò con mesi d'anticipo che i capi comunisti di allora, i vari Ceausescu, Husak, Honecker, ecc, sarebbero stati presto sostituiti con altri leaders. Ciò la dice lunga sui profondi legami tra apparato comunista e massoneria internazionale mondialista. Oggi l'ex dittatore sovietico è a capo della Green Cross International, una grande associazione ecologista, ed è tra i firmatari della Carta della Terra, che a suo avviso dovrebbe sostituire i 10 Comandamenti, nonché sostenitore delle bizzarre previsioni sul clima di Al Gore. Nell' '89 il comunismo, la peggiore forma di sfruttamento e di oppressione della storia, crollava con un terrificante bilancio incalcolabile di morti e di danni materiali e spirituali, con il solo risultato di aver devastato i popoli e di aver paradossalmente lasciato al loro posto tutti grossi gruppi del grande capitale internazionale. La fine del sistema comunista in Europa ha portato al superamento dei blocchi e all'indiscussa supremazia USA. L'11 settembre 1991 il presidente americano George Bush (33° grado Rsaa) annunciò dal suo studio ovale di Washington che si era giunti all'alba di un "nuovo ordine mondiale". Cosa intendeva? Quella che oggi è sotto gli occhi di tutti: la società multietnica e multiculturale, che ci porterà alla Repubblica Universale massonica, che annullerà tutte le culture e le fedi. Proprio a partire da quegli anni, l'Europa, culla di Civiltà, è stata interessata dall'invasione di immigrati provenienti dall'Est, dall'Africa, dall'America Latina e dall'Asia. La maggior parte di questi nuovi arrivati è di fede musulmana. La religione di Maometto è incompatibile con gli ordinamenti civili occidentali, crea incomprensioni e problemi di convivenza, ma ai progressisti, custodi del politically correct e proprietari dei mezzi di comunicazione, la cosa sembra non importare, anzi auspicano uno "scontro creativo" tra civiltà, per cui nascerà un nuovo ordine dal caos, come disse Edgar Morin, sociologo di sinistra ed ex consigliere di Mitterrand. L'obiettivo dei grembiulini è devastare la radice e il tessuto culturale e sociale con l'ausilio della religione islamica, che è in grande espansione, contro un'Europa disarmata e in crisi d'identità. Ma la globalizzazione era già stata preparata nei piani alti delle logge massoniche. In piena Seconda guerra mondiale, John Foster Dulles, presidente della Fondazione Rockefeller, così vedeva la "pace universale", sul "Times" del 16 marzo 1942: «Un Governo mondiale, la limitazione immediata delle sovranità nazionali, il controllo internazionale di tutti gli eserciti e di tutte le marine, un sistema monetario unico, la libertà di immigrazione nel mondo intero». Oggi si parla tanto di pace, quanto è abusato questo termine! La "pax mondana" è cosa ben diversa da quella "christiana", lo dice perfino Gesù nel Vangelo, checché ne dica qualche parroco o vescovo progressista. Tutti noi ricordiamo quando durante la guerra in Iraq, molti italiani esposero la bandiera arcobaleno; ebbene quel vessillo è simbolo della Società Teosofica, fondata nel 1875 a New York da Anne Beasant, Helena Petrovna Blavatsky , Alice Bailey e altri famosi occultisti, che indica la pace come sforzo umano e non come dono di Dio. L'arcobaleno così inteso era presente già nella simbologia delle logge massoniche del'700, figura sulla bandiera del Nicaragua (tuttora patria e rifugio di comunisti, massoni, rivoluzionari, guerriglieri, narcotrafficanti e terroristi di tutto il mondo) e nello stemma dell'Antico Rito Noachita. Inutile dire quanto sia usato durante le manifestazioni omosessuali. Quindi l'arcobaleno è il simbolo principale della Nuova Era dell'Acquario, che sarà pacifista, multietnica, multiculturale, multisessuale, sincretista e politicamente corretta. La moderna secolarizzazione ha colpito duramente anche la Chiesa. Una crisi che è stata preparata da tempo dalle logge massoniche. Documenti riservati dell'Alta massoneria risalenti a fine '800 – inizio '900 dichiaravano che occorreva distruggere la Chiesa cattolica dal di dentro, puntando sulla corruzione morale dei sacerdoti e dei credenti, al fine di screditarla. Il periodico francese "Vers Demain" pubblicò un estratto del piano studiato dal massone spretato Paul Roca: «Soppressione della veste talare, matrimonio dei preti, revisione dei dogmi in funzione del progresso universale, sconvolgimento della liturgia, l'Eucarestia ridotta a un semplice simbolo della comunione universale ed il vecchio Papato ed il vecchio sacerdozio abdicanti di fronte ai preti dell'avvenire». Da qui l'irrompere dell'eresia modernista, duramente condannata da S. Pio X con il decreto Lamentabili e l'enciclica Pascendi del 1907. Ovunque la Massoneria è giunta al potere, ha sempre provveduto ad infiltrare agenti e a sottomettere la Chiesa allo Stato, come è avvenuto in Francia durante la Rivoluzione con la Costituzione Civile del Clero, così come in Messico, in Russia, ecc, e come voleva fare in Italia contro papa Pio IX, che non voleva «diventare il cappellano di Casa Savoia». Un grande santo come Padre Pio da Pietrelcina definiva la massoneria «l'infame setta». Non esagerava, aveva perfettamente ragione. Francesco Pio Meola.