Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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AMBIENTOPOLI
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA DELL’INQUINAMENTO
E DEL DISSESTO
OSSIA, SOPRAVVIVERE
“Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi. Chi inquina paghi, anche per il patema d'animo".
Di Antonio Giangrande
AMBIENTOPOLI
Ambiente ed ambientalismo ed ecologismo. Distinzione sui termini dietro cui si nascondono ideologie e fondamentalismi, bugie ed odio contro l'uomo.
SOMMARIO
INTRODUZIONE.
TASSA AMBIENTALISTA. COME PRENDERLA NEL…SACCHETTO.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
PARLIAMO DI TERREMOTI.
PARLIAMO DI RIFIUTI.
GIORNALISMO A LIBRO PAGA DEGLI INQUINATORI.
FOTOVOLTAICO VS FOSSILE: QUALE ENERGIA PER IL FUTURO?
LA BUFALA DELL’INQUINAMENTO.
RISCALDAMENTO GLOBALE PER MANO DELL’UOMO? LA PIU’ GRANDE MENZOGNA.
LE PALE EOLICHE. IL PROGRESSO IDEOLOGICO E LA DISTRUZIONE DI UNA CIVILTA’. L’ISIS COME LA SINISTRA.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
L’INQUINAMENTO ATMOSFERICO UCCIDE, MA SI MUORE ANCHE DI RUMORE…
CHI INQUINA, NON PAGA.
LA NATURA NON E' AMBIENTALISTA.
LA BEFFA DEI SOLDI NON SPESI PER I DEPURATORI.
AREA MARINA PROTETTA. A MANDURIA QUALCOSA NON VA……
DEPURATORI. COME CI PRENDONO PER IL CULO.
DEPURATORI DELLE ACQUE E POLEMICHE STRUMENTALI. UN PROBLEMA NAZIONALE, NON LOCALE.
CONTRO IL DEPURATORE CONSORTILE SAVA-MANDURIA AD AVETRANA E SCARICO A MARE. LOTTA UNITARIA O FUMO NEGLI OCCHI?
AMIANTO. IL KILLER CONOSCIUTO.
LADROCINIO AL MINISTERO DELL’AMBIENTE?
LA GRANDE BUFALA: LA GREEN ECONOMY.
CHI HA PAURA DELLE NUOVE TECNOLOGIE: HYST ED OGM?
ILARIA ALPI, NATALE DE GRAZIA E LE NAVI DEI VELENI.
TARANTO E VADO LIGURE. C’E’ INQUINAMENTO ED INQUINAMENTO. E’ SALUBRE SE E’ DI SINISTRA.
DEPURATORI E SCARICO IN MARE DELLE ACQUE REFLUE. A PROPOSITO DEL DEPURATORE CONSORTILE DI SPECCHIARICA.
I NOSTRI VELENI QUOTIDIANI.
GLI SCANDALI CHE HANNO SPAVENTATO L'ITALIA.
OGGETTI PERICOLOSI INTORNO A NOI.
ANTIBUFALA: LA BARRA COLORATA SUI DENTIFRICI.
ILVA, LE VERITA' NASCOSTE DELL'INCHIESTA.
LA LOTTA CON GLI IDOLI DELLA PIAZZA.
ILVA. TARANTO. TUTTI DENTRO.
TARANTO. CASO ILVA. TUTTI DENTRO. FLORIDO E GLI ALTRI.
ILVA. SEQUESTRO RECORD. AI MAGISTRATI SEMPRE L’ULTIMA PAROLA CON IL PARADOSSO DI FAVORIRE I RIVA.
LA TARANTO DEI TALEBANI E LA CADUTA DEGLI DEI.
CHI INQUINA PAGA?
L'AMBIENTALISMO E L'ECOLOGISMO DEI LUOGHI COMUNI.
CONTRO L'AMBIENTALISMO DEL SEMPRE NO!
AUTO ELETTRICHE: LA MENZOGNA DELL’EMISSIONE ZERO.
ENERGIA PULITA? SPORCO AFFARE.
CULTO E PARADOSSI DEL SALUTISMO.
I TALEBANI DEL SALUTISMO.
LE BUGIE DEGLI AMBIENTALISTI.
PORTA IL NIPOTE IN CAMPAGNA: MULTATO!!!
PARLIAMO DEI POZZI ABUSIVI.
PARLIAMO DELLA CACCIA. DOPPIETTA ASSASSINA.
PARLIAMO DI SCIENZIATI CON LA TOGA.
TERREMOTO DELL’AQUILA: CONDANNATI I MEMBRI DELLA “COMMISSIONE GRANDI RISCHI”.
INQUINAMENTO AMBIENTALE: NON SOLO ILVA. C’E’ PIOMBO PURE NEL BIBERON.
CHI INQUINA PAGA? DIPENDE!
PARLIAMO DELL’ITALIA DEI VELENI: MORIRE DI FAME O DI INQUINAMENTO?
ECOLOGISMO ED AMBIENTALISMO: LA TRUFFA IN DANNO DELL’UMANITA’.
ECOLOGIA, AMBIENTE E MEDIA: LOTTA DI PARTE E DI FACCIATA.
LE BUGIE DEGLI AMBIENTALISTI.
PARLIAMO DELL’ITALIA DEI VELENI.
PARLIAMO DI DISASTRI AMBIENTALI.
LA TRUFFA DEL FOTOVOLTAICO.
PARLIAMO DI ENERGIA ALTERNATIVA.
PARLIAMO DI INQUINAMENTO DI STATO.
PARLIAMO DI TUTELA DEI DIRITTI.
PARLIAMO DI DISASTRI IDROGEOLOGICI.
ECOMAFIE.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO.
INQUINAMENTO DELLE ACQUE.
IMPIANTI DI DEPURAZIONE IN ITALIA.
INQUINAMENTO AMBIENTALE.
INQUINAMENTO ACUSTICO.
INCENDIOPOLI IN ITALIA.
CHI TUTELA LA SALUTE DEI CITTADINI ???
RACCOLTA DIFFERENZIATA: SI PARLA BENE, SI RAZZOLA MALE.
EMERGENZA RIFIUTI.
CHI COMBATTE L'ABUSIVISMO EDILIZIO ???
CASE ABUSIVE E CONDONI EDILIZI.
XILELLA FASTIDIOSA: RESPONSABILITA' DI STATO.
NO TAP. VIOLENZA ED IPOCRISIA.
NO TAP E PROTESTA CONTRO IL DEPURATORE CONSORTILE MANDURIA-SAVA AD AVETRANA. NON SONO FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
TASSA AMBIENTALISTA. COME PRENDERLA NEL…SACCHETTO.
Buste di plastica: chi le ammette e chi le tassa ma lo stop trionfa. Due modi per impedire l'impiego di uno strumento che ha contribuito a danneggiare l'ecosistema, scriveva già Boris Bivona il 15 febbraio 2011 su "Fiscooggi". La prima al mondo a vietare l'uso dei sacchetti di plastica è stata nel 2000 l'India a Mumbai. Due anni dopo a proibire l'impiego è stato il Bangladesh nella sua capitale, Dhaka. La decisione è stata adottata a seguito delle piogge monsoniche dopo che gli shoppers hanno causato numerosi intralci al sistema di drenaggio. L'intervento ha peraltro favorito la produzione locale di sacchi di iuta. Nel 2003 l'uso dei sacchetti di plastica è stato vietato dal Sud Africa e da Taiwan mentre nel 2005 sono state introdotte normative per limitarne l'uso in Eritrea, Ruanda e Somalia. Nel 2006, la Tanzania e nel 2007 il Kenya e l'Uganda hanno sancito il divieto totale di uso.
L'Italia e il divieto di commercializzazione. Dal 1° gennaio 2011 è entrato in vigore il divieto di commercializzazione dei sacchetti di plastica. Nel decreto legge n. 225 del 2010 (cosiddetto Milleproroghe) non sono stati previsti ulteriori differimenti dei termini riguardanti la commercializzazione di sacchi non biodegradabili per l'asporto delle merci che non rispondano ai criteri fissati dalla normativa comunitaria e dalle norme tecniche approvate a livello comunitario. Più in particolare, l'Unione europea non ha imposto la messa al bando delle buste di plastica ma ha disposto con norma armonizzata del Comitato europeo di normazione, EN 13432, le caratteristiche che un materiale deve possedere per potersi definire biodegradabile o compostabile.
La decisione impositiva. Ciò detto, occorre rilevare come la decisione di imporre una tassa può rispondere a differenti finalità. Quella principale è di concorrere alle spese pubbliche ma l'imposta può avere anche lo scopo diretto di penalizzare un certo settore economico o quello di colpire una tipologia di consumi. Esempio è dato dall'imposta di fabbricazione che fu introdotta sui sacchetti di plastica dalla legge n. 478/1988 che all'articolo 1 prevedeva l'assoggettamento di 100 lire per ciascun shoppers non biodegradabile (con evidente finalità ambientalista). La tassazione dei sacchetti non biodegradabili è un meccanismo esclusivamente dissuasivo (la minaccia di applicare nuove tasse ha lo scopo, in tal caso, di giungere a una loro progressiva eliminazione). Infatti, le 100 lire sortirono un effetto deterrente, tanto che l'uso dei sacchetti scese di oltre il 30%. La legge n. 427 del 1993, tuttavia, abrogò questa disposizione nonostante alcuni supermercati continuarono (illegittimamente) a far pagare la busta (al prezzo di 5 centesimi circa) traslando sul cliente finale la tassa che non era più dovuta all'erario. A ogni modo, dal gennaio 2011 nei supermercati italiani si possono acquistare sacchetti biodegradabili (il cui sovrapprezzo è pari a circa 20 centesimi) mentre quelli di plastica sono usati fino a esaurimento scorte purché la cessione degli stessi sia effettuata a favore dei consumatori ed esclusivamente a titolo gratuito.
Le altre scelte europee. Oltre al caso italiano occorre ricordare la scelta degli irlandesi. Nell'isola, infatti, dal 2002 è stata avviata una campagna contro i rifiuti selvaggi e contro tutti i tipi di imballaggio disseminati lungo le strade. Per ogni sacchetto di plastica utilizzato negli stores è stata imposta una tassa di 15 centesimi al fine di ridurne l'utilizzo ed evitare di contribuire all'inquinamento delle campagne irlandesi. Il consumo è calato drasticamente del 90%. L'esperienza irlandese è servita da modello per altri Paesi quali la Scozia, Malta e Gran Bretagna. Nel Regno è stato Modbury il primo comune ha dichiarare fuorilegge i sacchetti di plastica nel 2007. Il consumo è stato dimezzato pure in Spagna mentre in Germania, Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e Svizzera per i sacchetti di plastica si paga già una tassa aggiuntiva "punitiva".
La Francia e la tassa da 10 euro. Se l'Italia ha messo il bando ai sacchetti di plastica non biodegradabili il Senato francese ha fatto slittare dal 2011 al 2014 la loro tassazione. I parlamentari, infatti, hanno votato un emendamento che dispone per i supermercati una tassa di 10 euro per ogni kilo di sacchetti con decorrenza 2014 (mentre i deputati avevano chiesto di anticipare il tutto al 2011).
La tassazione nel resto del mondo. La tassazione come deterrente finalizzato a ovviare il problema dei rifiuti ambientali vige anche negli USA. La Città di Washington DC, nel 2010, ha imposto una tassa pari a 5 centesimi per ogni sacchetto di plastica ceduto al cliente che effettua la spesa nei supermercati. La capitale non è la prima città a disincentivare l'uso delle "plastic bags". La tassa sui sacchetti di plastica è in vigore a San Francisco, dove già nel 2008 è stato vietato il loro utilizzo (nei supermarket e nelle farmacie) e dove è stato imposta la sostituzione con materiali più eco-friendly, come la carta (sebbene si sta sempre più diffondendo la popolarità dei sacchetti di tela riutilizzabili). Anche in questo caso, la ratio della tassa risponde non tanto all'esigenza di introdurre un nuovo onere tributario quanto a quello di incoraggiare gli acquirenti a non essere ulteriormente tassati (nel rispetto dell'ambiente). In oriente, la Cina ha deciso di porre al bando i sacchetti di plastica nel 2009 istituendo un nuovo tributo sui sacchetti ed emesso regolamenti per vietare quelli maggiormente inquinanti. Fonti: ministero dell'Ambiente
Sui social arriva la "resistenza" contro i sacchetti a pagamento. Renzi al contrattacco: "Così aiutiamo la green economy", scrive Massimo Malpica, Giovedì 04/01/2018, su "Il Giornale". Un sacco (bio) di proteste. La prima polemica dell'anno ha lo spessore quasi impalpabile dei sacchetti per l'ortofrutta, quelli parzialmente biodegradabili, che dal primo gennaio sono diventati - come noto - a pagamento. Nei supermercati il prezzo varia tra uno e tre centesimi, ma nonostante Assobioplastiche abbia stimato un costo annuo tra 1,5 e 4,5 euro pro capite, le proteste dei consumatori dilagano. Soprattutto sui social network. A irritare per cominciare è la scelta del governo di «portarsi avanti» nel recepire la direttiva europea in materia (che permetteva di escludere dagli obbiettivi di riduzione plastica proprio i sacchetti ultraleggeri), prevedendo da subito di proibire la distribuzione gratuita delle bustine, oltre che la mancanza di alternative: le buste non possono essere riutilizzate (ma si possono usare come contenitori per l'umido a casa, se sono ancora integre) e non si possono utilizzare sacchetti propri, quindi di fatto si è costretti a spendere quegli eurocent in più ogni volta che si compra e si pesa ortofrutta, pesce o carne. Anche questo dettaglio è diventato «virale» in rete in seguito al suggerimento «risparmioso» di incollare lo scontrino della bilancia direttamente sull'ortaggio pesato. Niente da fare: per semplificare il calcolo, il costo della busta in bioplastica è aggiunto proprio al momento della pesata. Per cui lo stratagemma di prezzare direttamente frutta e verdura non funziona, perché si finisce per pagare il sacchetto anche se non lo si prende. Ma comunque le foto di mele scontrinate una per una (con una conseguente moltiplicazione del costo per i sacchetti) ieri andavano alla grande su Facebook, con migliaia di condivisioni che spacciavano la trovata come «soluzione» per il boicottaggio della nuova legge. L'altra polemica è squisitamente «antirenziana», e riguarda l'azienda leader nella produzione di buste in mater-bi, una plastica biodegradabile realizzata dal mais dalla Novamont, azienda novarese con stabilimento a Terni il cui ad, Catia Bastioli, aveva partecipato alla Leopolda del 2011, sei anni fa, come oratrice, invitata proprio dal rottamatore. Di qui le critiche alla scelta «radicale» del governo guidato da Paolo Gentiloni nell'imporre da subito un prezzo ai sacchetti ultraleggeri. Anche perché, sempre online, non sono mancati i simpatizzanti dem che di bacheca in bacheca difendono la scelta dell'esecutivo e la attribuiscono a un presunto obbligo italiano di allinearsi all'Europa, mentre come detto le cose stanno diversamente, e di fatto l'Italia è il solo Paese nel quale quei sottilissimi involucri tocca pagarli. In Irlanda, invece, viene applicata una tassa sulla produzione degli shopper. «In Italia ci sono circa 150 aziende che fabbricano sacchetti prodotti da materiale naturali e non da petrolio, anziché gridare al complotto dovremmo aiutare a creare nuove aziende nel settore della green economy senza lasciare il futuro nelle mani dei nostri concorrenti internazionali», ha replicato Matteo Renzi nell'ultimo numero delle sue Enews. E non manca nemmeno l'ironia a margine delle polemiche. Come il meme del principino George, icona snob del web, che ammonisce sorridente: «I sacchetti per la spesa ve li compro io. Poracci».
I sacchetti biodegradabili a pagamento solo in Italia. Solo nel nostro Paese buste pagate sullo scontrino. Fino allo scorso anno il costo era stato scaricato sui prodotti, scrive Franco Grilli, Mercoledì 03/01/2018, su "Il Giornale". I sacchetti per frutta e verdura si pagano, per il momento, solo in Italia. Il nostro Paese ha scelto questa strada per adeguarsi ad una direttiva Ue del 2015. Di fatto in Italia a partire dall'1 gennaio si pagano i sacchetti sotto i 15 micron che troviamo in tutti i supermercati per imbustare verdure o frutta da pesare. In questo modo i sacchetti di questo tipo vengono uniformati a quelli da 50 micron, quelli in cui mettiamo materialmente la spesa che acquistiamo e che da tempo si pagano in cassa. Di fatto finora il costo di queste piccole buste veniva scaricato sul prezzo finale per i prodotti. La decisione dell'esecutivo ha sostanzialmente invertito questa prassi. La novità tra gli scaffali dei supermercati di fatto ha scatenato qualche protesta soprattutto sui social dove qualcuno ha deciso di "ribellarsi" pesando ad esempio le arance una ad una senza usare la busta. La direttiva europea comunque riguarda tutti gli stati membri e probabilmente l'Italia ha semplicemente anticipato ciò che potrebbe accadere altrove nei prossimi anni. In Irlanda, come riporta il Corriere, finora si è deciso di predisporre una tassa sui sacchetti. Un altro modo per affrontare il problema posto dalla direttiva Ue. Bruxelles di fatto ha scelto di dare il via ad una stretta contro quei sacchetti di platica biodegradabili che vengono usati da milioni di cittadini in tutta l'Ue. In Francia i sacchettini sono stati messi al bando dal 2017. Niente buste di plastica gratuite in Paesi Bassi, Gran Bretagna, Croazia e Svezia. Dovranno ancora allinearsi alla nuova direttiva (i cui termini sono scaduti nel 2016) Danimarca, Grecia, Finlandia, Austria e Germania.
Veritas vincit: Questa è la patria della tassa sul macinato, scrive Rosanna Manzato mercoledì 3 gennaio 2018 su "Freeanimals". Allora, governo di merda, oggi sono andata al supermercato ed ovviamente, nel reparto frutta e verdura, con dei cartelli, si avvisa la clientela che i sacchetti per frutta e verdura, come da vostro ordine, dal 1° gennaio 2018 sono a pagamento al costo di 1 cent di € cadauno. Ho preso 4 arance sfuse e ad una ad una le ho pesate ed etichettate. Vado alla cassa e dico alla cassiera che ho fatto questo per non pagare il sacchetto. La poveretta mi passa la prima arancia sul lettore dei codici a barre e mi dice esterrefatta: "Signora, la bilancia è già tarata con il prezzo del sacchetto già compreso, perché mi dà il costo del frutto più il prezzo del sacchetto". Io allora rispondo gentilmente: "Ok va bene, le lascio qui le arance". La povera chiama il direttore che, molto gentilmente, mi dice che il prezzo del sacchetto si può stornare dal conto, ma solo per 2 capi e per le altre 2 arance mi verranno restituiti i 2 cent dalla cassiera. Ho ricevuto un tripudio di elogi dai clienti in coda alla cassa, mi sono scusata con i gentilissimi cassiera e direttore che a loro volta erano d'accordo con me... Governo di m…! Credo che questa piccola cosa, avrà un largo seguito: incularci un centesimo vale quanto incularci un lingotto d'oro, tenetelo bene a mente, che tutto vi ritornerà con gli interessi! Ps: in altre catene di supermercati, i sacchetti costano 3 centesimi cadauno...fate voi!
Sacchetti biodegradabili per frutta e verdure a pagamento, scoppia la rivolta sui social. Arance pesate una ad una e altri trucchetti suggeriti dai consumatori per evitare di pagare il costo dei sacchetti biodegradabili, obbligatori e a pagamento dal primo gennaio 2018. La stima è di una spesa dai 4 ai 12,50 euro all'anno, scrive Valentina Santarpia il 2 gennaio 2018 su “Il Corriere della Sera”. «Non ci sono speculazioni ai danni del consumatore», dice soddisfatto il presidente di Assobioplastiche dopo una prima ricognizione sui prezzi dei sacchetti per frutta e verdura, che dal primo gennaio sono - per legge - biodegradabili e a pagamento. Anche se la cifra per ogni sacchetto oscilla tra 1 e 3 centesimi, non la pensano allo stesso modo i clienti dei supermercati, che, inviperiti dalla novità, hanno iniziato da ieri a postare sui social foto di scontrini e sotterfugi per evitare quello che il Codacons ha già definito un «balzello». «Fatta la legge, trovato l'inganno», scrive una consumatrice, pubblicando la foto delle arance pesate ed etichettate una ad una, per evitare di usare il sacchetto.
Il calcolo della spesa. Secondo l'Osservatorio di Assobioplastiche, il costo annuale dei sacchetti per una famiglia dovrebbe oscillare tra i 4,17 e i 12,51 euro. Come si arriva a questa stima? L'Osservatorio stima che il consumo di sacchi per ortofrutta e per il cosiddetto secondo imballo (quello dei prodotti che prima vengono incartati, come carne, pesce, gastronomia, panetteria) si aggiri complessivamente tra i 9 e i 10 miliardi di unità, per un consumo medio di ogni cittadino di 150 sacchi all'anno. Secondo i dati dell'analisi Gfk-Eurisko presentati nel 2017 le famiglie italiane effettuano in media 139 spese all'anno nella Grande distribuzione. Ipotizzando che ogni spesa comporti l'utilizzo di tre sacchetti per frutta/verdura, il consumo annuo per famiglia dovrebbe attestarsi a 417 sacchetti, per un costo compreso tra 4,17 e 12,51 euro (considerando appunto un minimo rilevato di 0,01 e un massimo di 0,03 euro).
Il prezzo di 12 minuti. La legge entrata in vigore dal 1° gennaio del 2018 è l’articolo 9-bis della legge di conversione n. 123 del 3 agosto 2017 (il Decreto Legge Mezzogiorno) che stabilisce che «le borse di plastica non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite». Per gli esercizi commerciali che non applicheranno la nuova norma sono previste multe che vanno da 2.500 a 25.000 euro. Ma le sanzioni possono arrivare anche fino a 100.000 euro in caso di «ingenti quantitativi» di buste fuorilegge. E per i consumatori non c'è nessuna via facilitata, come il fai da te: il ministero dell'Ambiente ha già fatto sapere che, per motivi igienici, i sacchetti non potranno essere portati da casa o riutilizzati. Anche se le stime dicono che il tempo medio di utilizzo di un sacchetto è 12 minuti. Una vita breve e costosa.
Sacchetti biodegradabili per la frutta a pagamento, le polemiche sui social tra soluzioni green e lamentele. Rivolta social per i sacchetti a pagamento per l'imballaggio alimentare. Sui costi guerra di cifre tra associazioni dei consumatori e aziende. Su Twitter appelli, battute e ironie, scrive il 3 gennaio 2018 “Il Corriere della Sera”. Il provvedimento sui sacchetti biodegradabili per il primo imballo alimentare a pagamento continua a scatenare furiose polemiche sui social media e non solo. Il botta e risposta sulle spese aggiuntive per le famiglie si è consumato a colpi di note tra associazioni dei consumatori e aziende produttrici: il Codacons ha infatti affermato che i costi aggiuntivi potrebbero raggiungere i 50 euro a famiglia; molto meno (cifre nell'ordine di pochi euro all'anno) per Assobioplastiche, l’associazione di categoria delle aziende produttrici, che sostiene che la spesa supplementare potrebbe essere compresa tra 1,5 euro e 4,5 euro all’anno (per persona, però, non per famiglia).
La furia dei consumatori. Nel frattempo, comunque, la polemica è scoppiata, puntuale e furiosa, sui social media. Anche perché, a quanto pare, i supermercati hanno applicato la tariffa per il «sacchetto bio» o il «sacchetto orto» a scontrino emesso dalla bilancia e non a sacchetto effettivamente consumato. Con il risultato che anche chi compra la frutta e la etichetta a pezzo singolo paga per un sacchetto non utilizzato.
Buste biodegradabili per frutta e verdura: cosa sono i bioshopper obbligatori dal 2018, scrive Ida Artiaco il 3 gennaio 2018 su "Fan Page". Dall’1 gennaio 2018 diventano obbligatori per legge i sacchetti di plastica biodegradabile per pesare e trasportare alimenti freschi e di macelleria nei supermercati e nelle piccole botteghe. Molte le polemiche dei consumatori, dal momento che queste buste sono a pagamento. La decisione rappresenta, tuttavia, un passo in avanti dell’Italia per combattere l’inquinamento. Si tratta di un materiale compostabile e riciclabile, capace persino di rendere fertile il terreno sul quale viene depositato. Dall'1 gennaio 2018 in tutta Italia è obbligatorio utilizzare sacchetti di plastica biodegradabile e compostabili per pesare e imbustare al supermercato o nelle botteghe sotto casa frutta, verdura, carne, pesce, pane e uova. Lo ha stabilito la legge, o meglio il cosiddetto Decreto Mezzogiorno, secondo il quale i bioshopper devono diventare l'imballaggio primario per i prodotti di gastronomia, andando a sostituire le buste ultraleggere in plastica con spessore inferiore ai 15 micron, che utilizzavamo solitamente per pesare gli alimenti, nel rispetto dello standard internazionale UNI EN 13432. Una decisione, questa, amica dell'ambiente e a favore della lotta all'inquinamento atmosferico e dei mari, ma che ha fatto infuriare, e non poco, i consumatori che hanno parlato di "tassa sulla spesa", dal momento che questi nuovi sacchetti saranno a pagamento: ogni esercente potrà, infatti, vederli a un prezzo compreso tra 1 e 5 centesimi. Chi di loro non rispetterà la nuova normativa, rischierà multe salate. Ma di cosa si tratta nello specifico?
Cosa sono e come sono fatti i bioshopper. Quando si parla di bioshopper ci si riferisce a dei sacchetti di plastica biodegradabile, compostabile e riciclabile, utilizzati per il trasporto degli alimenti. Questo tipo di materiale, impiegato per la realizzazione dei prodotti più diversi, non solo per le buste della spesa, deriva da materie prime vegetali rinnovabili annualmente. Il tempo di decomposizione è di qualche mese in compostaggio, contro i 1000 anni richiesti dalle materie plastiche sintetiche derivate dal petrolio. Le bioplastiche che si trovano sul mercato sono composte soprattutto da farina o amido di mais, grano o altri cereali. Oltre ad essere biodegradabili, hanno anche il pregio di rendere fertile il terreno sul quale vengono depositate. Dopo l'uso, consentono persino di ricavare concime fertilizzante dai prodotti realizzati, come biopiatti, biobicchieri, bioposate, e di impiegarlo per l'agricoltura, perché, a differenza di quelli in polietilene e polipropilene, si decompone naturalmente sul terreno.
L'inquinamento da plastica: allarme per il suolo e i mari. La plastica è tra i maggiori responsabili dell'inquinamento del suolo ma anche e soprattutto dei nostri mari e degli altri corsi d'acqua, dai laghi ai fiumi (il cosiddetto marine litter). Non solo enormi quantità fluttuano in superficie, ma tantissimi prodotti realizzati con questo materiali restano imprigionati anche in profondità e non sono dunque visibili a occhio nudo. Secondo alcuni esperti, la massa di plastica galleggiante sugli oceani dovrebbe essere tra le 93.300 e le 236 mila tonnellate. Numeri, questi, che aumentano di anno in anno, a causa dell'alta durabilità nel tempo di questo materiale, sempre più utilizzato per dare vita agli oggetti più diversi, tra cui proprio i sacchetti per la spesa. Soltanto in Europa, come riscontrato dagli ultimi dati diffusi dall’EPA, si stima un consumo annuo di 100 miliardi di buste di plastica, di cui una parte finiscono direttamente in mare e sulle coste. Secondo l’International Coastal Cleanup, nel Mediterraneo tra il 2002 e il 2006 le buste di plastica sono risultate essere il quarto rifiuto più abbondante dopo sigarette, mozziconi e bottiglie.
Italia virtuosa e all'avanguardia: le leggi approvate. A dire il vero, tra i paesi dell'Ue l'Italia è tra i più virtuosi per quanto riguarda il tema dell'inquinamento da plastica ed in particolare dei sacchetti per la spesa. Il nostro Parlamento è infatti stato il primo ad approvare nel 2011 la legge contro gli shopper non compostabili. Ad oggi, come riferisce Legambiente, anche se la misura non è del tutto rispettata, c’è stata una riduzione nell’uso di sacchetti del 55%. Se fosse esteso a tutti i Paesi del Mediterraneo e non solo, i risultati in termini sarebbero molto più rilevanti. Un ulteriore passo in avanti è rappresentato, nelle intenzioni dei legislatori, dall'ultima norma riguardante i bioshopper per pesare e imballare frutta, verdura e altri prodotti alimentari e di macelleria, nonostante le polemiche nate sui social perché queste buste sono a pagamento, e obbligatorie, a partire dall'1 gennaio 2018. L’articolo 9-bis della legge n.123/2017, il cosiddetto Decreto Mezzogiorno, prevede che le borse di plastica non possano essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità debba risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati. Mentre il Codacons accoglie i timori dei consumatori, parlando di una "tassa sulla spesa" e di "stangata per le famiglie", Legambiente usa toni più moderati. "L'innovazione – ha detto Stefano Ciafani, direttore generale dell'associazione ambientalista – ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta". Si ricorda però che sulle nuove buste con cui si trasporteranno ad esempio verdura o pane ci sarà incollata l'etichetta con il prezzo termico che non è compostabile e dunque andrà accuratamente tolta. Inoltre, per questioni igieniche non si potrà portare il proprio sacchetto da casa.
Sacchetti bio a pagamento per frutta e verdura, ecco quanto ci costeranno, scrive Cinzia Arena mercoledì 3 gennaio 2018 su "Avvenire". Guerra di cifre su uno dei rincari scattati con il 2018. Legambiente: l'Italia in prima linea nella lotta all'inquinamento da plastica. Ma i consumatori replicano: a pagare saranno le famiglie. Tra i rincari su tariffe e servizi che il 2018 ha portato con sè, dalle bollette di luce e gas al capitolo trasporti ai ticket sanitari, c'è una piccola tassa occulta sull'acquisto di frutta e verdura. L'anno nuovo si è aperto infatti con una novità per chi va a fare la spesa: la messa al bando dei sacchetti di plastica leggeri e ultraleggeri utilizzati per imbustare prodotti ortofrutticoli ma anche carne, pesce e affettati. Al loro posto shopper biodegradabili e compostabili, ma rigorosamente a pagamento (da 1 a 5 centesimi). Una misura che ha prodotto una serie infinita di polemiche sui social (con tanto di foto di arance con le etichette attaccate direttamente alla buccia per evitare il pagamento della bustina bio) e un duro scontro tra gli ambientalisti e le associazioni di consumatori. "L'innovazione ha un prezzo ed è giusto che si paghi purchè il costo sia equo, vale a dire 2-3 centesimi a busta - è la posizione espressa da Legambiente per voce del suo direttore Stefano Ciafani - È fondamentale continuare la strada iniziata nel 2011 dall'Italia nella lotta all'inquinamento da plastica". In Europa, secondo i dati dell'Agenzia perla protezione dell'ambiente, si stima un consumo annuo di 100miliardi di sacchetti, e una parte di questi finiscono in mare e sulle coste. L'Italia è stato il primo Paese europeo ad approvare, nel 2011, la legge contro i sacchetti non compostabili. Ad oggi anche se la misura non è del tutto rispettata, c'è stata una riduzione nell'uso di sacchetti del 55%. E adesso fa un altro passo in avanti.
Guerra di cifre sul costo annuo per le famiglie. Ma quanto costerà la nuova norma agli italiani? Su questo punto è guerra di cifre. Secondo l'Osservatorio di Assobioplastiche la spesa aggiuntiva oscillerà fra 4,17 e 12,51 euro il prezzo che ogni famiglia dovrà aggiungere quest'anno alla spesa alimentare fatta in supermercati e ipermercati. Nella ricognizione compiuta dall'Osservatorio in una dozzina di grandi magazzini alimentari, il costo di ogni singolo sacchetto è risultato compreso fra 1 e 3 centesimi. Assobioplastiche ricorda che il consumo di buste si aggira tra i 9 e i 10 miliardi di unità, per un consumo medio di ogni cittadino di 150 sacchi all'anno. Secondo i dati dell'analisi Gfk-Eurisko presentati nel 2017, le famiglie italiane fanno in media 139 spese all'anno nella grande distribuzione. Ipotizzando che ogni spesa comporti l'utilizzo di tre sacchetti per frutta/verdura, il consumo annuo per famiglia dovrebbe attestarsi a 417 sacchetti, per un costo complessivo compreso tra 4,17 e 12,51 euro (considerando appunto un minimo rilevato di 0,01 e un massimo di 0,03 euro). "Queste prime indicazioni di prezzo ci confortano molto -spiega Marco Versari, presidente di Assobioplastiche -, perché testimoniano l'assenza di speculazioni o manovre ai danni del consumatore". Peraltro, i sacchetti "sono utilizzabili per la raccolta della frazione organica dei rifiuti - aggiunge - e quindi almeno la metà del costo sostenuto può essere detratto dalla spesa complessiva". Sul pagamento dei sacchetti però le associazioni dei consumatori si sono scatenate. Per il Codacons è "un nuovo balzello che si abbatterà sulle famiglie italiane, una nuova tassa occulta a carico dei consumatori". Si tratterà di una spesa aggiuntiva compresa tra i 20 e i 50 euro a famiglia a seconda della frequenza degli acquisti. Una vera e propria tassa occulta. Differente la stima fatta da Adoc che parla di un aggravio fra i 18 e i 24 euro l'anno per una media di 600 sacchetti a famiglia. Tra le soluzioni alternative c'è chi propone un ritorno alle buste di carta e chi come, Coop Svizzera, lancia le buste riutilizzabili per frutta e verdura, chiamate multi-bag.
Federdistribuzione: obiettivo sottocosto per venire incontro ai consumatori. La grande distribuzione, chiamata a mettere in pratica la normativa, non ci sta a considerarla una stangata. Federdistribuzione parla di una norma che punta ad accrescere la sensibilità dei consumatori nei confronti dei temi ambientali. "Stiamo parlando di miliardi di sacchetti utilizzati nei supermercati è ovvio che contribuiscono all'inquinamento. L'obiettivo è ridurne il numero e al tempo stesso contenere i costi: nelle nostre aziende si sta facendo strada sempre di più il "sottocosto" vale a dire la vendita del sacchetto ad un costo inferiore a quello di produzione. Mi sembra che il disagio sia relativo per il consumatore e inoltre si tratta di una norma europea alla quale bisognava adeguarsi" spiega il presidente Giovanni Cobolli Gigli ricordando che il passaggio analogo, ai sacchetti per la spesa bio ha prodotto nel giro di sei anni una netta riduzione. Conciliare ambiente e risparmio insomma si può.
La norma inserita nel decreto Mezzogiorno. L'obbligo di utilizzo dei sacchetti bio-degradabili e a pagamento è entrato in vigore dal 1° gennaio del 2018. Si tratta dell’articolo 9-bis della legge di conversione n. 123 del 3 agosto 2017 (il decreto legge Mezzogiorno) che stabilisce che «le borse di plastica non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite». Per gli esercizi commerciali che non applicheranno la nuova norma sono previste multe che vanno da 2.500 a 25.000 euro. Ma le sanzioni possono arrivare anche fino a 100.000 euro in casi estremi, di «ingenti quantitativi» di buste fuorilegge. Per i consumatori non c'è possibilità di scelta. Bocciato il fai da te: il ministero dell'Ambiente ha già fatto sapere che, per motivi igienici, i sacchetti non potranno essere portati da casa o riutilizzati. Ma la loro vita media è di appena 12 minuti.
Per capire. Legambiente: 4 domande (e risposte) sui sacchetti biodegradabili, scrive mercoledì 3 gennaio 2018 "Avvenire". È polemica sui nuovi bioshopper biodegradabili e compostabili, a pagamento, per gli alimenti ed entrati in vigore dall'1 gennaio 2018. Non tutte le notizie che circolano appaiono però corrette. In questi giorni infatti gli italiani appaiono sempre più divisi sui nuovi bioshopper biodegradabili e compostabili, a pagamento, utilizzati per gli alimenti ed entrati in vigore dal 1 gennaio 2018. C'è chi li sostiene e che invece ha molti dubbi al riguardo, e non mancano in queste ore il proliferare di affermazioni inesatte su una novità che, invece, sostiene Legambiente, fa bene all'ambiente e aiuta a contrastare in maniera efficace l'inquinamento da plastica non gestita correttamente e il problema del marine litter. Per questo Legambiente punta il dito contro le "bugie" che stanno circolando in questi giorni: dalla cosiddetta "tassa occulta" alla questione del monopolio di Novamont, azienda a cui si deve l'invenzione del Mater-Bi. Quindi l'associazione affronta 4 punti fornendo alcune informazioni:
Perché questo provvedimento? L'inquinamento da plastica è sempre più grave. "Le polemiche di questi giorni - dichiara Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente - sono davvero incomprensibili: non è corretto parlare di caro spesa né di tassa occulta o di qualche forma di monopolio aziendale. Sarebbe utile che ci si preoccupasse dei cambiamenti climatici e dell'inquinamento causato dalle plastiche non gestite correttamente, e che si accettassero soluzioni tecnologiche e produttive che contribuiscono a risolvere questi problemi, senza lasciarsi andare a polemiche da campagna elettorale di cui non se ne sente il bisogno. È ora di sostenere e promuovere l'innovazione che fa bene all'ambiente, senza dimenticare di contrastare il problema dei sacchetti di plastica illegali. Circa la metà di quelli in circolazione sono infatti fuorilegge, un volume pari a circa 40 mila tonnellate di plastica, e una perdita per la filiera legale dei veri shopper bio pari a 160 milioni di euro, 30 solo per evasione fiscale".
Siamo di fronte a una tassa occulta? Tassa occulta? Per Legambiente non è nulla di tutto ciò. Da sempre i cittadini pagano in modo invisibile gli imballaggi che acquistano con i prodotti alimentari ogni giorno. Nessun produttore o nessuna azienda della grande distribuzione ha mai fatto ovviamente e naturalmente beneficenza nei confronti dei consumatori. Unica differenza, è che questa volta il costo è visibile, perché l'obiettivo della norma è aumentare la consapevolezza dei consumatori su un manufatto che se gestito non correttamente può causare un notevole impatto ambientale.
La legge vieta il riutilizzo dei sacchetti? Questo problema si può ovviare semplicemente con una circolare esplicativa del Ministero dell'ambiente e della salute che permetta in modo chiaro, a chi vende frutta e verdura, di far usare sacchetti riutilizzabili, come ad esempio le retine, pratica già in uso nel nord Europa. In questo modo si garantirebbe una riduzione auspicabile dell'uso dei sacchetti di plastica, anche se compostabile, come già fatto coi sacchetti per l'asporto merci (che grazie al bando entrato in vigore nel 2012 in 5 anni sono stati ridotti del 55%).
Una legge che favorisce il monopolio di un'azienda? È una legge basata sul monopolio dell'azienda Novamont? Si tratta di una fantasia di chi non conosce il mercato delle bioplastiche. Oggi nel mondo ci sono almeno una decina di aziende chimiche che producono polimeri compostabili con cui si producono sacchetti e altro. Basta andare sul web e si possono trovare colossi della chimica italiana, tedesca, americana, del sud est asiatico, che producono bioplastiche. Dove sarebbe il monopolio? Forse sarebbe opportuno ricordare che tra le principali aziende della chimica verde una volta tanto l'Italia ha una leadership mondiale sul tema, grazie ad una società che è stata la prima 30 anni fa a investire in questo settore e che negli ultimi 10 anni ha permesso di far riaprire impianti chiusi riconvertendoli a filiere che producono biopolimeri innovativi che riducono l'inquinamento da plastica. Un problema di cui ormai si parla in tutto il mondo, come emerso chiaramente ad esempio alla Conferenza mondiale sugli oceani che l'Onu ha organizzato nel giugno scorso a New York, a cui Legambiente ha partecipato portando l'esperienza di citizen science sul marine litter con Goletta verde e le campagne di pulizia delle spiagge.
Quanto costa davvero il sacchetto della spesa, scrive Maria Teresa Camarda Mercoledì 03 Gennaio 2018 su "Live Sicilia”. Alcune cifre che circolano sul web sono delle bufale. E guardando un po' più a fondo, i sacchetti in questione si pagavano anche prima. Sacchetti della spesa a pagamento nei supermercati a partire dal 1 gennaio. Un obbligo di legge che ha fatto scattare immediatamente accesissime polemiche sui social network. I consumatori stanno vivendo questa decisione del governo nazionale come un'ulteriore tassa da pagare allo Stato. Ma le cose non stanno proprio così e i costi di questa misura non sono poi così esosi come si è detto. Alcune delle cifre che circolano sul web se non sono bufale, poco ci manca. Stando ai calcoli diffusi dall'Osservatorio di Assobioplastiche, la spesa per i sacchetti igienici destinati all'acquisto di frutta, verdura, carne e pesce oscillerà fra 4,17 e 12,51 euro l'anno. E non, quindi, la spesa di 50 euro di cui tanto si parla su Facebook, Twitter & co. Il provvedimento è previsto dalla legge 123/2017, il cosiddetto decreto Mezzogiorno, approvato lo scorso agosto, in cui si indica che queste buste non possono essere gratis per via delle misure europee che prevedono l’obbligatorietà in tutti i Paesi dell’Unione della cessione degli shopper a pagamento. Questa misura, come recita la direttiva, si è resa necessaria "per aumentare la consapevolezza del pubblico in merito agli impatti ambientali delle buste di plastica per liberarci dall'idea che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso". "Queste prime indicazioni di prezzo ci confortano molto - spiega Marco Versari, presidente di Assobioplastiche, in un'intervista al notiziario "Eco dalle città" -, perché testimoniano l'assenza di speculazioni o manovre ai danni del consumatore". Peraltro, i sacchetti "sono utilizzabili per la raccolta della frazione organica dei rifiuti - aggiunge Versari - e quindi almeno la metà del costo sostenuto può essere detratto dalla spesa complessiva". Ma anche su Assobioplastiche si è scatenato un vespaio di polemiche: "Gli unici ad applaudire pubblicamente la norma - scrive un attivista del Movimento 5 stelle su Facebook in un post che è stato condiviso centinaia di volte dal suo profilo e altrettante da ogni altro profilo - sono i vertici di Assobioplastiche, il cui presidente, Marco Versari, è stato portavoce del maggiore player del settore, la Novamont, già nota per aver inventato i sacchetti di MaterBi, il materiale biodegradabile a base di mais". Ma, guardando un po' più a fondo, i sacchetti in questione si pagavano anche prima, solo che erano inclusi nel costo complessivo del prodotto pesato. Adesso, con la nuova norma i supermercati dovranno indicare esplicitamente il costo del sacchetto e, anche su quelli, pagare le imposte. Quindi, la nuova norma semplicemente considera il sacchetto come una cosa che il supermercato ti vende e non come un semplice costo di gestione. Per il Codacons, comunque, è "un nuovo balzello che si abbatterà sulle famiglie italiane, una nuova tassa occulta a carico dei consumatori". Per Legambiente, invece, "non è corretto parlare di caro-spesa. L'innovazione ha un prezzo, ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo, che si dovrebbe aggirare intorno ai 2-3 centesimi a busta. Così come è giusto prevedere multe salate per i commercianti che non rispettano la vigente normativa". Le sanzioni per chi viola o elude la legge vanno da 2.500 a 25.000 euro, elevabili fino a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure un se il valore delle buste fuori legge è superiore al 10% del fatturato del trasgressore.
Dal primo gennaio sono obbligatori: i bioshopper dividono gli italiani. Per legge devono essere l'imballaggio primario per i prodotti di gastronomia, macelleria, pescheria, frutta verdura e panetteria. Sono riciclabili e per questo piacciono a molti; costano poco ma se si fa la somma alle casse si può avere qualche sorpresa, e per questo una fetta di italiani parla di "tassa occulta", scrive Giacomo Talignani il 2 gennaio 2018 su “La Repubblica”.
"GENTILE CLIENTE... ti comunichiamo che è in vigore la legge che impone che vengano utilizzati sacchetti compostabili e biodegradabili idonei al contatto alimentare in sostituzione dei sacchetti di plastica". Questa la scritta che molti supermercati italiani recano all'ingresso dei loro punti vendita da oggi, giorno di riapertura della maggior parte degli store della grande distribuzione. Dal 1°gennaio è infatti scattato l'obbligo, per il cosiddetto "Decreto mezzogiorno", di utilizzare ''bioshopper'' come imballaggio primario per i prodotti di gastronomia, macelleria, pescheria, frutta verdura e panetteria. Via dunque le buste ultraleggere in plastica (con spessore inferiore ai 15 micron) che utilizzavamo solitamente per pesare gli alimenti le quali saranno sostituite da quelle biodegradabili e compostabili, nel rispetto dello standard internazionale UNI EN 13432. Una scelta, decisa nella lotta all'inquinamento ambientale e al problema delle microplastiche nei nostri mari, che peserà però sulle tasche degli italiani: ogni esercente venderà infatti le singole buste a un prezzo compreso fra gli 1 e i 5 centesimi. Come stabilito per legge, inoltre, per questioni igieniche non si potrà portare il proprio sacchetto da casa e dunque, di fatto, sarà obbligatorio spendere qualche centesimo nel caso si voglia acquistare frutta, verdura o altri prodotti. In caso di inadempienze per i venditori - l’obbligo si estende dalla grande distribuzione ai piccoli negozi - sono previste multe salate che vanno da 2.500 a un massimo di 25mila euro. La novità ha già diviso gli italiani fra coloro che sono favorevoli all'iniziativa e chi invece punta il dito contro la "tassa occulta" che dovremo pagare: ad ottobre un sondaggio Ispos Public Affairs indicava che 6 italiani su 10 si dicono favorevoli al nuovo sistema.
LA POLEMICA SUI COSTI - La legge, che vieta soluzioni diverse da quelle biodegradabili e compostabili con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 40%, è stata accolta con entusiasmo dalle associazioni ambientaliste mentre da quelle dei consumatori arrivano forti critiche. Per Legambiente non è corretto parlare di caro-spesa: perché" l’innovazione - dichiara Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente - ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta". Il Codacons parla invece di stangata sulle famiglie. "Significa che ogni volta che si va a fare la spesa al supermercato occorrerà pagare dai 2 ai 10 centesimi di euro per ogni sacchetto, e sarà obbligatorio utilizzare un sacchetto per ogni genere alimentare, non potendo mischiare prodotti che vanno pesati e che hanno prezzi differenti. Tutto ciò comporterà un evidente aggravio di spesa a carico dei consumatori, con una stangata su base annua che varia dai 20 ai 50 euro a famiglia a seconda della frequenza degli acquisti nel corso dell'anno" dice il presidente Carlo Rienzi definendola una "tassa occulta". Differente invece la stima di Adoc che prevede un aggravio fra i "18 e i 24 euro l'anno per circa 600 sacchetti consumati a famiglia". A queste cifre replica Assobioplastiche che stima un prezzo differente, al massimo fra "1,50 e 4,50 euro l'anno a persona". In questa operazione di contrasto al "marine litter" ogni supermercato della Gdo (la grande distribuzione) indicherà il proprio prezzo per busta. Per ora sono in pochi ad essersi sbilanciati, fra cui la Coop che ha fissato a 2 centesimi a busta il suo prezzo. Altri, come Esselunga o Carrefour, stanno procedendo con la sostituzione dei sacchetti ma devono ancora indicare con precisione la propria cifra.
RIUTILIZZO DEI SACCHETTI - Fra gli aspetti da considerare nella "rivoluzione dei sacchetti" c'è quello del riutilizzo delle buste biodegradabili per la raccolta dell'umido. In alcuni Comuni dove è in vigore la differenziata le famiglie acquistano i sacchetti biodegradabili in confezione con costi che oscillano fra i 10 e i 15 centesimi e dunque, se si riutilizzassero quelli dei supermercati comprati a 1-2 centesimi, ci sarebbe un risparmio. Ambientalisti e attenti osservatori ricordano però che sulle nuove buste con cui trasporteremo ad esempio verdura o pane ci sarà incollato l'etichetta con il prezzo termico che non è compostabile e dunque andrà accuratamente tolta. Catene come Lidl pesano i prodotti direttamente in cassa aggirando il problema dell'etichetta con prezzo e battendo direttamente sullo scontrino.
SISTEMI ALTERNATIVI - Ogni novità, chiaramente, scatena l'inventiva dei più creativi per trovare soluzione gratuite. Se come detto non è possibile portarsi i propri sacchetti da casa c'è chi propone il ritorno delle vecchie buste a rete o dei sacchetti di carta, questione però ancora tutta da dibattere (per i distributori). Fra le soluzioni già in atto, per esempio per frutta o ortaggi acquistati singolarmente, come un limone, un avocado e via dicendo, c'è quella di attaccare l'etichetta direttamente sul singolo prodotto (di solito sulla buccia che poi viene tolta). Altri esempi di possibili soluzioni future arrivano poi da Coop Svizzera che da novembre ha messo a disposizione buste riutilizzabili per frutta e verdura, chiamate Multi-Bag, in alternativa ai sacchetti.
IN EUROPA - In Europa, secondo gli ultimi dati diffusi dall'EPA, si stima un consumo annuo di 100 miliardi di sacchetti, molti dei quali finiscono in mare e sulle coste. Legambiente ricorda che la messa al bando degli shopper non compostabili è attiva in Italia, Francia e Marocco e altri Paesi hanno introdotto delle tasse fisse (Croazia, Malta, Israele e alcune zone della Spagna, della Grecia e della Turchia). Diverse iniziative sono in atto in tutto il Vecchio continente per cercare di ridurre il numero delle buste. Secondo un report della Marine Conservation Society in Gran Bretagna la lotta ai sacchetti non biodegradabili ha portato a un drastico calo della presenza di buste sulle coste, circa il 40% in meno.
Sacchetti biodegradabili per frutta e verdure: una «tassa sulla spesa»? Dal primo gennaio obbligatorio imbustare frutta e verdura acquistata nei supermercati in sacchettini di plastica biodegradabile forniti a pagamento. Ma ambientalisti, consumatori e industriali la pensano tutti in modo diverso, scrive il 03/01/2018 Andrea Zaghi su Sir Servizio Informazione Religiosa. Alcuni l’hanno già chiamata «tassa sulla spesa». E in effetti così parrebbe l’obbligo, scattato dallo scorso primo gennaio, di imbustare frutta e verdura acquistata nei supermercati solo in sacchetti di plastica biodegradabile «nuovi» e forniti a pagamento. La precisazione non è casuale: accanto all’obbligo dei supermercati, c’è anche un altro obbligo, imposto ai consumatori, di non portarsi da casa sacchetti biodegradabili usati. Tutto è contenuto nel DL Mezzogiorno e precisamente nell’articolo 9-bis della legge di conversione n. 123 del 3 agosto 2017. Le regole appaiono piuttosto chiare, in ogni caso il ministero dell’Ambiente ha inviato una lettera al sistema della grande distribuzione organizzata. Dal primo gennaio è obbligatorio infilare frutta e verdura acquistata nei supermercati solo in sacchetti di plastica biodegradabile che dovranno essere pagati (si tratta dei sacchettini bianchi che fino a pochi giorni fa erano forniti gratuitamente); oltre a questo, è vietato il riutilizzo delle buste biodegradabili per motivi igienico-sanitari. Ugualmente è vietato mettere in una sola busta prodotti ortofrutticoli diversi. Questo all’interno del supermercato. C’è da immaginare, quindi, che tutto invece possa avvenire appena fuori i centri commerciali e i punti vendita (con tanto di travasi di prodotti nelle borse casalinghe). L’obiettivo è condivisibile – diminuire il più possibile l’uso di plastica -, il percorso per raggiungerlo lascia perplessi molti e ha del contraddittorio. Da un lato, infatti, si vuole ridurre l’uso della plastica, dall’altro si vieta il riuso della plastica biodegradabile. Il tema è solo apparentemente banale ed ha già prodotto schieramenti netti: da un lato gli ambientalisti, dall’altro alcune associazioni dei consumatori. Senza contare la deriva di polemica politica; c’è chi infatti vede dietro questa norma, un favore fatto ad aziende i cui vertici sarebbero legati a filo doppio al centrosinistra. Stando ai calcoli già fatti, comunque, la «tassa sulla spesa» dovrebbe pesare dai due ai dieci centesimi per busta utilizzata. Parte del ricavo dovrà essere versato dai supermercati allo Stato sotto forma di Iva e di imposte sul reddito. Per chi sgarra ci sono le multe. I supermercati che usano ancora buste non biodegradabili rischiano multe da 2.500 euro a 25.000 euro e fino a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure se il valore delle buste fuori legge è superiore al 10% del fatturato del trasgressore. Ed è naturalmente sul costo dei sacchetti che pare crearsi la spaccatura fra ambientalisti e consumatori. Il Codacons ha già parlato di una «stangata sulle famiglie». A conti fatti l’associazione indica un aggravio di spesa annuo dai 20 ai 50 euro per nucleo familiare. Si tratta, ha tuonato il presidente Carlo Rienzi, «di una vera e propria tassa occulta a danno dei cittadini italiani che non ha nulla a che vedere con la giusta battaglia in favore dell’ambiente». Più sfumata Legambiente il cui direttore generale, Stefano Ciafani, ha spiegato che l’innovazione «ha un prezzo» e che è «giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta. Così come è giusto – ha continuato -, prevedere multe salate per i commercianti che non rispettano la vigente normativa». Per Assobioplastiche (l’Associazione Italiana delle Bioplastiche e dei Materiali Biodegradabili e Compostabili), i sacchettini di plastica biodegradabile costituiscono la «naturale conclusione di un percorso virtuoso nel settore della bioeconomia e dell’economia circolare che fa dell’Italia un modello per tutta l’Europa». Poi ci siamo tutti noi, quelli che vanno a fare la spesa al supermercato. Che non la pensano poi tanto male. Da un’indagine Ipsos, infatti, il 71% degli intervistati prevede una spesa notevole ma solo il 28% è davvero contrario alle nuove regole. La «nuova tassa» è ben accetta, servirà ad abbattere davvero il consumo di plastica e a migliorare l’ambiente. Il 58% degli intervistati si è detto favorevole alla legge. D’altra parte che qualcosa occorra fare ne sono consapevoli tutti. Sembra che in Europa ogni anno siano consumati cento miliardi di sacchetti di plastica (Fonte: EPA), e che una buona parte di questi finiscano in mare e sulle coste. Una situazione non più sostenibile che vede però l’Italia fra i Paesi più virtuosi visto che dal 2011 abbiamo una legge contro gli shopper non compostabili.
Fatti e misfatti della nuova legge sui sacchetti ultraleggeri. C’è chi parla di tassa, c’è chi chiama in causa il giglio magico e la lobby delle bioplastiche. Facciamo un po’ di chiarezza sulla nuova norma che disciplina la vendita delle borse di plastica per alimenti sfusi, scrive il 2 gennaio 2018 "Polimerica". Nonostante sia nota dalla fine del 2016 l’intenzione del Governo di imporre misure restrittive sulla commercializzazione di sacchetti ultraleggeri per ortofrutta (leggi articolo), ufficializzata nell’agosto dell’anno scorso con l’approvazione del decreto n. 91/2017(disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), solo negli ultimi giorni i media e le associazioni dei consumatori si sono scatenati, in modo spesso scomposto, su origine e impatti del provvedimento, giudicato una sorta di tassa sui consumatori, sostanzialmente inutile, introdotta al solo scopo di favorire Novamont e altri produttori di bioplastiche. Per Codacons è “un balzello inutile che non ha nulla a che vedere con l’ambiente e con la lotta al consumo di plastica”, che “determinerà un aggravio di spesa che potrà raggiungere i 50 euro annui a famiglia, laddove il costo degli shopper avrebbe dovuto essere interamente a carico dei supermercati e dell’industria”. Contraria al provvedimento anche Federconsumatori, che ritiene il nuovo provvedimento “importante e anche condivisibile, ma restano alcuni dubbi sulla scelta di introdurne l’utilizzo esclusivamente a pagamento”. Per il Giornale - in un articolo a firma di Giuseppe Marino (qui articolo integrale) - si tratta di un regalo alla Coop e a Catia Bastioli, AD di Novamont, definita “una capace manager che ha incrociato più volte la strada del Pd e di Renzi”. A difendere la scelta del Governo - oltre ad Assobioplastiche - c’è Legambiente: “L’innovazione – afferma il direttore Stefano Ciafani - ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta”. NON È UNA TASSA. In realtà, non si tratta di una nuova imposta. I proventi - se non indirettamente (IVA) - non finiranno nelle casse del tesoro, ma resteranno ad esercenti e grande distribuzione, a copertura dei maggiori costi dei sacchetti biodegradabili e biobased rispetto a quelli tradizionali. Per dare un'indicazione di massima, un sacchetto ultraleggero costa alla grande distribuzione tra i 2 e i 5 centesimi al pezzo, a seconda dei volumi e degli accordi con i fornitori. Il prezzo del sacchetto al consumatore sarà deciso dal singolo esercente: e se ciò potrebbe essere fonte di speculazioni, è anche vero che nulla vieta ad un esercente di imporre un valore infinitesimale; l’unico vincolo, secondo la legge è che “il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati per il loro tramite”. In una circolare, il Ministero dello Sviluppo economico ha confermato la liceità di vendere i sacchetti sottocosto, onde evitare - come si legge nella nota - "di far ricadere sul consumatore finale il costo derivante dall’introduzione e conseguente applicazione di una disposizione avente quale finalità la tutela ambientale".
PERCHÈ SOLO A PAGAMENTO? Qui il tema si fa più complesso. Per motivare l’obbligo di far pagare i sacchetti ultraleggeri è stata chiamata in causa una direttiva europea (2015/720), diramata da Bruxelles per ridurre il consumo di sacchetti monouso in plastica, che prescrive, come opzione: "l’adozione di strumenti atti ad assicurare che, entro il 31 dicembre 2018, le borse di plastica in materiale leggero non siano fornite gratuitamente nei punti vendita di merci o prodotti, salvo che siano attuati altri strumenti di pari efficacia”. Ma, una riga sotto si legge anche: “Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da tali misure”. In sostanza, nulla vieta di adottare misure restrittive per i sacchetti con spessore inferiore a 15 micron utilizzati a fini di igiene, compreso l’obbligo di far pagare il sacchetto - come ha fatto l’Italia -, ma non è Bruxelles a imporle. Infatti, come si legge nelle premesse della Direttiva: “gli Stati membri possono scegliere di esonerare le borse di plastica con uno spessore inferiore a 15 micron (“borse di plastica in materiale ultraleggero”) fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi ove necessario per scopi igienici oppure se il loro uso previene la produzione di rifiuti alimentari”.
QUANTO COSTANO ALLA CASSA? A poche ore dall’entrata in vigore della legge, l’Osservatorio di Assobioplastiche ha svolto una prima ricognizione sui prezzi applicati a questi sacchetti, per ora limitata alla grande distribuzione. Auchan, Conad, Coop Italia, Coop Lombardia, Eurospar, Gruppo Gros e Iper hanno fissato un prezzo di 2 centesimi a sacchetto. Costano invece la metà, 0,01 euro, gli ultraleggeri commercializzati nei punti vendita di Coop Toscana, Esselunga e Unes. Hanno deciso di applicare un prezzo di 3 centesimi di euro a sacchetto le catene Lidl, Pam e Simply.
QUANTO PAGHERA' IL CONSUMATORE? Indubbiamente qualche centesimo moltiplicato per più sacchetti (uno per ogni alimento) utilizzati per la spesa quotidiana o settimanale, alla fine dell’anno comporterà un aggravio di costo per i consumatori. Ma quanto? Molto dipenderà dal costo fissato dagli esercenti. Codacons stima un costo annuo per famiglia di 50 euro, mentre Assobioplastiche ridimensiona la cifra a un ordine di di grandezza in meno: considerando un consumo medio annuo per famiglia intorno a 150 sacchetti e un costo unitario compreso tra 1 e 3 centesimi, si arriva ad un onere complessivo di 2-4,5 euro l’anno. Secondo i dati dell'analisi GFK-Eurisko presentati a Marca 2017, le famiglie italiane effettuano in media 139 spese anno nella GDO. Ipotizzando che ogni spesa comporti l'utilizzo di tre sacchetti per frutta/verdura, il consumo annuo per famiglia dovrebbe attestarsi a 417 sacchetti, per un costo compreso tra 4,2 e 12,5 euro. Occorre anche considerare che il nuovo sacchetto ultraleggero è compostabile: quindi, dopo essere stato utilizzato per la spesa può tornare utile per il conferimento dell’umido, nei comuni in cui è in funzione la raccolta differenziata dei rifiuti organici, evitando l’acquisto di sacchetti specifici.
SI RIDURRÁ IL CONSUMO DI SACCHETTI MONOUSO? Difficile dirlo, ma non essendoci sempre alternative disponibili - come nel caso dei banconi ortofrutta dei supermercati - non è certo che la misura servirà a ridurre il consumo di sacchetti ultraleggeri in plastica. In alcuni casi, ove possibile, potrebbe favorire materiali alternativi come la carta, ma la praticità e la leggerezza della plastica difficilmente può essere compensata dall’aggravio di qualche centesimo di euro. C’è anche chi pensa che questa misura favorirà la vendita di verdura e frutta confezionata rispetto a quella sfusa: in realtà, il differenziale di prezzo a livello di packaging è a sfavore degli imballi rigidi (vaschette in plastica).
PERCHÈ NON POSSO PORTARE LA BUSTA DA CASA? C’è chi ha chiamato in causa la lobby dei produttori di bioplastiche per motivare la decisione della Grande distribuzione di vietare al consumatore di portarsi da casa il sacchetto per alimenti sfusi (verdure, frutta, carne, pesce), così come avviene con le buste per la spesa. In realtà le ragioni sono altre: in primis quella legata all’igiene, essendo questa tipologia di sacchetti destinata a contenere alimenti sfusi non altrimenti imballati; il rischio di contaminazione è reale ed è stato adombrato in passato anche per le buste per la spesa riutilizzabili più volte. Poi c’è la questione della taratura delle bilance per la pesa dei prodotti, che sono settate sui sacchettini distribuiti in prossimità dei banchi ortofrutta. La legge, pur richiamando conformità alla normativa sull’utilizzo dei materiali destinati al contatto con gli alimenti nel caso dei sacchetti ceduti al pubblico, non norma espressamente questo punto. Tanto che il consumatore potrebbe utilizzare le proprie sporte o retine per gli acquisti nel negozio sotto casa, come per altro già avveniva in passato. Questa possibilità è stata ammessa espressamente da una circolare del Ministero dello Sviluppo economico, in attesa del pronunciamento del dicastero della Sanità. Tecnicamente è possibile estendere questa pratica anche a livello GDO, come dimostra il caso della Coop Svizzera con le sporte Multi-Bag.
FAVORIRÁ i PRODUTTORI DI BIOPLASTICHE? Senza dubbio, ma in fondo potrebbe essere utile - a livello di sistema paese - favorire un’industria nazionale con prospettiva di crescita rispetto ad un prodotto - il sacchetto di polietilene - che può essere acquistato in ogni angolo del pianeta a prezzi di commodities. Va anche detto che Novamont non è l’unica azienda a produrre bioplastiche per film, anche se è il principale fornitore di polimeri biobased e compostabili in Italia. Uno dei competitor - solo per citare il più noto - è il gruppo tedesco BASF.
MA QUANTO VALE IL MERCATO? Non esiste (ancora) uno studio specifico sul mercato italiano dei sacchetti ultraleggeri per il confezionamento di alimenti sfusi, ma la società di consulenza Plastic Consult - che da anni monitora il settore delle materie plastiche e, più recentemente, l'evoluzione dei sacchetti monouso in plastica - stima che il consumo si attesti tra 20mila e30mila tonnellate annue tra polietilene e bioplastiche.
COSA DICE LA LEGGE? Come indicato dalla legge 123/2017 del 13 agosto scorso, dal 1° gennaio 2018 dovranno essere biodegradabili e compostabili secondo la norma UNI EN 13432 i sacchetti ultraleggeri – con spessore inferiore a 15 micron - utilizzati per il confezionamento di merci e prodotti, a fini di igiene o come imballaggio primario in gastronomia, macelleria, pescheria, ortofrutta e panetteria. Oltre ad essere idonei per l’uso alimentare, con l’anno nuovo i sacchetti dovranno avere un contenuto minimo di materia prima rinnovabile (secondo EN 16640:2017) pari ad almeno il 40%, che salirà al 50% a partire da gennaio 2020 e al 60% dal 2021. La nuova norma impone anche che i sacchetti per ortofrutta, così come gli shopper, non possano essere ceduti a titolo gratuito e che il prezzo di vendita risulti dallo scontrino o dalla fattura di acquisto. Inoltre, sui sacchetti dovranno essere apposti elementi identificativi del produttore e diciture idonee ad attestare il possesso dei requisiti di legge. La sanzione per chi contravviene alla norma, violando anche solo uno dei requisiti cumulativi, parte da 2.500 e può arrivare fino a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure se il loro valore è superiore al 10% del fatturato del trasgressore. Ma, va ricordato, la sanzione riguarda solo distributori ed esercenti, non il consumatore trovato in possesso di una borsa fuori norma.
La tassa sui sacchetti di plastica fa ricca la manager renziana. Fregatura al supermercato. Oltre la nomina pubblica Catia Bastioli guida pure la ditta che fabbrica l'80% delle buste bio, scrive Giuseppe Marino, Domenica 31/12/2017 su “Il Giornale", ripreso in parte da Affari Italiani. L'obbligo di comprarli scatta da domani, ma nei supermercati si respira già il malumore dei clienti per la «tassa sui sacchetti». Quel che non è ancora chiaro a chi fa la spesa, è chi incasserà i proventi della nuova subdola imposta. Per capire chi in queste ore sorride al pensiero dei sacchetti a pagamento bisogna mettere insieme alcuni fatti, qualche sospetto e un numero impressionante di coincidenze. Che hanno una data d'inizio: 3 agosto 2017. È il giorno in cui viene approvato in commissione, con voto compatto del gruppo del Pd, l'emendamento che introduce il balzello. In pieno clima di ferie il Parlamento sente l'esigenza di accelerare la norma infilandola in una legge che c'entra ben poco, il Dl Mezzogiorno. Col paradosso che in un provvedimento che dovrebbe portare sviluppo al sud compare un emendamento, firmato dalla deputata Dem Stella Bianchi, i cui frutti saranno goduti molto più a Nord, e precisamente in Piemonte. Vedremo dopo per quali strade. Prima è meglio dare un'occhiata a come è stato congegnato l'emendamento. Da una parte si impone il divieto di usare i sacchetti ultraleggeri di plastica, quelli che servono a pesare la frutta o a incartare formaggi e salumi. Fin qui è l'attuazione di una direttiva europea che ha uno scopo condivisibile, ridurre il consumo di plastica e il suo impatto ambientale rendendo obbligatori i sacchetti con almeno il 40% di componente biodegradabile. Il Pd aggiunge però un altro meccanismo diabolico: ai supermercati è vietato regalarli ai clienti, pena una multa salatissima, fino a 100mila euro. Una misura spacciata per incentivo a ridurre il consumo di sacchetti che, pur biodegradabili, sono per più di metà ancora composti di plastica. Eppure il fine nobile della sanzione durissima è completamente vanificato da un'altra norma: è vietato riciclare i sacchetti. Né, per motivi igienici e di taratura delle bilance, è possibile portarsi da casa borse o contenitori di tipo diverso che finiscano a contatto diretto con gli alimenti e con le bilance. Dunque, se non posso portarmeli da casa e non ho altre alternative che usare quelli forniti dal supermercato, il disincentivo del pagamento, obbligatorio per legge, non può scoraggiare il consumo. I dirigenti di alcune catene di supermercati, sentiti dal Giornale, confermano i dubbi sul meccanismo cervellotico e sugli effetti perversi. E allora, chi ci guadagna? La norma sgrava la grande distribuzione, che in Italia conta un player storicamente legato alla sinistra, la Coop, dal costo degli shopper, riversandolo sul cliente. Ma non è poi un grande vantaggio, perché i negozi dovranno fronteggiare la rabbia dei clienti. C'è anche perplessità sulla scelta di non regolamentare il prezzo dei bio-sacchetti che, essendo un bene ormai obbligatorio per legge, è esposto a possibili speculazioni sul prezzo. Gli unici ad applaudire pubblicamente la norma sono i vertici di Assobioplastiche, il cui presidente, Marco Versari, è stato portavoce del maggiore player del settore, la Novamont, già nota per aver inventato i sacchetti di MaterBi, il materiale biodegradabile a base di mais. E infatti l'azienda di Novara sul suo sito, senza ironia, pubblica un sondaggio secondo cui i consumatori italiani sarebbero in maggioranza contenti di pagare. Intorno a Novamont si concentrano altre coincidenze. L'amministratore delegato è Catia Bastioli, una capace manager che ha incrociato più volte la strada del Pd e di Renzi. Nel 2011 partecipa come oratore alla seconda edizione della Leopolda, quella in cui esplode il fenomeno Renzi. Molti degli ospiti di quell'evento oggi occupano poltrone di nomina politica. E Catia Bastioli non fa eccezione: nel 2014, pur mantenendo l'incarico alla Novamont, viene nominata presidente di Terna, colosso che gestisce le reti dell'energia elettrica del Paese. Con i buoni uffici del Giglio magico, si dice all'epoca. A giugno 2017 Mattarella la nomina cavaliere del lavoro. L'azienda che guida è l'unica italiana che produce il materiale per produrre i sacchetti bio e detiene l'80% di un mercato che, dopo la legge, fa gola: inizialmente i sacchetti saranno venduti in media a due centesimi l'uno. Le stime dicono che ne consumiamo ogni anno 20 miliardi. Potenzialmente dunque, è un business da 400 milioni di euro l'anno. Il 15 novembre scorso Renzi ha fatto tappa con il treno del Pd proprio alla Novamont. Ha incontrato i dirigenti a porte chiuse e all'uscita ha detto ai giornalisti: «Dovremo fare ulteriori sforzi per valorizzare questa eccellenza italiana». Promessa mantenuta.
Sacchetti frutta a pagamento, parla Catia Bastioli, la produttrice assediata: «Brevetto nostro». L’amministratrice delegata Novamont: «Vantaggi personali e favori politici? No, è una tecnologia unica al mondo», scrive Fabio Savelli il 3 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Forse avremmo dovuto investire altrove. Per trasformare impianti vecchi in gioielli nella produzione di granuli da amido di mais e oli naturali. Avremmo dovuto evitare di metterci 500 milioni, spendere risorse in ricerca per brevettare una tecnologia senza eguali. Avremmo dovuto evitare di assumere personale qui, nel nostro Paese». Catia Bastioli, amministratrice delegata del gruppo Novamont, è furibonda. La polemica del costo scaricato su chi fa la spesa per i sacchetti contenitori di frutta e verdura la trova sconcertata. Novamont realizza il cosiddetto Mater-Bi, la materia prima con la quale i produttori, circa 150 aziende in tutta Italia, realizzano sacchetti biodegradabili ultraleggeri.
L’accusa che le muovono è che la scelta introdotta dal governo di far pagare i sacchetti sia un regalo a lei che è a monte della filiera della bioplastica.
«La ritengo una tesi oltraggiosa. Vergognosa. Che si possa connotare politicamente la volontà del governo di recepire una direttiva comunitaria denota a che punto siamo arrivati. Fare carne da macello, per finalità prettamente elettorali, di un brevetto nostro e di una tecnologia patrimonio per il Paese a livello mondiale, offende il lavoro di questi ultimi venti anni».
Lei però ricopre la carica di presidente di Terna. Una nomina al vertice di una società a controllo pubblico arrivata quando al governo c’era Matteo Renzi. Non può nascondere la vicinanza all’ex premier.
«Ho accettato quella nomina dopo grandi perplessità. Me l’hanno chiesto più volte. Ero scettica. Col senno di poi sono orgogliosa di quello che abbiamo costruito. Ho compreso la necessità di una contaminazione tra energia, chimica, agricoltura. È la rivoluzione dell’economia circolare».
Ammetterà che questa misura la avvantaggia.
«Questo è un settore che sta crescendo. Ha cominciato la Francia a permettere l’uso degli shopper biodegradabili nel 2011. Perché sono riciclabili nella raccolta dell’umido. I nostri materiali sono in grado di creare un compost con l’organico in grado di concimare i terreni. Senza disperderlo nelle discariche, con un costo ambientale altissimo. Di smaltimento e di produzione di anidride carbonica».
Caleo (PD): “Io padre della norma sui sacchetti, la rivendico. Non conoscevo la Novamont”, scrive il 24 Mattino il 3 gennaio 2018 su "Tiscali News". "Io mi aspetterei dai commentatori su questa norma un inchino e un saluto importante". Rivendica complimenti, ai microfoni di Luca Telese e Oscar Giannino, nel corso della trasmissione 24 Mattino, Massimo Caleo, senatore del Pd e padre della norma sui sacchetti biodegradabili a pagamento. "Ho fatto quest'emendamento per il semplice motivo che era giusto proseguire su quella strada lì", continua, "io non conoscevo nessun dirigente. So chi è Novamont ma all'epoca, mi creda, io non conoscevo nessun dirigente di quest'azienda", dice rispondendo alle domande di Telese e Giannino, sui rapporti del Pd con l'azienda, titolare del brevetto più diffuso di sacchetti biodegradabili. "Quindi non sapeva che Catia Bastioli - la dirigente di quest'azienda - è una delle relatrici della Leopolda?", insiste Luca Telese. "Non la butti in politica", risponde Caleo, "l'azienda che voi mi dite l'ho conosciuta dopo aver fatto l'emendamento e credo sia una verità assoluta. E siccome siamo in libero mercato credo che sia importante, se vogliamo andare in questa direzione, il mercato si allarghi e non si restringa". Ma il costo, intanto, è giusto? Per Caleo sì: "Sono d'accordo che non bisogna esagerare... ma uno o due centesimi credo che sia il valore giusto, non è una tassa". Qualcosa si può migliorare, però: "Se la grande distribuzione - io l'invito che faccio è questo - volesse regalarli ai propri clienti o anche il singolo commerciante, ben venga ci mancherebbe altro", aggiunge il senatore per cui questa è dunque "una norma di buonsenso, civile che premia l'innovazione e anche l'intuizione che anche questo Paese ha".
I due centesimi che valgono meno di un principio. Due centesimi per le buste biodegradabili. Poca cosa: cinque euro in un anno se ne vengono consumate 250. Ma c'è un principio che vale molto di più. e che non andava venduto per 0,02 euro, scrive Lucio Marziale il 3 gennaio 2018 su "Alessioporcu.it. La normativa sui sacchetti compostabili costituisce la “bustina al tornasole” della sinistra ambientalista italiana e dei disastri che sta provocando. Fino al 31 Dicembre 2017, si poteva imbustare la frutta e la verdura in sacchetti di plastica non biodegradabile e a costo zero. Dal 1 Gennaio 2018, giustamente è stato previsto l’imbustamento in sacchetti compostabili, ma incredibilmente: È stato previsto l’obbligo di usare tali sacchetti, senza lasciare la scelta di servirsi di buste e retine proprie e riutilizzabili, come avviene ormai da tempo per le classiche buste della spesa. E’ stato imposto l’obbligo di pagare tali sacchetti: quindi mentre prima i contenitori inquinanti erano gratis, adesso i contenitori biodegradabili e compostabili sono a pagamento! Il problema non sono i due centesimi, pari a 5 euro all’anno se si ipotizza un uso di 250 sacchetti all’anno. Il problema è che le normative che nascono illiberali producono effetti devastanti, e questa problematica -solo apparentemente minore- riassume tutta una cultura autoritaria ed autoreferenziale di un certo ambientalismo di sinistra, che sta provocando danni devastanti innanzitutto all’ambiente e in special modo alla sinistra. I comportamenti ritenuti virtuosi vengono imposti, e soprattutto tassati. Vale per le inutili e ingenti somme impiegate a disinquinare siti come la Valle del Sacco, e vale per quei protocolli internazionali come Kyoto, che si traducono solo in ulteriore tassazione per le imprese del mondo occidentale, le quali già investono autonomamente somme ingenti nella ricerca e nello sviluppo di fonti energetiche alternative e in accorgimenti tecnico-scientifici che hanno ridotto in maniera drastica i livelli di inquinamento. La cultura pseudo ambientalista, invece, predica il catastrofismo, perché ha bisogno di incutere terrore per garantirsi posizioni ben retribuite di autoreferenziale attività pseudo scientifica “in difesa dell’ambiente”, nelle Università e negli Istituti di Ricerca finanziati con le tasse “ambientali” imposte dalla medesima cultura “pseudo ambientalista”. Questa deriva va fermata al più presto, e l’ambiente deve tornare ad essere il motore della ricerca scientifica e della sua applicazione industriale, con la detassazione e la gratuità dei comportamenti virtuosi, e non con la imposizione di ulteriori e inaccettabili balzelli e gabelle. Anche se di due centesimi.
Sacchetti biodegradabili. Arrigoni: tassa “ambientalista” inaccettabile! Il senatore lecchese della Lega Nord: si tratta di un inganno del Governo, scrive il 3 gennaio 2018 "Resegoneonline.it". “Ho fortissimi dubbi sulla reale sostenibilità delle attuali bioplastiche, ma ho la certezza che non risolvano problemi come la dispersione dei rifiuti in terra e nei mari (littering), e che questo sia un bel business fatto sulla pelle dei consumatori, per la gioia della Novamont cara al PD e al parolaio Renzi”. Così interviene il senatore lecchese della Lega Paolo Arrigoni, membro della Commissione parlamentare Ambiente e Territorio, sulla norma che dall’1 gennaio ha imposto ai consumatori italiani che acquistano frutta e verdura di confezionarle in sacchettini di plastica biodegradabile rigorosamente usa e getta e a pagamento. “La direttiva comunitaria, recepita con un emendamento al Decreto legge Mezzogiorno, consentiva di esonerare dall'obbligo di compostabilità gli involucri destinati agli alimentari, ma in Italia per volere del Governo Gentiloni dal primo gennaio è scattato nei supermercati l’obbligo per legge all’uso di costosissimi sacchetti “naturali” per l’acquisto di frutta e verdura; peraltro preceduto dall’introduzione nelle mense di molte scuole (come quelle di Milano) dello stop all’uso di piatti e bicchieri in plastica tradizionale a favore di quelli realizzati in materiali compostabili, con significativi aumenti dei costi (solo per le scuole di Milano sono stati stimati almeno 300 mila euro in più all’anno…)”. “Il risultato? – fa notare il Senatore - Nonostante in Italia la plastica grazie alla raccolta differenziata abbia ormai raggiunto percentuali elevate di recupero e riciclo, si spinge ora sempre più per sostituirla con plastica biodegradabile, molto più costosa, di precaria funzionalità e che crea problemi di funzionamento a numerosi impianti di compostaggio!”
Un Paese nel sacchetto, scrive Anna Lombroso per "Il Simplicissimus" il 2018/01/03. Con sollievo leggo della crisi dei centri commerciali, coi loro smisurati parcheggi ormai deserti, i lungi corridoi espositivi polverosi, dell’abbandono in cui versano le nuove cattedrali dove si officiava la liturgia del consumo, che avevano sostituito piazze e corsi di paese dove la gente si incrociava e si dava appuntamento in scenari di cartapesta e stagioni artificiali e sempre uguali. E allo stesso modo non mi piacciono i supermercati: meglio il mercato di rione scomparso, perfino la botteguccia sotto casa, sguarnita e cara come bulgari dove con la serranda mezza abbassata implori il cingalese ermetico di darti le sei uova per una frittata d’emergenza, di gran lunga preferibili a quella colonna sonora di annunci e musiche ambient, a quelle luci che confondono, a mappe incerte che rendono irrintracciabili prodotti e merci tra meste coppie con lei che vieta al marito l’acquisto di salamini punendo l’eterno fanciullino che risiede in ogni maschio, bimbi che strepitano e il panorama avvilente di carrelli colmi di 4 salti in padella e patatine surgelate raccomandate da masterchef acchiappacitrulli. E adesso ci andrò ancora più malvolentieri: dall’1 gennaio è entrata in vigore la norma inquattata nel Il decreto Mezzogiorno approvato in agosto, grazie alla quale quei sacchetti leggerissimi di plastica in cui si raccolgono, si pesano e si prezzano i prodotti venduti sfusi come frutta, verdura o affettati devono essere di plastica biodegradabile, devono essere monouso, devono essere a pagamento a differenza che in gran parte degli altri Paesi europei. Il provvedimento avrebbe una duplice vocazione: quella pedagogica, per stimolare i consumatori a comportamenti più sostenibili, e quella di dare sostegno alle imprese italiane del settore, penalizzate dalla massiccia importazione di shopper da partner europei come Francia e Spagna. E ad una in particolare, ma si tratta certamente di una malignità, che agisce in regime di monopolio, Novamont, e che fa riferimento a un soggetto ben identificato che gravita con entusiasmo intorno alla cerchia renziana, in veste di testimonial e sponsor. Ora non c’è da avere dubbi che la decisione di far pagare ai consumatori i sacchetti biodegradabili per la spesa, compresi perfino quelli delle farmacie, nasca da un intento esplicitamente speculativo, altrimenti sarebbe la prima volta che un governo dei tanti che si sono avvicendati non assecondi e appaghi gli avidi appetiti di lobby e imprese a cominciare da eccellenti norcini fornitori delle real case. E dovremmo esserci abituati. Ma non si è mai abbastanza assuefatti alla ipocrita speculazione morale che ben i colloca nel contesto della necessaria e doverosa ubbidienza ai diktat europei, pera poco sentiti nel caso di tortura, norme antiriciclaggio e corruzione, traffico di rifiuti anche a mezzo navi. È che la pretesa e la rivendicazione di tenaci convinzioni ecologiche da parte del partito unico suona davvero come un’offesa per chiunque si senta in bilico su una fragile palla appesa e pericolate, e in un paese assoggettato all’impero delle puzze e dei gas in guerra con popoli e col pianeta che li ospita, con governi che hanno licenziato leggi in favore di condoni infausti per il territorio, che hanno bloccato da anni qualsiasi seria misura per il contenimenti del consumo di suolo, che scelgono ostinatamente di investire in grandi e pesanti opere invece di mobilitare risorse per la salvaguardia e il risanamento idrogeologico e per gli interventi antisismici, che autorizzano le maledette trivelle. Che concedono licenze premio per lo sfruttamento delle spiagge con annesse costruzioni mai abbastanza effimere, manomettono le regole nazionali e europee con l’infame Decreto legislativo 104, che rende la valutazione di impatto ambiente un affare contrattato tra imprese e governo. Coi sindaci del Pd in prima fila nella cura del ferro perfino sotto le piazze di Firenze e le regioni che come in Sardegna approvano il maxi aumento di volume per hotel e lottizzazioni sul mare, a imitazione del piano casa di Berlusconi. Perfino in questo caso l’ambientalismo di governo si mostra per quello che è. Una montatura retorica a copertura di opachi interessi privati: in barba ai capisaldi ecologici del riuso e del riciclaggio, i sacchetti sono monouso e – se resistono – possono essere usati unicamente per la raccolta domestica dell’umido con gli esiti che qualsiasi regine dalla casa conosce. Ci si accontenta di poco. Gli shopper dovranno essere biodegradabili e compostabili secondo le norme UNI EN 13432 con un contenuto di materia prima rinnovabile di solo il 40%, che diventerà del 50% dal 2020 e del 60% dal 2021, (proprio quella dei sacchetti Novamont?). Sicché viene meno gran parte dell’obiettivo ambientale: la loro vita è lunghissima e pure questi come quelli dell’ancien règime ce li ritroveremo sull’Everest o a soffocare gli atolli tra qualche secolo, ammesso che la terra e noi resistiamo a certi ambientalismi. Un gran numero di anime belle è molto attivo sul web, chi per raccontarci delle sue abitudini virtuose grazie a acquisti equi nel mercatino solidale, chi con la sporta di rete nel biologico a km zero e perfino chi con l’orticello sul terrazzo dell’attico. Poi ci sono quelli che insorgono: vi siete bevuti tutte le baggianate e avete subito tutti gli affronti inferti a lavoro, scuola, pensioni, cure e diritti e adesso improvvisamente vi svegliate per un furtarello che vi costerà 7 euro l’anno? Sarò pure un’arcaica anarchica arruffona, ma in mancanza d’altro vedo come un segnale positivo anche i fermenti per il pane e l’assalto ai forni, considero un risveglio modesto ma non trascurabile quello di gente che dopo essere stata convertita in merce da essere comprata e venduta, con l’unico superstite diritto, quello di consumare, non ha più i beni per esercitarlo e magari si ricorda degli altri perduti, espropriati. E si arrabbia.
Sacchetti frutta biodegradabili, il paradosso della balena. Piangiamo se muore, non spendiamo per salvarla. Siamo pronti a tutto per costringere la Cina a inquinare di meno, ma quando tocca a noi le cose cambiano. La soluzione è un patto tra ambientalismo e modernità, scrive Antonio Pascale il 3 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". L’ambientalismo esiste perché c’è benessere. O meglio esiste laddove è arrivata la modernità. Ambientalismo e modernità non dovrebbero quindi essere nemici, sono gemelli, due facce della stessa medaglia. Entrambi si preoccupano di introdurre buone pratiche per risolvere alcune questioni molto seccanti. La fame, la malattia, la carestia sono tra queste e se per esempio ora avevamo lo stomaco vuoto di certo non avremmo dato credito né alle battaglie né al buon senso ecologista. Il diciannovesimo secolo è stato meraviglioso, ripete spesso Robert Fogel. Come meraviglioso? Due guerre e un olocausto. Si, vero ma siamo riusciti e con poche innovazioni a sconfiggere la fame la malattia e le carestie. Dunque, con un corpo meglio nutrito e con buone pratiche igieniche abbiamo raddoppiato l’aspettativa di vita e triplicato la popolazione (nei primi anni del Novecento eravamo due miliardi), abbassato in gran parte del mondo e quasi a zero la mortalità infantile. Si segnalano poi incoraggianti progressi per la mortalità delle donne per parto (in discesa) e per l’alfabetizzazione femminile (in alcuni Paesi africani è il doppio di quella maschile). Se non è progresso questo allora tocca metterci d’accordo sulla parola. Il benessere ha dato spazio all’ecologismo, se hai fame bruci le foreste per coltivare, se sei molto povero, se troppo ricattato dalle contingenze per permetterti uno sguardo lungimirante. Quindi vista la fratellanza è un peccato che spesso l’atteggiamento ecologista sembri (culturalmente) fondato sui bei tempi andati, oppure, nei casi estremi, esprima una sorta di disgusto per l’uomo: l’uomo è corrotto e la sua impronta ecologica ci distruggerà (che poi forse distruggerà la specie umana ma non la natura nel suo complesso). Da questo atteggiamento derivano alcune fisime, calcoli ad libitum su quanto inquiniamo e su quale pratiche adottare per salvaguardare il nostro habitat. E toccherà prima o poi ammetterlo, spesso l’atteggiamento ecologista è normativo sì ma con il nostro vicino. Quando tocca a noi le cose cambiano. Voglio dire, spinti come siamo dal furore vogliamo risolvere tutto è subito, purificare ogni luogo senza tenere a mente la complessità geopolitica e altri e importanti fattori. Cosi andiamo in Cina per annunciatore agli inquinatori l’aumento di 0,8 gradi della temperatura globale, spingiamo per norme e limiti e ci sentiamo rispondere: d’accordo ma l’avete fatto voi. Vi perdoniamo perché non lo sapevate ma ora dateci la possibilità di raggiungere il benessere così che possiamo impegnarci nelle pratiche ambientaliste. Ambientalismo e modernità sono nati insieme e insieme dovrebbero affrontare le sfide. Invece notiamo sempre più spesso che il benessere ci isola dal mondo e l’ambientalismo pure. Va di moda o rischia di diventare di tendenza un atteggiamento schizofrenico. Piangiamo per varie ed esotiche specie di animali o per le balene vittime della plastica ma ci facciamo afferrare per pazzi qualora ci accorgiamo che il sacchetto bio costa (nemmeno tanto). Salviamo il mondo, la nostra specie o il nostro portafoglio? Ecologismo e modernità devono siglare un patto. Un mondo più pulito (è un mondo più pulito è di fondamentale importanza) necessità di innovazione e ricerca. Il fatto è che entrambe non solo costano ma richiedono collaborazione su vasta scala. La mole di problemi da affrontare è enorme e profonda è la specificità degli stessi, dunque un solo uomo al comando trionfo di buoni propositi pubblicitari non serve allo scopo. Come non serve un ecologismo sempre contro o che si affida a strumenti poco efficaci. Siamo 7, 4 miliardi e presto arriveranno un miliardo di africani e un miliardo di asiatici. Cambierà tutto, e se andrà meglio o peggio dipenderà da noi ma meglio saperlo subito: un nuovo mondo possibile sì certo ma costa.
Eco-tasse. E siamo sempre più poveri e meno liberi, scrive Nicola Porro, Il Giornale 31 dicembre 2017. Siamo arrivati alla tassa sul sacchetto di plastica. Più che al ridicolo, di cui i nostri governanti si rendono poco conto, siamo scesi nell’inferno della schiavitù economica. Un tempo, ahinoi molto lontano, le imposte venivano intese come un corrispettivo per alcuni servizi che lo Stato forniva. La tutela dei più deboli era uno di questi. Era l’imposta di Luigi Einaudi, ma anche del nostro Francesco Forte. Poi è arrivata la tassazione punitiva: togliere ad alcuni per dare ad altri. Il mito della giustizia sociale e della redistribuzione. Un’imposta del tutto velleitaria e fallimentare: le tasse sono altissime, così come il numero dei poveri. Si è arricchito solo l’intermediario, cioè lo Stato. Non funzionando più l’inganno della redistribuzione, si persegue oggi il fine «etico» dell’imposta. Il consumo viene tassato non per fare cassa (che è il vero motivo), ma per il nostro bene, per il futuro green del pianeta. La grande, mostruosa, prova si è avuta con gli incentivi alle energie rinnovabili: sedici miliardi di euro che passano ogni anno dalle tasche delle famiglie italiane a pochi soggetti incentivati. In termini spiccioli su 500 euro di bolletta elettrica annua per una famiglia tipo italiana, la bellezza di 139 euro sono rappresentati da oneri per la cosiddetta sostenibilità. Cerchiamo di essere più chiari: senza pannelli e pale eoliche, oggi gli italiani sopporterebbero una spesa annuale per l’elettricità di 360 euro invece che 500. Si tratta di una tassa occulta che porgiamo, senza accorgercene, sull’altare di un mondo green. Il prossimo passo, non così lontano, sarà di bastonare fiscalmente gli alimenti che il Soviet statale stabilirà dannosi per la nostra salute. L’ipocrisia non vale solo per l’ambiente e la salute. Abbiamo introdotto, praticamente unici in Europa, la Tobin tax. Con l’idea che le speculazioni finanziarie, Soros, Paperon de’ Paperoni e Gordon Gekko, siano dei cattivoni. Il risultato è che le Finanze di Roma hanno incassato un quinto del previsto, ma in compenso abbiamo ucciso i nostri intermediari finanziari e Londra e Francoforte hanno disintermediato l’Italia, facendo affari dove la tassazione sulle speculazioni non ci sono. La morale è che i nostri ricavi (stipendi, redditi da lavoro autonomo) restano stabili mentre le nostre spese legate alla partecipazione alla comunità statale crescono, con il risultato di renderci tutti più poveri e meno liberi. Ieri era per liberare i più poveri dal disagio, oggi per consegnare un pianeta più pulito ai nostri figli. Balle.
Ancora tasse. Lo Stato ci spreme come gli agrumi, scrive Michel Dessi, il 30 dicembre 20127 su "Il Giornale".
Ora ci fanno pagare anche i sacchetti per la frutta e la verdura. Si, avete capito bene, proprio quelli che utilizziamo per le mele, le banane, i carciofi, le cipolle, le carote… Quei sacchetti ci verranno addebitati sulla spesa di ogni giorno. Incredibile, ma vero. Dal primo gennaio tutto cambia e nulla cambia: le tasse aumenteranno e i poveri rimarranno poveri. D’altronde, cosa potevamo aspettarci da questo governo appena sciolto se non la fregatura? In Italia troppe cose non vanno per il verso giusto. Troppi cittadini Italiani sono stati abbandonati. Rita ne è un esempio, è costretta a vivere con una misera pensione di 260 euro. DUECENTOSESSANTA, l’unica sua entrata. Rita è affetta da mille patologie, eppure è costretta a marcire nella sua povera casa popolare. Dimenticata da tutti. Ha provato a chiedere aiuto allo Stato ma, chiaramente, non ha riposto. Non sa più a chi rivolgersi, è disperata. Per lei non esiste il pranzo o la cena, mangia quello che le capita, quello che le viene offerto. Ormai è abituata a razionare il poco cibo che riceve ad intermittenza dalla Caritas parrocchiale: una piccola busta (tassata) con un pacco di pasta, dei pomodori pelati (se le va bene), pane raffermo e qualche pacco di biscotti. La carne? Non la mangia da mesi e il frigorifero resta vuoto. Eppure a nessuno interessa, neanche al sindaco del suo piccolo paese alle pendici dell’Aspromonte, Cittanova. Come lei tanti altri, anche troppi. La povertà aumenta sempre di più e loro cosa pensano di fare? Aumentare le tasse. Bollette, pedaggi, trasporti, Rc Auto… Tutto questo nonostante i servizi non funzionino. Ne è un esempio la Messina – Palermo, la mulattiera delle autostrade. Il pedaggio costa dieci euro e dieci centesimi. Un po’ troppo per un’autostrada dissestata, piena di buche e trappole mortali. Quando piove si trasforma in un torrente in piena e il rischio per gli automobilisti è sempre dietro la curva. Ma come si può chiedere così tanto ai cittadini? Con quale barbaro coraggio? Non riesco a darmi una risposta. Lo stesso vale per i trasporti, soprattutto al Sud. Qui potremmo prendere come esempio la Calabria. I treni, quando va bene, sono quasi sempre in ritardo. Lo Stato ci spreme proprio come gli agrumi che mettiamo ogni giorno nel sacchetto.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un
bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte.
Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un
minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si
depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come
abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su
una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%).
Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono
disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore
inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che:
"Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano
sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John
Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in
questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
PARLIAMO DI TERREMOTI.
TERREMOTO E STORIA. I terremoti più gravi in Italia, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 25 agosto 2016. Dal terremoto di Messina e Reggio, fino a quello dell’Emilia del 2012, passando per il sisma che ha distrutto l’Aquila nel 2009, ecco gli eventi sismici più gravi avvenuti in Italia a partire dal 1908.
- 28 dicembre 1908: un terremoto di magnitudo 7,2 rade al suolo Reggio Calabria e Messina e tutti i villaggi nell’area, causando quasi 100.000 morti. Si tratta della più grave sciagura naturale in Italia per numero di vittime e per intensità sismica.
- 13 gennaio 1915: un sisma di magnitudo 6,8 distrugge Avezzano e tutto il territorio della Marsica. I morti sono circa 30.000.
- 26 aprile 1917: Umbria e Toscana sono colpite da un terremoto di magnitudo 5,8. Distrutte Monterchi, Citerna e Sansepolcro. Danni a tutti i centri urbani dell’alta valle del Tevere. Tra i 30 e 40 i morti.
- 7 settembre 1920: Sisma di magnitudo 6,5 in Garfagnana e Lunigiana, in Toscana, con epicentro a Fivizzano. 300 i morti.
- 23 luglio 1930: terremoto di magnitudo 6,7 in Irpinia, in Campania: 1.425 morti.
- 15 gennaio 1968: Nella Valle del Belice, in Sicilia, vengono rasi al suolo da un terremoto di magnitudo 6,1 Gibellina, Poggioreale, Salaparuta in provincia di Trapani, e Montevago in provincia di Agrigento. Le vittime accertate sono 231.
- 6 febbraio 1971: nel Lazio la cittadina di Tuscania viene semidistrutta da un terremoto di magnitudo 4,5. 31 i morti. - 6 maggio 1976: alle 21,00 un terremoto di magnitudo 6,1 nel Friuli provoca circa 1.000 vittime. La zona più colpita è quella a nord di Udine. Ulteriori scosse l’11 e 15 settembre.
- 19 settembre 1979: un terremoto di magnitudo 5,9 colpisce la Valnerina, provocando gravi danni a Norcia, Cascia e le aree limitrofe, tra Umbria e Marche. Danni a Rieti ma anche a Roma, dove subiscono lesioni il Colosseo, l’Arco di Costantino e la colonna Antonina. Cinque i morti.
- 23 novembre 1980: alle 19,38 l’Irpinia viene sconvolta per 90 secondi da un terremoto di magnitudo 6,5. Colpita un’area di 17 mila km quadrati tra Campania e Basilicata. I morti sono 2.914.
- 7 e 11 maggio 1984: Sisma di magnitudo 5,2 in Molise, Lazio e Campania, con epicentro a San Donato Val di Comino. 7 i morti.
- 13 dicembre 1990: Sisma di magnitudo 5,1 a Santa Lucia nella Sicilia sud-orientale. Gravi danni ad Augusta e Carlentini e nella Val di Noto. 16 le vittime.
- 26 settembre 1997: Un terremoto di magnitudo 5,6, seguito da altre forti scosse nei giorni successivi colpisce di nuovo l'Umbria e le Marche: danneggiate Assisi, Colfiorito, Verchiano, Foligno, Sellano, Nocera Umbra, Camerino. 11 i morti.
- 31 ottobre-2 novembre 2002. Terremoto di magnitudo 5,4 in Molise e Puglia. A San Giuliano di Puglia crollata una scuola dove muoiono 27 bambini. In tutto i morti sono 30.
- 6 aprile 2009: Alle 3,32 L’Aquila e le zone circostanti sono colpite da un sisma di magnitudo 6,3. La scossa principale è seguita da decine di repliche di assestamento. 309 morti e 23 mila edifici distrutti.
- 20 maggio 2012: Alle 4.04 un sisma di magnitudo 5,9 colpisce per venti secondi le province di Modena e Ferrara, provocando la morte di sette persone. La scossa viene avvertita in tutto il Nord e parte del Centro Italia. Il sisma, che era stato preceduto da due forti scosse nel gennaio precedente, si ripete il 29 maggio con una magnitudo 5,8 e il 3 giugno con una nuova forte scossa da 5,1. In tutto sono sette i terremoti con magnitudo superiore a 5 e provocano complessivamente 27 morti e danni ingenti in tutta l’area.
- 24 agosto 2016: È di 297 morti il bilancio del sisma di magnitudo 6 che alle 3,36 della notte ha scosso il centro Italia, devastando una serie di centri tra Lazio, Umbria e Marche. La prima violentissima scossa ha colpito Amatrice, Accumoli (Rieti) e Arquata del Tronto (Ascoli Piceno); una seconda di magnitudo 5.4 è stata registrata alle 4,33 con epicentro tra Norcia (Perugia) e Castelsantangelo sul Nera (Macerata). Le scosse sono state avvertite anche a molti chilometri di distanza, fino a Roma e Napoli. Una devastazione «peggiore di quella dell’Aquila, mai vista una cosa così», è stata la reazione dei soccorritori. Tra le vittime ci sono molti bambini.
Un secolo di terremoti. Da Messina ad Amatrice, scrive Franco Insardà il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. Gli eventi sismici più gravi, che hanno sconvolto il nostro paese dal 1908 al 2016. Paesi distrutti, facce tese, occhi persi nel vuoto e richieste di aiuto. Poi gli appelli, i soccorsi e dopo un po' le polemiche. La storia si ripete drammaticamente a ogni terremoto che, purtroppo, da secoli sconvolge la nostra penisola. Dal Friuli alla Sicilia. Improvvisamente i nomi di piccoli paesini come Gibellina, Montevago, Gemona, Conza della Campania, Lioni, Balvano, Massa Martana, San Giuliano di Puglia, Mirandola, Medolla, diventano drammaticamente famosi e familiari agli italiani e all'estero. Oggi tocca ad Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Passata, poi, la prima onda emotiva si comincia ad analizzare l'intensità della scossa, il luogo dell'epicentro, le zone colpite e poi la pietosa conta dei morti, dei feriti, dei dispersi dei senzatetto. Si fanno i confronti con quello che è successo nelle altre zone, con i finanziamenti stanziati e a che punto è la ricostruzione. E se il terremoto del Friuli, così come quello dell'Umbria e delle Marche, viene ricordato come esempio di efficienza e serietà nell'utilizzo dei fondi per la ricostruzione la stessa cosa non si può dire della Valle del Belice, dell'Irpinia e di San Giuliano di Puglia. Dal 1908 a oggi la lista degli eventi sismici è lunghissima, così come quella dei paesi distrutti e il numero delle vittime è da brividi.
Quel 28 dicembre 1908 una scossa di magnitudo 7,2 della scala Richter fece tremare per 37 secondi l'area dello Stretto di Sicilia. Le scosse e il successivo maremoto rasero al suolo Messina, Reggio e i paesi vicini. Centomila le vittime, 80mila nella sola Messina, su 140mila abitanti.
13 gennaio 1915. Un terremoto di magnitudo 7 sconvolse la valle del Fucino, distruggendo Avezzano e molti paesi della Marsica, del Lazio e della Campania. Il bilancio fu pauroso 32.160 vittime, su circa 120mila residenti. 9000 solo ad Avezzano su una popolazione complessiva di 11mila abitanti.
24 novembre 1918. Furono cento i morti a Giarre, in provincia di Catania.
29 giugno 1919. Colpita l'area del Mugello con una scossa di intensità 6,2. Circa cento le vittime.
7 dicembre 1920. Una scossa di magnitudo 6,5 con epicentro a Fivizzano, provocò danni nell'area della Garfagnana e oltre 300 morti.
23 luglio 1930. Terremoto notturno nella zona del Vulture. Morirono 1404 persone nelle province di Avellino e Potenza.
30 ottobre 1930. Le Marche, e soprattutto Senigallia, furono interessate da una scossa di 5,9 con 18 vittime.
26 settembre 1933. Grazie a una serie di scosse precedenti le popolazione abruzzesi della Majella furono avvertite e la scossa più forte (5,7 della scala Richter) provocò solo 12 morti.
18 ottobre 1936. L'altopiano del Cansiglio tra le province di Belluno, Treviso e Pordenone furono interessate da una scossa di 5,9 con 19 vittime.
13 giugno 1948. La zona interessata fu quella dell'Alta valle del Tevere con una serie di scosse. Morì per fortuna solo una donna.
21 agosto 1962. Una serie di scosse, con epicentro tra Montecalvo e Savignano Irpino di 6,2, fecero 17 vittime, ma ad Ariano Irpino l'80% degli edifici furono danneggiati.
15 gennaio 1968. Gibellina, Salaparuta e l'intera Valle del Belice furono interessati da un terremoto di 6,4 di magnitudo. 370 i morti, un migliaio i feriti e circa 70mila i senza tetto.
6 febbraio 1971. Il centro di Tuscania fu parzialmente distrutto: 31 morti.
6 maggio 1976. Alle 21.06 un terremoto di intensità 6,4 sconvolse il Friuli. Il sisma fu avvertito nell'Italia settentrionale e centrale, in Slovenia e Austria. Le vittime furono 989 e 75mila le case danneggiate. Per la prima volta venne organizzata la Protezione civile e in cinque anni la zona fu ricostruita.
19 settembre 1979. Fu la Val Nerina a essere colpita da una scossa di 5,9 di magnitudo, con epicentro a Norcia. I danni più gravi li subirono gli edifici più antichi. Decine i feriti e cinque i morti.
23 novembre 1980. In Irpinia e in Basilicata si registrò il più grave terremoto dopo la Seconda guerra mondiale. Alle 19,34 una scossa di magnitudo 6,9 di circa 90 secondi provocò 2914 morti, 8848 feriti e 280mila sfollati. Dei 679 comuni delle otto province interessate, 508 furono danneggiate. In 36 comuni della fascia epicentrale circa 20mila alloggi andarono distrutti o divennero irrecuperabili. I soccorsi in alcuni casi arrivarono dopo cinque giorni. Dal 7 aprile 1989. Oscar Luigi Scalfaro guidò la Commissione parlamentare d'inchiesta della ricostruzione.
13 dicembre 1990. Un sisma al largo di Augusta, nel golfo di Noto, colpì la provincia di Siracusa, Catania e Ragusa provocò 12 vittime e altre cinque persone morirono d'infarto nei paesi vicini. Gli abitanti protestarono perché si sentirono abbandonati.
15 ottobre 1996. La provincia di Reggio Emilia fu interessata da una scossa di magnitudo 5,1: due morti e cento feriti.
26 settembre 1997. Il terremoto colpì Umbria e Marche, anticipato da uno sciame sismico, che ebbe inizio il 5 maggio con una scossa di intensità 3,7 e si concluse il 28 giugno 1998. Il 26 settembre una prima scossa fece crollare una casa di due anziani che morirono. La mattina dopo alle 11,40 morirono 9 persone, quattro delle quali sepolte dal crollo delle volte della basilica di San Francesco ad Assisi.
17 luglio 2001 Un sisma di magnitudo 5,2 colpì Merano e interessò la provincia di Bolzano. Due persone furono uccise da una frana e una donna morì d'infarto. Pochi i danni grazie alla solidità degli edifici, molti dei quali in cemento armato.
31 ottobre 2002. San Giuliano di Puglia (Campobasso) rimarrà nella memoria di tutti per il crollo della scuola, dove morirono 27 bambini e una maestra in seguito a una scossa di magnitudo 5,6. In paese ci furono altre due vittime. Sette persone furono indagate e sei, dopo tre gradi di giudici, furono condannate.
6 aprile 2009. Una scossa di intensità 5,8 alle 3.32 provocò vittime e danni a L'Aquila e in molti paesi della provincia. Onna fu quasi rasa al suolo e la Casa dello studente de L'Aquila crollò uccidendo otto ragazzi. In tutto i morti furono 308, i feriti 1600 e 65mila gli sfollati.
29 maggio 2012. La zona compresa fra Mirandola, Medolla e San Felice sul Panaro in Emilia fu interessata da una scossa di magnitudo 5,8. Il 31 maggio 2012 una nuova scossa di magnitudo 4,0 fu colpita la zona della Bassa reggiana e dell'Oltrepò mantovano. I due eventi sismici principali causarono 27 vittime (22 nei crolli, tre per infarto e due per le ferite riportate).
Nel ’900 un terremoto ogni 3 anni. La schiena fragile del Paese. Dal 1315 gli Appennini sono stati scossi da 148 eventi sismici superiori a 5,5 della scala Richter. E dalla prima casa antisismica di Pirro Ligorio (1570) si discute di regole, scrive Gian Antonio Stella il 26 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". «La città è stata cancellata di un soffio dalla superficie terrestre. Non esistono rovine; non esiste che un immenso strato di polvere, da cui sbucano strani, esilissimi, quasi trasparenti spettri di mura. Cancellate le case, cancellate le chiese, cancellate le piazze, cancellate le vie. Avezzano non è che un cimitero su cui mani pietose già incominciano a piantare croci». Era il 16 gennaio del 1915. E Umberto Fracchia, sceso nella notte dal treno che lo aveva portato nella cittadina della Marsica epicentro di un terremoto devastante e così vicina all’Aquila e ad Amatrice, aveva la mano che tremava mentre scriveva il suo reportage per «L’Idea Nazionale»: «Non un palmo di terra fu risparmiato: nessuno riuscì a trovar salvezza nella fuga. Quelli che erano in casa ebbero tetti e mura addosso; quelli che erano per le vie furono schiacciati tra il doppio crollo degli edifici che avevano ai due lati. La città era costruita di fango; è ritornata fango». È passato un secolo, da allora. E gli Appennini non hanno mai smesso di dare spaventosi scossoni. La storica Emanuela Guidoboni, che con Gianluca Valensise e altri studiosi ha raccolto in vari libri come «L’Italia dei disastri, dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013» la memoria storica delle nostre calamità naturali (aggravate da superficialità, incuria, sciatteria amministrativa e legislativa) ha fatto i conti. Da far accapponare la pelle. La fragile spina dorsale del nostro Paese, dal 1315 quando un sisma appena un po’ meno grave di quello del 2009 devastò l’area dell’Aquila, ha fatto segnare (come spiega la mappa elaborata dal ricercatore Umberto Fracassi) 148 terremoti superiori a 5,5 gradi della scala Richter. E quasi tutti superiori all’VIII° grado di «intensità epicentrale». Per capirci: di uno scossone non basta sapere la magnitudo. Occorre anche conoscere la quantità di danni che ha prodotto. Un calcolo complicatissimo che si può riassumere così: con l’ottavo grado di intensità epicentrale crolla o diventa inabitabile il 25% degli edifici, con il nono la metà, con il decimo l’intero patrimonio immobiliare. L’undicesimo è l’apocalisse. Come a Messina nel 1908. In pratica, da quando la scienza ha potuto studiare più approfonditamente le attività sismiche e più ancora da quando sono state conservate precise memorie storiche dei disastri, la catena che, come scrisse Arrigo Benedetti, «si stacca dal colle di Cadibona, arriva in Calabria, si immerge e riaffiora in Sicilia», ha dato 19 pesantissimi strattoni nel 1600, 33 nel 1700, 29 nel 1800, 30 nel 1900 e già sei, con il cataclisma del 23 agosto scorso, in questo primo scorcio del secolo. In pratica, gli Appennini cantati da Dante Alighieri come monti di grande fascino ma impervi («Noi divenimmo intanto a piè del monte; quivi trovammo la roccia sì erta, che indarno vi sarien le gambe pronte») sono stati squassati da improvvisi e terrificanti sussulti, mediamente, una volta ogni tre anni. La catena che scende dal Nord fino all’estremo Sud offre panorami di grandissima bellezza. E prima di Francesco Guccini, che lì «tra i castagni» ha vissuto gli anni più intensi della vita coltivando un amore sconfinato («La mia è una montagna in cui la cima più alta arriva sui 2100 metri, dove non c’è roccia, dove i boschi di castagno e faggio coprono tutto fino a duemila metri») hanno affascinato molti viaggiatori. Come Wolfgang Goethe. «Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato», scrisse nel suo «Viaggio in Italia». Spiegando che «se la struttura di questi monti non fosse troppo scoscesa, troppo elevata sul livello del mare e così stranamente intricata; se avesse potuto permettere al flusso e riflusso di esercitare in epoche remote la loro azione più a lungo, di formare delle pianure più vaste e quindi inondarle, questa sarebbe stata una delle contrade più amene nel più splendido clima, un po’ più elevata che il resto del Paese. Ma così è un bizzarro groviglio di pareti montuose a ridosso l’una dell’altra; spesso non si può nemmeno distinguere in quale direzione scorra l’acqua. Se le valli fossero meglio colmate e le pianure più regolari e più irrigue, si potrebbe paragonare questa regione alla Boemia; con la differenza che qui le montagne hanno un carattere sotto ogni aspetto diverso. (…) I castagni prosperano egregiamente; il frumento è bellissimo e le messi ormai verdeggianti. Lungo le vie sorgono querce sempre verdi dalle foglie minute; e intorno alle chiese e alle cappelle agili cipressi». Montagne stupende, montagne inquiete. Maledette troppe volte, giù per i secoli, dai nonni dei nostri nonni. Costretti a ricostruire ciò che era stato raso al suolo. Eppure già dal 1570, quando Pirro Ligorio presentò la prima casa «antisismica» dopo il terremoto di Ferrara, i governanti più accorti avrebbero dovuto sapere che il rischio andava affrontato con regole precise. Tant’è che nel 1783 la Commissione Accademica napoletana denunciava che la popolazione calabrese, pur «avvezza alle scosse di tremuoti», non capiva che occorreva «pensare ad un modo onde formare le case in guisa che le parti avessero la massima coesione e il minimo peso» mentre «qui si vedeva precisamente il contrario…». Passarono, le borboniche «Normative Pignatelli» che puntavano a mettere ordine nel caos. Ma solo per qualche anno. E quando Pio IX chiese nel 1859 ai suoi ingegneri di predisporre un nuovo piano edilizio per Norcia, prostrata da un sisma, ci fu un braccio di ferro fra le autorità e il Comune. Recalcitrante a rispettare le regole perché vincolavano troppo i proprietari. Si è detto e ridetto anche in questi giorni: occorre una svolta, bisogna adeguare le leggi a una realtà difficile, è necessario intervenire con la prevenzione prima che le catastrofi avvengano… Giusto. Sono passati però 107 anni da quell’aprile 1909 in cui Vittorio Emanuele III firmò il primo decreto con alcune prescrizioni per le aree a rischio sismico o idrogeologico. Vietava di «costruire edifici su terreni paludosi, franosi, o atti a scoscendere, e sul confine fra terreni di natura od andamento diverso, o sopra un suolo a forte pendio, salvo quando si tratti di roccia compatta». Concedeva qualche deroga ma mai a edifici «destinati ad uso di alberghi, scuole, ospedali, caserme, carceri e simili». Ordinava che i lavori dovessero «eseguirsi secondo le migliori regole d’arte, con buoni materiali e con accurata mano d’opera» e proibiva «la muratura a sacco e quella con ciottoli»… Puro buon senso. Eppure un secolo dopo, davanti alle macerie di Pescara del Tronto, Accumoli, Amatrice e le sue contrade, siamo ancora a chiederci: possibile? Possibile che per decenni si siano continuate a costruire case destinate a crollare rovinosamente, magari sotto pesantissimi tetti in cemento armato, al primo dei numerosi terremoti? Il guaio è, spiega Emanuela Guidoboni, che già allora «non furono previste sanzioni. Dal 1909 ebbe sì inizio la classificazione sismica del territorio italiano, ma questa classificazione si faceva solo “dopo”. A disastro avvenuto». Peggio: per decenni «si è proceduto a macchia di leopardo, con vicende alterne e clamorose retromarce. Vari comuni classificati a rischio (come Rimini dopo il terremoto del 1916) chiesero infatti negli anni ‘40 e nel dopoguerra di essere de-classificati. E sapete con che scusa? Far crescere il turismo!» A farla corta: sì, forse sono necessarie nuove regole per contenere i danni di questi Appennini stupendi ma collerici. Più importante ancora, però, è farle poi rispettare. Gian Antonio Stella.
TERREMOTO: CORSI E RICORSI STORICI. I Borbone? 200 anni fa sconfissero i terremoti, scrive il 30/08/2016 Flaminia Camilletti su “Il Giornale”. Sono passati 7 giorni dalla notte tra il 23 e il 24 Agosto, notte in cui la terra ha tremato così forte da far implodere e scomparire due paesi ricchi di storia e tradizioni come Amatrice ed Arquata del Tronto, portandosi via 292 vite umane e una decina di persone scomparse. I danni agli edifici e i morti non sono confinati nei paesi sopracitati, ma si diffondono in tutta la zona di confine tra Umbria, Marche e Lazio, tre regioni diverse e numerosi comuni diversi, sintomo che se qualcosa è andato storto è da ricondurre ad un sistema Italia che in questo momento così com’è, non funziona. Neanche il tempo di levare le macerie e di salutare i propri cari, che già si scoprono decine di casi di mala-gestione edilizia. Addirittura i pm sospettano che i documenti che dichiaravano che le strutture fossero a norma, siano stati falsificati. I casi più noti: la scuola Capranica e l’hotel Roma di Amatrice indicati entrambi come punto di accoglienza del piano di protezione civile, e invece venuti giù. E poi il campanile di Accumoli, come la Torre Civica e la caserma dei carabinieri. Parallelamente alle inchieste, il tema principale del dibattito verte sulla ricostruzione: è possibile rendere antisismici dei centri storici così antichi, senza snaturarne l’identità ed il patrimonio architettonico? Molti esperti e opinionisti rimandano all’esempio certamente virtuoso del Giappone, ma qualcuno, in Italia, rende noto che anche la nostra storia vanta modelli di ingegneria antisismica di livello, messa in atto già due secoli fa. Uno studio condotto dal Cnr-Ivalsa (Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio Nazionale delle Ricerche) di San Michele all’Adige (Trento) in collaborazione con l’Università della Calabria ha dimostrato che le tecniche antisismiche usate 200 anni fa dai Borbone sono ancora attuali e che integrate con tecnologie moderne, potrebbero essere usate per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio esistente. Dopo il terremoto del 1783, che distrusse gran parte della Calabria meridionale e fece circa 30.000 vittime fu emanata una normativa estremamente di avanguardia per l’epoca. L’efficacia di queste disposizioni è stata confermata dalla resistenza che ebbero i palazzi costruiti con queste regole nei terremoti del 1905 e del 1908 che colpirono la Calabria. Il Cnr ha chiarito che gli edifici costruiti con queste regole subirono danni non significativi, con limitate porzioni di muratura collassate e nessun crollo totale. Ulteriore conferma è stata data anche dal test antisismico condotto su una parete del palazzo del Vescovo di Mileto (Vibo Valentia), ricostruita fedelmente in laboratorio. “L’invenzione” è dell’ingegnere La Vega che con abilità di sintesi unisce le più avanzate teorie antisismiche dell’Illuminismo e una diffusa e antica tradizione costruttiva lignea presente in Calabria. Il sistema borbonico è caratterizzato infatti dalla presenza di telai di legno.” “Le tecniche – continua Nicola Ruggieri (l’architetto che ha prodotto lo studio) – si basavano sull’idea che la rete di legno, in caso di scossa, potesse intervenire a sostegno della muratura. Adesso quelle tecniche potrebbero ispirare sistemi antisismici per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio esistente «magari – ha rilevato l’esperto – sostituendo il legno con alluminio e acciaio, per i quali l’industria è più preparata”.
La “casa baraccata”: il primo regolamento antisismico d’Europa è dei Borbone, scrive il 25 agosto 2016 Claudia Ausilio su “Vesuvio on line”. Il territorio italiano e soprattutto quello dei paesi a ridosso della dorsale appenninica sono tra i più esposti al mondo ad attività sismica e da secoli hanno dovuto fare i conti con i terremoti e i danni da esso causati. Pochi sanno che le prime case antisismiche furono fatte costruire dai Borbone che redassero il primo regolamento antisismico d’Europa. Tutto iniziò dopo il 5 febbraio del 1783, una data terribile per la Calabria e per il sud intero. Uno degli eventi più tragici della storia e un terremoto di un magnitudo elevatissimo, tra i più alti che l’Europa abbia mai visto. Le zone colpite furono quelle di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Catanzaro che videro la morte di 30.000 persone. Il governo borbonico subito si mise all’opera per la ricostruzione emanando un regolamento antisismico, il primo della storia. Questo prevedeva la costruzione di una muratura rinforzata da un telaio di elementi lignei “inventata” dall’ingegnere Francesco La Vega, definita poi nel corso dell’Ottocento “casa baraccata”. Questo sistema si basava sugli ultimi studi dell’ingegneria settecentesca e su una tecnica costruttiva antica già in uso in Calabria. Ma l’ingegnere spagnolo come ideò questa tecnica antisismica? In realtà non si trattava di niente di nuovo, ci avevano già pensato gli antichi romani. Agli inizi del XVIII secolo Carlo III di Borbone decise di avviare un’intensa campagna di scavo ad Ercolano e successivamente a Pompei e Stabia. Le attività di recupero e lo studio dei reperti archeologici furono dirette dal 14 marzo 1780 proprio da Francesco La Vega. Durante queste operazioni l’ingegnere ebbe modo di osservare, proprio nelle città vesuviane, il cosiddetto Opus Craticium (opera a graticcio) cioè pareti intelaiate da elementi lignei. Grazie all’impiego di questa soluzione, le costruzioni successive al 1738, tra le quali anche il Palazzo del Vescovo di Mileto (Vv), riuscirono a resistere anche ai terremoti più devastanti, come quelli che colpirono la Calabria nel 1905 e nel 1908 con magnitudo 6.9 e 6 della scala Richter. Così come le abitazioni turche (Hımış) costruite con la tecnica dell’intelaiatura lignea hanno sfidato il sisma del 1999.
TERREMOTO ED IMPREPARAZIONE. Mario Tozzi sul terremoto: "Italia come il Medio Oriente. Una scossa di magnitudo 6 non dovrebbe provocare questi disastri". Intervista di Laura Eduati del 24/08/2016 su "Huffingtonpost.it". "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016. La terra ha nuovamente tremato violentemente devastando i paesi vicini all'epicentro: Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. "Le zone dalla Garfagnana a Messina, e cioè la dorsale appenninica, sono tutte sismiche e appartengono alla stessa regione geologica. L'Italia è un territorio geologicamente giovane e perciò subisce queste scosse strutturali di assestamento. Non stiamo dicendo che i terremoti sono prevedibili", puntualizza Tozzi, "perché sappiamo che è una sciocchezza. Ma stupisce che in una zona sismica non si faccia quasi nulla per impedire che una scossa di magnitudo 6 possa addirittura far crollare un ospedale come è accaduto ad Amatrice". Non esiste alcun alibi, continua il geologo: "Non veniteci a dire che i paesini del centro Italia sono antichi e perciò crollano più facilmente. Gli antichi sapevano costruire bene e basta pensare che a Santo Stefano di Sessanio, vicino l'Aquila, era crollata soltanto la torre perché restaurata con cemento armato, mentre a Cerreto Sannita nel Beneventano quasi tutto era rimasto intatto dopo il terremoto dell'Irpinia: non fu un caso, era stato costruito bene". Dunque "siccome ormai è chiaro che dobbiamo avere a che fare con i terremoti dovremmo costruire e fare una manutenzione antisismica di tutti gli edifici pubblici e privati, i soldi devono essere impiegati in questo modo: è la priorità", sottolinea ancora Tozzi, ricordando che "in Giappone e in California con una scossa simile a quella di Amatrice c'è soltanto un po' di spavento ma non crolla nulla". Mancati investimenti, fatalismo: il terremoto per Tozzi è soltanto una delle cause delle decine di morti di questa notte. "Facciamo sempre i soliti discorsi ma vediamo che non cambia nulla. Siamo il paese europeo con numero record di frane e alluvioni, siamo territorio sismico eppure per chi ci governa quando qualcosa succede è sempre una fatalità: bisognerebbe smetterla di pensare in questo modo e cominciare a ripensare seriamente al territorio".
TERREMOTO E PREVISIONE. Un sacco di scienziati e complottisti sono andati a letto ieri senza sapere di aver previsto il terremoto che ha devastato il Centro Italia questa notte. Oggi, con malcelata soddisfazione, ci comunicano che avevano ragione. Come sempre. Scrive Giovanni Drogo mercoledì 24 agosto 2016 su "Next Quotidiano”. Precisi come degli orologi svizzeri questa mattina sono arrivati quelli che leggono – a posteriori – i dati che indicano chiaramente che la notte passata ci sarebbe stato un forte terremoto. Dal momento che non è possibile prevedere il giorno, l’ora o il momento esatto di una scossa (e la relativa magnitudo) si tratta, nella migliore delle ipotesi, di cattiva informazioni (nella peggiore di mistificazioni pure e semplici). Spiega infatti l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia che non è possibile fornire previsioni precise utili ad avvertire per tempo la popolazione. Modelli teorici imprecisi non danno previsioni precise. Esistono dei segnali, chiamati precursori sismici, che consentono di poter formulare previsioni approssimative riguardo intervalli di tempo, di spazio e di magnitudo entro i quali si può verificare con maggiore probabilità della media un evento sismico. Ma non è detto che poi l’evento si verifichi davvero o che sia dell’intensità “prevista”. Sono state invece compilate delle mappe di pericolosità sismica che indicano quelle aree dove a maggiore rischio (e la zona colpita stanotte è purtroppo una di quelle). Utilizzando queste mappe è possibile adottare misure preventive (ad esempio costruire edifici antisismici o mettendo in sicurezza quelli esistenti) per limitare i danni di un eventuale terremoto. Tutto qui? Purtroppo al momento sì, perché i modelli teorici non consentono di essere più precisi. I terremoti non si prevedono, ma è invece possibile – anzi doveroso tenuto conto della situazione geologica italiana – fare prevenzione. Eppure c’è chi già questa mattina sottolineava come avesse già previsto la scossa. Spiegando di aver individuato una ventina di giorni fa un’anomalia che oggi dimostra come al tempo aveva previsto un terremoto. Ovviamente senza localizzarlo, senza indicare l’orario o la magnitudo. Il che come previsione non risulta essere sufficientemente precisa da poter sostenere di avere in mano una prova chiara del rapporto causa-effetto. Tenendo conto che si sapeva già che la zona colpita risulta essere ad alto rischio sismico non si tratta di previsioni accettabili, soprattutto perché – caso comune a molte altre previsioni – vengono fatte dopo l’evento. Che sulla catena appenninica si possano verificare scosse di questo tipo è cosa quindi nota, quello che manca di sapere (e che fa la differenza) è il momento preciso. E questo purtroppo non è possibile determinarlo in base alle conoscenze scientifiche attuali. Vogliamo parlare di quello “scienziato” che crede che i terremoti siano causati da perturbazioni cosmiche e che la causa vada ricercata nel Sole (la soluzione sarebbe spegnerlo). Un momento, forse potrebbe essere il fracking la causa! Ma ecco che, quando la scienza non ci dà certezze, arrivano direttamente quelli che credono nella magia. La grande fiera della cospirazione e della geoingegneria. Come già accadde in occasione del sisma del 2012 in Emilia Romagna c’è chi crede che sia possibile prevedere un terremoto guardando la conformazione delle nuvole. Si tratta di tecniche degne degli antichi romani? Nulla di tutto questo perché c’è chi ci spiega che le nuvole “orientate” in quel modo non sono naturali ma vengono create grazie a esperimenti sul campo elettromagnetico, del tipo di quelli svolti dal famigerato HAARP. Peccato che Terra Real Time, noto sito di complottisti, indicasse come epicentro del fenomeno la Calabria e non il Centro Italia. Cose che capitano quando si devono tenere sotto controllo le macchinazioni del NWO. Curiosamente sul sito le “onde scalari” che hanno provocato lo “tsunami elettromagnetico” venivano ritenute pericolose soprattutto per i portatori di Pacemaker. Il loro scopo? Modificare il clima. Nessun accenno ai terremoti in questa curiosa previsione. Ma naturalmente il NWO non vuole che si sappia che nemmeno Terra Real Time ha previsto un terremoto. Sarebbe bastato leggere il – breve – testo del comunicato per accorgersene ma dal momento che si parla di tsunami e che il termine è associato ai terremoti, ecco servita la previsione. In mancanza del nostro esperto di fuffa preferito (Rosario Marcianò è momentaneamente assente da Facebook) non ci resta che consolarci con le spiegazioni di Gianni Lannes che sul suo sito evoca scenari militari: C’entra forse qualcosa il programma segreto di aerosolchemioterapia bellica che la NATO – previo indottrinamento degli esperti civili – manda in onda dal 2002, a base di irrorazioni aeree di alluminio e bario che rendono l’aria maggiormente elettronconduttiva, in modo da consentire alle onde elf di colpire le faglie sismiche attive? Scie belliche e sciami sismici: un distruttivo connubio militare. […] I terremoti possono essere provocati anche dall’uomo con vari mezzi e sistemi, soprattutto in aree notoriamente a rischio sismico che spesso mascherano la reale dinamica dell’evento tellurico: esplosioni convenzionali e nucleari, iniezioni elettromagnetiche nella crosta terrestre, riscaldamenti ionosferici, ricerca ed estrazione di idrocarburi. Un terremoto indotto presenta distintamente un ipocentro superficiale.
IL TERREMOTO E L'INFORMAZIONE. Il terremoto e l'informazione: il coraggio del rigore. Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità, scrive Roberto Saviano il 30 agosto 2016 su “La Repubblica”. Ora che abbiamo capito che sul web, insieme alla stragrande maggioranza di normalissimi navigatori, ci sono anche "hater" e "webeti", odiatori e creduloni, possiamo iniziare a fare il nostro lavoro. Possiamo recuperare una regola aurea, poco cinica, quindi se volete poco in linea con i tempi, ma che io credo debba essere il nostro punto di partenza e il nostro fine: avere rispetto per il lettore, per il telespettatore, per il cittadino. E ora che abbiamo tutti riscoperto la correttezza sui social, quella netiquette che sembrava ormai naufragata e irrecuperabile, cerchiamo anche di applicarla dove veramente serve e dove può fare la differenza: la televisione, la carta stampata, i siti di informazione e il nostro modo di conoscere e interpretare il mondo. I social, si sa, mostrano sempre reazioni schizofreniche quando commentano un avvenimento, perché non hanno un'anima sola. Sui social c'è chi la pensa esattamente come me e chi la pensa nel modo opposto. Sui social c'è chi legge e basta e chi non legge e commenta. C'è chi ha un atteggiamento conciliatorio e chi cerca lo scontro. Non è detto che sui social chi è combattivo e alza i toni lo faccia anche nella vita relazionale, come è vero che ciascuno di noi cambia tono, argomenti, comportamento a seconda della situazione in cui si trova, del contesto, degli interlocutori. E i social, con la loro empatia, la loro rabbia, il loro livore, la loro delicatezza e la loro violenza, si sono confrontati con le conseguenze del terremoto. Ma come? Raccogliendo e rilanciando di tutto e di più, com'è nella natura di questa "rete" senza rete: anche tante accuse, offese, notizie non provate. Ma si può dire, forse, che tutto ciò che è venuto prepotentemente fuori sui social dopo il terremoto possa essere letto, quasi fosse una cartina di tornasole, come il conto presentato all'informazione italiana, cioè al modo in cui ha trattato i suoi utenti, oltre che agli utenti stessi, che hanno abdicato alla loro funzione di controllo. Sì, la realtà che il terremoto nel centro Italia ha portato alla luce è amara e tragica, e lo è ancora di più perché dopo la strage dell'Aquila (riesce qualcuno di voi ancora a chiamarlo semplicemente terremoto?) tutti sapevamo quali fossero i rischi, le probabilità che la strage si ripetesse, e nessuno, o quasi, ha fatto nulla. Certo, abbiamo avvertito i nostri lettori, spettatori e navigatori sui rischi della ricostruzione, abbiamo detto che si sarebbe dovuto mettere a norma gli edifici, almeno quelli pubblici, nei territori a rischio. Ma, poi, chi è andato davvero a controllare fino in fondo? Quanti di noi lo hanno fatto? Certo, un terremoto non si può prevedere: ma i danni si possono e si devono arginare, si possono prevedere i suoi effetti. E l'informazione ha avuto una progressione da manuale: il "rispettoso silenzio" - e sacrosanto - la netiquette, mentre ancora si estraevano i corpi dalle macerie, hanno lasciato il posto ai j'accuse soliti, sempre uguali. Alle interviste agli esperti, alle omelie dai pulpiti. E nel momento della caccia alle streghe non c'è nessuno che sappia riconoscere la strega che alberga in se stesso. Ora tutti si affannano a dire che dopo L'Aquila (quindi dal 2009) i soldi c'erano ma che sono stati spesi male. Ma questo lo sapevamo già: lo immaginavamo. E lo sapevamo perché sapevamo che non c'è stato alcun serio controllo, sapevamo che i controllori hanno rapporti con i controllati, e che spesso hanno un tornaconto per cui quindi si chiude un occhio, e a volte due. Domanda: perché è dunque successo tutto questo? Che cosa non ha funzionato? Quali meccanismi sono scattati, o meglio non sono scattati, nel nostro sistema di difesa, che nel nostro caso si chiama anche sistema di informazione? Intanto, le vittime di oggi forse sono anche vittime della crisi, perché solo in pochi hanno ammesso che la messa in sicurezza di Norcia è avvenuta in un'altra epoca. Ma continuando ad analizzare il rapporto tra social e informazione, è evidente che non possiamo affidare la correttezza della seconda ai primi: sarebbe come voler arginare il mare, in mare. È ovvio che in un Paese come l'Italia tutto deve ripartire necessariamente dall'autorevolezza dei media. Ora che abbiamo evidenziato il webetismo ("webete", termine coniato da Enrico Mentana) facciamo dunque un passo avanti, e smettiamo di dare voce (non è censura, non lo è affatto) ai disinformatori di professione, a chi non ha alcun talento se non quello di andare in televisione, fare polemica, alzare quel tanto che basta la curva degli ascolti facendo danni che spesso sono irreparabili. La televisione è un opinion maker importantissimo, imprescindibile nel nostro Paese: si assumano allora le reti pubbliche e private la responsabilità di dare voce a chi parla perché sa, a chi dà informazioni verificate e verificabili. E si smetta di dare credito a chi diffonde leggende metropolitane (Giorgia Meloni che invita alla donazione del jackpot del Superenalotto per ricostruire Amatrice), a chi semina odio (Matteo Salvini sui migranti e i loro falsi soggiorni in hotel a cinque stelle). Mentre seppelliamo i morti di Amatrice, sta per iniziare una nuova stagione televisiva, un nuovo anno per l'informazione e l'intrattenimento. Il mio invito, che è spero anche la pretesa di chi mi legge, si chiama rigore: rigore nell'intrattenimento e rigore nell'informazione. Certo, anche nell'intrattenimento: perché leggerezza e evasione sono cose legittime, ma il rigore e la correttezza devono esserne sempre la cifra. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è quello di chiudere la porta alle leggende metropolitane in tv (vaccini che causano autismo, scie chimiche, Club Bilderberg), a quei discorsi infiniti, a ore e ore di parole che dette con leggerezza fanno danni incalcolabili. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è la richiesta di una informazione che davvero "serva": servizio privato e pubblico vero, orientato a un dibattito pubblico oltre i dettami di questo storytelling forzatamente positivo, da strapaese, e che tollera anche la fandonia, la falsa notizia, quella che fa più scalpore - e magari più click. Se crollano interi paesi, è anche (sottolineo anche: stiamo parlando di un terremoto) perché nonostante i fondi stanziati i lavori non sono stati mai fatti, e non sono stati fatti a dovere, nel silenzio di chi avrebbe dovuto controllare (e raccontare). Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità.
TERREMOTO E SATIRA. «Terremoto all’italiana», è un caso la vignetta di Charlie Hebdo. Nel numero in edicola satira sulla tragedia di Amatrice: lasagne e pasta per illustrare il dolore per le 300 vittime. La rete si indigna: «Io non sono Charlie». L’ambasciata: «Non ci rappresenta». Poi la precisazione: «Italiani, a costruire le vostre case è la mafia», scrive Antonella De Gregorio il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Oggi nessuno «è Charlie Hebdo». La solidarietà dopo gli attentati che hanno colpito il giornale nel gennaio del 2015 si squaglia sui social, lasciando spazio all’indignazione più viscerale. Scatenata dalla vignetta che il settimanale in edicola dedica al terremoto in Italia. Nell’immagine, intitolata «Séisme à l’italienne» («Terremoto all’italiana») le vittime del terremoto che ha sconvolto il nostro Paese vengono paragonate a tre piatti tipici della nostra cultura: «Penne all’arrabbiata», illustrato con un uomo sporco di sangue; «Penne gratinate», con una superstite coperta di polvere; mentre le lasagne sono strati di pasta alternati ai corpi rimasti sotto alle macerie. La vignetta firmata dal vignettista Felix è pubblicata nell’ultima pagina del numero in edicola della rivista satirica, che ha in copertina una vignetta sul burkini: il «sacco di patate che unisce la sinistra». In fondo al giornale, nella pagina tradizionalmente intitolata «le altre possibili copertine», la sciagura in Italia viene affrontata con freddure tipo: «Circa 300 morti in un terremoto in Italia. Ancora non si sa che il sisma abbia gridato “Allah Akbar” prima di colpire». La polemica è esplosa. E a poco sono valse le scuse ufficiali della diplomazia d’Oltralpe. «Il disegno pubblicato da Charlie Hebdo non rappresenta assolutamente la posizione della Francia» si legge in una nota dell’ambasciata francese a Roma, che sottolinea che il terremoto del 24 agosto è «un’immensa tragedia» e rinnova le condoglianze alle autorità e al popolo italiano, al quale «ha offerto il suo aiuto». Su Twitter, tantissimi quelli che giudicano la vignetta «sconvolgente», «indecente», e chiedono rispetto per le vittime. C’è chi pubblica l’immagine a fianco della scritta «Io non sono Charlie». Chi commenta: «Hebdo oggi ha toppato alla grande», e «Cosa ci sia da ridere su questa vignetta poi ce lo spiegate». Ma anche chi difende la scelta («Siamo tutti Charlie finché Charlie non sfotte noi») e commenta: «Se non tocca alla pancia non è satira. È solo un disegno insignificante». Trovando, magari, più scandalosi «le interviste sceme, lo show morboso del dolore andato in scena in questi giorni». Si riapre insomma il dibattito sui confini dell’ironia. Rispetto, cattivo gusto, libertà di esprimersi, censura: ognuno in rete dice la sua. «Le vignette di #CharlieHebdo servono proprio a far indignare chi viene “colpito”. Lo fanno per lavoro, non lo scordiamo», sottolinea un utente di Twitter. Mentre un’interpretazione taccia di «analfabetismo funzionale» tutti coloro che non han capitole intenzioni degli autori della vignetta: «Edifici costruiti con la sabbia (“penne gratinées”) che quando crollano si riducono e ti riducono a strati di lasagna. Ecco i sismi all’italiana - scrive Pasquale Videtta - in cui nemmeno le scuole anti-sismiche sono tali. L’analfabetismo funzionale è quella cosa che ti fa scambiare la vignetta di Charlie Hebdo per una derisione delle vittime del terremoto e non per una denuncia politica e sociale». Spiegazione «esegetica» che sono gli stessi giornalisti della rivista francese a confermare, con un colpo a sorpresa, a poche ore dal polverone mediatico. Nel pomeriggio, dopo la valanga di contestazioni, sulla pagina Facebook ufficiale, Charlie Hebdo pubblica una vignetta «di precisazione» firmata «Coco». Vi compare una persona insanguinata sotto le macerie, come nel disegno contestato, che si rivolge al lettore: «Italiani...non è Charlie Hebdo che costruisce le vostre case, è la mafia!». «È una vignetta in cui non trovo niente da ridere», ha commentato il Commissario per la ricostruzione post terremoto Vasco Errani. «Io sto vivendo questa situazione con la popolazione - ha sottolineato - e sono certo che i cittadini che stanno vivendo questa tragedia non trovino niente da dire e da ridere come me. La vignetta aumenta la sofferenza di queste persone». Sconforto dal sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi: «Ma come si fa a fare della satira sui morti? La satira è satira quando fa ridere e qui mi sembra che non ci sia proprio nulla da ridere, visto che è pieno di morti». Certo Charlie Hebdo non è il primo pensiero del primo cittadino del comune sconvolto dal sisma. E per un po’ Pirozzi si è disinteressato alla questione. Ma poi, davanti ai giornalisti che lo incalzavano, è sbottato: «La satira è una cosa bella, ben venga l’ironia. Ma come si fa... qui c’è soltanto del cattivo gusto». Con lui si esprime anche la politica: «Vignetta lugubre, disumana, indegna, da rispedire al mittente», scrive in una nota la deputata Pd Vanna Iori. Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, sul suo account Facebook liquida la vicenda così: «Non fa ridere, non è sagace, non c’è neppure del “sarcasmo nero”. È solo brutta. Si vede che l’ha fatta un cretino. Mi spiace non siano riusciti più a trovare vignettisti capaci». E Michele Anzaldi (Pd), chiede scuse ufficiali: «Ci aspettiamo che la Francia, a partire dalle sue istituzioni — dichiara — prenda le distanze da una vignetta che rinnova il dolore nelle tante famiglie italiane che hanno subito il grave lutto del terremoto». Scuse che l’ambasciatore francese si è affrettato a trasmettere.
#JeSuis Charlie sempre. Anche se non ci piace. Chi stabilisce i confini della decenza quando si parla di satira? Perché non possiamo gridare alla censura nonostante i contenuti oltraggiosi o che ci paiono una porcheria, scrive Pierluigi Battista il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". #JeSuisCharlie anche se «Charlie Hebdo» pubblica vignette volgari e oltraggiose. Perché la libertà d’espressione è anche diritto alla volgarità. Naturalmente deve esistere una reciprocità di diritti: se la satira vuole vedere riconosciuto quello dell’irriverenza assoluta e offensiva, deve anche riconoscere il diritto altrui a criticare le schifezze che si pubblicano in nome della satira. Se noi volessimo rispettare solo la libertà di ciò che ci aggrada, non ci vorrebbe un grande sforzo. Lo sforzo è riconoscere la libertà di dire e disegnare e rappresentare cose opposte a quelle che pensiamo e che consideriamo giuste, buone, persino sacre. Dicono: ma non si oltrepassino i confini della decenza. Ma chi stabilisce questi confini? La censura è per definizione il campo dell’arbitrio, della discrezionalità, della prepotenza di chi pretende di incarnare il Giusto e il Buono. E allora, dobbiamo accettare passivamente le volgarità sui nostri morti sepolti dal terremoto? Certo che no, nessuna passività. Possiamo dire attivamente che si tratta di una porcheria. Oppure possiamo avvalerci di quell’altra fondamentale libertà che sarebbe da stolti dimenticare, e cioè la libertà di non comprare un vignettificio che non ci piace. Non vuoi «Charlie Hebdo»? Non andare in edicola a comprarlo. Questa è la libertà, a meno che uno non sia costretto a pagare cose che non vuole vedere, come avviene con il canone Rai. Quando c’è la sfida dei fanatici jihadisti che vogliono toglierci ogni libertà, bisogna essere rigorosi nel difendere ogni libertà. Compresa quella che non ci piace. Perciò #JesuisCharlie, anche se stavolta sono stati dei veri farabutti.
Charlie Hebdo, perché li critico. «Non si calpestano così 300 morti», scrive Giannelli il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". La vignetta pubblicata in ultima pagina dal settimanale satirico francese Charlie Hebdoa firma Felix non mi è piaciuta. Mi perdonerà il collega vignettista ma, a mio parere, se pur sia ben consapevole che la satira è trasgressione assoluta, tragedie come quelle del terremoto che ha colpito il Centro Italia è obiettivamente difficile che possano giustificare spunti satirici di questa specie. È trasparente il messaggio che la vignetta vuole dare: una condanna degli italiani spaghettari. Ma per insistere su questo consueto stereotipo, mi sembra sia stato di cattivo gusto calpestare trecento morti. E che la critica non sia altro che una riaffermazione dei consueti stereotipi sul nostro Paese, lo dimostra la seconda vignetta, pubblicata nel pomeriggio sull’account Facebook del settimanale, nella quale il disegnatore Coco Charlie Hebdo ha chiamato in causa la mafia. Niente di nuovo quindi rispetto alla copertina di tanti anni orsono del settimanale tedesco Der Spiegel che raffigurava l’Italia come un piatto di spaghetti con una rivoltella sopra. È vero che una vignetta è solo uno scherzo, una irrisione e trovo quindi sproporzionato e ridicolo che si parli di severa condanna e di giusta indignazione, con l’ambasciata transalpina in Italia a puntualizzare che «non rappresenta assolutamente la posizione della Francia». Ci deve essere però anche libertà di critica perfino nei confronti della satira e da vignettista ammetto che non sempre si possono avere idee felici; è fatale. Nel caso specifico, avrei trovato più giusto che la prima vignetta fosse firmata Infelix.
Satira sul terremoto, Pennac: "Disegno idiota, ma difendo ancora la libertà di Charlie Hebdo". L'intervista. La bocciatura dello scrittore: "Non mi piace chi gioca con la morte degli altri", scrive Francesca De Benedetti su "La Repubblica" il 03 settembre 2016. Una "connerie", uno scivolone in piena regola: così Daniel Pennac, lo scrittore francese, commenta la vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto in Italia. Lui, l'autore della saga dei Malaussène e di altre opere di successo, è abituato a giocare con ogni sfumatura del linguaggio. Ma stavolta per commentare la satira dei suoi connazionali sul sisma non usa mezzi termini, anzi si concede un paio di parole forti. Poi però conclude: "Anche oggi, "Je suis Charlie". Una vignetta idiota non può togliere forza a quel messaggio, che non va messo in discussione".
Pasta e sangue, poi la mafia: è la chiave con cui Charlie "legge" il terremoto in Italia. Cosa ne pensa?
"La vignetta sulle vittime del terremoto è stronzissima e basta. Non è divertente, non fa ridere nessuno se non chi l'ha concepita, quasi non merita il nostro sdegno".
La satira non giustifica il ricorso agli stereotipi e le provocazioni violente?
"Vede, io penso che neppure la satira dovrebbe calpestare una cosa importante: l'empatia. Penso alle vittime delle scosse, penso alle sofferenze di quelle terre, e non posso non concludere che quelle vignette mancano di rispetto a quel dolore, a quelle storie. Non mi piace chi gioca con la morte degli altri. Penso al fatto che proprio oggi avrei dovuto essere in un paesino umbro per un'iniziativa culturale; Castello di Postignano si trova non lontano dai borghi distrutti, la gente è andata via per paura di nuove scosse. Abbiamo sospeso l'evento, perché la prima cosa da mostrare, di fronte a tragedie come questa, è l'umanità, la solidarietà".
Fa bene l'ambasciata di Francia a prendere le distanze dalle vignette? Hanno ragione gli italiani indignati?
"Se lo chiede a me, le dico di sì, perché non gradisco né quella vignetta né in generale un certo humour sulla morte. Va detto che con Charlie tutto ciò non è una novità. Non è una novità un certo stile, che già altre volte mi ha suscitato una sensazione di disagio, anche se non detesto il giornale in sé e non amo le condanne definitive".
Qualcuno è arrivato a dire: "Je ne suis pas Charlie", "Non sto più con Charlie".
"L'espressione "Je suis Charlie" è diventata il simbolo dell'opposizione radicale e senza mezzi termini all'assassinio di giornalisti e disegnatori. Una vignetta, per quanto idiota, non giustifica affatto la messa in discussione di questo principio. Con la stessa chiarezza con cui dico che quel disegno non mi piace, sono pronto anche ad affermare senza mezzi termini: "Io resto Charlie". A ognuno le sue responsabilità morali: chi offende i morti ha le sue, e noi abbiamo le nostre. È nostro dovere ribadire ogni giorno che nulla autorizza l'uccisione di chi fa satira e che niente può giustificare un massacro come quello dei giornalisti e disegnatori di Charlie. Non possiamo esserne complici: ecco perché io - anche oggi - sono Charlie".
La vignetta di Charlie Hebdo non mi piace, ma difendo la libertà di espressione. Siamo una civiltà superiore. Nessuno ucciderà chi sta dietro a quel disegno, scrive Camillo Langone, Sabato 03/09/2016, su "Il Giornale". Quelli di Charlie Hebdo vogliono proprio mettere alla prova il famoso detto di Voltaire: «Non sono d'accordo con quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo». L'affermazione del filosofo suona un po' troppo roboante (e infatti pare che il testo originale, prima di diventare una formula, fosse più trattenuto), però il concetto non può non essere condiviso da chiunque ami la libertà. Io per Charlie Hebdo non sono disposto a morire, è inutile che faccia il gradasso, ma a correre qualche piccolo rischio sì. Quando nel gennaio dell'anno scorso la redazione del settimanale satirico francese venne sterminata dai coranisti a colpi di fucile mitragliatore AK-47 scrissi che i caduti andavano considerati martiri della libertà di espressione. Ne sono ancora convinto. E proprio perché ieri ho preso le parti dei vignettisti contro gli islamisti e gli islamofili oggi posso tranquillamente dirmi in disaccordo con le vignette sul terremoto di Amatrice e di Arquata. Ammetto di essere poco spiritoso e sarà per questo che poco ho apprezzato la vignetta intitolata «Sisma all'italiana» apparsa sul settimanale: a sinistra un uomo insanguinato sotto la scritta «Penne al pomodoro», al centro una signora bruciacchiata o impolverata o chissà (nella mia vita ho visto vignette disegnate meglio) sotto la scritta «Penne gratinate», e infine, a destra, quattro morti schiacciati fra strati di macerie e dunque posti sotto la scritta «Lasagne». Qualcuno ha riso? De gustibus. Non che il dettaglio abbia soverchia importanza, ma la grossolanità satirica stavolta si abbina alla grossolanità gastronomica: non ci vuole una laurea all'università Slow Food di Pollenzo per sapere che Amatrice con le penne c'entra poco e con le lasagne nulla e che il famoso sugo che dal paese appenninico prende il nome condisce di norma i bucatini. Meglio dirlo piano, non vorrei offrire spunti a uno dei loro vignettisti senza scrupoli, settimana prossima non vorrei vedere stampato un piatto di bucatini con un macabro ragù a base di terremotati macinati, e poi magari ritrovarmi qui a discettare sul fatto che il sugo all'amatriciana non è propriamente un ragù. Me la vorrei risparmiare una simile disquisizione e mi sarei voluto risparmiare anche la presente su penne e lasagne non filologiche, non tipiche, eppure qualcosa di buono da questo sgradevole episodio vorrei ricavarlo. Ex malo bonum, dicevano gli antichi. Dall'ultima vignettaccia di Charlie Hebdo traggo la dimostrazione della nostra appartenenza a una civiltà superiore perché nessun terremotato italiano entrerà nella redazione parigina sparando all'impazzata e gridando «Amatrice è grande». Ci sono state e ci saranno reazioni critiche, e ci mancherebbe, ci sono state e ci saranno manifestazioni di sdegno, legittime pure queste, ancor più se provenienti da persone che nella tragedia hanno perso famigliari, amici, case. Ma niente di più. Gli italiani sono dunque un popolo voltairiano? Non voglio esagerare, non li direi così filosofici, ma senz'altro non sono capaci di meditare vendette collettive (durante la Seconda guerra mondiale vennero invasi dai tedeschi e bombardati dagli americani, eppure nel Bel Paese i turisti provenienti dalla Germania e dagli Usa sono sempre stati accolti benissimo). Semplicemente, stavolta, non sono Charlie.
Ma la vignetta non è piaciuta neppure a un maestro della satira come Sergio Staino che, in un’intervista all’Ansa, ha commentato: “Penso che sia una vignetta in linea con la storia di Charlie Hebdo. Non è la prima volta che, per una scelta provocatoria, decidono di andare contro tutto e tutti in momenti di grande dolore”. Per Staino il giornale “ha voluto legare il vecchio stereotipo del paese dei maccheroni alla tragedia, ma il risultato è di basso livello. Neanche un ubriaco o il pazzo di quartiere farebbe una cosa simile, che senso ha? Prendo le distanze da un intervento creativo che non ha alcun senso, almeno per come intendo io la satira”.
Mentana definitivo sulla vignetta-vergogna: "Basta dire che...". Così chiude la bocca a tutti, scrive “Libero Quotidiano" il 2 settembre 2016. La satira piace a tutti, almeno finché non si è il soggetto preso di mira. Eppure sembra ieri che mezzo mondo occidentale agitava la scritta #Jesuischarlie, poco dopo gli attentati islamici del gennaio 2015 contro la rivista satirica francese. Stavolta quella stessa rivista ha colpito gli italiani, in particolare le vittime del terremoto in centro Italia raffigurati come una lasagna fatta di corpi e macerie. Contro l'indignazione ad orologeria di tanti che sul web hanno insultato i vignettisti francesi si è scagliato Enrico Mentana che sulla sua pagina Facebook ha scritto: "Scusate, ma Charlie Hebdo è questo! Quando dicevate 'Je suis Charlie' solidarizzavate con chi ha sempre fatto simili vignette, dissacrando tutto e tutti. Le vignette su Maometto anzi facevano alla gran parte degli islamici lo stesso effetto che ha suscitato in tutti noi questa sul terremoto. Fu Wolinski, una delle vittime dell'attacco terrorista del gennaio 2015, a far capire ai colleghi italiani quarant'anni fa che la satira poteva essere brutta sporca e cattiva. Vogliamo rompere le relazioni con la Francia dopo aver marciato in loro difesa? Basta più laicamente dire che una vignetta ci fa schifo".
La reazione. Libero Quotidiano del 3 settembre 2016: "Ci viene voglia di sparargli. Il Tempo pubblica un disegno. La vignetta satirica che sfotte i morti del terremoto del Centro Italia pubblicata dal settimanale satirico Charlie Hebdo ha sollevato moltissime polemiche e reazioni. Libero in edicola oggi lancia una provocazione: "Viene voglia anche a noi di sparargli" titola in prima pagina sopra la foto con la disgustosa vignetta. Il Tempo, pubblica a sua volta una vignetta che fa riferimento alle tante vittime del terrorismo che titola "Tartare à la parisienne". Due titoli forti per rispondere a una vignetta che definire di cattivo gusto è davvero poco.
Charlie Hebdo e la satira senza limiti. Eccessi e pessimo gusto come regola. Il settimanale satirico francese ha origine come foglio libertario negli anni Settanta. Da rivista di nicchia, dopo l’attentato del gennaio 2015 è diventata nota globalmente, scrive Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi, il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Charlie Hebdo» torna a fare parlare di sé anche fuori dalla Francia, come spesso gli accade dopo la notorietà planetaria acquistata suo malgrado con i 12 morti del 7 gennaio 2015. Stavolta l’indignazione riguarda una vignetta sul terremoto in Italia, pubblicata a pagina 16, l’ultima, dedicata come sempre alle «copertine alle quali siete sfuggiti», cioè ai disegni che sono stati valutati per la prima pagina ma poi scartati. Nell’ultimo numero, la caricatura principale è dedicata al giornalista Edwy Plenel, alla ministra Najat Vallaud Belkacem e all’ecologista Cécile Duflot a braccetto sulla spiaggia sotto la scritta «Burkini - il sacco da patate che unisce la sinistra». Il titolo è «Sisma all’italiana», sotto ci sono tre versioni macabro-culinarie degli effetti del terremoto: penne al pomodoro, penne gratinate e lasagne, giocando su sangue/salsa. La vignetta ha provocato reazioni indignate su Twitter, molti hanno fatto sapere di «non essere più Charlie», ricordando l’ondata di emozione e solidarietà che avvolse la redazione dopo l’attentato, quando milioni di persone proclamavano lo slogan «Je Suis Charlie». La derisione verso tutto e tutti, anche le tragedie, è sempre stata una caratteristica di Charlie Hebdo. Accanto alla vignetta sul terremoto, ce n’è una sui migranti a Calais che ormai hanno superato quota 10 mila: una lunghissima fila di persone davanti alla toilette, la scritta «le forze dell’ordine sono travolte» e tre mosche che dicono «anche noi!». Poi, due vignette sul surfista attaccato dagli squali alla Reunion. All’interno, a pagina 2, un grande disegno sul rientro a scuola, con un esibizionista che apre l’impermeabile davanti ai bambini e un agente della sicurezza che controlla lo zaino di un allievo: «droga, cianuro, siringhe, alcol… niente cintura di esplosivo, potete andare». Lo scorso gennaio, il direttore Riss (che ha preso il posto di Charb rimasto ucciso nell’attentato) ha disegnato la figura riversa sulla sabbia di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni morto a Bodrum, in Turchia, mentre cercava con il padre e il fratello di raggiungere l’Europa. «Che cosa sarebbe diventato il piccolo Aylan se fosse cresciuto?» si chiede il vignettista. La risposta: «Un palpatore di sederi in Germania». Il riferimento è ai fatti del 31 dicembre di Colonia, dove decine di donne sono state molestate da gruppi di stranieri. La zia Tima Kurdi, che vive in Canada, protestò: «Speravo che le persone rispettassero il nostro dolore. È stata una grande perdita per noi. Cerchiamo di dimenticare e di guardare avanti. Ma ferirci un’altra volta è ingiusto». Pochi mesi prima, a settembre 2015, il giornale aveva pubblicato altre due vignette su Aylan. Non si contano i disegni su preti, suore, islamici, atei, omosessuali, eterosessuali, politici, celebrità varie, persone comuni. Charlie Hebdo non si è mai posto limiti. A settembre 2015 Luz, altro sopravvissuto del massacro del 7 gennaio, aveva preso le difese di Riss con una specie di editoriale a fumetti intitolato «il disegno satirico spiegato agli idioti»: «Fai parte dei milioni di “nuovi lettori” che hanno scoperto Charlie e il suo umorismo dopo gli attentati di gennaio. Non avremmo mai immaginato che ti saresti interessato al nostro lavoro». In effetti, Charlie Hebdo non è un pensoso, pacato e autorevole settimanale di approfondimento dal quale pretendere senso di responsabilità o eleganza, ma un foglio libertario fondato negli anni Settanta, che ha fatto dell’eccesso e del pessimo gusto uno dei suoi tratti costanti. Per questo aveva un pubblico di nicchia ma è diventato suo malgrado – c’è voluto l’attentato islamista - una testata nota in tutto il mondo, scrutata e commentata da lettori e osservatori che prima mai si sarebbero sognati di andare in edicola a comprarne una copia. Lo slogan «Je Suis Charlie» non ha mai voluto dire adesione incondizionata all’umorismo surreale di Charlie Hebdo, ma una scelta di campo dalla parte della libertà di espressione e contro i terroristi. Liberi i disegnatori di Charlie Hebdo di dissacrare tutto e tutti, liberi i lettori di non amare le loro vignette e non comprare il giornale.
Ma quale satira? Questa è merda! Scrive Emanuele Ricucci su “Il Giornale” il 2 settembre 2016. Adesso: quanti di voi sono Charlie? Quanti di voi si sentono Charlie? Neanche il dramma colpisce la redazione della testata francese di satira. Non la ferma, non la frena, in un vomitoso impeto infantile, frutto di una comunicazione adolescente, pretenziosa, mai cresciuta, impulsiva. Così, dopo essersi chiesti se il terremoto, prima di colpire “abbia urlato Allau Akbar”, ecco comparire nell’edizione del 31 agosto di Charlie Hebdo, nella sezione “Le altre possibili copertine”, la vignetta, “sisma all’italiana”: un ferito insanguinato con la didascalia “Penne al pomodoro”, un’altra con quella “Penne gratinate”, i corpi sepolti con la scritta “Lasagne”, così come riporta, fra gli altri, Il Messaggero. Ah, che belle risate. E che riflessione arguta. Ma quale satira? Questa è merda. Pura, purissima merda chic, partorita dalla mente del democraticissimo progresso secondo cui non ci sono vincoli, nella comunicazione, né tabù e la moralità, il buon senso, il buon gusto, ci stanno stretti, come antichi orpelli ormai in disuso. Cosa voleva comunicare Charlie Hebdo? Forse voleva solo incarnare il motto di un altro paladino delle Belle Menti, Dario Fò, un proletario col culo degli altri: “Prima regola: nella satira non ci sono regole”, fintanto che, ovviamente, non colpisce gli agitatori del politicamente corretto. Cosa è satira nel grande mondo liberale e libertino, poco libero? E cos’è oltraggio? Ma non è con i francesi che dobbiamo prendercela – vicini, solidali: amico mio, connazionale, prova ora a sentirti un pochino CHARLIE HEBDO, se ne hai il coraggio. Nota di servizio: Ah, scusate. Date ragione a Charlie, andateci un pochino forzatamente contro corrente. Giusto un po’ coattamente come il giocatore di flipper di Carlo Verdone in Troppo forte; in fondo noi, poveri, non abbiamo colto la sottigliezza alla base della vignetta di Charlie Hebdo, di come le vittime siano cibo per speculatori e un sisma sia appetitoso, oppure di come c’abbiano sparato la verità in faccia sulle case fatte di merda (e dalla mafia), con la sabbia di mare anziché con i ciottoli di fiume, nella seconda vignetta. La moralina d’oltralpe, esposta anche male, male, è un po’ troppo. Scusate la nostra pressappochezza nazionalista nel vedere una mano troppo pesante irridere con troppa facilità chi stava dormendo ed è morto sfracellato, perdonate il nostro sdegno nel vedere cotanta filosofia espressa in tratti di matita. Lasciateci essere dei vermiciattoli (o dei giornalai imperfetti) della non comprensione e siate Charlie, siate un po’ quel che caspita vi pare. A chi verrebbe in mente di irridere i migranti che si abbandonano alle acque del Mediterraneo? Mi perdoneranno gli intellettuali, mi perdonerà chi si è rotto la favetta della polemica o chi glissa elegantemente: et voilà. Perdoneranno l’impeto del povero umile.
I fantasmi del politically correct, scrive Luigi Iannone il 3 settembre 2016 su “Il Giornale”. Alcune anticipazioni de L’ubbidiente democratico, il mio nuovo libro in uscita il 12 settembre. << (…) incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze. Da parte loro c’è un’ossessione continua perché, in genere, il politicamente corretto si compone di fantasmi che si agitano al solo proferire delle ovvietà: provate, provate a dire che Cécile Kyenge è stata fatta ministro per il colore della sua pelle; che le quote rosa (e, in subordine, le donne capolista) sono una stupidaggine, oltre che una forma di razzismo al contrario; che al Ministero delle Pari opportunità ci va sempre una donna per fare la foglia di fico; che Rosario Crocetta fece una campagna elettorale costruita anche sul fatto che in una terra ‘arcaica’ come la Sicilia si presentava a Governatore un omosessuale, mentre delle proposte programmatiche si sapeva poco o nulla; provate a dire che i milioni gettati via per liberare ostaggi italiani in Paesi a rischio potrebbero servire per il nostro welfare e coloro i quali (o le quali) girano in zone di guerra come novelli San Francesco e pudiche Santa Chiara, potrebbero qualche volta passare anche dalle mie parti, nella zona bassa dello Stivale. Troverebbero in tante zone del Sud gli stessi problemi e tanto, ma proprio tanto, da fare per poveri e diseredati. Provate a dire io non sono Charlie Hebdo, perché per quanto rispetti la satira e mi risultino ripugnanti le azioni terroristiche e bestiali le loro idee, faccio fatica ad essere blasfemo contro qualunque Dio. Provate a dire queste e tante altre banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti. Ma provate a dirle voi. A me manca il coraggio e non le dirò>>.
E se la satira è nostrana?
“Scusate, avevo solo chiesto una amatriciana”, dice una figura nera con la falce in mano, ovvero la morte. Questo recita la vignetta in prima pagina, oggi, venerdì 26 agosto, su Il Fatto Quotidiano. Il vignettista Mario Natangelo cerca così di ironizzare sulla tragedia del terremoto di Amatrice, nel centro Italia. Sinceramente non se ne vedeva la necessità.
La morte e l'amatriciana: la vignetta che Travaglio doveva evitare, scrive il 25 agosto 2016 “Libero Quotidiano”. "Scusate, avevo solo chiesto una amatriciana", dice una figura nera con la falce in mano, ovvero la morte. Questo recita la vignetta in prima pagina, oggi, su Il Fatto Quotidiano. Il vignettista Mario Natangelo cerca così di ironizzare sulla tragedia del terremoto di Amatrice, nel centro Italia. Sinceramente non se ne vedeva la necessità. La freddura di oggi, il direttore Marco Travaglio la poteva tranquillamente evitare.
TERREMOTO E SPETTACOLARIZZAZIONE. Cinismo e retorica creano caccia alle streghe, scrive Piero Sansonetti il 29 ago 2016 su "Il Dubbio". Le conseguenze più gravi del terremoto si potevano evitare. Se ci sono responsabilità personali vanno accertate, e invece è già iniziato il linciaggio. Il riflesso condizionato, si sa, è ingovernabile. Difronte a una tragedia grande come quella di Amatrice, per esempio, giornalisti e Pm (non tutti, ma molti) riescono a mantenere la calma per un paio di giorni, e a far bene il proprio lavoro, e a raccontare - gli uni - e a indagare con serietà e discrezione - gli altri. Poi al terzo giorno si rompono gli argini e la necessità impellente di prendere i colpevoli e linciarli subito subito, prevale su tutto. E così alcuni magistrati non riescono a trattenere la propria pulsione a dichiarare, anche se ovviamente non sono in grado ancora di sapere niente di quello che è successo, e delle cause. E i giornalisti iniziano ad eseguire le sentenze, da loro stessi emesse, e a scrivere tutto ciò che sentono dire in giro, nei vicoli, nei bar. C’è un importante giornale nazionale che l’altro giorno informava - in prima pagina - i suoi lettori, che le pareti della scuola di Amatrice erano di polistirolo. Naturalmente è molto probabile che per il crollo della scuola esistano delle responsabilità soggettive e personali, oltre alle responsabilità politiche delle istituzioni. Ma è altrettanto probabile che ancora nessuno sia in grado di conoscere queste responsabilità. Ed è molto, molto probabile che il polistirolo sia stato usato per motivi di isolamento termico o acustico, e che non c’entri proprio niente col crollo. Però scrivere che le mura erano di polistirolo fa effetto, porta qualche lettore in più. Si fa. Così come fa effetto usare l’espressione: “in odor di mafia”. Che non vuol dire assolutamente niente, ma muove molte emozioni. E spesso quello “in odor di mafia” non è nemmeno la persona di cui si sta parlando, ma un suo lontano parente. Ormai “essere parente” - per la stampa italiana - è diventato uno tra i reati più frequenti. Il Fatto, per esempio, l’altro giorno indicava al pubblico sospetto (e al pubblico ludibrio) un tale gravato di due colpe evidenti e certe: essere siciliano e - soprattutto - essere “imparentato” con una parlamentare del Pd. E poi, ovviamente, ci sono gli sciacalli. La storia che raccontiamo nell’articolo di Simona Musco in prima pagina è esemplare. La caccia allo sciacallo è un “cult” dell’informazione, da noi. Come una volta era la caccia all’untore, della quale vi abbiamo parlato molto, in questo agosto, ripubblicando la Colonna Infame di Manzoni. E’ del tutto evidente, a chiunque, che le conseguenze tragicissime, con trecento morti, del terremoto di Amatrice, sono in gran parte dovute alla mancanza di prevenzione. Lo abbiamo scritto il primo giorno. Il titolo del nostro giornale era: «Si poteva evitare?». Tutti gli esperti rispondono di si. Che esistono ormai le possibilità tecniche non solo per costruire con criteri antisismici tutte le nuove abitazioni, ma anche per mettere, almeno in parte, in sicurezza, le costruzioni più antiche. E tutti gli esperti ci dicono anche che l’Italia è la nazione più a rischio sismico d’Europa, e dunque la necessità di mettere al sicuro i nostri paesi e le nostre città è impellente. E invece, da diversi anni, si fa troppo poco. Esistono le mappe delle zone a rischio e persino i censimenti dei singoli edifici a rischio. Esiste anche una stima su quanto costa una azione di ristrutturazione generale. Però la politica resta immobile e un po’ indifferente. Eppure tutti sanno che sono altissime le probabilità che nei prossimi vent’anni ci siano in Italia almeno tre o quattro terremoti gravi come quello di Amatrice. Perché non concentrare su una gigantesca operazione antisismica tutte le risorse che è possibile stanziare sulle opere pubbliche? Rinunciando, almeno per un decennio, a ogni altra iniziativa. Concentrando una quantità molto grande di risorse su questa impresa, e mettendo in moto anche un meccanismo probabilmente importante di mobilitazione economica e dunque di sviluppo? Questa è la domanda che va rivolta alla politica. Alla magistratura invece va chiesto di accertare con serietà e certezza se ci sono responsabilità precise e personali per i crolli provocati dal terremoto, e, se ci sono, di chi esattamente sono. Ma questo lavoro va svolto con discrezione, serietà, prendendosi i tempi necessari, senza creare mostri e senza lavorare suoi sospetti e basta, e senza - soprattutto - cercare pubblicità e interagire con la stampa e i suoi clamori. Magari anche rinunciando alle iniziative bislacche che qualche anno fa portarono all’incriminazione (e persino alla condanna in primo grado) di un bel gruppetto di valorosi scienziati accusati di non aver previsto il terremoto dell’Aquila. Quegli scienziati poi furono assolti pienamente, dal momento che non ci vuole una grande scienza per sapere che i terremoti non sono prevedibili da nessuno e tantomeno è prevedibile la loro intensità. Ma furono assolti quando ormai la loro reputazione e le loro carriere erano state già distrutte. Poi, certo, è inevitabile, esiste dei pezzi del giornalismo e della magistratura italiana che vivono di retorica e cinismo, e non sono molto interessati alle certezze e alla verità: retorica e cinismo molto spesso si alleano e quando si alleano creano disastri. Il meccanismo tradizionale della caccia alle streghe è sempre stato quello: retorica e cinismo che si esaltano a vicenda.
Terremoto tra polemiche e apparenza al tempo del dolore 2.0. Tutte le opinioni che abbiamo letto in questi giorni ci inducono a riflettere e la verità è che ci attende una battaglia lunga e faticosa, scrive Francesca Contino il 26 agosto 2016 su "Irpinia 24". Avellino Guardo mia nonna e ho la percezione che tutto intorno abbia assunto dei connotati stonati. La osservo guardare i TG, in preda a una frenesia, con la necessità di cambiare canale e non certo per disinteresse, ma perché delle immagini sono troppo crude e sanno di una tragedia, che lei, come tanti, ha vissuto sulla sua pelle nel 1980. La vedo mentre sembra disegnare con lo sguardo un terrore nascosto, a tratti inenarrabile. Quando le chiedo di raccontarmi di quel 23 Novembre, le parole si accavallano e poi d’improvviso si spezzano, come se si rinnovasse un dolore troppo grande anche da rispolverare. Riemergono con più facilità i ricordi della solidarietà, dello stare insieme delle famiglie, del buon cuore dei commercianti locali che donavano i loro prodotti, di quelli che ospitavano la gente del paese nelle loro stalle. Avverto il calore di quell’atmosfera, dove ogni contrasto si annienta e poi il freddo di quell’inverno, che nelle sue parole, è ancora più rigido di quello che probabilmente fu. Erano tempi diversi certo. Oggi apprendiamo molte più notizie, corredate di immagini e video istantanei che niente lasciano all’immaginazione. E ce ne serviamo, perché, talvolta, in questa società dormiente, un fotogramma scuote una coscienza meglio di un racconto. Lo abbiamo fatto con le morti sui barconi, con gli attentati terroristici e adesso con il terremoto di Amatrice. Diamo letture differenti, eppure nella selezione delle immagini ricadiamo in una volontà ambigua di spettacolarizzazione, che diventa una vera e propria operazione di marketing, assuefatti alla forma più che al contenuto. E’ un errore che abbiamo commesso, anche se alcuni di noi con ingenuità, con l’intento di arrivare ai lettori in maniera più profonda. Noto con tristezza, come la tradizione italiana si stia riducendo a un talk reality show, dove il phatos sovrasta la professionalità, con schiere di giornalisti che pongono domande al limite del tollerabile, anche per chi è fuori da certi drammi. Ma non è un problema di categoria, semmai la categoria determina nello specifico la tipologia di alcune involuzioni. Siamo circondati o addirittura siamo gli stereotipi che condanniamo. Dagli sms per donare 2 euro, con tanto di prova fotografica allegata sui social, alle rivalse razziste, travestite da patriottismo di quelli che “la menano” sugli immigrati negli alberghi. Tristezza a palate. Non solo per la violenza di certi pensieri che in rete vengono espressi, quanto per l’insensibilità di chi ha bisogno di spostare sempre l’asse della discussione, di chi si improvvisa costantemente esperto di politica nazionale e internazionale. Dal montepremi del superenalotto che non si può destinare ai terremotati, all’Italexit perché “l’Europa e l’America non soffrono o non aiutano abbastanza”. E così via, fino alla ricerca spasmodica del colpevole, che però è tale, per parte degli utenti guinness di presenze sul web, solo quando si apre la stagione della caccia, solo quando qualcosa è andato storto. E’ la società del dolore 2.0. Le case, le scuole, gli ospedali, tutto crolla. Si comincia ad avere paura, a chiedersi come hanno ricostruito. Lecito, giusto, comprensibile, purché non si lotti solo oggi o per qualche giorno, ma quotidianamente. La buona edilizia, del resto, è una battaglia di legalità e di civiltà. Noi in Irpinia lo sappiamo bene, ma non tutti hanno imparato la lezione. Per citare mia nonna: “C’è chi non aveva nulla e ora ha la villa col giardino e chi è ancora in attesa di una casa”. Ovviamente, per esaurire il cerchio dell’opinabilità, non mancano i commenti alla foto del premier Renzi con un vigile del fuoco, alle prese con le operazioni di salvataggio. “Attento non manterrà le promesse”, “E’ una scenetta costruita a regola d’arte”, “Non ha neanche un’unghia di Pertini”. Ecco, anche la scrivente, risaputamente antirenziana, ha difficoltà a comprendere l’accanimento a priori in questi giorni tremendi, che risucchia tutto e tutti nella spirale del tutto fa brodo. E’ evidente che non siamo in presenza dello spessore morale dell’ex Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Assodato ciò, lasciate le tastiere e riempite i seggi, perché la rivoluzione si fa col voto pulito. Le fondamenta morali, quanto quelle dei palazzi, reggeranno solo quando non si faranno più gare a ribasso. E anche se in Irpinia non mancano i recidivi, noi non arrendiamoci, avendo sempre a mente il monito pertiniano: “Il miglior modo di onorare i morti è pensare ai vivi”. Francesca Contino.
Facciamo parlare una testimone di un lontano disastro. Io la botta non la ricordo, scrive Cristina Cucciniello su "L’Espresso” il 25 agosto 2016. Avevo un anno, non ricordo il momento della scossa di terremoto, nel tardo pomeriggio del 23 novembre 1980. Era domenica, passate le sette; mio padre ricorda la tranquillità del dopo-campionato davanti alla tv: a quell'epoca, le partite di serie A venivano trasmesse in chiaro e - come ora - subito dopo partiva la tiritera dei commenti. Se torno indietro con la memoria, ho la vaga immagine di mia madre che mi appoggia sul sedile posteriore della nostra automobile. E poi Dario (un volontario, amico dei miei) che mi porta a cavalluccio sulle spalle, nei capannoni della Caritas vicino alla nostra ex-casa. Arrivarono da tutto il mondo tanti di quei giocattoli, per noi bambini sopravvissuti al terremoto, che io ancora ricordo il mio stupore per la quantità; allora i miei erano due ventenni non particolarmente benestanti, in una città rasa al suolo, che davano una mano a smistare gli aiuti umanitari: così tanti peluche, in un colpo solo, non li avevo mai visti. A un anno non capisci la tragedia e capita pure l'impossibile, l'assurda gioia di avere in regalo un peluche enorme. I cazzi amari arrivano dopo, molto dopo. Il dolore, la rabbia sorda, arriva dopo. Anche per gli adulti, intendiamoci: nei primi momenti c'è la disperazione, lo stupore, la disgrazia della perdita dei propri cari e dei propri averi. Ma la rabbia arriva a mente fredda, ti accompagna nel corso degli anni, non va mai via. Non gliela voglio augurare, ma sarà così anche per la popolazione di Amatrice ed è stato così anche per gli aquilani. Io, dopo 36 anni, sono ancora incazzata. Perché la tragedia che ci ha colpito non è consistita solo nei 90 secondi della scossa, ma negli anni successivi: lo scempio del mio territorio, la violenza del ricostruire interi paesi a valle, rispetto agli insediamenti originari, la colata di cemento che ha preso il posto dei materiali tradizionali, l'improvvida decisione di voler profittare della ricostruzione per imporci una industrializzazione forzata che non era e non è nelle corde di un'area collinare e montana, priva di adeguate vie di collegamento. Ne discutevo giorni fa con un amico per metà irpino: chi ha in corpo una goccia di sangue irpino, chi è lupo almeno in parte, davanti a quel cemento soffre. Avellino oggi è una città di bruttezza devastante. Non ha filo logico, non ha congruenza, non ha eleganza. Alterna costruzioni finto ottocentesche a obbrobri ricoperti da vetro e marmo. Strade pavimentate a lastroni lasciano il posto a piazze cementificate. E "buchi", palazzi ancora non ricostruiti, perfino nel corso principale. Ed ecomostri, volgari ville a colori sgargianti che punteggiano le colline intorno alla città - ne vedo una dalla casa dei miei defunti nonni, un pugno nell'occhio fucsia in mezzo al verde. Questa bruttezza mi perseguita, fin da bambina: a 14 anni sono entrata, per la prima volta, in una scuola di mattoni, dopo aver frequentato elementari e medie in orridi cubi di lastroni prefabbricati, che - peraltro - nascondevano fibre di vetroresina e tracce di amianto; a 11 anni sono entrata in una casa "vera", dopo 8 anni in una casetta di legno. A 18 ho lasciato una città per la quale - tuttora - non provo nulla, se non rabbia: solo qui a Roma posso alzare gli occhi e venire sommersa dalla bellezza. Roma, perfino nei suoi angoli più beceri e volgari, toglie il fiato. Roma ha una sua logica, ha una pianta circolare, che - come una cipolla - mostra l'espansione della città nei secoli, con stili architettonici diversi. Ma, ad Avellino, io non ho una storia da osservare, non ho un quartiere del quale posso dire di essere parte: a Pianodardine, subito accanto al Rione Ferrovia, dove mio padre è nato e dove faceva il bagno nel fiume, oggi si susseguono capannoni industriali in parte abbandonati e si muore per mesotelioma e leucemia (vi dice niente il nome Isochimica? Uno dei molti, preziosi regali che una classe politica scellerata ha voluto fare alla nostra comunità). Per provare un minimo di senso di appartenenza, devo andare sui monti, in mezzo ai nostri boschi. Solo nel verde posso vedere la bellezza dell'Irpinia. Perché racconto questa storia? Perché sia di monito, perché aiuti a comprendere che non sarà solo in queste ore che le comunità di abitanti delle zone colpite dal terremoto del 24 agosto 2016 avranno bisogno di supporto, solidarietà, attenzione. Vivranno anni in cui dovranno combattere per preservare quel poco di storia e legami col territorio che il sisma ha lasciato in piedi. Vivranno la tentazione di andar via (come ho fatto io). Vedranno l'arrivo di chi vorrà speculare sul dramma: da noi è accaduto, è storia. Dite di no: è quel che sento di dire a quelle persone. Dite di no quando qualcuno arriverà e vi proporrà "dai, giacché ci siamo costruiamo qui la mega-fabbrica e la mega-tangenziale". Dite di no, quando vi proporranno le new town. Dite di no, quando arriveranno sciacalli pronti ad usufruire degli aiuti statali alla ricostruzione per impiantare stabilimenti in mezzo al verde dell'Appennino: da noi è accaduto, fate che non accada anche alla vostra terra.
LA LEZIONE DI L'AQUILA. L'avvertimento del terremotato di Libero: "Attenti, ecco chi sono i veri sciacalli", scrive Miska Ruggeri il 25 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Dalle 3.32, ora del terremoto dell'Aquila il 6 aprile 2009, alle 3.36, ora del sisma di Amatrice. In mezzo le 3.33, per il folklore cristiano «l'ora del diavolo», in contrapposizione alle tre del pomeriggio, quando, almeno così vuole una tradizione, Gesù, la seconda persona della Trinità, morì sulla croce (a 33 anni; e da qualche parte si legge anche che era venerdì 3 aprile del 33 d.C.). Coincidenze e superstizioni. Ma in molti nel cuore della scorsa notte, svegliati dalla terra che si muove - i lampadari che iniziano a dondolare, i mobili che si spostano, l'intonaco che cade - riversandosi in strada terrorizzati, ci hanno pensato. Nel capoluogo abruzzese i (pochi) residenti del centro storico e i turisti alloggiati in alberghi e bed and breakfast sono stati invitati a uscire all' aperto e le manifestazioni della Perdonanza celestiniana sono state annullate (si manterrà probabilmente solo l'apertura della Porta Santa a Collemaggio e il corteo della Bolla, eventi clou previsti per domenica prossima). Qui, del resto, nessuno ha dimenticato la tragedia di sette anni fa e a parecchi abitanti è sembrato di rivivere l'incubo. Tanto che ore dopo in giro, nonostante la giornata di sole e relativo caldo, non si vede gente a passeggio, chi gira a piedi lo fa con gli occhi sbarrati come uno zombie, i negozi sono vuoti e il traffico inesistente, anche in viale Croce Rossa tra Piazza d' Armi e lo stadio. Ora il pensiero va ai conterranei di Amatrice (dal 1265 al 1861 parte del giustizierato d' Abruzzo e della provincia Abruzzo Ultra II, con capoluogo L' Aquila; e fino al 1927 provincia dell'Aquila) e dei paesi vicini, ai numerosi morti e ai sopravvissuti. Che avranno davanti anni e anni molto duri. Perché l'emergenza sarà gestita ancora una volta benissimo (in Italia in questo siamo all' avanguardia nel mondo e sono già a disposizione degli sfollati 250 appartamenti antisismici del Progetto C.a.s.e.); Protezione civile, Vigili del Fuoco e volontari faranno miracoli con abnegazione e spirito di sacrificio, lavorando 24 ore su 24. Ma poi, inevitabilmente, arriveranno i mostri della burocrazia, gli sciacalli pronti a rovistare tra le macerie degli edifici (per rubare non solo effetti personali e preziosi, ma con il passare dei mesi persino le mattonelle dei bagni), le cricche, le false promesse dei politici («Non lasceremo solo nessuno», ha dichiarato a caldo il premier Renzi: figuriamoci, passata l' emozione del momento, l' agenda del governo sarà riempita da mille altre priorità), le lotte intestine per spartirsi i soldi, le imprese edili che vincono l' appalto e poi falliscono all' improvviso lasciando i lavori a metà, le infiltrazioni della camorra, le inchieste giudiziarie e i ricorsi al Tar, l' esodo della popolazione, il frantumarsi del tessuto sociale, le dipendenze da alcool e psicofarmaci, gli euro buttati via per i puntellamenti di palazzi comunque destinati a essere abbattuti... Tutte cose che, purtroppo, all' Aquila conosciamo bene. I miei genitori sono ancora fuori casa (l'apertura della pratica per il progetto di ricostruzione sarà esaminata, se tutto andrà secondo programma e non è scontato, nel 2017; poi passeranno altri due anni, di «tempi tecnici», per la messa in opera del primo chiodo), in regime di «autonoma sistemazione» dopo mesi passati in un albergo sulla costa adriatica. E io, pur vivendo a Milano, mi ricordo bene, avendole raccontate su questo giornale, le assurdità post sisma. Il Comune chiuso per il lungo ponte tra il 25 aprile e il 1° maggio 2009, l'ufficio Ricostruzione aperto due ore il martedì mattina e altre due ore il giovedì pomeriggio, le dimissioni mille volte annunciate e poi ritirate dal sindaco, la pantomima dei soldi stanziati o meno («Dateci fondi», «Ve li abbiamo già dati», «Non è vero»). Stavolta sarà diverso, diranno. Speriamo. Miska Ruggeri
TERREMOTO E BUFALE. Tutte le bufale sul terremoto. È l'ora delle panzane social. Dalla magnitudo truccata alla prevedibilità dei terremoti fino al solito carillon di fotografie fuori contesto e al jackpot del SuperEnalotto: il peggio sui sul web a poche ore dalla tragedia, scrive Simone Cosimi il 26 agosto 2016 su "La Repubblica". BUFALE E TRUFFE popolano puntuali i social network in queste ore di dolore e di emergenza per il terremoto che ha colpito il Centro Italia. Come sempre accade in occasione di fatti simili. D'altronde gli sciacalli non si muovono solo fra le macerie reali ma saltano con agilità anche fra quelle virtuali. Diffondendo notizie inventate di sana pianta, rilanciando bufale, proponendo soluzioni impraticabili, sfruttando l'onda emotiva per rinforzare tesi insostenibili. Sempre facendo leva su quei 268 morti e sulle centinaia di feriti. Alcune sono, se possibile in un contesto tanto delicato, di scarsa pericolosità, come il fraintendimento sull'hotel Mario di Cesenatico, che in molti hanno ritenuto fosse della cantante Fiorella Mannoia. La quale aveva solo copiato e incollato sul suo profilo l'appello (reale) di un albergatore, così come ha fatto in altri casi. Altre posseggono invece una carica esplosiva che vale la pena disinnescare senza indugio. Su tutte, quella del presunto taroccamento della magnitudo del sisma (da 6.2 a 6.0) per evitare che lo Stato debba accollarsi i costi della ricostruzione. La responsabilità sarebbe di una presunta legge voluta dall'allora governo presieduto da Mario Monti che fisserebbe la soglia del rimborso a 6.1 gradi. Nulla di più inventato. La bufala, circolata già in passato, si aggancia a un articolo del decreto-legge n.59 del 15 maggio 2012 poi convertito nella legge n.100 del 12 luglio 2012, quello di riordino della Protezione civile. Quell'articolo, che prevedeva l'assicurazione privata per i rischi derivanti da calamità naturali, fu soppresso al momento della conversione. Nessun limite risulta da nessuna parte del testo (approvato pochi giorni prima del terremoto che colpì l'Emilia-Romagna) e in ogni caso i risarcimenti vengono calcolati sulla base di un'altra scala, la Mercalli-Cancani-Sieberg, che valuta l'intensità del sisma in termini di danni prodotti sul territorio e non in base alla magnitudo della scala Richter. Sono nozioni che s'insegnano in terza elementare. Un'altra bufala è quella del jackpot del SuperEnalotto da destinare alla ricostruzione. L'hanno lanciata alcuni politici, contribuendo così alla confusione: su tutti Antonio Boccuzzi del Pd e Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia. Innescando anche numerose petizioni su Change.org e Firmiamo.it e il coinvolgimento di star come Fiorello. Peccato che la Sisal sia una società privata che gestisce il concorso su concessione statale. Al massimo si potrebbe lavorare sulla tassazione collegata (o spingere Sisal a una donazione indipendente) ma certo è impossibile sottrarre quel montepremi maturato nel corso dei mesi in virtù delle puntate dei giocatori, che scommettendo firmano di fatto un contratto con la società in base al quale questa si impegna a redistribuirlo in caso di vittoria. Di sciacallaggi digitali se ne stanno vedendo molti. Da personaggi di dubbia notorietà che non riescono a contare fino a 10 prima di scrivere ad altri che utilizzano la tragedia come pretesto da servizio fotografico fino, appunto, alle amarissime panzane. Come quella sui rifugiati e sul loro "pocket money" (che alcuni, come a Gioiosa ionica, hanno perfino deciso di donare): non si tratta certo dei 30 euro al giorno (spesso soglia massima), che servono alla totalità delle spese per la loro ospitalità, ma di 2,5. Affitto del locale, costi di gestione, pulizia, vitto: c'è tutto, in quella quota giornaliera da 30 euro versata dallo Stato in base a bandi locali dei comuni su indicazione ministeriale attingendo a fondi in buona parte europei a ciò dedicati e non destinabili altrove. In queste ore si sono poi registrate bufale sulle reti idriche danneggiate e sull'acqua non potabile, smentite dalle aziende che se ne occupano, su presunti rischi di tsunami elettromagnetici e sugli ormai tristemente noti terremoti artificiali, oltre che su un altro motivo ricorrente delle situazioni post-sisma: la loro prevedibilità e periodicità, visto che secondo molti stregoni "avverrebbero di notte e col caldo". Una tesi che non ha alcun fondamento scientifico né nel primo caso né nel secondo: basta sfogliare il drammatico catalogo dei terremoti degli ultimi mille anni per coglierne l'assoluta casualità. Nullo anche il collegamento con la meteorologia. Si possono al contrario elaborare mappe di rischio, studiare le serie storiche, determinare aree e zone in maggiore pericolo. Ma di modelli attendibili di previsione non c'è purtroppo alcuna possibilità di stilarne. E la comunità scientifica internazionale è spesso tornata sul punto. Quando ce ne sono - e in questo caso non ce ne sono state - neanche le avvisaglie, i cosiddetti "foreshock", fanno fede e non possono che essere collegati con nesso causale solo a posteriori. Intorno a queste grandi bufale sui social network se ne sviluppano a decine, che ruotano sostanzialmente intorno alla mistificazione di immagini di altri eventi, alla fantasiosa variazione sulla solidarietà giunta dal mondo (è il caso dei 10mila uomini della protezione civile russa in marcia verso il nostro Paese) o a varie tipologie di fondamentalismo. È per esempio accaduto con la foto di un bimbo estratto dalle macerie 22 ore dopo il sisma, in realtà presa dal terremoto di Katmandu del 25 aprile 2015. Oppure altre immagini, come quelle di una chiesa in Emilia risalente al sisma di quattro anni fa. Anche sui social network è fondamentale fare riferimento alle fonti tecniche, che (su Twitter INGVterremoti, CNgeologi, Palazzo_Chigi, CroceRossa) e alzare al massimo l'asticella su ciò che circola sulle nostre bacheche.
TERREMOTO E SOCCORSI. Terremoto, polemiche sui ritardi soccorsi. La Protezione civile: nessun ritardo, scrive Mercoledì 24 Agosto 2016 "Il Messaggero". «La macchina dei soccorsi si è attivata subito, pur aver scontato ritardi dovuti al fatto di dover arrivare in una zona di montagna, con la viabilità sconvolta: raggiungere ogni singola frazione è difficile ma il sistema si è orma completamente dispiegato». Lo ha detto a Uno Mattina Carlo Rosa, responsabile Protezione Civile del Lazio, respingendo le accuse di ritardi nei soccorsi. E' stato in particolare il sindaco di Accumoli ad accusare ritardi nei soccorsi, sottolineando che la prima squadra dei pompieri è arrivata alle 7.40, oltre tre ore dopo la prima scossa. I soccorritori hanno incontrato diverse difficoltà per raggiungere Accumuli, uno dei comuni in provincia di Rieti più colpiti dal terremoto che ha interessato la zona a cavallo tra Lazio, Marche e Abruzzo. Diverse strade sono infatti interessate dai crolli e questo non consentiva ai mezzi di soccorso di raggiungere il paese. Rabbia e sconcerto tra gli abitanti di Illica, una frazione a pochi chilometri da Accumoli (Rieti). «Vogliamo i militari, stiamo aspettando, noi paghiamo», ha denunciato Alessandra Cappellanti, residente ad Illica, «c'è una caserma ad Ascoli, una Rieti, una all'Aquila e non si è visto un militare, fate schifo!». La disperazione anche nelle parole di Domenico Bordo, un altro abitante del villaggio, «sono sotto le macerie, non ci è ancora andato nessuno, ci vogliono i mezzi». Secondo un primo bilancio nella frazione di Illica, ci sarebbero almeno altri 3 morti e 4 dispersi.
Scrive Mercoledì 24 Agosto 2016 "New Notizie". Dopo il terribile sisma che ha coinvolto il centro Italia ed ha distrutto diversi paesi in provincia di Rieti ed Ascoli Piceno, facendo finora più di venti vittime, arrivano le polemiche per i soccorsi. Secondo molte persone, che tenevano aggiornato il Paese in diretta sui social, i soccorsi sono arrivati troppo in ritardo rispetto alle prime chiamate. Il sindaco di Amatrice, Pirozzi, ha sostenuto che la macchina dei soccorsi è ritardata. “Ho chiamato i soccorsi alle 4 ma ancora non abbiamo visto nessuno, è scandaloso” ha sostenuto il primo cittadino. La giornalista Sabrina Fantauzzi ha invece denunciato ritardi nel soccorso ad Illica. Su Facebook la donna ha scritto: “Illica, il paese della nostra infanzia, non c’è più. La scossa terribile alle 3 e 40. I sopravvissuti tutti in un campo all’aperto. Eravamo circa 300 persone, tutti romani, in villeggiatura. Siamo rimasti in 30. Ancora nessuno è venuto a soccorrerci”. Sul suo post la donna scrive: “Il 113 non risponde, non risponde nessuno”. Poco dopo la Fantauzzi pubblica un altro post: “A Illica, vicino ad Accumoli (altro paese gravemente colpito dal terremoto, ndr), sono arrivate solo due ambulanze, ci sono 4 soccorritori, prendono feriti ma non stanno intervenendo sulle case distrutte con dentro gente morente”.
Di seguito si riporta l’opinione di Vittorio Feltri che non fa mancare le solite sue scivolature razziste e giustizialiste.
Vittorio Feltri il 28 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”: vi spiego perchè ci servirebbe un Bertolaso. Il più efficiente è stato il ladro napoletano. Bisognerebbe metterlo a lavorare a Palazzo Chigi, ramo interventi d' urgenza. Appena sentita la scossa, accertato qual era la località più disastrata, si è attrezzato e ha organizzato la sua operazione di pronto intervento. Da sotto il Vesuvio si è mosso verso Amatrice ed è arrivato prima delle «colonne mobili» della Protezione civile. E dire che partiva da più lontano. Il brigante partenopeo ha comprato da cittadino perbene il biglietto del treno per Roma, mica da prendersi una multa, poi dalla Capitale si è arrangiato con mezzi propri. Così nel primo pomeriggio è stato sventuratamente (per lui) bloccato mentre già se ne stava andando dalle rovine dove aveva scavato alacremente per riempire di bottino la valigia. Se lo avessero linciato, troveremmo articoli pensosi sul diritto a un giusto processo anche per gli sciacalli, non il mio però. Bisogna che qualcuno sia cattivo davanti ai morti. Non faccio fatica ad assumermi il compito. In questi giorni è tutto un sacrosanto commuoversi, e dappertutto in televisione e sui quotidiani sta prevalendo il politicamente corretto: guai a chi scompiglia con un sassolino il laghetto delle lacrime collettive. Ieri siamo stati criticati nel programma In Onda di La7 perché abbiamo detto che oggi prevale nelle autorità dello Stato, Boldrini in testa, il pensiero di come fare bella figura con i morti, visto che tra i sopravvissuti non sono affatto popolari, poiché con i loro elicotteri e le visite di cortesia hanno rotto non solo i gazebo. E qui, al diavolo se mi danno del renziano, concordo con Marco Travaglio nel non associare al gruppazzo unto dei propagandisti Matteo Renzi, il quale è corso a vedere, ha detto poche cose oneste e senza trombe al seguito. Ma adesso non gliene risparmieremo una. Faccia subito un esame di coscienza, alla sua e a quella dei suoi uomini, e non a quella di Caino Monti e Adamo Berlusconi. Gli facilitiamo il compito. Infatti anche se nessuno lo ha fatto notare, tranne il nostro Franco Bechis, la Protezione civile è rimasta imbambolata e ha sottovalutato l'entità della devastazione. Il testimone della lentezza e della disorganizzazione è proprio il ladro terrone. Il sindaco di Napoli, Gigi De Magistris, ha annunciato che si costituirà parte civile contro il concittadino reprobo che danneggia la reputazione della città partenopea. Dovrebbero denunciarlo per diffamazione la Protezione Civile e il ministro dell'Interno: perché con la sua rapidità ha dimostrato che in Italia si può essere svelti. Solo a rubare però. Mi rendo conto che butterà male per Libero. Questi sono i giorni della solidarietà. D' accordo. Ma per mettere mano al portafogli ne basta appunto una, con l'altra qualche pugno sul tavolo mi sento in obbligo di tirarlo. E sfido ad accusarmi di immoralità o cinismo. Fu Enrico Berlinguer, il campione della questione morale (la morale degli altri: infatti incassava ancora l'oro di Mosca), a rompere con la Democrazia cristiana e a far andare in crisi il governo Forlani dopo il sisma in Irpinia, dove si distinse tra i tuoni del terremoto la voce accusatoria di Sandro Pertini. Il Capo dello Stato fece a pezzi tutto lo Stato, salvo, con oculata scelta, se stesso, come fosse uno appena sceso dal cielo agitando le alucce scandalizzate. Il Corriere della Sera gli prestò un altoparlante formidabile, inveendo a ragione contro i ritardi dei soccorsi e la disorganizzazione. Oggi né sul Corriere né altrove si osa dire un beh, in compenso si odono belati complimentosi. Forse perché le comunicazioni per conto della Protezione civile le fa la spigliata Titti Postiglione, che ha il merito indiscutibile di essere sorella del vicedirettore del Corriere, il valente Venanzio? Il familismo conta sempre in Italia. C' è però soprattutto un'altra ragione, ritengo: e sta in quello che abbiamo denunciato prendendoci la ridicola accusa di razzismo. La macchina del soccorso urgente in Italia ha il tom tom a destinazione prioritaria se non unica: le coste della Libia, dove spediamo navi, elicotteri in quantità e con lodevole velocità. Non fa niente se questa presunta certezza spinge migliaia di persone a partire su gommoni sfasciati e predisposti al naufragio, ma è un fatto. Per cui i radar del Pronto soccorso, che è il ramo specifico della Protezione civile, sono tutti puntati verso i barconi e il mare e non verso le nostre terre ballerine. Lo ha denunciato dalla Sierra Leone il disgraziatissimo Guido Bertolaso, il quale ha notato da laggiù, dove si sta dedicando a un ospedale, la discrepanza di trattamento tra migranti africani e terremotati indigeni (nel senso di italiani). Il poveretto è stato subito zittito a male parole. Bertolaso, basta parlare con chi l'ha osservato al lavoro, è un fenomeno nell' organizzare i soccorsi degli altri, ma non di se stesso, per cui si è trovato impiccato per essere stato oggetto di alcuni delicati massaggi durante il giusto riposo del guerriero. Ora ce ne vorrebbe uno così. Anzi, avrebbe dovuto essercene uno così. Poi si faccia fare tutti i massaggi brasiliani e thailandesi che desidera, offro io. Invece... Invece hanno dormito, eccome, se lo hanno fatto. Sono rimasti in bambola. Non dico i volontari, quelli sono arrivati di corsa, e pure in troppi. Ma quelli pagati, i capi, avevano la testa altrove o erano in ferie. O sono più bravi a comunicare lestamente che a recarsi sul posto prontamente. Su youtube si può riascoltare la telefonata del sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, a Radio 24. C' è già stata la seconda scossa. Le prime luci dell'alba mostrano la sciagura immane. Le sue parole sono: «Guardi, servono unità speciali che tirino fuori le persone da sotto le macerie. La nostra emergenza è che dobbiamo fare in modo tirar fuori da sotto le macerie la gente». Lo ripete tre o quattro volte. Il giornalista gli chiede se ci sono dei morti. Pirozzi è stupitissimo della domanda. Com' è possibile che dopo tanto tempo non si abbia nessuna contezza della gravità dell'accaduto: «Il paese non c' è più». Ripete: «Bisogna cercare di far venire nelle nostre zone delle unità speciali. Anche elicotteri, abbiamo attrezzato i campi. Stiamo cercando di far venire i pompieri...». Finalmente il conduttore capisce: «Lanciamo l'appello». Risposta: «Grazie, grazie, grazie, Dio vi benedica». Stupito il cronista chiede: «Ha ricevuto telefonate da Palazzo Chigi?». Risposta: «No no no. Da Palazzo Chigi e dalla Protezione civile no. Dalla Regione, ho parlato con la prefettura di Rieti». Continua: «Spero che riusciate a darci una mano. Case non ce ne stanno più e la gente sta sotto». La prima colonna mobile della Protezione civile del Lazio si è mossa - secondo comunicato ufficiale - alle 9 e 40, quando lo sciacallo vesuviano era già per strada da tre ore e passa (la prima scossa è stata alla 3 e 36). Se fosse stato vicino alla battigia di Tripoli, in mezzora arrivava un incrociatore con elicotteri. Noi non diciamo prima gli italiani poi i profughi. Ma almeno par condicio. Ridateci Bertolaso. Vittorio Feltri
Terremoto, le due facce del volontariato. Il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno assistito a questi eventi non solo da spettatori, scrive Ilvo Diamanti il 29 agosto 2016 su “La Repubblica”. L'altra faccia del terremoto, della tragedia che ha devastato alcune zone dell'Italia centrale, è il ritorno del volontariato. Che ha partecipato, attivamente, ai soccorsi. E continuerà anche domani e dopo. Nelle aree colpite, in modo tanto violento e doloroso. Ma anche intorno. E per "intorno" intendo l'intero Paese. Perché il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno "assistito" a questi eventi non solo da "spettatori". Di uno spettacolo doloroso riprodotto su tutti i media, ad ogni orario. Gli italiani, infatti, in gran parte, si sono sentiti coinvolti - e sconvolti - dal dramma di Accumoli, Amatrice, Pescara del Tronto. E degli altri paesi situati nell'epicentro del terremoto. Al crocevia fra Marche, Lazio e Umbria. Così, in breve, si è diffusa e allargata la partecipazione solidale dei cittadini di tutta Italia. Al punto da costringere i coordinatori dei soccorsi a frenare questa spinta generosa. Cercando, quantomeno, di regolare la qualità e la quantità dei contributi, in direzione delle domande "locali". Per evitare l'eccesso di "doni" e di "beni" - già eccedenti. Questa premessa permette di comprendere la complessità di quella realtà che, nel discorso quotidiano, è riassunta con un solo termine. Una sola parola. Volontariato. Pronunciato, spesso, senza precisazioni. Dato per scontato. Mentre si tratta di un fenomeno distinto e molteplice. Che, nel tempo, ha cambiato immagine e significato. Il volontariato. È un modello di azione, individuale e sociale, orientato allo svolgimento di "attività gratuite a beneficio di altri o della comunità". Per citare la prima indagine sul settore condotta dall'Istat (nel 2014). La quale stima, il numero di volontari, in Italia intorno a 6 milioni e mezzo di persone. Cioè, circa il 12,6% della popolazione. In parte (4 milioni) coinvolti in associazioni e in gruppi, gli altri (2 milioni e mezzo) impegnati in forme e sedi non organizzate. Ma, se spostiamo l'attenzione anche su coloro che operano in questa direzione anche in modo più occasionale, allora le misure si allargano sensibilmente. Il Rapporto 2015 su "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica, infatti, rileva come, nell'ultimo anno, quasi 4 persone su 10 abbiano preso parte ad attività di volontariato sociale. Che si producono e si riproducono in base a necessità e ad emergenze. Locali e nazionali. Come in questa occasione. Il "volontariato", infatti, è utile. Alla società e allo Stato. Ai destinatari della sua azione e alle persone che lo praticano. Il volontariato "organizzato", d'altronde, ha progressivamente surrogato l'azione degli enti locali e dello Stato. Si è, quindi, istituzionalizzato. In molti casi, è divenuto "impresa". Sistema di imprese, che risponde a problemi ed emergenze. Di lunga durata oppure insorgenti. Il disagio giovanile, le povertà vecchie e nuove. Negli ultimi anni, in misura crescente: gli immigrati. E di recente: i rifugiati. Fra le conseguenze di questa tendenza c'è la "normalizzazione della volontà". Che rischia di venir piegata e di ripiegarsi in senso prevalentemente "utilitario". Divenendo una risorsa da spendere sul mercato del lavoro e dei servizi. Il "volontario", a sua volta, rischia di divenire un professionista. Una figura professionale. E, non a caso, sono molti i "volontari di professione", che operano in "imprese sociali". Il principale rischio di questa tendenza - sottolineato da tempo - richiama, anzitutto, la dipendenza del volontariato e, di conseguenza, dei volontari "di professione" da logiche prevalentemente istituzionali. E dunque politiche. Visto che questo volontariato e questi volontari dipendono, in misura determinante, da finanziamenti e contributi "pubblici". Locali, regionali e nazionali. Talora, com'è noto, sono perfino divenuti canali di auto-finanziamento. Per soggetti e interessi politici e impolitici, non sempre leciti e trasparenti. Bisogna, dunque, diffidare del "volontariato"? Sicuramente no. Perché il volontariato è, comunque, un fenomeno ampio e articolato. In parte organizzato, in parte no. Espresso e praticato, in molti casi, su base individuale. Un modo per tradurre concretamente la solidarietà. Un'altra parola poco definita e molto usata. Perfino abusata. Ma che riassume un fondamento della società. Perché senza "relazioni di reciprocità", dunque, di solidarietà, la società stessa non esiste. Così, il volontariato organizzato fornisce riferimento e continuità al volontariato individuale. Al sentimento diffuso di altruismo che anche in questa occasione si è manifestato. Il volontariato organizzato offre visibilità - e dunque sostegno - al grande popolo del "volontariato involontario". Che fa solidarietà fuori dalle organizzazioni, dalle associazioni. Dalle istituzioni e dalle imprese.
L’Italia… paese di furbi, scrive Armida Tondo il 7 febbraio 2012 su “Italnews”. Noi italiani non cambieremo mai, siamo pronti a sparare a zero su tutti, spesso senza conoscere i fatti! L’ultima polemica, nata a causa del maltempo di questi giorni, è nata sull’intervento dell’Esercito nelle zone più colpite. Ma andiamo ai fatti. Tutto nasce dai sindaci alle prese con l’emergenza neve, chiedono e ottengono l’aiuto dei militari dell’Esercito, fin qui nessun problema! Però i nostri amministratori scoprono che gli uomini dell’Esercito hanno un costo. E allora, qual è il problema? Se non vado errata, chi vuole mi potrà smentire, la protezione civile, le associazione di volontariato, hanno contributi statali e non solo, ogni singola sezione comunale ha contributi regionali, provinciali e comunali, o sbaglio? Tornando al caso scoppiato stamattina, insomma gli amministratori scoprono che la presenza degli uomini e mezzi dell’Esercito ha un costo, dieci spalatori, soldati con una pala in mano, costano al giorno 700 euro. A far scoppiare il caso è il Presidente della Provincia di Pesaro Urbino, Matteo Ricci, che ha dichiarato: “Non voglio fare polemiche, in un momento così drammatico le istituzioni devono collaborare e non polemizzare, ma non mi sembra giusto che lo Stato faccia pagare i Comuni in un frangente simile, quando raggiungere o non raggiungere un’abitazione, un borgo sepolto dalla neve è spesso questione di vita o di morte per anziani, malati, bambini. I Comuni e le Province sono già strozzati dal Patto di stabilità, stanno spendendo milioni di euro, che non hanno, per mettere in campo spazzaneve, pale meccaniche, servizi di prima necessità, e devono pagarsi pure l’Esercito…”. E chi dovrebbe pagare? Oppure i soldati non hanno un costo? Vorrei fare alcune riflessioni. Premesso che ritengo giusto che chi lavora venga pagato, analizziamo la situazione. Sono certa che i Vigili del Fuoco, il personale dell’Enel, il personale della Protezione Civile, chiunque sia impegnato in questi giorni nei luoghi più colpiti dal maltempo venga retribuito. Allora mi chiedo: perché i soldati no? Forse sarebbe opportuno spiegare ai nostri lettori che ogni movimento della protezione civile, così come altre associazioni di volontariato, usufruisce di un contributo o “rimborso spese” che, senza entrare nel merito di come viene calcolato, in ogni caso è comunque denaro! Cari presidenti di regioni e sindaci perché non dite quanto vi costa, anzi, scusate, quanto ci costa a noi contribuenti, avere un “volontario” della protezione civile davanti alle scuole ogni mattina? O quanto ci costano i loro mezzi di trasporto? E vogliamo parlare di volontari che pur avendo un posto di lavoro, svolgono il volontariato con un contributo mensile che spesso si avvicina ad uno stipendio… allora prima di sparare sul costo dell’Esercito, andiamo a vedere i costi dei volontari! Ancora una volta riaffiora la mentalità retrograda e faziosa di qualche decennio fa, quando si pensava che il soldato fosse a costo “zero”, tanto dalla mattina alla sera bighellona in caserma. Oggi le Forze Armate sono fatte di volontari professionisti, basta leggere le cronache relative alle missioni fuori area, e, pertanto, come per tutti i professionisti, la loro opera ha un costo. I mezzi non si muovono senza gasolio, gli equipaggiamenti hanno un costo e si usurano, i soldati mangiano come tutti gli esseri umani…e allora, perché è scandaloso pagarli? Forse il dott. Ricci intendeva che a pagarli fosse lo Stato. Ma dov’è la differenza? O forse per Ricci esiste ancora “pantalone”? Armida Tondo
MA I VOLONTARI A PAGAMENTO SONO VOLONTARI? Si chiede Michela Scavo il 26 luglio 2012. Il volontariato è un’attività libera e gratuita svolta per ragioni private e personali, che possono essere di solidarietà, di assistenza sociale e sanitaria, di giustizia sociale, di altruismo o di qualsiasi altra natura. Può essere rivolto a persone in difficoltà, alla tutela della natura e degli animali, alla conservazione del patrimonio artistico e culturale. Nasce dalla spontanea volontà dei cittadini di fronte a problemi non risolti, o non affrontati, o mal gestiti dallo Stato e dal mercato. Per questo motivo il volontariato si inserisce nel “terzo settore” insieme ad altre organizzazioni che non rispondono alle logiche del profitto o del diritto pubblico. Il volontariato può essere prestato individualmente in modo più o meno episodico, o all’interno di una organizzazione strutturata che può garantire la formazione dei volontari, il loro coordinamento e la continuità dei servizi. Questa è la definizione di Volontariato che possiamo trovare su Wikipedia. A Palazzago ultimamente il tema “Volontari” è molto in voga. Pare ci siano volontari per ogni cosa: per il volantinaggio, per l’assistenza allo spazio compiti, quelli delle varie associazioni, quelli tanto ricercati per ripulire scuole e via dicendo. Ma ci sono volontari e volontari. Ci sono quelli veri e ci sono quelli con il rimborso spese da 5,16 euro all’ora. Premesso che poco mi importa se dei cittadini vengono pagati miseramente per svolgere attività sul territorio, ma perché continuiamo a chiamarli VOLONTARI? Non sarebbe più giusto definirli collaboratori sottopagati? Già, non si può perché non sono sotto pagati, percepiscono un rimborso spese. Allora la mia domanda è, se vengono rimborsate delle spese dove possiamo trovare la documentazione, per ogni singolo presunto volontario, che certifica queste spese? E se di rimborso spese si tratta per quale motivo pare che ci siano dei volontari a rimborso che attendono da tempo i soldi che gli spettano? Poi non stupiamoci se ci sono associazioni di volontari da 1800 euro l’anno e associazioni da 26mila euro l’anno. I volontari vanno pure spesati giusto? E non mi si venga a dire che senza il rimborso nessuno farebbe il volontario a titolo gratuito, lo dimostrano tante associazioni sul territorio e alcuni gruppi di recente formazione che il volontariato vero a Palazzago può esistere tranquillamente. A questo punto sono proprio curiosa di capire perché nessuno dei nostri amministratori, di fronte allo sdegno di alcuni per i contributi alla Pro Loco non abbia menzionato la questione. Forse perché nonostante la vagonata di soldi predisposta anche quest’anno sono in arretrato con i rimborsi spese? O forse perché se non si decidono a tirare fuori le quattro palanche che devono rischiano di trovarsi senza volontari sugli scuolabus a settembre? Come è possibile che nella convenzione con la Pro Loco non si accenni alla retribuzione di tali finti volontari? Forse perché in realtà non si tratta di volontari ma di cittadini sottopagati praticamente al servizio del comune, che camuffa dei compensi con il rimborso spese? Non sono proprio sicura che sia una cosa fatta a regola d’arte ma c’è una commissione che si occupa delle associazioni, qualcuno sicuramente saprà darci una risposta. Michela Scavo
Fai il volontario e chiedi un rimborso? Prima paga la tassa. I soccorritori che chiedono il rimborso della giornata di lavoro devono allegare due marche da bollo da 16 euro, scrive Franco Grilli, Domenica 06/07/2014, su "Il Giornale". Ci può essere una pretesa più assurda di quella di far pagare una tassa a chi presta il proprio tempo per opere di volontariato? Temiamo proprio di no, eppure, a quanto pare, si è verificato anche questo. Con un'interrogazione urgente il parlamentare bellunese Roger De Menech (Pd) ha chiesto al governo di fare piena luce su quanto gli è stato segnalato dal responsabile del Soccorso alpino, Fabio Bistrot. "Voglio proprio sapere - dice il parlamentare - chi è il geniale burocrate che pretende 32 euro da ciascun volontario ogni volta che fa un intervento di soccorso e, di conseguenza, chiede il rimborso della giornata di lavoro persa. Di certo non ha mai fatto il volontario". L'importo, a quanto si apprende, corrisponde a due marche da bollo da 16 euro ciascuna da apporre a ciascuna richiesta di rimborso presentata dai volontari. "E’ incredibile che qualcuno voglia spremere soldi dai volontari", afferma sdegnato De Menech. "Se a farlo è addirittura lo Stato, aggredisce la dignità dei volontari e mina il principio di sussidiarietà. Questo increscioso episodio conferma l’urgenza non solo di riformare la pubblica amministrazione ma anche di quanto sia necessario e indispensabile il ricambio di personale all’interno della burocrazia italiana. L’attuale burocrazia è ostile ai cittadini e ai contribuenti, e interpreta il proprio ruolo non al servizio degli italiani ma come potere da usare contro i nostri concittadini". Nell’interrogazione che ha presentato De Menech chiede ai ministeri interessati cosa intendano fare per "superare un’interpretazione giuridica che avvilisce la dignità stessa dei soccorritori, considerato peraltro il ruolo fondamentale da essi svolto nella stagione estiva, sia sull’arco alpino che su quello appenninico, volto a garantire la presenza dello Stato in tali ambienti e a fornire quel supporto di sicurezza, prevenzione e soccorso alle migliaia di turisti, italiani e stranieri, che decidono di trascorre le proprie vacanze in tali luoghi". Con il rischio evidente che, l'assurda tassa, possa scoraggiare i generosi volontari dal continuare a prestare la loro opera. I volontari della protezione civile, se nella vita sono lavoratori dipendenti, in caso di soccorso durante il terremoto o altre calamità naturali, hanno diritto alla retribuzione. Sono pagati dal datore di lavoro con il normale stipendio e hanno diritto la conservazione del posto di lavoro. L’azienda a sua volta può chiedere il rimborso all’Inps. Ma è necessario effettuare alcuni adempimenti. Ai volontari lavoratori autonomi spetta invece una indennità. Vediamo tutte le informazioni.
Diritti dei lavoratori, scrive Antonio Barbato il 30 agosto 2016. Gli eventi sismici che hanno colpito l’Italia negli ultimi anni hanno evidenziato il ruolo chiave in Italia dei Volontari della protezione civile, dei Vigili del Fuoco e degli appartenenti alle forze armate e di polizia. Le attività di protezione civile sono fondamentali in Italia, soprattutto per far fronte alle emergenze. L’attività dei volontari è disciplinata dalla legge italiana soprattutto in termini di diritti dei lavoratori. Il volontario che nella vita è lavoratore dipendente del settore privato o pubblico ha diritto alla conservazione del posto di lavoro e allo stipendio. Il volontario che nella vita è lavoratore autonomo ha diritto ad un indennità. Quando coloro che svolgono attività di volontariato sono impegnati in operazioni di soccorso per calamità naturali o catastrofi o per attività di addestramento e simulazione, pianificate dall'Agenzia Nazionale per la Protezione civile o dalle altre strutture istituzionali, hanno diritto al mantenimento del posto di lavoro, sia pubblico che privato e hanno diritto inoltre al mantenimento del trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro e alla copertura assicurativa secondo le modalità previste dalla legge. Quindi alla domanda “i volontari di protezione civile sono pagati?” la risposta è che il volontariato della protezione civile è un servizio gratuito reso dal volontario ma spetta loro lo stipendio, se sono lavoratori dipendenti. E spetta una indennità se sono lavoratori autonomi. Vediamo perché. Il legislatore ha provveduto a tutelare i volontari lavoratori che, in caso di impiego nelle attività di Protezione civile a seguito della dichiarazione dell’esistenza di eccezionale calamità o avversità atmosferica, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri “straordinari" (dall'attivazione dei primi soccorsi alla popolazione e degli interventi urgenti necessari a fronteggiare l'emergenza, fino all'attuazione degli interventi necessari per favorire il ritorno alle normali condizioni di vita nelle aree colpite da eventi calamitosi). In tali casi, nonché a seguito dell’impiego in attività di pianificazione, soccorso, simulazione, emergenza e formazione teorico-pratica, anche svolte all’estero, hanno diritto al mantenimento del posto di lavoro, al trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro pubblico o privato, nonché alla copertura assicurativa.
Diritti dei volontari di protezione civile. I volontari che partecipano all’opera di soccorso (effettivamente prestato) hanno diritto:
al mantenimento del posto di lavoro pubblico o privato;
al mantenimento del trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro pubblico o privato;
alla copertura assicurativa secondo le modalità previste dall’articolo della legge 11 agosto 1991, n. 266, e successivi decreti ministeriali di attuazione.
Ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. 8 febbraio 2001, n. 194, l’obbligo del datore di lavoro è quello di permettere l'impiego del volontario per un periodo non superiore a 30 giorni consecutivi e fino a 90 giorni nell'anno. Per le attività di simulazione i limiti si riducono a 10 giorni consecutivi e 30 nell'anno, e per emergenza nazionale i termini sono rispettivamente di 60 e 180 giorni.
Quindi si viene dichiarato lo stato di emergenza nazionale, i limiti possono essere elevati fino a 60 giorni continuativi (e fino a 180 giorni nell’anno). I limiti restano tali per tutta la durata dell’emergenza nazionale e per i casi di effettiva necessità.
Il diritto allo stipendio. Nei periodi di assenza del Volontario del servizio civile, il datore di lavoro deve mantenere il posto di lavoro e la copertura assicurativa (Inail) e gli deve corrispondere il normale trattamento economico e previdenziale (quindi stipendio e versamento dei relativi contributi all’Inps). Nello specifico per ogni giornata di assenza tutelata e retribuita spetta la retribuzione globale di fatto giornaliera, ossia tutti quegli elementi della retribuzione che vengono corrisposti normalmente e in forma continuativa (si pensi allo stipendio base, al superminimo, all’indennità di contingenza, agli scatti di anzianità, ecc.). Per quanto riguarda la tassazione in busta paga, non cambia nulla, nel senso che il dipendente volontario della protezione civile riceve il normale stipendio assoggettato alla ritenute fiscali, quindi all’Irpef al netto delle detrazioni fiscali per lavoro dipendente, familiari a carico, ecc.
Il datore di lavoro ha diritto al rimborso Inps. Il datore di lavoro può poi richiedere rimborso delle somme versate al lavoratore impegnato come volontario. La richiesta va inoltrata all’Inps. I contributi previdenziali versati durante l’assenza del lavoratore non sono però rimborsabili. Al fondo per la retribuzione civile spetta quindi l'onere finale della retribuzione erogata dal datore di lavoro al Volontario di Protezione civile, mentre al datore di lavoro rimane il compito di avanzare richiesta di rimborso all'Autorità della Protezione Civile competente nei due anni successivi al termine dell'intervento, dell'esercitazione o dell'attività di formazione. Nella richiesta vanno indicate in maniera analitica la qualifica professionale del dipendente, la retribuzione oraria o giornaliera spettante, le giornate di assenza dal lavoro, l'evento cui si riferisce il rimborso e le modalità di accreditamento del medesimo.
La documentazione da presentare al datore di lavoro. Prima di tutto il lavoratore che è impegnato come Volontario della Protezione civile ha un obbligo comunicativo, che è quello di informare quanto prima il datore di lavoro della sua partecipazione alle operazioni di soccorso. Al termine delle operazioni stesse, il lavoratore, compatibilmente con le esigenze del soccorso, deve consegnare la dichiarazione del sindaco (o di un suo delegato) dalla quale risulti l'impiego come volontario nelle operazioni di soccorso. La distribuzione dell’orario di lavoro dei volontari di protezione civile. I lavoratori appartenenti ad organizzazione di volontariato hanno diritto, compatibilmente con le esigenze organizzative aziendali, di fruire di un regime di orario di lavoro concordato nell’ambito di una distribuzione flessibile degli orari (art. 17 L. 266/91). Tale disciplina non si applica a che svolge attività di volontariato in modo occasionale, ma solo a chi l’esercita nell’ambito delle associazioni di volontariato. Le predette disposizioni si applicano anche nel caso in cui le attività interessate si svolgono all’estero, purché preventivamente autorizzate dall’Agenzia. Detto regime è esteso anche agli appartenenti alla Croce Rossa Italiana, ai volontari che svolgono attività di assistenza sociale ed igienico / sanitaria, ai volontari lavoratori autonomi e ai volontari singoli iscritti nei “Ruolini” delle Prefetture, qualora espressamente impiegati in occasione di calamità naturali.
Quali sono le associazioni di volontariato. Sono considerate associazioni di volontariato di protezione civile quelle associazioni che siano costituite liberalmente e prevalentemente da volontari, riconosciute e non, e che non abbiano fini di lucro anche indiretto e che svolgono o promuovono attività di previsione e soccorso in vista od in occasione di calamità naturali, catastrofi o altri eventi similari, nonché di formazione nella suddetta materia. Presso l’Agenzia per la protezione civile è istituto l’elenco nazionale dell’Agenzia di protezione civile. Le organizzazioni di volontariato, iscritte nei registri regionali previsti dall’articolo 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266, nonché in elenchi o albi di protezione civile previsti specificamente a livello regionale, possono chiedere, per il tramite della regione o provincia autonoma presso la quale sono registrate, l’iscrizione in questo registro al fine di una più ampia partecipazione alle attività di protezione civile.
Volontari di protezione civile lavoratori autonomi: spetta un rimborso giornaliero fino 103,29 euro. Ai volontari impiegati in attività di protezione civile che siano lavoratori autonomi e che ne fanno richiesta, è corrisposto il rimborso per il mancato guadagno giornaliero fino a 103,29 euro al giorno. A chi esercita attività di volontariato all'interno di un'associazione ed in modo non occasionale, il datore di lavoro deve, compatibilmente con le esigenze aziendali, dare diritto ad un orario di lavoro flessibile. Più precisamente, ai volontari lavoratori autonomi appartenenti alle organizzazioni di volontariato e legittimamente impiegati in attività di protezione civile, che ne fanno richiesta, è corrisposto il rimborso per il mancato guadagno giornaliero calcolato sulla base della dichiarazione dei redditi (modello UNICO) presentata l'anno precedente a quello in cui è stata prestata l'opera di volontariato, nel limite di Euro 103,29 giornalieri lordi. La misura effettiva dell’indennità, volta a compensare il mancato reddito, è stabilita ogni anno con D.M. lavoro: dato che, per il 2016, la retribuzione media mensile spettante ai lavoratori dipendenti del settore industria è pari a euro 2.127,39, su questa base va calcolata l'indennità spettante per il mancato reddito relativo ai giorni in cui i lavoratori autonomi si sono astenuti dal lavoro. Tale importo deve essere diviso per 22 o per 26, a seconda che la specifica attività di lavoro autonomo sia svolta rispettivamente in 5 o 6 giorni per settimana (Ministero del lavoro, decreto 9 marzo 2016). Lavoratori autonomi: adempimenti per la richiesta del rimborso. I volontari che siano lavoratori autonomi, al fine di percepire l'indennità prevista dal comma 3 dell'art. 1 della legge 18 febbraio 1992, n. 162, per il periodo di astensione dal lavoro, debbono farne richiesta all'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione competente per territorio. La domanda deve essere inoltrata, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello in cui il volontario ha effettuato l'operazione di soccorso o l'esercitazione. Alla domanda, che deve contenere le generalità del volontario che ha effettuato l'operazione di soccorso o l'esercitazione, deve essere allegata l'attestazione del sindaco, o dei sindaci dei comuni territorialmente competenti, o di loro delegati, comprovante l'avvenuto impiego nelle predette attività e i relativi tempi di durata, nonché la personale dichiarazione dell'interessato di corrispondente astensione dal lavoro, resa ai sensi dell'art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15.4. L'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, una volta determinato l'ammontare dell'indennità spettante al volontario, sulla base dell'importo fissato annualmente con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale procede quindi al pagamento dell'indennità all'avente diritto. Ai fini della determinazione dell'indennità compensativa del mancato reddito relativo ai giorni in cui i lavoratori autonomi si sono astenuti dal lavoro per l'espletamento delle attività di soccorso o di esercitazione, non si tiene conto dei giorni festivi in cui le medesime hanno avuto luogo, fatta eccezione per quelle categorie di lavoratori autonomi la cui attività lavorativa si esplica anche o prevalentemente nei giorni festivi.
Rimborso Inps: adempimenti del datore di lavoro. Come abbiamo detto, il datore di lavoro è obbligato ad erogare al lavoratore impegnato in operazioni di soccorso come Volontario della Protezione Civile la normale retribuzione, salvo poi poter far richiesta di rimborso. A tal fine va presentata apposita domanda all’Inps, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello dell'operazione. Quante giornate e ore sono rimborsabili? Sono rimborsabili le giornate e le ore di effettiva astensione dal lavoro del volontario di Protezione civile. Sono da escludersi le ore di lavoro prestate nella giornata prima dell'astensione o comunque effettuate dopo l'operazione di soccorso, nonché le giornate, di riposo settimanale, festivo, di ferie, del sabato in caso di "settimana corta", eccetera. L’Inps rimborsa solo per i lavoratori dipendenti iscritti presso le proprie gestioni. La domanda va presentata online e deve contenere:
le generalità del lavoratore;
l'importo della retribuzione corrisposta;
l'attestazione del sindaco, o dei sindaci dei Comuni territorialmente competenti, o di loro delegati, comprovante l'avvenuto impiego nelle predette attività e i relativi tempi di durata;
una dichiarazione del datore di lavoro indicante la corrispondente astensione dal lavoro;
la dichiarazione del lavoratore attestante l'appartenenza al CNSAS.
Come diventare volontario della protezione civile. In molti vorrebbero diventare Volontario della protezione civile: vediamo quali sono i requisiti richiesti. Molti si chiedono come entrare nella protezione civile. Riportiamo le disposizioni della Protezione civile. Per poter svolgere attività di protezione civile come volontario a supporto delle istituzioni che coordinano gli interventi, è necessario essere iscritti ad una delle organizzazioni di volontariato di protezione civile inserite negli elenchi Territoriali o nell'elenco Centrale. Gli elenchi territoriali sono consultabili presso la Regione o la Provincia autonoma nella quale si intende svolgere – in prevalenza – l'attività di protezione civile e su questo sito, nella sezione volontariato. L’elenco Centrale, composto da poche organizzazioni nazionali di coordinamento, è consultabile sempre su questo sito nella pagina elenco centrale delle Organizzazioni di volontariato. Chi desidera diventare volontario di protezione civile può, al momento dell'iscrizione presso un'organizzazione di volontariato di protezione civile, valutare una serie di elementi che caratterizzeranno la propria attività nel settore scelto:
ambito territoriale di evento (nazionale, regionale, comunale ecc.);
ambito dimensionale dell'evento (tipo a), tipo b), tipo c) in base all'articolo 2 della legge n. 225 del 1992);
eventuale specializzazione operativa dell'organizzazione (sub, cinofili, aib);
livello di partecipazione con le attività istituzionali;
disponibilità richiesta;
vicinanza della sede alla propria abitazione.
I regolamenti delle varie associazioni possono prevedere adempimenti o limitazioni particolari (es. visita medica per lo svolgimento di mansioni particolari o requisito della maggiore età ai fini dell'iscrizione). Per un approfondimento sul ruolo del volontariato all'interno del Servizio Nazionale di protezione civile è possibile visitare la sezione volontariato. Un'altra possibilità di partecipazione è offerta (solo per alcune fasce di età) dal servizio civile; per avere informazioni su quest'ultimo, occorre consultare l'indirizzo serviziocivile.gov.it.
E per quanto riguarda i volontari dei vigili del fuoco? Per quanto riguarda l'iscrizione nel ruolo dei Vigili del Fuoco Volontari, allo stato attuale le iscrizioni del personale volontario sono sospese, fino al 2014 ho sentito dire, ma di questo non ho conferma. Quello che so di preciso è che la Legge n. 183 del 2011 (che sarebbe poi la Legge di stabilità relativa al 2012) ha disposto, tra le altre cose, l'applicazione di un tetto massimo di nuovi reclutamenti volontari. Di conseguenza tutti i Comandi che hanno già in archivio un numero di domande superiore a quello previsto dalla normativa, non possono nè istruire nuove pratiche, nè accettare ulteriori domande di iscrizione. Quindi, non ti resta che andare al tuo Comando Provinciale e chiedere se puoi almeno presentare la domanda. Per quanto riguarda le retribuzioni, bisogna intanto fare una distinzione fra Vigile Volontario vero e proprio e Vigile Volontario Discontinuo, che sono due figure diverse. Il vigile volontario vero e proprio, quello che fa servizio nei distaccamenti di personale volontario per intenderci, non percepisce uno stipendio ma prende comunque qualcosa, anche se poco. Praticamente, i vigili del fuoco volontari ricevono un compenso in base alle ore di intervento realmente prestate, nonchè per ogni ora di addestramento obbligatorio, che si effettua presso un Comando o comunque una sede con Vigili Permanenti. Quindi, alla fine prendi un tot ad intervento: se fai 12 ore di servizio ma in quelle 12 ore non succede niente, non guadagni niente. Se fai 4 ore di intervento, prendi per 4 volte il compenso orario, che si aggira intorno ai 6 euro l'ora (o almeno era così fino all'anno scorso, comunque il compenso non arriva a 7 euro l'ora). Poi c'è il Vigile Discontinuo: se sei iscritto nei ruoli dei Vigili Volontari come Discontinuo, quando c'è necessità vieni chiamato in servizio per un periodo che può essere di 20 giorni ma anche di 40 e anche, in certi casi, 100, se c'è necessità e se hai la disponibilità per farlo... Comunque sia, i richiami sono sempre di 20 giorni, quindi anche se fai 60 giorni di lavoro sono tre diversi contratti a termine. Come Vigile Discontinuo prendi uno stipendio vero e proprio, per 20 giorni prendi più o meno 1100 €, questo perchè prendi lo stipendio calcolato sui giorni lavorati, ai quali si aggiungono il rateo di tredicesima e la quota t.f.r (essendo un contratto a termine). Inoltre ti pagano eventuali straordinari e reperibilità, che sei libero di dare o non dare.
E poi chiamali, se vuoi, volontari (con contratto pubblico): I volontari della Croce Rossa.
Niente post terremoto per i soccorritori: pagati per non fare nulla, rimangono a casa. Con le scosse del 24 agosto pensavano di essere più utili in centro Italia che in Lombardia. Ma non sono partiti. Sono gli effetti della privatizzazione della Cri: esuberi e stipendi tagliati per alcuni addetti, mentre altri non escono più in ambulanza. E per coprire i buchi di bilancio si cerca di vendere il patrimonio immobiliare, scrive Michele Sasso e Monica Soldano il 31 agosto 2016 su “L’Espresso”. Dalla Lombardia alle zone colpite dal terremoto. Per non stare con le mani in mano, per usare sul campo la propria esperienza di soccorritore. Nei giorni del post-sisma che ha devastato Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto per gli uomini della Croce rossa del comitato lombardo non c’è però nessuna missione: «Non c’è bisogno di voi» è la risposta arrivata dal presidente nazionale Francesco Rocca. I dipendenti che si sono fatti avanti sono tra i 200 lavoratori che dopo la privatizzazione del 2014 hanno deciso di mantenere il contratto pubblico. Da anni timbrano ma fanno poco. Le dieci ambulanze non escono dai garage. Sono autisti e barellieri ma non fanno più la loro professione. In quanto dipendenti pubblici, non possono fare servizi in convenzione (come, ad esempio, le ambulanze per il 118 o il trasporto di malati fuori dall’emergenza) perché esclusi dalla legge. E poi nel 2015 un altro passo verso il paradosso. «Da inizio anno non lavoriamo più sulle ambulanze e giriamo a piedi per Milano svolgendo un servizio di pochissima utilità, equipaggiati con uno zainetto pieno di garze e cerotti», ha raccontato al Fatto quotidiano Mirco Jurinovic, soccorritore e dirigente sindacale di Usb. Costano 4 milioni di euro all’anno ma non vengono utilizzati. È il risvolto kafkiano della privatizzazione. Ci sono voluti due anni per provare finalmente a trasformarsi in una struttura efficiente, indossando il vestito nuovo dell’associazione privata. Gli effetti non sono quelli sperati. Ecco come buttare al vento la passione di 150mila volontari, quasi tremila dipendenti tra personale civile, infermieri e dipendenti del Corpo, e impoverire il servizio d’emergenza in molte Regioni. Il piano di riorganizzazione pensato dall’ex premier Monti ha provocato evidenti cortocircuiti: esuberi e stipendi tagliati per una fetta di addetti, mentre altri vengono pagati per non fare nulla. Oltre al tentativo di svendita dell’immenso patrimonio di quasi 1.500 palazzi e terreni, il frutto di 150 anni di donazioni di chi pensava di fare del bene. Nella fase di transizione è intervenuto con due proroghe anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin che ha messo sul piatto della finanziaria oltre 300 milioni di euro. Fondi necessari a pagare i debiti e tenere in piedi l’esercito di barellieri e operatori del primo soccorso. Emilia De Biasi, presidente Pd della commissione Sanità al Senato è tranchant: «La Croce rossa italiana è ancora un carrozzone con un patrimonio di sedi e competenze svilito. La riforma è un’urgenza: ci vuole trasparenza per tutta la gestione, e invece il ministero della Salute continua a prendere tempo». Nel 2012 si decide di dire basta alla crocerossina di Stato. Privatizzando le organizzazioni provinciali, quindi sciogliendo gli apparati centrali che non hanno mai conosciuto la spending review e «bruciato» un miliardo di euro negli ultimi dieci anni. E qui viene a galla il primo problema, la ricollocazione del personale: ancora adesso ci sono circa 2mila persone da piazzare. Il decreto firmato nel settembre 2015 dal ministro della pubblica amministrazione Marianna Madia prevedeva esclusivamente il traghettamento verso i ministeri, o istituti come Inps o Inail. Un non sense riparato con la finanziaria, che allarga la possibilità anche al servizio sanitario nazionale, per gran parte degli interessati una collocazione naturale. «Temiamo che il ministero non riesca a gestire il ricollocamento - denuncia Nicoletta Grieco della Cgil - finora c’è stata una gestione scomposta e nessun coordinamento con le Regioni ed Asl locali. Mancano otto mesi alla fine dell’anno e il rischio è la mobilità, seguito dal baratro del licenziamento». In tanti hanno preferito non abbandonare l’uniforme e sono passati ai nuovi comitati. Con un salto all’indietro: lo status di associazione privata prevede contratti targati Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze) con stipendi mensili decisamente inferiori, da 1.600 a 1.100 euro. Epicentro della cura dimagrante il Lazio, dove sono concentrati oltre 1200 dipendenti, su un totale nazionale di 2788 addetti. Disorganizzazione e casi-limite come quello di D.M., operatrice precaria che per 25 anni ha lavorato al Centro di educazione motoria (Cem) di Roma. Nel 2011 decide di fare causa per ottenere il tanto agognato contratto a tempo indeterminato e il Tribunale dopo due anni le dà ragione. «Con il nuovo corso mi è stato imposto di non mettere più piede al Cem. Spostata al comitato metropolitano, ho seguito l’emergenza freddo: un campo di tende per dare assistenza ai senzatetto. Il piano è durato dal 15 gennaio al 21 marzo e da allora ogni giorno timbro per non fare nulla». Mentre al centro per la cura di pazienti con gravi disabilità diventato di eccellenza grazie ai quattrini del leggendario canzoniere Mario Riva il personale è stato dimezzato e l’assistenza ridotta ai minimi termini. La privatizzazione avrebbe dovuto portare efficienza e risanamento economico. Nel primo anno - il 2014 - il «disavanzo di cassa è perdurante, posizione debitoria è preoccupante e pesante ricorso all’anticipazione bancaria», ha sottolineato la Corte dei conti. Così per coprire i buchi di bilancio la soluzione è drastica, vendere i gioielli di famiglia: 1.045 fabbricati e 413 terreni. Un’impresa non facile. L’ultimo tentativo risale al maggio 2014, quando 19 lotti tra palazzi e appartamenti vengono messi all’asta: da La Spezia a Schio, fino a Casale Monferrato e Pavia. Finisce all’incanto anche la storica sede sul lungomare di Jesolo, Venezia, e presto la stessa sorte toccherà al palazzetto ottocentesco del quartier generale di Roma. In Laguna il prezzo precipita: da 42 milioni è sceso a 34. Sull’eccessivo ribasso la deputata grillina Arianna Spessotto ha presentato un’interrogazione parlamentare. La risposta del ministero della Salute è arrivata il 17 marzo scorso. Per il sottosegretario Vincenzo De Vito “nessuna svendita”: il ribasso di un quinto del valore è regolare, dopo che le prime due sedute sono andate deserte. Dopo c’è stato un nuovo sconto sul valore dell’immobile ma ancora nessun acquirente. Eppure, a Jesolo, partiti e sindacati non si danno pace perché vedono il rischio di smobilitare i servizi, con 50 dipendenti a spasso. E il via libera alla speculazione. «Quel palazzetto sul mare, con 18mila metri quadrati di spiaggia, ha dei vincoli ben precisi», attacca Salvatore Esposito di Sel. E anche per la Sovrintendenza dei beni culturali si tratta di un edificio di interesse storico, in cui non si possono rimuovere gli affreschi né alterare la struttura delle stanze. Per il conte Ottavio Frova, la donazione del 1928 si vincolava alla cura della “fanciullezza trevigiana”. Nel tempo è prima diventata una colonia per i malati di tubercolosi. Oggi è anche un centro per i rifugiati. Fabio Bellettato, ex capo della Cri Veneto, sul tema aveva lanciato un appello al presidente nazionale Francesco Rocca. Era in disaccordo sulla vendita del patrimonio immobiliare come unica possibilità di risanamento. La richiesta di Bellettato è rimasta inascoltata, mentre lui si è dimesso. Mancanza di democrazia, centralizzazione del potere e interesse solo per le missioni all’estero: sono le critiche mosse dai comitati periferici verso Francesco Rocca, avvocato che gestisce l’ente sinonimo di solidarietà ed aiuto come un padrone assoluto. Un esempio? Quando nel 2011 la funzionaria Anna Montanile ha denunciato alla trasmissione tv “Report” le incongruenze della gestione delle sedi è stata trasferita all’archivio storico. A fare ricerche sulle bandiere. Oggi mentre la Cri è alle prese con un serrato piano di risanamento, Rocca è spesso all’estero per missioni che fanno bene alla sua immagine di numero due della federazione internazionale: Iran, Siria, progetti post terremoto di Haiti ed emergenza profughi. «Non ho rimborsi né indennità, mi viene pagato solo l’albergo quando sono in missione», precisa Rocca a “l’Espresso”: «Da presidente non prendo stipendio, sono totalmente volontario. Purtroppo veniamo da trent’anni di assoluto abbandono. Abbiamo bisogno di dipendenti, ma non in quel numero e con quello spreco». Il presidente-volontario è stato per più di quattro anni commissario straordinario, voluto da Berlusconi (con un budget annuale di 320mila euro), da maggio 2015 è direttore dell’Idi di Roma, l’ospedale dermatologico più grande d’Europa. Di proprietà della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione è al centro di una storiaccia brutta di bancarotta fraudolenta, fatture false e un passivo patrimoniale di 845 milioni di euro.
Ambulanze, il business delle onlus. E il soccorritore lavora in nero, scrive Massimiliano Coccia il 19/05/2014 su “Il Tempo”. La Regione non indice bandi ma si affida unicamente a gettoni a chiamata. Gli operatori del 118 sfrecciano nel traffico a sirene spiegate. Sono i primi ad essere colpevolizzati in caso di ritardi nei soccorsi, sono gli ultimi ad abbandonare il mezzo a fine turno. Ma in tantissimi casi per stare su quelle autoambulanze non hanno un regolare contratto di lavoro. Colpa della crisi e dei tagli alla sanità. Ma, secondo molti, anche della situazione venutasi a creare in seguito ad alcune delibere regionali (271/2011 e 325/2011) che favoriscono nei servizi di trasporto extraospedaliero di emergenza le onlus rispetto agli operatori privati. Queste delibere, che violano il diritto europeo in materia (causa C113/13 della Regione Liguria), creano un sistema, che se confermato, lede in maniera forte ai principi di concorrenza tra privati e di tutela sia dei lavoratori che degli assistiti. Inoltre, essendo le «onlus» enti associativi senza finalità di lucro, non dovrebbero percepire lo stesso rimborso da parte di Ares che spetta ai privati e dovrebbero basarsi solamente sul lavoro volontario. Invece, come ci racconta G.A. (iniziali di fantasia), operatore del 118 dal 2008, molti di loro svolgono un lavoro dipendente a tutti gli effetti, stando sui mezzi 5 giorni su 7 senza assicurazione e senza contratto.
Come sei entrato a lavorare nel mondo del trasporto extraospedaliero?
«Nel servizio di ambulanze in convenzione o a chiamata "spot" per il servizio pubblico del 118 Lazio, ci sono entrato nel 2008, dopo aver perso l'ennesimo lavoro. Il mio contratto scade tra 15 giorni, dopo aver lavorato per molti mesi in nero, come lavorano molti che vengono chiamati per sopperire alle carenze dell'Ares 118».
E come venivi pagato in nero?
«Il gioco è semplice. Viene fatto firmare un foglio per il cui il volontario dichiara di prestare la sua opera senza fini di lucro, ma di fatto entra nel mondo perverso del lavoro in nero. Tutti percepiscono un "rimborso spese" che va dai 50 euro al giorno per 12 ore fino ai 70/80 euro per gli infermieri. Qualsiasi volontario avrebbe diritto ad un rimborso spese giornaliero che comprende il viaggio, il pranzo ed eventualmente un caffè al bar, solo che gli "pseudo volontari" come me, dovevano rientrare la sera a casa e procurarsi almeno 60 euro di scontrini o ricevute, altrimenti la mia giornata lavorativa andava persa. Ci sono "pseudo volontari" che fanno 25 turni al mese, secondo il fisco, come possono mantenere una famiglia solo con i rimborsi spesa?».
Ci spieghi il meccanismo di finanziamento di una "onlus" che si occupa di trasporto ospedaliero?
«L'Ares 118, per sopperire alla carenza di personale, incarica sia le "onlus" e sia le ditte di ambulanze private riconoscendo alle prime un rimborso di circa 450 euro per 12 ore e ai privati di circa 500 euro per 12 ore, con la differenza che i privati hanno i dipendenti in regola. Pagando persone a nero o sottopagandole si avrà una scarsa qualità del personale e del servizio. Vale la pena ricordare che in questo lavoro la parola d'ordine dovrebbe essere professionalità. Più volte in ambulanza ho lavorato con un infermiere neanche iscritto all'IPAVSI».
Quali rischi corri ogni giorno salendo su un mezzo di fatto privo di ogni assistenza previdenziale e assicurativa?
«I rischi in questo lavoro sono molteplici dati proprio dalla peculiarità del servizio, in particolare quelli infettivo ed epidemiologico. E la tutela assicurativa è inesistente. Anni fa ebbi un infortunio in servizio che fu refertato dal pronto soccorso del Pertini e l'unica preoccupazione della finta associazione di volontariato per cui prestavo servizio fu quella di farmi riferire che stavo svolgendo il turno da volontario».
Possiamo parlare di un sistema pianificato a tavolino per incassare i contributi pubblici sulla sanità e per fare cassa sulla previdenza lavorativa?
«Non so se sia pianificato o meno, ma trovo assurdo che la Regione non indica un bando per affidare la gestione di questi servizi e vada avanti con lo spot o il gettone a chiamata».
La questione del risparmio non riguarda solo voi operatori, anche il parco vetture è vetusto e non conforme alle direttive regionali. Quanti sono i mezzi non a norma nella Regione Lazio?
«C'è una delibera della Regione Lazio che vieta la circolazione dei mezzi di soccorso che abbiano maturato più di cinque anni di immatricolazione e servizio, ma in realtà vedo in giro ambulanze da museo con la totale indifferenza di tutti, in primis dalla centrale 118 che dovrebbe immediatamente bloccare quei mezzi».
Avete cercato di esporre il caso alla magistratura e alle forze dell'ordine?
«Io e altri colleghi abbiamo fatto denunce ed esposti ma non hanno portato a nulla. Ci hanno detto che la giustizia farà il suo corso, ma nel frattempo i primi a rischiare per questi disservizi sono i cittadini trasportati in situazioni critiche su mezzi vetusti e con personale sottopagato e non qualificato. A volte mi chiedo dove vadano a finire tutti i soldi che si mettono a bilancio per la sanità».
TERREMOTO, RAZZISMO E SCIACALLAGGIO. «Eravamo lì per aiutare, ci hanno trattato da sciacalli», scrive Simona Musco il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. I giornali nazionali li hanno sbattuti in prima pagina con accuse infamanti e senza lo straccio di una prova. «Volevamo solo dare una mano a quelle persone disperate, ora, invece, ci additano come sciacalli, solo perché veniamo da Platì: ma è tutto un equivoco». Rocco Grillo e Pasquale Trimboli ci avevano provato. Erano saliti su una Suzuki Vitara, 48 ore dopo quel terremoto che ha squarciato il centro Italia, pensando di «fare del bene». Ma da Amatrice, simbolo del sisma, sono tornati giù con l'accusa peggiore: quella di voler approfittare della tragedia per riempirsi le tasche. La loro versione, fino ad ora, era un rigo nei giornali nazionali, che parlano di loro come «malviventi» - i due hanno precedenti per furto - che si aggiravano «tra le rovine di una casa diroccata» con «fare sospetto». Di passare per avvoltoi, però, non ne hanno voglia. E raccontano quel viaggio, durato meno di 24 ore. «Ci siamo ritrovati al bar con degli amici, a parlare di tutta quella gente disperata che avevamo visto in tv - racconta Trimboli, bracciante agricolo di 36 anni -. Dovevamo partire tutti insieme, ma non abbiamo trovato un furgone. Così abbiamo pensato di raccogliere viveri, coperte e vestiti in giro per il paese e di partire con la mia auto. Ma visto che avevano bloccato l'invio dei beni, abbiamo pensato di partire per dare una mano e basta». Prima di mettersi in viaggio, alle sei del pomeriggio del 26 agosto, i due passano dalla caserma dei carabinieri di Platì, paesino di poco meno di 4mila anime, arroccato sull'Aspromonte, per tutti simbolo di una 'ndrangheta prepotente e sanguinaria, ma che ha fatto vedere il suo volto migliore in più di un'occasione. «In caserma ci hanno detto che stavamo facendo una cosa bella - spiega Grillo, 38 anni, anche lui bracciante -. Siamo passati per capire se fosse il caso di andare e ci hanno detto che il volontariato è libero». I due arrivano ad Amatrice alle 3.30, nel cuore della notte. Incontrano la polizia, chiedono dove andare per dare una mano e vengono indirizzati alla tendopoli. «Lontano, dunque, dalle case», sottolineano. I due passano da una divisa all'altra, cercando qualcosa da poter fare, fino a quando un uomo della protezione civile, alle 6.30, dà loro dei guanti e li mette a pulire i bagni. «Era pur sempre un lavoro da fare», dice Trimboli. Poi vengono spediti a raccogliere la spazzatura dentro le tende. «Da soli abbiamo raccolto circa trenta sacchi», spiega Grillo. I due si fermano per la colazione e dopo aver preso un caffè in mensa tornano alla tendopoli, dove incontrano il presidente Sergio Mattarella e il capo della protezione civile Fabrizio Curcio. «Gli abbiamo detto che venivamo dalla Calabria - raccontano -. Ci ha dato la mano e ci ha fatto i complimenti». Sono le dieci quando i due decidono di spostarsi di qualche metro, all'ombra, vicino alla loro auto, per fumare una sigaretta. «In quel momento - spiega Trimboli - è arrivato un ragazzo del posto, in macchina, e ci ha chiesto chi fossimo e il tesserino. Noi però non lo avevamo. Abbiamo spiegato che eravamo volontari ma una signora, arrivata poco dopo, ha iniziato a inveire contro di noi. Ci gridava: "dovete andare via, bastardi, infami". Abbiamo provato a spiegare che eravamo lì per dare una mano ma ha continuato a urlare». È in quel momento che arriva una ventina di uomini delle forze dell'ordine. Che avviano la procedura di rito: la consegna dei documenti, la perquisizione dell'auto, domande sul come e il perché si trovano lì. «I carabinieri hanno controllato l'auto ma non c'era nulla», spiega Trimboli, parole confermate dal verbale firmato dai due. Che per farsi credere mostrano i guanti e indicano chi li ha messi a lavorare. E pure lui, sostengono, prova a dire come sono andati i fatti. «Ha spiegato che eravamo andati a registrarci ma era tutto bloccato - racconta Grillo -. Ce n'erano tantissimi come noi lì, non registrati ma che davano una mano». I carabinieri vogliono sapere perché partire da Platì per un viaggio così lungo. Loro insistono: «per noi era un onore poter aiutare qualcuno - sottolinea Trimboli -. Ho lasciato tre bimbi piccoli a casa, solo per dare una mano. Non per sentirmi dire che sono uno sciacallo». I due invitano i carabinieri a contattare la stazione di Platì ma i loro precedenti bastano e avanzano: furto. Fatti troppo specifici per lasciar correre. «È vero, ho sbagliato anni fa ma ho pagato i conti con la giustizia, sono su una strada buona. A Platì abbiamo sempre dato una mano quando c'è stato bisogno», conclude Trimboli. A loro carico, ora, c'è solo un procedimento amministrativo presso la Questura di Rieti per il foglio di via, spiega il loro legale, Domenico Amante. «Il problema è che ora, per tutti, sono due sciacalli. Ma loro volevano solo aiutare».
E poi ci sono gli sciacalli mediatici. Dapprima i media avevano diffuso le sue generalità e pareva fosse un pregiudicato napoletano. Ma invece non è così. Si tratta infatti di un nomade di etnia Rom arrivato appositamente da Napoli in Treno, scrive “La Voce del Trentino” il 26 agosto 2016.
Arrestato sciacallo ad Amatrice: è un pluripregiudicato napoletano, scrive “Il Mattino di Napoli” il 25-08-2016. I carabinieri del comando provinciale di Rieti, nell'ambito dei servizi messi in atto al fine di reprimere il fenomeno dello sciacallaggio a seguito del forte sisma, hanno tratto in arresto un pluripregiudicato napoletano, Massimiliano Musella, 41 anni, residente al Rione Alto. Una delle pattuglie poste in campo e composta dal comandante della stazione di Leonessa e da un militare dipendente dello stesso reparto, coadiuvati da militari del 7° rgt laives, nel pomeriggio odierno, nella frazione «Retrosi» del comune di Amatrice, hanno colto all'improvviso l'uomo che tentava di forzare con un cacciavite, la serratura di un'abitazione colpita dal sisma e disabitata. I militari lo hanno sorpreso alle spalle e l'uomo, vistosi braccato, ha tentato di divincolarsi ingaggiando con i militari, una violenta colluttazione, ferendo con il cacciavite, uno dei militari. I carabinieri al termine della breve colluttazione sono riusciti a immobilizzarlo e ad ammanettarlo. Dopo averlo disarmato, lo hanno accuratamente perquisito rinvenendo nella tasca dei pantaloni, un biglietto ferroviario datato 24 agosto 2016 tratta Napoli-Roma, confermando la tesi che il pregiudicato, era giunto sul luogo del sisma, prima in treno e poi in pullman, con l'intento di far razzie all'interno delle abitazioni colpite dall'evento tellurico. L'uomo, gravato da numerosi precedenti penali per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione e porto abusivo di armi è stato tratto in arresto con l'accusa di rapina impropria e lesioni personali e tradotto presso la casa circondariale di Rieti a disposizione dell'autorità giudiziaria locale. I militari, ricorsi alle cure mediche da parte dei sanitari presenti nel campo allestito per le vittime del sisma, sono stati giudicati guaribili in 6 giorni.
Il racconto degli angeli di Amatrice: «Così abbiamo arrestato lo sciacallo», continua Ebe Pierini su “Il Mattino di Napoli” il 26-08-2016. Lì dove non possono arrivare con le auto perché ci sono solo macerie loro arrivano a piedi. Sono stati i primi a giungere sul luogo del sisma ed ora sono 400 i carabinieri che pattugliano il territorio di Amatrice ed Accumuli, 24 ore su 24, per impedire che gli sciacalli entrino nelle case abbandonate per rubare. Com'è successo giovedì quando a finire in manette è stato il 41enne napoletano Massimiliano Musella. «Mentre transitavamo in auto per la frazione di Retrosi, vicino Amatrice, io e il mio collega, l’appuntato scelto Gianni Reali, abbiamo notato un uomo che armeggiava con un cacciavite nei pressi del portone di legno di un’abitazione – racconta il maresciallo Mauro Margarito, comandante della stazione di Leonessa – Siamo scesi dal mezzo. Io indossavo la pettorina dei carabinieri. Abbiamo intimato l’alt e lui è fuggito. Lo abbiamo rincorso e raggiunto e, mentre tentavamo di immobilizzarlo, ci ha offerto resistenza. Ne è nata una colluttazione. Siamo finiti tutti e tre a terra. Il caso ha voluto che in quell’istante passasse una pattuglia di colleghi del 7° reggimento Laives che ci ha aiutati ad ammanettarlo». «L’uomo è stato poi condotto presso il carcere di Rieti con l’accusa di rapina impropria e lesioni – aggiunge il capitano Emanuela Cervellera, comandante della compagnia di Città Ducale, dipendente dal comando provinciale di Rieti, che ha la competenza sulla zone di Amatrice ed Accumuli – Il maresciallo ha infatti riportato una distorsione dell’avambraccio sinistro, mentre l’appuntato scelto una ferita da taglio all’indice della mano destra e una contusione al gomito». «L’uomo ci ha minacciato dicendo che ci avrebbe denunciati perché quello che avevamo visto non corrispondeva al vero – racconta ancora il maresciallo Margarito – Ad insospettirci è stato anche il fatto che indossasse una pettorina con scritto security e che con sè avesse un grosso sasso oltre a un borsone. In tasca aveva un verbale di accertamento di violazione di 38 euro effettuato sul treno da Napoli a Roma in quanto non aveva pagato il biglietto, datato 24 agosto, il giorno del sisma. In un primo momento si è giustificato dicendo che era un soccorritore, ma ho comandato la stazione di Amatrice per due anni e mezzo e conosco tutta la gente del posto. Se fosse stato di lì lo avrei riconosciuto. Tra l’altro la mattina era stato già notato mentre cercava di oltrepassare i varchi di accesso alla città dicendo di essere un volontario». «La prevenzione dei furti fa già parte dei nostri compiti quotidiani – assicura il capitano Cervellera - Tranquillizzare la gente rappresenta un aiuto psicologico. Hanno lasciato tutte le loro cose all’improvviso ed è nostro compito farle loro ritrovare».
Terremoto, lo sciacallo arrestato ad Amatrice aveva annunciato l'impresa su Facebook: “Vado lì”, affonda il colpo Stella Cervasio nel suo articolo del 27 agosto 2016 su "La Repubblica". L'aveva scritto sul suo profilo Facebook il 24 agosto alle 18.48: "Vado lì". Dopo si è capito che intendeva nei paesi del centro Italia colpiti dal terremoto. M.M., 41 anni, di Chiaiano, ha preso un treno Napoli-Roma, è sceso alla stazione Tiburtina ed è salito su una corriera che l'ha portato ad Amatrice, quel nome di paese che aveva sentito in tv, spazzato via dal terremoto. Nella frazione di Retrosi i carabinieri l'hanno trovato ad armeggiare con un cacciavite al lucchetto di una porta di una delle case evacuate dopo il sisma. Si è girato e ha colpito i due uomini dell'Arma, che hanno un referto ospedaliero di cinque e sei giorni. "Che lavoro fa? Nessuno ", dicono al Comando provinciale di Rieti, dove peraltro sono presi da ben altri impegni, in queste ore. L'arresto di M.M., che è accusato di rapina impropria, lesioni e resistenza, è stato eseguito dai carabinieri di Città Ducale e deve ancora essere convalidato dal gip. L'uomo intanto è rinchiuso nel carcere di Rieti. Sul suo profilo Facebook, dove annunciava la partenza per i paesi terremotati, sono piovuti gli improperi di ogni genere, anche sotto le foto di statue di santi che aveva postato in precedenza, e le accuse di aver fatto vergognare i cittadini napoletani per aver battuto il peggiore dei record: è stato il primo (e finora per fortuna l'unico) sciacallo del dopoterremoto del Lazio. E purtroppo è targato Napoli, anche se il sindaco de Magistris, per segnare immediatamente la distanza della città da quest'azione, ha annunciato la costituzione di parte civile contro il responsabile. M.M è stato arrestato in precedenza una volta per droga e due volte per furto, quindi non è nuovo a questo tipo di lavori. Ma, pur vivendo ai Camaldoli, nel dominio del clan Polverino, non ne fa parte. M.M. ama piuttosto montare sui treni e fare bravate. Lo avevano visto anche l'anno scorso, alla prima udienza del processo contro Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio. Era arrivato con il gruppo innocentista che sui social ha anche diversi sottogruppi per la verità con non numerosissimi iscritti. Reggeva uno striscione che sosteneva che il carpentiere di Mapello, poi condannato all'ergastolo, fosse innocente. Sui giornali l'avevano descritto come "l'autista molto abbronzato, arrivato da Napoli ". E sarebbe andato anche a più di una udienza del processo. Secondo quanto i giornali di Bergamo scrissero, all'epoca avrebbe anche dichiarato davanti alle telecamere: "Un'accusa ingiusta e totalmente infondata - sostiene Massimiliano M.M, il napoletano che ieri mattina è arrivato in via Borfuro appositamente per seguire la prima udienza - non è lui il colpevole. Gli autori del delitto sono ancora in circolazione. Purtroppo le indagini non state condotte in modo adeguato".
Il video dello sciacallo: un falso grossolano, scrive Ugo Maria Tassinari il 26 agosto 2016. Un video supporta da stamattina una campagna virale sullo sciacallo napoletano a partire dalla notizia di stampa attivata da “Il Mattino” (proprio contro un suo concittadino). Un’onda di indignazione tale che il sindaco De Magistris ha annunciato la volontà di costituirsi parte civile. Peccato che il video non c’entri niente. A trascinare il fermato, infatti, sono poliziotti. E, a finale, arriva pure la smentita della Questura di Rieti, che racconta la reale dinamica. La polizia ha scongiurato il linciaggio di un innocente. Ecco la nota Agi: Roma – E’ polemica sullo sciacallaggio nelle aree devastate dal sisma: dopo una serie di denunce di individui sospetti sorpresi a rovistare tra le macerie, rilanciate anche dai media, la Questura di Rieti in un comunicato ha definite “prive di ogni fondamento” queste notizie. “I servizi di vigilanza, specificamente finalizzati al contrasto di possibili episodi di sciacallaggio, sono stati infatti attuati sin dai primi istanti con personale delle forze dell’ordine, e poi rafforzati nelle ore serali e notturne con l’arrivo dei reparti organici”, ha assicurato la Questura. Allo stato, “sentite anche le altre forze di polizia, non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati”. Sono stati eseguiti controlli su persone sospette o “semplicemente presenti all’interno di aree interdette o in procinto di entrarvi”, ma tutte le verifiche, conclude la Questura, “hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate”. Tra gli episodi segnalati c’era quello di un uomo identificato ad Amatrice perchè sorpreso con un trolley e sospettato di aver sottratto oggetti da alcune abitazioni. L’uomo ha rischiato il linciaggio da parte della folla, ma l’arrivo dei poliziotti ha evitato l’aggressione. Sempre ad Amatrice tre persone sono state fermate perché sorprese a rovistare nelle case abbandonate. Segnalazioni sono arrivate anche nell’ascolano nel comune di Arquata, in particolare nella frazione di Pescara del Tronto spazzata via dal terremoto. Secondo i soccorritori, si sono verificati casi già nel corso della prima notte del sisma. I carabinieri hanno intensificato i controlli in tutta l’area.
La versione corretta pubblicata dai media non ti aspetti.
Fermato un presunto sciacallo: rischia il linciaggio degli abitanti di Amatrice. Un presunto sciacallo è stato fermato dalla polizia ad Amatrice, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 25/08/2016, su "Il Giornale". Un presunto sciacallo è stato fermato dalla polizia ad Amatrice. Siamo nella zona alta vicino al giardino dove alcuni degli sfollati del terremoto cercano riparo dal sole. Un gruppo di abitanti del luogo ha notato un uomo di Napoli con una valigia piena e l'ha bloccato. Alla richiesta di far vedere cosa c'era dentro la borsa, il napoletano si è rifiutato. A quel punto sono intervenute le forze dell'ordine. Il video che IlGiornale.it ha realizzato in esclusiva mostra il momento del fermo. L'uomo grida aiuto dicendo "vi sbagliate, vi sbagliate". Le forze di polizia lo portano allora in un angolo al riparo dalla furia della folla che vorrebbe linciarlo. "Ma come si fa a rubare nelle case distrutte - dice molto alterato un ragazzo - entrano e si portano via tutto. Perché gli edifici non crollano quando ci sono queste persone dentro invece della gente perbene?". Alla conclusione di lunghe perquisizioni e accertamenti, i poliziotti in borghese ci fanno sapere che il presunto sciacallo "non è stato arrestato". Non sono stati trovati elementi certi per accusarlo. "Questa persona - aggiunge un ispettore della Digos - non ha commesso alcun reato a quanto pare". Ma è stato comunque allontanato dalla città: "Qui non serve", conclude l'ispettore. Il dubbio che fosse un delinquente rimane. Questa la ricostruzione dei fatti. Il presunto sciacallo sarebbe stato visto la prima volta da un ragazzo a pochi passi da un'abitazione dove si scavava tra le macerie. Avrebbe detto di dover riportare il caschetto protettivo ad un amico che stava lavorando all'interno della casa distrutta. Si sarebbe quindi spacciato per volontario. "Gli ho detto di darlo a me - racconta un ragazzo che era nei paraggi - ma insisteva per portarlo personalmente". Poco dopo l'episodio che ha scatenato il fermo. L'uomo, come detto, è stato notato con una valigia da alcuni cittadini di Amatrice e poi bloccato dalla Digos. "Diceva di essere un ingegnere", racconta il signore che l'ha intimato ad aprire la borsa. "Ma come? - fa eco un altro ragazzo - prima dice di essere un volontario e poi un ingegnere?". Durante il fermo avrebbe anche sostenuto di essere di Amatrice. Ma tutti gli abitanti assicurano di non conoscerlo. "Qui siamo tutti vicini - dice un signore - ci conosciamo bene". Il presunto sciacallo per provare a fornire un alibi avrebbe fatto il nome di un cittadino del luogo. Le forze dell'ordine lo hanno cercato per permettergli di fare un riconoscimento. Si trattava di un carabiniere. Il quale, appurato di non conoscerlo, ha avuto uno scatto d'ira. A raccontarlo è lo stesso militare. La polizia ci fa sapere che il sospettato non è un volontario registrato. Per questo motivo è stato allontanato dalla città. "Ci aspettiamo - conclude l'ispettore - di doverne allontanare altri". L'allerta sciacalli è altissima.
«Dagli allo sciacallo!». Gli untori di Amatrice, scrive Paolo Persichetti il 6 set 2016 su "Il Dubbio". Il caso dei rumeni Ion C. e Letizia A, fermati con il nipote di 7 anni con l'infamante accusa di sciacallaggio denunciato dall'avvocato Luca Conti, presidente dell'ordine di Rieti. Amatrice Oltre a provocare vittime e distruzione i terremoti sembrano suscitare il malsano bisogno di capri espiatori. Tra le pieghe del dolore e dello strazio di chi ha perso figli, genitori, parenti o amici e ha visto la propria esistenza sbriciolarsi sotto il crollo della propria casa, perdendo tutto ma forze più di ogni altra cosa le tracce della propria memoria, ciò che compone l'io di ogni persona, ci sono anche delle vittime "collaterali". L'allarme sciacalli ne ha provocate diverse in questi giorni. Alimentata dai media con storie costruite a tavolino fin dalle prime ore successive al sisma, la paura dello sciacallo si è insinuata subdolamente, complice anche l'atteggiamento di alcune forze di polizia che invece di infondere sicurezza e tranquillità nella popolazione scossa dalla tragedia hanno moltiplicato paure, diffuso dicerie come quella del falso prete che si aggira tra le frazioni colpite nascondendo sotto l'abito talare gli ori e gli argenti sottratti dalle case danneggiate. Abbiamo tutti letto la storia del pregiudicato napoletano che avrebbe preso il treno fino a Roma per poi recarsi ad Amatrice ed essere qui scoperto, non si capisce come e dove. Una vicenda confezionata ad arte al punto che lo stesso sindaco di Napoli aveva dichiarato che il comune partenopeo si sarebbe portato parte civile contro l'uomo arrestato. Peccato però che nessuno fosse finito in manette. A sole 24 ore di distanza dal terremoto un quotidiano del Nord titolava "Maledetti sciacalli, stanno già rubando tutto", narrando di tre arresti, tra cui ovviamente l'immancabile «nomade», avvenuti tra le rovine di Pescara del Tronto, tanto che la Questura di Rieti è dovuta intervenire con un comunicato nel quale si riferiva che «allo stato non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati». Sono stati eseguiti - proseguiva il testo - controlli su persone sospette o «semplicemente presenti all'interno di aree interdette o in procinto di entrarvi», ma tutte le verifiche «hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate». Ovviamente il comunicato è servito solo a quei pochi che lo hanno letto, non poteva certo arginare una psicosi da trauma se poi sul terreno c'è chi sobilla il sospetto, attrezza campi che sembrano ghetti, infantilizza le persone. La ricerca del capro espiatorio diventa allora un espediente rassicurante, una tecnica di governo del territorio che compatta le comunità disorientate verso un nemico esterno. Una ong francese ha rischiato di tornare indietro con il suo carico di preziose tende se non fosse stato per il buon senso di alcuni militari. L'esercito, oltre ai Vigili del fuoco sempre fedeli al loro motto ubi dolor ibi vigiles, ha dimostrato sul terreno di essere il corpo con la mentalità meno militare di tutti. Non stupisce dunque se due volontari di Platì, arrivati ad Amatrice con i propri mezzi e tanta solidarietà - come hanno raccontato al Dubbio - abbiano pagato il prezzo di questa fobia: accusati di esser dei potenziali sciacalli dopo le grida di una donna anziana che non li conosceva, nonostante lavorassero all'interno del campo messo in piedi dalla protezione civile, sono stati allontanati da Amatrice con il foglio di via. Chi scrive ha assistito ad un episodio grottesco: l'inseguimento da parte di sei motociclisti dei carabinieri di un furgone, avvistato nei pressi della frazione di Preta, che poi si è rivelato trasportare una salma. Non hanno avuto la stessa fortuna dei volontari di Platì i due cittadini romeni di etnia Rom fermati nella tarda mattinata del 29 agosto con l'infamante accusa di essere degli sciacalli. In un comunicato dei carabinieri si legge che una pattuglia del nucleo radiomobile di Roma avrebbe «sorpreso nella frazione di Preta del comune di Amatrice, un uomo ed una donna rispettivamente di 44 e 45 anni, che a bordo di un'autovettura Wolkswagen Passat con targa tedesca, avevano perpetrato poco prima, alcuni furti nelle abitazioni distrutte dal terremoto». Dopo un'accurata perquisizione «venivano rinvenuti svariati capi di abbigliamento, alcuni oggetti domestici, la somma contante di oltre 300 euro, una pistola giocattolo sprovvista del prescritto "tappo rosso" ed alcuni arnesi da scasso. I soggetti, entrambi di nazionalità rumena e gravati da numerosi precedenti penali per reati contro il patrimonio, sono stati tratti in arresto con l'accusa di furto aggravato e trattenuti nelle camere di sicurezza dell'arma, in attesa della relativa convalida da parte dell'autorità giudiziaria». La versione dei fatti fornita dai carabinieri ha sollevato tuttavia alcuni dubbi, intanto perché il fermo di Ion C. e Letizia A., che a bordo della loro macchina trasportavano anche il nipotino di 7 anni, non è avvenuto nella frazione di Preta ma lungo la strada regionale 577 del lago di Campotosto, in uno slargo molto ampio nei pressi del bivio per Retrosi. Dunque in un luogo lontano da centri abitati. La scena è stata vista da chi scrive, insieme ad altre due persone, che dalla frazione di Capricchia, immediatamente sotto Preta, scendevano in macchina verso Amatrice. La Passat era ferma con il portellone posteriore alzato e gli stracci contenuti all'interno gettati a terra. L'uomo e la donna erano accanto al carabiniere che controllava i documenti. L'autorità giudiziaria dopo aver confermato il fermo ha disposto la scarcerazione, sottoponendoli alla misura cautelare del divieto di entrare nelle province terremotate. Nel corso del rito per direttissima, ha spiegato l'avvocato Luca Conti, presidente dell'ordine degli avvocati di Rieti che ha assunto la difesa dei due romeni, è emersa l'inconsistenza dei capi di accusa (furto di biancheria e capi di abbigliamento). Gli arnesi da scasso si sono rivelati nient'altro che il kit di soccorso presente in ogni autovettura e i precedenti sono risultati inesistenti: la donna è sconosciuta ai servizi di polizia mentre l'uomo aveva solo una vecchia denuncia per possesso di arma impropria. Niente reati specifici come furti o rapine. I due non parlano italiano, la donna è analfabeta. Nel corso della udienza la coppia, con molte difficoltà espressive nonostante la presenza dell'interprete, ha dichiarato di essere ignara del terremoto. In macchina avevano tutto il necessario per dormire: un piccolo materasso, dei cuscini, coperte, biancheria varia e vestiti, alcuni piatti, bicchieri, posate, e i giocattoli del nipotino (tra cui la pistola di plastica), materiale privo di valore. Salta agli occhi l'assenza di preziosi, gioielli, argenteria, materiale tecnologico? L'uomo possedeva appena 305 euro, il minimo indispensabile per affrontare un viaggio. A Preta, come nella altre frazioni circostanti, nessuno ha lamentato furti. La coppia dopo essere stata scarcerata non ha più ritrovato il nipotino, affidato ai servizi sociali di Rieti che nel frattempo lo avevano trasferito a quelli di Roma. Il terremoto può contare così un altro disperso. L'avvocato Conti ha sollecitato l'ambasciata romena affinché il bimbo venisse restituito ai nonni, mentre il consiglio dell'ordine di Rieti ha promosso una raccolta di fondi i cui proventi verranno destinati ad opere di ricostruzione di edifici di interesse pubblico nei territori colpiti dal sisma (conto corrente denominato "In aiuto delle popolazioni colpite dal sisma" Iban: IT37O0306914601100000005558).
TERREMOTO E SOLIDARIETA’. Il delirio del sito islamista: "Il sisma punizione di Allah". "Sì all'Islam in Italia" è seguito da 43mila persone: "Un segno per convertire i peccatori". E fioccano le adesioni, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 26/08/2016, su "Il Giornale". Non c'è solo la spiegazione scientifica dei sismologi e dei geologi, c'è anche l'interpretazione islamica sulle vere ragioni del terremoto che ha devastato il centro Italia. La teoria arriva da un sito di musulmani residenti in Italia, «Sì all'Islam in Italia», che conta più di 43mila seguaci su Facebook. «Indubbiamente i terremoti che stanno accadendo in questi giorni sono tra i segni che Allah usa per spaventare i Suoi servi - si legge -. I terremoti e tutte le altre cose che accadono e che provocano danni e ferite alle persone sono a causa dello Shirk (l'idolatria, la falsa fede, ndr) e dei peccati, come Allah dice: Qualunque sventura vi colpisca, sarà conseguenza di quello che avranno fatto le vostre mani». La distruzione causata dal sisma non è casuale, né un evento solamente naturale, dietro ci sono la volontà di Allah e le colpe dei peccatori infedeli. Il post viene condiviso da centinaia di persone: Ibrahim residente a Milano, Mohammed che vive a Parma, Hamza che invece lavora a Padenghe sul Garda, Mehdi di Bergamo e molti altri. Il terremoto come punizione di Allah del resto trova riscontri in diverse sure del Corano, citate dal sito islamista a conforto della propria spiegazione. Una (Al-A'rf, 96) dice: «Se gli abitanti di queste città avessero creduto e avessero avuto timor di Allah, avremmo diffuso su di loro le benedizioni dal cielo e dalla terra. Invece tacciarono di menzogna e li colpimmo per ciò che avevano fatto». Un'altra ancora (Al-Ankabt, 40): «Ognuno colpimmo per il suo peccato: contro alcuni mandammo ciclone, altri furono trafitti dal Grido, altri facemmo inghiottire dalla terra e altri annegammo. Allah non fece loro torto: furono essi a far torto a loro stessi». Il concetto è chiaro anche se non viene detto in modo esplicito dal sito: chi è morto sotto le macerie si era macchiato di un grave peccato, non credere in Allah, e quindi se l'è cercata. Il sito «Sì all'Islam in Italia» cita a riprova un commentatore coranico del XIV secolo: «A volte Allah dà alla terra il permesso di respirare, il che avviene quando accadono forti terremoti; questo fa si che le persone si sentano spaventate, così si pentono, abbandonano i peccati, pregano Allah e provano rammarico per i loro peccati». La soluzione per evitare le catastrofi come quella che ha raso al suolo Amatrice e altri paesi del centro Italia, più che costruire abitazioni antisismiche, è la conversione all'islam: «Quello che devono fare i Musulmani e gli altri che sono responsabili e sani di mente, è di pentirsi ad Allah, aderire fermamente alla Sua Religione ed evitare tutto ciò che Egli ha proibito, in modo che possano essere indenni e raggiungere la salvezza da tutti i mali di questo mondo e dell'Altro: è così che Allah allontanerà da loro ogni male, e li benedirà con ogni bene». Nei commenti alla pagina Facebook, oltre ai ringraziamenti ad Allah «che ci fa vedere questi segni», c'è chi fa notare che tra i morti ci potrebbe essere anche qualche italiano di fede musulmana. Risposta degli amministratori (ignoti) del sito islamista: «L'articolo parla in generale. Si riferisce ai musulmani e ai non musulmani». Il sito (che come immagine profilo ha una cartina dove il nome «Israele» è barrato e al suo posto compare «Palestina») avvisa anche che «la Moschea di Rieti ha offerto immediata accoglienza e supporto logistico ai terremotati», mentre «Islamic Relief Italia sta già operando in coordinamento con la Protezione Civile, per far affluire prontamente i primi soccorsi». La spiegazione religiosa al terremoto non è peraltro prerogativa islamica. Anche «Militia Christi» si avventura in un'interpretazione altrettanto sconcertante, con un tweet («La tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull'abominio delle unioni civili») poi cancellato e goffamente smentito. Mentre il post sul terremoto come castigo di Allah resta lì, senza che Facebook (inflessibile sui contenuti politicamente scorretti) intervenga.
Ed a proposito di Islam. Sul terremoto che ha straziato l'Italia prende la parola anche il presentatore Claudio Lippi. E' indignato, e le sue parole vengono riportate da Lettera43 (mentre il suo profilo Twitter risulta non accessibile). Lippi si riferisce alla diversità di trattamento tra i terremotati italiani delle zone di Rieti e gli immigrati: "Mettiamo 50 immigrati a Capalbio e i terremotati in una palestra? Non ho parole".
Terremotati in tendopoli, immigrati in hotel: perché gli italiani s'infuriano, scrive di Fabio Rubini il 26 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Prima le lacrime e l'incredulità di fronte alle immagini che rimbalzavano dalle tv ai social e viceversa. Poi, piano piano, tra politici e la gente comune s'è fatto strada un dubbio: ma se ai clandestini lo Stato riserva alberghi con wi-fi e tv al plasma, perché ai terremotati italiani dovrebbero toccare tende e unità abitative di lamiera? È stato un attimo, la rete anche questa volta, è stata veicolo imbattibile e inarrestabile e così il tam tam è partito. Corroborato anche dalle notizie come quella apparsa sul sito dell'Huffington Post, secondo cui: «I terremotati dovranno stare nelle tende almeno fino alla fine di settembre, poi si vedrà». Qualcuno, come il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana, non l'ha presa bene e ha polemizzato su quelli che facevano polemica: «è evidente che non gli interessa né degli uni né degli altri. Vogliono solo contribuire a loro modo, versando bile», scatenando un dibattito sulla sua pagina Facebook tra quelli che erano d'accordo con lui e quelli che, più o meno velatamente, lo accusavano di non stare dalla parte degli italiani. A rinfocolare le polemiche ci ha pensato anche l'ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, che con una lettera inviata al Tempo spiega: «Conosco bene quella gente, nessuno vorrà andarsene lontano dai loro paesi, vanno trattati come cittadini di serie A con priorità assoluta» quindi «vanno piantate tendopoli nella zona colpita sperando che non le abbiano usate tutte per gli extracomunitari». Poi c'è il parroco di Boissano (Savona), don Cesare Donati, che in disaccordo con Bertolaso spiega: «Adesso è il momento, vista la tragedia del terremoto, di mettere gli sfollati nelle strutture e i migranti sotto le tende», raccogliendo anche il placet del leader della Lega Matteo Salvini: «Questo parroco non ha per niente torto». Il picco, però, è stato raggiunto a Milano. Il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, rilascia una dichiarazione per mettere a disposizione il campo base di Expo sia «per ospitare in questi primi giorni i terremotati» sia «per inviare i moduli abitativi nelle zone terremotate». E annuncia che «l'assessore Bordonali è già in contatto con la protezione civile» ben contenta dell'aiuto ricevuto. Tanto più che quel campo andrebbe comunque dismesso, per restituire l'area al vicino comune di Rho. Quindi la Regione e la società Expo Spa potrebbero in un sol colpo aiutare i terremotati e velocizzare lo smantellamento del Campo Base. Sulla vicenda, però, è entrato a gamba tesa il neo sindaco di Milano, il piddino Beppe Sala, ancora scottato dal «no» che lo stesso Maroni aveva posto alla sua richiesta di trasformare il Campo base di Expo in un campo profughi. Così, pensando di interpretare il pensiero del governatore come un dietrofront «opportunistico», lo ha accusato a testa bassa: «Questo terremoto è un dramma da non strumentalizzare - sbotta il sindaco -. La proposta di Maroni di utilizzare il campo base o i suoi moduli per gli sfollati del terribile terremoto sembra una delle tante dichiarazioni politiche che la Regione non ci fa mai mancare. Questa volta tentando anche una strumentalizzazione su una tragedia come quella che ha colpito il centro Italia». Un commento border line, come subito dopo gli fa notare lo stesso Maroni: «Sono sorpreso dalle dichiarazioni del sindaco Sala. In un momento così drammatico dobbiamo lasciare da parte le polemiche e fare ogni sforzo per aiutare chi è stato colpito dal terremoto - ribadisce Maroni -. Questo è il senso della mia proposta di mettere a disposizione il campo base Expo. Proposta che, per altro, è stata condivisa dalla Protezione civile nazionale. Intendo quindi procedere rapidamente in questa direzione per portare aiuto concreto a chi ha subito questa immane tragedia». Con buona pace di Sala e del Pd. Fabio Rubini.
Vittorio Feltri il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”, la verità amara sul terremoto: "Perché pensano ai morti, ignorano i vivi". Di solito succede questo: le grandi tragedie nazionali mobilitano i mezzi di comunicazione, che per qualche giorno non fanno altro che parlarne in tutte le salse fino alla saturazione. Le maratone televisive, che riprendono da ogni angolazione i danni provocati dal terremoto, durano meno di una settimana, sempre le stesse, i soliti cumuli di pietre, mani nude che scavano, cadaveri, gente disperata, lacrime. D'altronde che altro potrebbero fare i giornalisti se non raccontare ciò che hanno sotto gli occhi? Ma la ripetitività a lungo andare spegne le emozioni che si tramutano in noia. Tra un po' i riflettori si trasferiranno dall’Umbria, dalle Marche e dal Lazio in altri luoghi e anche l'ultima sciagura sarà archiviata, salvo tornare a bomba quando si scoprirà che qualche malfattore, approfittando del dolore altrui, avrà trovato il modo di arricchirsi: appalti, stecche, prezzi gonfiati. C'è una regola che non muta mai: le disgrazie sono occasioni d'oro per chi non ha scrupoli. L'esperienza ci ha istruiti. Cosicché alla fine di settembre saranno pochi, oltre ai terremotati, a ricordarsi del flagello che ha martoriato il Centro Italia. Compariranno qua e là notizie riguardanti la ricostruzione, che tarderà a cominciare, il recupero dei capitali necessari a finanziare le opere, le beghe tra le imprese che cercheranno di accaparrarsi gli appalti. Nulla di appassionante. E le nostre coscienze si quieteranno. Ecco quanto è sempre successo e succederà ancora. Le brutte abitudini sono le più resistenti. Personalmente, in veste di cronista ho seguito parecchie calamità: il sisma che distrusse il Friuli nel 1976, quello che sbriciolò l'Irpinia nel 1980, quello di Perugia e dintorni nel 1997 e, assai recente, quello che ha violentato l'Emilia. L'indomani di ogni catastrofe si è assistito alle medesime immancabili scene e si sono uditi i medesimi discorsi improntati a buone intenzioni, a prescindere dal colore del governo in carica: faremo, brigheremo, ci impegneremo affinché le prossime scosse non ci colgano impreparati. Parole, parole, soltanto parole. Esportiamo in vari Paesi le nostre tecnologie da applicarsi agli edifici al fine di renderli sicuri, ma non le applichiamo in Patria. Siamo bravi nella cura di ogni territorio tranne quello che calpestiamo. Perché? Si possono avanzare soltanto ipotesi: non siamo capaci di organizzarci, abbiamo una classe politica scucita e perennemente in polemica con se stessa. Risultato, anziché fare, discutiamo. Si pensi che non abbiamo ancora un piano per le zone attualmente disastrate. Le istituzioni, la Boldrini in testa, si dannano per ottenere esequie collettive per le vittime. Sono più preoccupate dei morti che dei vivi. Spendono molti quattrini per i profughi e lesinano aiuti per i nostri connazionali bisognosi. Insomma, questa è la situazione e non promette niente di buono. C'è il timore che i terremotati siano costretti a stare in tenda mesi, mentre gli extracomunitari si crogioleranno in belle camere d'albergo, ben pasciuti, nutriti e riveriti. L'accoglienza e la solidarietà sono solo per individui di importazione. Vittorio Feltri.
LO STATO CRIMINALE. Lo sfregio dello Stato ai terremotati. Profughi e sfollati: chi riceve di più, scrive Roberta Catania, il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Ci sono oltre 5mila immigrati che dormono in hotel o in confortevoli appartamenti nel raggio di 150 chilometri dalle cittadine distrutte dal terremoto del 23 agosto scorso, mentre 2.500 sfollati italiani abitano nelle tende messe in piedi nei campi vicini alle macerie di Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto, tra l'alto Lazio e le Marche. Nessuno di questi 5mila stranieri vive in quei casermoni conosciuti con i nomi di Cie o Cara, dove comunque vengono ospitati migliaia di clandestini. Questi numeri si riferiscono esclusivamente al progetto Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), un programma finanziato dal Ministero dell'Interno tramite il Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell'Asilo e che prevede l'accoglienza e la tutela dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei migranti che sono soggetti ad altre forme di protezione. In questi casi, le 2.545 strutture messe a disposizione in tutta Italia sono di tre tipologie: l'82% sono appartamenti, poi ci sono alberghi (12%) e infine le comunità di alloggio, per lo più destinate ai minori, appena il 6%. Dati riferiti al 2015 e attuali fino all' aprile scorso, quando il Viminale ha diffuso l'ultimo report. Così, mentre gli immigrati, divisi in base all' età, alle parentele e ad altre necessità, hanno cucine, un bagno normale e il riscaldamento d' inverno, i 2.500 sfollati che dormono nelle tende provano ad arrangiarsi. Per ora lo fanno e va bene così, anche perché la maggior parte vuole rimanere vicino a quello che gli è rimasto della loro casa e nessuno, a così pochi giorni dai crolli, dormirebbe in una struttura dove, al primo scricchiolio, sarebbe assalito per il terrore di sentire di nuovo le macerie crollargli addosso. Ma tra qualche settimana, quando arriveranno le prime piogge e poi la neve, anche i più legati al territorio inizieranno a sognare un letto caldo, una cucina dove sia possibile preparare una minestra calda e un bagno dove lavarsi senza soffrire temperature glaciali. Qualcuno, già ora, ammette di temere l'arrivo del freddo. Alessandro, 67 anni, sfollato da Amatrice insieme alla moglie e al cagnolino, oggi vive in una tenda al campo di Sant' Angelo. Raggiunto dalle telecamere, l'uomo ha spiegato di avere «non avere paura di rimanere nella tenda per troppo tempo», ma di aver «paura dell'inverno, che», ha sottolineato, «è qui alle porte». Nessuno ha ancora pensato, invece, a ciò che sarà nei prossimi anni. Giustamente questi sono i giorni del lutto per chi ha perso i propri cari e dello choc per chi è sopravvissuto guardando la morte in faccia. Eppure, quasi come un amaro presagio, quattro giorni prima del terremoto tra Amatrice e Pescara del Tronto, un uomo sopravvissuto nove anni fa al sisma dell'Aquila, ha fatto i conti con la dura realtà delle istituzioni, che spente le telecamere ridimensionano anche il sostegno morale e - soprattutto - economico. Quello sfollato dell'aprile 2009, il 18 agosto scorso era salito su un cornicione al secondo piano di una palazzina del progetto Case di Cese di Preturo, in provincia dell'Aquila, minacciando di gettarsi a causa delle maxi bollette che stanno arrivando in questi giorni agli inquilini degli alloggi costruiti per gli sfollati dopo il terremoto e per la chiusura dell'acqua calda da parte del Comune nei confronti dei morosi. L' unico riuscito a far desistere l'uomo è stato il sindaco, Massimo Cialente, che evidentemente ha promesso uno sconto o la rateizzazione. Fatto sta che le collette e le donazioni a un certo punto finiscono e queste persone si trovano a far il conto con le spese di tutti i giorni, senza avere più un'attività o i risparmi di una vita. Il premier Matteo Renzi non ha tardato a stanziare i primi soldi per aiutare i terremotati: 50 milioni di euro sono già stati destinati ad Amatrice e le altre località colpite dal sisma di martedì notte. Però per i 5.845 immigrati ospitati negli alberghi e negli appartamenti del progetto Sprar tra le Marche, il Lazio, l'Umbria e l'Abruzzo, intorno cioè ai luoghi sbriciolati dalla scossa, sono stati spesi quasi 75 milioni solo nel 2015. A voler fare i conti in difetto, si tratta di 204.575 euro al giorno, senza cioè considerare che gestire i minori costa di più. E l'anno scorso, per le 21.613 persone ospitate in tutta Italia nel progetto Sprar il conto è stato salato: 276 milioni e 106mila euro. Troppo in confronto a quei 50 milioni. Roberta Catania
TERREMOTO E SOCIAL NETWORK. "Tende no! Alberghi per gli sfollati", il tweet di Rita Pavone infiamma il web, scrive "L'Adnkronos.com" il 26/08/2016. "Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati". Con un tweet Rita Pavone scatena la polemica sul web parlando dell'assistenza agli sfollati, dopo il sisma. "Una volta che sono nelle tendopoli o nei containers, si rischia di veder passare anni prima che diano a questa gente una casa" aggiunge. Ma la 'Gian Burrasca' della canzone italiana, 71 anni appena compiuti, non si ferma: "Di cose ne ho viste. Si sono salvati solo in Friuli perché la gente del posto si è tirata su le maniche e ha fatto da sé". Per poi addolcirsi un po' per lasciarsi andare all'amarezza di chi come un po' tutti si sente impotente di fronte a questa tragedia. "In momenti come questi, le parole sono inutili - twitta con l'hashtag #terremoto -. Che il Signore ascolti le nostre preghiere".
Rita Pavone, sottoposta ad un linciaggio morale su Twitter, minaccia di lasciare il social, scrive Manuela Valletti il 31 agosto 2016. Twitter non perdona: lo ha capito Rita Pavone, sommersa da feroci commenti per aver preso le parti dei terremotati. Rita Pavone dà battaglia sui social per i terremotati. #Rita Pavone si è arrabbiata moltissimo per la reazione negativa che ha suscitato un suo post su Twitter: preoccupata per la sorte dei terremotati rimasti senza casa, ha scritto sul social questa frase:"Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i terremotati". Non l'avesse mai fatto! È stata tacciata di razzismo, di fascismo, di essere una fomentatrice delle masse e via di questo passo. La cantante ha tentato di spiegare con pacatezza il suo pensiero, dicendo che i terremotati nei containers ci rimangono per anni, e che di esempi di questo genere ne abbiamo avuti in tutti i terremoti fino ad ora verificatisi in Italia, ad esclusione di quello del Friuli, dove la gente del luogo non ha aspettato la politica, ma si è tirata su le maniche e ha ricostruito. Non c'è stato nulla da fare: le polemiche non si sono placate, e Rita era addirittura intenzionata a chiudere il suo account. Convinta di non essere né razzista né fascista, la Pavone è migrata su #facebookdove, senza demordere, ha provato a raccontare che cosa le era accaduto su Twitter, chiedendo ai suoi nuovi interlocutori se, secondo loro, aveva detto qualcosa di poco opportuno o di offensivo. Si è sfogata affermando che voleva solo difendere i suoi connazionali perché, anche se ora vive in Svizzera, si sente sempre italiana e poi ha tutti i diritti di dire la sua opinione, visto che in Italia paga regolarmente le tasse. Insomma, su Facebook Rita si è tolta qualche sassolino dalle scarpe e ha tacciato i frequentatori di Twitter di intolleranza, visto che non le hanno permesso di argomentare le sue ragioni e l'hanno anche apostrofata in modo offensivo, dicendole che era "solo una cantante" e quindi non all'altezza di intervenire in un dibattito così importante. Da Facebook è inaspettatamente arrivato un sostegno totale e uno sprone a non mollare. Per questo motivo Rita, anche se amareggiata, ha deciso di rimanere su Twitter. Diversi fans le hanno scritto che Twitter è molto snob e che lì, più che su altri social, vige il pensiero unico, quello dei cantanti "guru" che quando esprimono un concetto diventa vangelo. La Pavone, rinfrancata dall'affetto e dal sostegno dei suoi ammiratori, ha deciso di andare avanti con il dibattito per battere la meschinità di certe persone: ha ripreso il portatile e si è detta pronta a dare battaglia, anche se il campo questa volta non è "Ballando con le Stelle", ma il quotidiano di tanta gente che merita anche il suo aiuto.
Direttamente dalla pagina Facebook ufficiale di Rita Pavone: Ieri ho scoperto che i social sono molto poco...social. Ho bloccato così tanta gente che neppure l’ascensore rotto di un grattacielo…E sapete da cosa è nato il tutto? Da questo mio semplice twitter: “Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati”. Ho detto qualcosa di poco opportuno? Ho detto qualcosa di blasfemo? Ho detto qualcosa di offensivo? Beh… Eppure qui si è scatenato l’inferno…! Mi sono beccata di tutto: da fascista, a schifosa razzista, a fomentatrice di razzismo… Un delirio! Parrebbe un paradosso visto che difendevo i MIEI di connazionali – dico MIEI perché, per chi non lo sapesse, io ho un doppio passaporto, Svizzero e Italiano, ed essendo di origini italiane, cosa di cui vado fiera! è ovvio che ci tenga molto alla mia gente e al mio Paese, dove, tra l’altro, voto pure. Inoltre, pur abitando da quasi 50 anni in Svizzera, pago regolarmente anche in Italia fior di tasse: il 30% alla Fonte! Quindi, vedete, ho tutte le carte in regola per poter dire il mio pensiero senza venire azzannata da idioti somari. Sapete perché ho scritto quel tw? Perché in casi di cataclismi, si parla sempre di tendopoli o di containers che dovrebbero servire SOLO ed esclusivamente per l’emergenza. Ma poi una volta che il momento emotivo è passato, che non si contano più i morti, che non si fanno più servizi televisivi sui superstiti e che quindi del terremoto non se ne parla più, ecco che le tendopoli e i containers rimangono ma delle case da ricostruire neanche l’ombra. Così come le donazioni che vengono fatte dalla gente e di cui poi non si sa più nulla…Ho lavorato anni addietro nel Belice, e lì c’è gente che, 48 anni dopo (48 sic) vive ancora nei containers in attesa di una casa. Alla faccia dello stato di emergenza! Stessa cosa vale per l’Aquila…Cosa hanno ricostruito sino ad oggi? Niente! E sarà così, statene pur certi, anche negli anni a venire…Si sono salvati solo i terremotati dell’Emilia Romagna e del Friuli, poiché la loro gente si è tirata su le maniche e hanno ricostruito tutto da soli. Se aspettavano che lo facesse lo Stato…campa cavallo che l’erba cresce…. E’ vero che la gente teme gli sciacalli, i quali, una volta presi con le mani nel sacco dovrebbero essere buttati in una cella e gettata via la chiave per sempre ! e quindi preferirebbero non abbandonare mai le proprie case per non vedersi derubare del tutto, ma basterebbe una buona e stretta sorveglianza e questa povera gente non si vedrebbe costretta a stare all’addiaccio di notte ma potrebbe riposare in un comodo letto come fanno coloro che ospitiamo e che NON sono tutti in fuga da paesi in guerra, come ci vogliono far credere, ma, la maggior parte di loro, vengono da noi per trovare una situazione economica più favorevole. E in questo io non ci trovo assolutamente nulla di male. Detto ciò, sentirsi però poi dare dell’idiota e del “canta che è meglio”, che ho la … “pappa” nel cervello ecc.ecc, credo non faccia piacere a nessuno. O addirittura leggere “Si vergogni! Qui vengono fuori le sue vere origini …” come se io provenissi da una famiglia di ladri. Delle mie origini, gente, io vado fiera! Sono figlia di un operaio della Fiat, gran lavoratore, e di una casalinga…Sono la terza di 4 figli, e a 12 anni già lavoravo. In nero !!! A questi poveri schizzati, drogati nel cervello e fusi nell’anima, ho risposto: “Lavatevi la bocca, gentaglia. E quando avrete fatto quello che ho fatto io, per me stessa e da sola, solo allora forse potrete parlare!” Adesso avrete capito perché avevo deciso di chiudere il mio tw. Ma voi, Amici miei, con il vostro affetto e con i vostri bellissimi messaggi, mi avete indicato che non bisogna mai gettare la spugna. Soprattutto davanti alle meschinità e alla malvagità di certe persone. Allora ho rimesso i piedi per terra e mi sono rialzata, e adesso, credetemi, sono più combattiva che mai. GRAZIE !!
Rita Pavone, la zanzara: dal buonismo alla responsabilità, scrive Edoardo Varini su “L’Inkiesta” il 31 Agosto 2016. Desta scalpore il tweet di Rita Pavone sull'ospitare anche i terremotati – come gli immigrati – negli alberghi. Testualmente: «Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati». Il ragionamento non fa una grinza. Ma il problema è che ad essere terremotate, prima ancora delle aree colpite dal sisma, sono le teste dei nostri governanti e di tutti coloro che credono sia ancora una cosa up to date, emancipata, che "fa figo" ostentare la convinzione che gli uomini di colore sono alla nostra stregua. Che se solo lo devi ostentare, perdonatemi, è perché non lo pensi. È perché hai la coscienza sporca. Una frase di una tale lucidità non l'ha detta un accademico, un politico, un giornalista di fama, no, l'ha detta Rita Pavone, "Rita la zanzara", come dal titolo del film che la vede protagonista e che echeggia una testata studentesca del milanese Liceo Parini, sequestrata per oscenità pochi mesi prima dell'uscita del film. Tra i collaboratori del giornale da 50 lire a copia vi erano futuri giornalisti quali Walter Tobagi e Vittorio Zucconi, gente che sin da giovane con l'informazione ci sapeva fare. I soli che non lo compravano, il giornale, erano quelli di "Gioventù studentesca": da immaginarselo, la futura "Comunione e liberazione". Il testo incriminato era un'inchiesta sulla sessualità giovanile, dove si leggevano frasi per l'epoca intollerabilmente eversive quali: «Se potessi usare gli anticoncezionali non mi porrei limiti nei rapporti prematrimoniali», detto da una studentessa. Figuriamoci! Non è la prima volta che il nome di Rita Pavone si accosta a un capovolgimento del modo di pensare: allora, dal moralismo al Sessantotto. Oggi dal buonismo alla responsabilità.
Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.
Filippo Facci censurato. Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 31 luglio 2016, la furia e lo sdegno: "Il popolo di fessi e cretini". I social network talvolta possono essere divertenti, ma sono quasi sempre dannosi. Amplificano i luoghi comuni, danno voce a chi di norma non ne ha e ciò ha un valore democratico almeno apparente. Non serve combatterli e chiederne l’abolizione. Chi non ha niente da dire di solito è molto ciarliero e si esprime con veemenza verbale nella speranza - vana - di farsi sentire e di avere udienza. La maggioranza dei fruitori dei social è costituita da gente isterica che si sfoga insultando chiunque abbia un ruolo più o meno importante, politici, uomini e donne sotto i riflettori, insomma i cosiddetti vip. I luoghi di incontro telematico sono la versione moderna e ingigantita del bar commercio, dove ciascuno dice la prima scemata che gli viene in testa, raramente verificando l’attendibilità delle proprie sparate. Su Twitter e su Facebook dominano il turpiloquio, l’invettiva e l’ingiuria. Persone anonime si divertono un mondo ad avere accesso alla piazza web che consente loro di sparacchiare giudizi anche temerari, comunque incauti, di sicuro poco ponderati. I social permettono a tutti di porsi in evidenza, anzi di illudersi di contare qualcosa e di orientare l’opinione pubblica. Però sul piano pratico non so fino a che punto le idee della folla che usa internet per farsi notare incidano sulle decisioni di chi ha in mano le leve del potere. Poco, suppongo. Anche perché l’uso del computer in Italia è ancora limitato alle persone giovani che hanno dimestichezza con le tecnologie avanzate. Osservando quanto avviene sui social si ha poi la sensazione che essi siano un moltiplicatore di banalità atte ad incrementare il conformismo. Chi esce dagli schemi più diffusi del pensiero unico, quello di moda, si trova a dover combattere con una massa di disinformati che però, essendo assai folta, si ritiene forte e invincibile. L’esempio più eclatante lo si è avuto in questi giorni. Il nostro ottimo inviato Filippo Facci, per aver scritto articoli documentati e vigorosi contro le violenze islamiste, è stato confinato all’indice da Facebook, escluso dalla community quale elemento indesiderabile. In altri termini, censurato, bocciato quale disturbatore intollerabile di coloro che sono al servizio della divulgazione convenzionale. Facci, giornalista eminente di Libero, come tutti può piacere o no, ma è indubbio che sia un uomo di rara intelligenza e capace di interpretare i fatti della vita in modo originale. Sull’islam egli ha scritto pagine che è da fessi sottovalutare in quanto offrono spunti di riflessione profonda. Ebbene, poiché le sue tesi non rientrano nel calderone delle insulsaggini correnti, i guardiani di Facebook le hanno disinvoltamente oscurate, quasi si trattasse di bestemmie. Ormai siamo a questo punto. Chi non sta con i musulmani, assassini o no, in Italia è sgradito, considerato un reietto, un fascista, peggio, un essere indegno di ospitalità. Fossi in Facci, mi vanterei di essere respinto dai cretini. Libero è suo e lo sarà sempre. Vittorio Feltri
E poi la pietra tombale...
«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», scrive “La Stampa” il 10 giugno 2015. Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno».
TERREMOTO E BENEFICENZA. "Non darò nemmeno un euro per i terremotati: ci pensi lo Stato". Lino Ricchiuti, il leader del Popolo delle Partite Iva, si oppone all'Italia in cui "la beneficienza fa da pretesto" per non prevenire i disastri dei terremotati, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 30/08/2016, su "Il Giornale". In molti in Italia si sono mossi per fare qualcosa per gli sfollati del terremoto che ha colpito sei giorni fa il Centro Italia. Tantissimi hanno donato 2 euro per i terremotati attraverso il numero messo a disposizione dalla Protezione Civile. Molti, ma non Lino Ricchiuti, il leader del Popolo delle Partite Iva. Persona molto ascoltata da quelle persone vessate dal fisco e spesso minacciate da Equitalia. "Non do una lira per i terremotati". Una posizione scomoda e controcorrente. Che può essere apprezzata oppure no, ma comunque deve essere ascoltata. "Scusate - ha scritto - ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate. So che la mia suona come una bestemmia. E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms". Lino Ricchiuti va a ruota libera. Non lo hanno "impressionato" le immagini del disastro, "i palinsesti stravolti" e "il pianto in diretta" di Renzi. "Non do un euro - dice - E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare". "Ecco perché non faccio beneficienza per il sisma". Il motivo? L'Italia ha già i soldi per far fronte alle emergenze. Ai terremotati ci dovrebbe pensare lo Stato con le tasse che tanti italiani pagano ogni giorno. Ogni giorno. Ogni mese. Ogni anno. "Non do un euro - continua Ricchiuti - perché è la beneficenza che rovina questo Paese, lo stereotipo dell’italiano generoso, del popolo pasticcione che ne combina di cotte e di crude, e poi però sa farsi perdonare tutto con questi slanci nei momenti delle tragedie". Stanco di un'Italia in cui "la beneficienza fa da pretesto" per non pensarci prima. Un Paese in cui è sempre meglio curare che prevenire, perché in fondo la beneficienza smuove i cuori di tutti. "Soffriamo (e offriamo) una compassione autentica. Ma non ci siamo mossi di un centimetro". Uno Stato che incassa oltre il 50% di quello che produce un suo cittadino, non merita altri soldi. "Non do una lira, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro". "Avrei potuto scucirlo qualche centesimo - ammette Ricchiuti - (...) ma io non sto con voi politici", perché "voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c’è. Io non lo do, l’euro. Perché mi sono ricordato che mio padre, che ha lavorato per 40 anni in campagna, prende di pensione in un anno meno di quanto un qualsiasi parlamentare guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro?". Il ragionamento, seppur emotivo, ha una sua logica. Certo: forse le raccolte fondi per un terremoto simile le avrebbero fatte anche nella efficientissima Germania. Però lì non è sempre un'emergenza. "Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa politica". Un fondo di verità c'è: l'Irpinia e L'Aquila insegnano. "Ci sono migliaia di sprechi di risorse in questo paese ogni giorno - conclude Ricchiuti-. Se solo volesse davvero, lo Stato saprebbe come risparmiare per aiutare gli sfollati". E quindi "io non do una lira", ma "il più grande aiuto possibile: la mia rabbia, il mio sdegno. Perché rivendico in questi giorni difficili il mio diritto di italiano di avere una casa sicura".
Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 31 agosto 2016: perché non si dovrebbe dare un euro in beneficenza ai terremotati. Mandare al diavolo questo clima solidaristico e dichiarare solennemente che non metterò un euro per il terremoto, sostenere che nessuno in effetti dovrebbe metterlo perché lo Stato ha tutti i fondi e le risorse per affrontare queste cose, non cedere al ricatto emotivo di un Paese culturalmente imperniato sull’emergenza anziché sull’organizzazione, votato al volontariato anziché al dovere professionale e civico, fondato sulla beneficenza, sul numerino da chiamare, l’sms da mandare, su giornali e telegiornali e cantanti e personalità che mostrano immagini della catastrofe con sovraimpressi gli estremi per restare arruolati al circo della fratellanza improvvisata: sì, la tentazione c’è, la voglia di chiamarsi fuori è forte.
Fiorello posta un video su Facebook pubblicato da “Corriere Tv” il 29 agosto 2016 per parlare della sua diffidenza nei confronti dei concerti organizzati per beneficenza: «meglio fare in privato», dice. «Ieri lutto nazionale, seguire i funerali è stata una cosa drammatica, genitori che piangono i figli, quando si sopravvive ai propri figli, me lo diceva mio padre - dice Fiorello - ...la macchina della solidarietà è partita alla grande, e occhio attenzione, sono stato già invitato ad almeno quattro manifestazioni per raccogliere fondi. Occhio a queste manifestazioni che facciamo noi del mondo dello spettacolo. Perché se per organizzare le cose devi spendere soldi, non devolvi tutto tranne le spese, allora non lo fai. O fanno tutti beneficienza o non vale la pena. Occhio a chi organizza questi spettacoli. Visto che ho ricevuto questi inviti - continua Fiorello - io mi fiderei di più se lo spettacolo fosse organizzato da una onlus o da una organizzazione affidabile, altrimenti la storia insegna...mi piacerebbe avere nome e cognomi. Spettacoli che si faranno pro terremoto bisogna stare attenti. Troppa gente dietro, troppi organizzatori, mi fanno paura. È meglio fare ognuno a modo suo, io preferisco fare la beneficienza privata, dai i soldi direttamente e il gioco è finito».
TERREMOTO E TRUFFE. Terremoto, un affare chiamato sisma: come evitare donazioni ai furbi. Lucrare sulle tragedie - Attenti alle associazioni che chiedono soldi senza indicare come verranno spesi, scrive Barbara Cataldi il 26 agosto 2016 su “Il Fatto Quotidiano". Pannolini, spazzolini, assorbenti, ma anche piatti di carta, sapone, scarpe: ieri beni di ogni genere sono stati raccolti in circoscrizioni e parrocchie. Mentre la terra tremava e le vittime venivano estratte dalle macerie, gli italiani si lanciavano in una commovente gara di solidarietà. Ma è stato inutile: Fabrizio Curcio, il capo della Protezione Civile ha stoppato i più generosi. “Non inviate cibo e indumenti, non abbiamo carenze, il modo migliore di aiutare è l’sms solidale al 45500“. Alla popolazione colpita servono solo soldi per la ricostruzione. Però si moltiplicano le reti di solidarietà per la raccolta fondi. Solo nella prima giornata la Croce Rossa ha raccolto 170mila euro (causale “sisma centro Italia” (Iban IT40F0623003204000030 631681). Ma le donazioni più numerose stanno arrivando attraverso il 45500 della Protezione Civile: due euro inviando ogni sms o chiamando da rete fissa. Anche Poste Italiane, in collaborazione con Cri, ha istituito un conto corrente ad hoc (causale “Poste Italiane con Croce Rossa Italiana – Sisma del 24 agosto 2016”, Iban IT38R0760 10300000 0000900050). Non sempre, però, le iniziative che vengono pubblicizzate, soprattutto su Facebook o whatsapp con passaparola tra amici e conoscenti, brillano per trasparenza. Spesso non si comprende chi tenga le fila dell’organizzazione promotrice o a cosa davvero servano i soldi raccolti. Il rischio di incorrere in un’associazione che utilizza il disastro per farsi pubblicità, o addirittura in chi mette in piedi una vera e propria truffa, è concreto. In passato c’è stato chi dopo il sisma in Emilia del 2012 ha intascato indebitamente 120.000 euro per il sostentamento fuori casa, mentre non si è mai mosso dalla sua abitazione inagibile di Crevalcore, chi dopo il terremoto dell’Aquila del 2009 ha percepito più di 700.000 euro grazie a false dichiarazioni di danni mai subiti, o chi a Monza nel 2013 ha distribuito volantini per la raccolta fondi per le vittime dell’alluvione in Sardegna utilizzando il simbolo Cri, ma mettendo il proprio nome e numero di telefono. “Associazioni di solidarietà come la nostra, non devono raccogliere fondi – spiega Costas Moschochoritis, direttore di Intersos – a questo pensano le istituzioni. Noi dobbiamo offrire il nostro contributo per aiutare le persone colpite dal dramma, con servizi complementari, come il sostegno psicologico”. Da oggi gli psicologi volontari di Intersos saranno presenti nelle zone devastate dal sisma per aiutare bambini e anziani ospitati nel campo di Accumoli. Se si dà uno sguardo ai profili Facebook di tante associazioni, sorge il dubbio che il terremoto sia diventato un’occasione per promuovere il proprio marchio e raccogliere fondi per il proprio sostentamento, senza dare garanzie o spiegazioni su come i soldi verranno spesi. Action Aid, associazione internazionale per le adozioni a distanza, ha lanciato sui social il suo spot: “Emergenza terremoto Centro Italia. Non c’è tempo da perdere abbiamo bisogno del tuo aiuto adesso. Dona ora”. Ma per fare che? E così anche per Cesvi (cooperazione allo sviluppo dei Paesi più poveri). Sulla sua homepage c’è una foto di una donna tra le macerie. Si parla di un primo intervento per la distribuzione di beni di prima necessità. “Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti, DONA ADESSO”. Ma sul campo non c’è già la Protezione Civile? Inoltre il territorio colpito dal sisma è scarsamente abitato, nelle tendopoli c’è un numero di persone relativamente piccolo. Con i soldi delle donazioni, allora, cosa ci faranno? Ci piacerebbe saperlo prima di mettere mano al portafoglio. Save the children ha istituito un Fondo emergenza per l’allestimento di uno spazio a misura di bambino, che aiuti i più piccoli ad affrontare il trauma subito con l’aiuto di educatori esperti. Se si compila il form si scopre l’entità della donazione: 30 euro. Servirà solo per uno spazio di sostegno psicologico, che gli operatori di Intersos hanno messo in piedi gratuitamente? “Ad Amatrice abbiamo istituito uno spazio per ospitare i bambini – spiega Giusy De Loiro di Save the children – e aiutarli con un laboratorio di favole e disegni a superare il trauma. Le donazioni ci servono per pagare materiali e i professionisti che lavorano per noi”. “Abbiamo chiesto al ministero dall’Interno di gestire in modo centralizzato le campagne di solidarietà e le raccolte fondi – afferma Carlo Rienzi, del Codacons – Ciò per evitare gli errori del passato: quando i milioni di euro versati dagli italiani per alluvioni e terremoti sono rimasti inutilizzati”. Per evitare inganni è bene dare il proprio contributo sempre attraverso associazioni o enti che si conoscono; se chi promuove l’iniziativa non è un’istituzione dello Stato, è meglio donare solo quando è chiaro il progetto su cui i nostri soldi verranno investiti, in modo da poter verificare la sua realizzazione. Meglio fare la donazione solo dopo aver verificato l’esistenza dell’associazione e attenzione alle mail con richiesta d’aiuto, il link potrebbe essere stato creato per carpire i nostri dati.
ATTENZIONE ALLE TRUFFE SU DONAZIONI FANTASMA. Scrive il 25 Agosto 2016 Dominella Trunfio. C’è una mobilitazione generale nelle ultime ore perché davanti alle tragedie, il popolo italiano si stringe sotto la parola solidarietà. Chiunque nel proprio piccolo cerca di contribuire ad alleviare le sofferenze dei terremotati attraverso donazioni di sangue, indumenti, alimenti e denaro. E la speranza è sempre quella che effettivamente tutto vada a finire nelle mani giuste, ovvero di chi è rimasto senza famiglia, senza casa e senza certezze. I social network sono invasi da appelli e da eventi che parlano di centri di raccolta di beni di prima necessità. Tutte iniziative lodevoli, ma anche in questo caso la parola d’ordine è occhio allo sciacallaggio, per cui il consiglio è sempre quello di fare donazioni tramite enti che riteniamo attendibili come Comuni, Protezione Civile e associazioni fidate che hanno aperto conti iban dedicati all’emergenza terremoto, mai quindi a singole persone che si spacciano per persone di cuore. Lo scetticismo che spesso abbiamo nel donare, è dovuto principalmente a fatti di cronaca negativi che ci hanno fatto perdere un po' di fiducia. All’indomani del terremoto in Abruzzo, chi non ricorda lo scandalo dei 5 milioni di euro di donazioni che non sono mai arrivati nelle tasche dei terremotati? Lì, la questione era complessa e i soldi gestiti tramite sms, che sarebbero dovuti servire per la ricostruzione dell’Aquila, sono finiti alle banche, grazie al cosiddetto "metodo Bertolaso". Il paradosso era stato proprio il fatto che quei soldi destinati ai terremotati erano stati gestiti come qualsiasi fondo, per cui la condizione stessa di "terremotato" non andava a soddisfare i criteri di solvibilità. Insomma, senza aprire un dibattito economico, la sostanza è che le vittime del terremoto non avevano potuto accedere a quei fondi che erano stati donati proprio a loro, perché già destinati a un consorzio finanziario di Padova, l’Etimos con un fondo di garanzia bloccato per 9 anni, trasferito poi alla Regione Abruzzo. Migliore sorte non era toccata poi ai terremotati dell’Emilia Romagna, anche qui non si può dimenticare la lunga battaglia dei sindaci emiliani che davanti alle telecamere gridavano di non "aver visto un euro per la ricostruzione post terremoto". Dove erano (e sono) finiti i 15 milioni di euro che generosamente gli italiani e non solo avevano donato in beneficenza? Franco Gabrielli, capo della Protezione Civile, prova a dare una spiegazione attraverso le pagine del Corriere: «Purtroppo l’iter non si può comprimere più di tanto, se si vuole assicurare trasparenza. Innanzitutto una precisazione sulla cifra, i 15 milioni non sono versamenti ma promesse di versamento. La differenza è sottile ma decisiva. Nel senso che i vari gestori (Tim, Vodafone, Wind eccetera) prima di versare alla Tesoreria dello Stato l’importo corrispondente agli sms, devono effettivamente incassare la cifra. Io posso anche inviare un messaggio ma se poi per qualche ragione non lo pago, il gestore non versa».
TERREMOTO E BUROCRAZIA. Un Paese fragile ed esposto con una folle burocrazia. Una cifra enorme è stata spesa dallo Stato per le ricostruzioni post sisma. Ma secondo gli esperti sono almeno 12 milioni gli immobili ad alto rischio, scrive Antonio Signorini, Venerdì 26/08/2016, su "Il Giornale". Roma I terremoti hanno segnato l'Italia. Colpa della posizione geografica, al confine tra la zolla africana e quella euroasiatica, spiegano gli esperti. La frequenza è di un sisma distruttivo ogni cinque anni. Cento all'anno di quelli innocui, percepibili dalla popolazione. Ma la storia del nostro Paese è funestata anche dalle ricostruzioni. Processi lunghi, complicati e frutto di scelte opache. Alle difficoltà di tipo fisico di un post terremoto, ad esempio il recupero e la ricostruire centri storici semidistrutti e la sostituzione di vecchie case con nuovi edifici antisismici, si sommano gli effetti delle caratteristiche della nostra politica e della burocrazia. Ricostruzioni dai tempi biblici, continui rifinanziamenti e spese che aumentano di anno in anno senza controllo e senza che le popolazioni colpite ne traggano beneficio. Mali antichi, riassumibili in due cifre contenute in un rapporto del Consiglio nazionale degli ingegneri. Dal 1968 a oggi i terremoti sono costati 121 miliardi e 608 milioni di euro. Attenzione, è spesa pubblica, non gli effetti sul Pil che si sono fatti sentire su famiglie e imprese, che sono un'altra storia. Soldi stanziati dal 1968 a oggi, attraverso un numero incredibile di leggi e decreti, emanati anche a distanza di 40 anni dal terremoto di cui si occupano. Sono 137 in tutto. La stima, a costi attualizzati, è precisissima. Il terremoto più oneroso è stato quello dell'Irpinia del 1980. In tutto 52 miliardi stanziati da 33 diverse leggi, che impiegheranno somme fino al 2023. L'ultima legge sul terremoto campano varata è del 2008, 28 anni dopo la tragedia. Ancora più longevo il terremoto del Belice. Prima legge varata nel 1968, anno della tragedia, ultimo provvedimento nel 2007. La spesa complessiva è di 9 miliardi e 179 milioni e avrà effetti fino al 2018. Il sisma che ha distrutto L'Aquila del 2009 è costato 13,7 miliardi, quello dell'Emilia del 2012, 13,3. Quello del Friuli del 1976, 18,5 miliardi, ma ha impegnato solo 9 leggi e gli effetti finanziari si sono fermati nel 2006. Le ricostruzioni dei terremoti, senza contare le altre calamità naturali, rappresentano una voce importante della spesa pubblica che ha più volte fatto sollevare la questione se ne debba occupare lo Stato oppure, visto che le case sono beni privati, non sia meglio percorrere la strada delle polizze assicurative obbligatorie. Soluzione che finirebbe per fare aumentare le spese che devono affrontare i proprietari di immobili e metterebbe nei guai anche le compagnie assicurative. L'alternativa è quella di un piano generale di messa in sicurezza degli edifici che si trovano nelle aree a rischio. Le più pericolose sono quelle costruite prima del 1974, che sono il 50% del totale. Sempre secondo il Consiglio degli ingegneri, servirebbero circa 93 miliardi per mettere in sicurezza 12 milioni di immobili che si trovano in zone ad alto rischio terremoti. Meno di quanto ha speso lo Stato per ricostruire.
Colpa di un funzionario distratto: così Amatrice ha perso i contributi per salvare le case, scrive “Libero Quotidiano” il 26 agosto 2016. La burocrazia, un funzionario distratto, una legge sbagliata e addio contributi anti-terremoto. Spunta un sinistro retroscena sul sisma di Amatrice e sulle macerie. Secondo La Repubblica un dirigente distratto, che si dimentica di inviare in tempo l'elenco dei (pochi) che hanno deciso di mettere in sicurezza la casa ha determinato la perdita di due milioni di euro che sarebbero serviti per consolidare le abitazioni fragili. Invece sono arrivati solo duecento mila euro. L'inchiesta per disastro colposo aperta dal procuratore capo di Rieti Giuseppe Saieva dovrà accertare le responsabilità. Di sicuro la burocrazia ha giocato un ruolo letale. Subito dopo il terremoto dell'Aquila, i comuni di Amatrice e Accumoli furono classificati "categoria 1", cioè massimo rischio sismico. L'allora governo Berlusconi stanziò quasi un miliardo da utilizzare entro il 2016 per le zone rosse: i soldi sono gestiti dalla Protezione civile, l'assegnazione ai comuni passa attraverso una graduatoria regionale. Questi soldi servivano ai privati cittadini per sistemare le loro case e renderle più sicure. Lo Stato garantisce da 100 a 200 euro al metro quadrato, per piccoli interventi di consolidamento. Interventi che magari non salvano una casa ma le vite sì. In estate, la popolazione di Amatrice supera le 15mila persone, per l'ufficio anagrafe i residenti effettivi non sono più di 2.750. Quindi quasi tutte le abitazioni private sono seconde case. Ad Amatrice - secondo La Repubblica - è accaduto che un dirigente poco solerte abbia spedito a Roma le richieste dei suoi cittadini quando ormai erano scaduti i tempi di consegna, facendo perdere così ogni diritto ai finanziamenti a chi (meno di dieci persone) che aveva fatto domanda. Un caso emblematico di come fosse stata presa seriamente l'opportunità del consolidamento antisismico. Ma c' è un altro motivo per cui fino ad oggi dei 10 milioni assegnati al Lazio ne sono stati spesi appena tre. La Regione Lazio ha inserito tra i requisiti per accedere ai fondi, la "residenza", e non la semplice proprietà della casa come invece prevede l'ordinanza della Protezione civile. Risultato: su 1342 domande presentate per il 2013-2014 alla regione, ne sono state accolte soltanto 191. Undici ad Amatrice per un totale di 124.700 euro, e sette appena ad Accumoli per 86.400. Diciotto piccoli interventi sull' ordine dei 10-15 mila euro per diciotto case. Poco. Troppo poco.
Vittorio Feltri il 26 agosto 2016 su “Libero Quotidiano” contro lo Stato criminale: "Chi ha i morti sulla coscienza". Abbiamo svolto una breve ricognizione nei gangli della burocrazia e della politica e siamo riusciti con rapidità a scoprire leggi formalmente complete che disciplinano la materia edilizia antisismica. Non la facciamo tanto lunga per evitare di annoiarvi e arriviamo subito al nocciolo della questione: quelle leggi, approvate negli anni Ottanta (quindi in ritardo rispetto alla necessità), sono quasi sempre state ignorate, e si è bellamente costruito dovunque lungo la dorsale appenninica senza adottare le precauzioni fissate nero su bianco, come se queste non fossero mai state vergate. Cosicché la stragrande maggioranza degli edifici eretti negli ultimi decenni non è in grado di resistere alle scosse telluriche. Tanto è vero che in occasione di terremoti molte case cadono come foglie morte provocando stragi di umani, schiacciati dalle macerie. Non solo. Stando alle opinioni degli esperti, anche gli stabili vecchi o addirittura vetusti, con una spesa relativamente bassa, potrebbero essere messi in sicurezza, così come buon senso suggerirebbe in un Paese ad alto rischio sismico. Meglio prevenire una ferita che leccarsela. In sostanza, se le norme sopra citate fossero state tradotte in pratica avremmo addirittura risparmiato e, soprattutto, salvato migliaia di vite. Se poi si tiene conto dei miliardi investiti in varie ricostruzioni l'indomani di ogni catastrofe naturale, non è difficile capire che se quei capitali fossero stati utilizzati per rinforzare in senso antisismico palazzi e palazzine, oggi non saremmo qui a disperarci per quanto accaduto nelle Marche, in Umbria e nel Lazio, trascurando i tragici precedenti dell'Aquila, dell'Emilia eccetera. Era preferibile sborsare per proteggersi che non per finanziarsi le esequie. Ciò che sorprende e amareggia è un fatto: il primo a non rispettare le leggi dello Stato è lo Stato stesso. Il quale possiede una miriade di stabili non in regola con le disposizioni che ha solennemente emanato: scuole, Poste, tribunali, enti di ogni specie. La cosa è incredibile solo per chi non conosca lo stile della pubblica amministrazione, che da lustri non versa neppure i contributi per i propri dipendenti, salvo pensionarli ricorrendo al denaro della fiscalità generale. Una ingiustizia raccapricciante. Figuriamoci se uno Stato furbetto e cialtrone quanto quello che abbiamo descritto si preoccupa di controllare che i cittadini edifichino secondo i criteri da esso stesso studiati, varati e violati. Se poi la gente muore sotto il proprio tetto, pazienza, si parla di fatalità, di furia degli elementi e altre simili stupidaggini. La verità è una e basta: il nostro Stato è criminale e pretende correttezza dai “sudditi”. Il cattivo esempio viene sempre dall'alto. Vittorio Feltri
Terremoti e norme, palude di regole e regolette. Sette anni dopo il sisma dell’Aquila, i cittadini ancora faticano a districarsi nella cervellotica poltiglia burocratica. Per ricostruire Amatrice, sarebbe meglio non ripetere gli stessi errori, scrive Gian Antonio Stella il 30 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata», spiegò Franz Kafka nelle sue Conversazioni con Gustav Janouch. Lo ricordino, quanti stanno per mettere mano alle norme che guideranno la rimozione delle macerie, la ricostruzione e il ritorno alla vita di Amatrice e gli altri paesi annientati dal terremoto. Lo ricordino perché i cittadini aquilani sono ancora oggi, sette anni dopo il sisma, impantanati in una poltiglia di regole e regolette così cervellotiche da rendere difficile la posa di un solo mattone senza l’aiuto non solo di un geometra ma di una équipe di azzeccagarbugli. Ricordate il dossier di Gianfranco Ruggeri, l’ingegnere esasperato dalle demenze burocratiche che bloccavano i cantieri? Nei primi quattro anni dopo la scossa del 6 aprile 2009 erano piovuti sull’Aquila «5 leggi speciali, 21 Direttive del Commissario Vicario, 25 Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza, 51 Atti della Struttura Tecnica di Missione, 62 dispositivi della Protezione civile, 73 Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 152 Decreti del Commissario Delegato e 720 ordinanze del Comune». «Confesso però», ammise, «che nel casino qualche ordinanza municipale potrebbe essermi sfuggita». Totale: 1.109 lacci e lacciuoli. Aggiunte successive? Non si sa: «Mi sono stufato di contarle». Ma non si tratta solo di numeri esorbitanti. Il problema è quel che c’è dentro. La «scheda parametrica» varata dall’Ufficio speciale per la ricostruzione dell’Aquila per accelerare i lavori si auto-loda come «caratterizzata da norme innovative volte allo snellimento delle procedure» e garantisce «tempi rapidi di istruttoria». Bene: la sola «Scheda Progetto - Parte Prima» è corredata da un «Manuale istruzioni» con un indice di 114 capitoli per un totale di 258 pagine. Pagine che nel manuale per la «Scheda progetto parte prima aggiornato al Decreto n.4» salgono a 271. Auguri. Un esempio di semplificazione? «Il Coefficiente topografico di amplificazione sismica St, per configurazioni superficiali semplici, è determinato in base alla seguente classificazione prevista da NTC 2008, 3.2.2. Categorie di sottosuolo e condizioni topografiche “Le su esposte categorie topografiche si riferiscono a configurazioni geometriche prevalentemente bidimensionali, creste o dorsali allungate, e devono essere considerate nella definizione dell’azione sismica se di altezza maggiore di 30 m.”»...Un altro? «Ai sensi dell’art. 4 comma 8 del DPCM 4 febbraio 2013 il contributo deve ridurre la vulnerabilità e raggiungere un livello di sicurezza pari ad almeno il 60% di quello corrispondente ad una struttura adeguata ai sensi delle NTC2008 e successive modificazioni e integrazioni, fatta eccezione per gli edifici con vincolo diretto di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 Parte II…». Aveva ragione, tre secoli fa, l’abate Ludovico Muratori: «Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare». Parole d’oro. Tanto da far sorgere il sospetto che proprio quella slavina di Leggi speciali, Direttive del Commissario Vicario, Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza e così via sia stata accolta a suo tempo non con preoccupazione ma con giubilo da chi dietro le rovine vedeva l’occasione per fare affari. Come l’imprenditore che la notte del terremoto del 2009 «rideva nel letto» o l’assessore aquilano che in un’intercettazione (volgarotta, scusate) diceva: «Abbiamo avuto il culo del terremoto e con tutte ‘ste opere che ci stanno farsele scappà mo’ è da fessi…». Perché sempre lì si torna: nella fanghiglia creata da un diluvio di regole, ammoniscono le cronache di questi anni, il cittadino perbene impossibilitato a destreggiarsi senza violare questa o quella norma affoga, tanto più dopo che la sua vita è già stata devastata da un trauma spaventoso quale il terremoto. Al contrario, in quella fanghiglia, il faccendiere con le amicizie giuste e magari un retroterra mafioso sguazza come nell’oro. Oro alla portata degli imprenditori più spregiudicati. Al punto che nel caos generale, come denunciarono Don Luigi Ciotti e Libera, ci fu chi riuscì a piazzare all’Aquila perfino una quantità così esagerata di Wc chimici (34 milioni di euro!) che nelle tendopoli ogni sfollato avrebbe potuto produrre «fino a un quintale al giorno di pipì e di popò». Molto più di un elefante adulto. Anche ad Amatrice, in parallelo a una consolante efficienza e ad una straordinaria generosità dimostrate da tutti gli uomini dello Stato arrivati in soccorso alle popolazioni colpite, non è che la burocrazia sia ancora riuscita a cambiar passo. La prima ordinanza 388 della Presidenza del Consiglio, prima di arrivare al nocciolo, conteneva 7 «visto» e «vista», 1 «considerato», 1 «ritenuto», 1 «rilevato», 1 «ravvisata», 1 «atteso», 1 «acquisite»… Nella seconda i «visto» sono saliti a 9 più 1 «ritenuto», 1 «sentito», 1 «acquisite». Vecchi vizi. Per carità, amen. Non si può chiedere ai burosauri di cambiare di colpo in piena emergenza. Ma le regole per consentire ai cittadini rimasti senza casa di tornare a progettare il loro futuro devono essere radicalmente diverse da quelle elaborate in questi anni per altri sfollati. Devono essere chiare, severe nel pretendere il rispetto delle norme antisismiche, attente a evitare gli abusi del passato. Guai, però, se fossero così astruse da intimidire. E da aggiungere nuovi tormenti a questa nostra umanità tormentata.
TERREMOTO COME VOLANO DELL'ECONOMIA. La puntata di Porta a Porta andata in onda il 25 agosto 2016 dal titolo “Il cuore dell’Italia con loro Speciale Porta a Porta” che ha approfondito il disastro del terremoto del centro Italia, si è detta una grande verità, però sta facendo infuriare molti italioti benpensanti.
Bruno Vespa: “Questa sarebbe una bella botta di ripresa per l’economia perché pensi l’edilizia che cosa non potrebbe fare”;
Graziano Del Rio: “Adesso L’Aquila è il più grande cantiere d’Europa e anche l’Emilia è un grandissimo cantiere in crescita, farà PIL”; Bruno Vespa: “Darà lavoro ad un sacco di gente”. «Il Friuli era povero e col terremoto è diventato ricco». «Io incontrai un industriale davanti alle macerie della sua fabbrica. Era felice. Dico "ma scusi, le è crollata la fabbrica…". "Ma adesso la rifaccio più bella". Ecco, l’ottimismo, questo ci serve. Sarebbe una bella botta di ripresa per l’economia».
Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione. La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile. Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile. Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.
Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale". Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”
Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.
Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.
Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna. Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".
E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:
riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);
riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);
riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);
riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.
In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.
TERREMOTO ED ADEGUAMENTO ANTI SISMICO. L'Italia dei terremoti, l'ingegnere: "Case antisismiche necessarie, le spese non sono il problema". Francesco Sylos Labini: "Ricostruire sullo stesso posto dal punto di vista ingegneristico potrebbe essere una follia, ma si può fare perché la decollocazione non funziona. Le norme tecniche per le costruzioni sono obbligatoria dal 2009, e sono ottime", scrive Katia Riccardi il 26 agosto 2016 su "La Repubblica". A guardarla bene, la mappa sismica dell'Italia dell'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (ordinanza Pcm del 28 aprile 2006 n.3519, All.1b), resta impressa come una foto dai colori troppo accesi. Il viola al centro come un'arteria a rischio, i bordi più chiari, arancioni, gialli, verdi. L'Italia è un Paese ad alto rischio. Altissimo in alcune zone, in altre medio, solo una minuscola porzione si salva dai terremoti. Siamo capaci di guardare lontano da qui, in California o in Giappone, invece anche lo stivale scalcia spesso, una volta ogni 4-5 anni una catastrofe distrugge tutto, eppure, riesce ancora a sorprenderci. L'Abruzzo è la regione storicamente più colpita dai terremoti: L'Aquila 1786, la Marsica e Avezzano 1904, Messina 1908, 1915 di nuovo la Marsica e Avezzano. Nel 1919 il terremoto al Mugello, 1930 l'Irpinia, la prima volta in questo secolo, poi ce ne fu un altro. Nel 1933 la Maiella, 1943 Marche e Abruzzo, 1958 L'Aquila, 1963 secondo terremoto in Irpinia, 1968 il Belice, 1976 il Friuli con mille morti e nel 1980 di nuovo l'Irpinia, la provincia di Salerno e un pezzo della Basilicata. Poi tre giorni fa, il 24 agosto. E se le case normali crollano con scosse di intensità 5-6 della scala Richter, solo negli ultimi 16 anni in Italia ci sono stati oltre 110 terremoti di varia intensità, da 4 fino a quel 6,3 che ha raso al suolo L'Aquila nel 2009. Le case non costruite a norma, collassano. I muri mal collegati ai solai cadono lateralmente, i solai precipitano nel vuoto e schiacciano tutto. La scossa da sottoterra muove le fondamenta, i piani bassi oscillano e fanno traballare quelli superiori. Ma è la seconda scossa, che arriva in senso inverso, a spezzare l'edificio come ossa sul ghiaccio. Ci vogliono gomma, legno, un certo tipo di acciaio più plastico per ammorbidire una costruzione e consentirle di ballare. Ci vogliono colonne, pilastri di cemento armato piazzati in punti specifici. Il risultato dipende sia dalle caratteristiche della casa che dai tipi di intervento. Che vanno dal rafforzamento della struttura, per esempio con gabbie in cemento armato, all'applicazione di isolatori, dissipatori e smorzatori, ad altre ancora. E questo costa, fino al 10, al 20 per cento in più del costo base. C'è una differenza importante tra prevedibilità di un terremoto e la sua inevitabilità. Prevedere consente di scappare, forse di non morire, ma ricostruire resta comunque inevitabile. Ripartire dalle briciole è certo più oneroso che aggiustare. "Costruire una casa antisismica costa di meno che aggiustarne una, un edificio esistente deve mantenere le sue origini storiche", spiega l'ingegnere Francesco Sylos Labini, professore all'università la Sapienza di Roma, progettista dell'intervento di recupero del Palazzo del governo a L'Aquila. "Il Friuli dopo il sisma è stato ricostruito dov'era e com'era, con materiali nuovi, ma le piazze, le strade sono invariati. Anche nel centro Italia si può fare, certo, contrasterebbe contro tutti i criteri di ingegneria, e ricostruire nello stesso posto dal punto di vista ingegneristico potrebbe essere considerata una follia. Nello stesso tempo, gli italiani sono legati ai loro paesi, è difficile delocalizzarli, le New Town non sono state un esperimento riuscito. E ricostruire si può", dice. Aggiungendo che, tutto sommato, la spesa non è poi così sconvolgente. Insomma non è la scusa. "Ora va fatta l'analisi degli edifici, alcuni, quelli storici, sono rimasti in piedi, ma l'attenzione è su quelli che sono crollati, ci sono interi pezzi di paesi spariti. Un tempo si costruiva bene, bisogna analizzare perché. E dare i numeri è difficile. Diciamo che dai 100 ai 300 euro a metro quadrato è una valutazione plausibile. La struttura è il costo minore, perché è povera di materiali, quello che pesa sul totale sono pavimenti, finestre, impianti. E si deve pagare comunque. Lo scopo è ricostruire un edificio che non uccida, con scale e le strutture che restino in piedi. Per semplicità diciamo che se un edificio costa 100, la struttura 30-35, il resto è costo fisso" continua Sylos Labini, "che si possa costruire e consolidare, che si possano fare le cose bene, come a Norcia, è un dato di fatto". Arquata del Tronto è a pezzi, Norcia, poco distante, ha qualche ammaccatura ma è restata in piedi. "Dopo il terremoto del 1979 è stata messa in atto una ristrutturazione di Norcia e di tutte le frazioni, non è stato semplice, ci sono voluti anni, ma abbiamo voluto ricostruire tutto rispettando le norme antisismiche", racconta l'assessore del Comune di Norcia, Giuseppina Perla. "Dopo le scosse di ieri, le lesioni e i crolli più importanti li abbiamo avuti solo negli edifici vecchi non ristrutturati. Certo, questo non vuol dire che le case costruite con criteri antisismici non abbiano subito lesioni, ma sono lesioni contenute, che hanno salvato tante vite umane". Le case nuove devono essere costruite, per legge, secondo norme anti sismiche, gli edifici vecchi possono essere adeguati. Ma l'intervento è carico dei proprietari. In California e in Giappone lo Stato offre incentivi fiscali, ma lì buttano giù tutto e ricostruiscono. Riparano assi di legno, sostituiscono pezzi. Noi abbiamo case in pietra, patrimoni culturali, rocche, castelli, chiese, campanili. In alcuni casi viviamo in equilibrio su angoli di montagne. Sporgiamo in bilico. Costruiamo case una sopra l'altra, conviviamo con monumenti e conserviamo medioevo. Anche in città abbiamo palazzi in muratura, che se scossi diventano briciole in pochi secondi. L'Italia dal 2013 prevede il rimborso del 65% delle spese in 10 anni. Eppure ci vorrebbero 36 miliardi affinché il 70 per cento dei nostri 32 milioni di edifici ancora non adeguato al rischio, lo diventi. Che si adegui. La Protezione civile definisce normativa antisismica "l'insieme dei criteri per costruire una struttura in modo da ridurre la sua tendenza a subire un danno, in seguito a un evento sismico. "Dire che la normativa di ricostruzione e adeguamento sia stata disattesa è troppo generico - continua l'ingegnere - perché il non aver rispettato regole coinvolge singole responsabilità. Le norme ci sono, e sono ottime norme, in linea con l'Europa. L'attenzione o meno non è stata un'evasione di massa alla ricostruzione". Dal 1908, anno del devastante terremoto di Messina e Reggio Calabria, fino al 1974, in Italia i comuni sono stati classificati come sismici e sottoposti a norme restrittive per le costruzioni. Il 63, 8 per cento dei nostri edifici sono stati costruiti prima che entrasse in vigore, nel 1971, una più efficace normativa antisismica. Dopo il terremoto del 2002 in Puglia e Molise viene emanata l'ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n.3274 del 2003, che riclassifica l'intero territorio nazionale in quattro zone a diversa pericolosità, eliminando le zone non classificate. Da quel momento nessuna area del nostro Paese può ritenersi non interessata al problema sismico. Il problema non sono i costi, ma i tempi. "Io di terremoti ne ho visti tanti", spiega Sylos Labini. "La cosa che mi ha sempre turbato erano le tendopoli, ora ci sono i mezzi e la tecnologia per diminuire i tempi e rifare rapidamente un tetto di una casa, è necessario stabilizzare le persone, anche psicologicamente, la normativa ha fatto passi enormi, e per ora la prevenzione è l'unico mezzo che abbiamo e che dobbiamo attuare. La burocrazia frena i tempi, all'Aquila ha rallentato tutto, ma c'è bisogno di un controllo per quanto possibile, che le cose non sfuggano in queste maglie capillari". Che le persone capiscano l'importanza di una ricostruzione sensata". I ministri delle Infrastrutture e dell'Interno insieme al Capo Dipartimento della Protezione civile emanano il 14 gennaio 2008 il decreto ministeriale che approva le nuove norme tecniche per le costruzioni. L'applicazione diventa obbligatoria dal 1 luglio 2009, come previsto dalla legge n.77 del 24 giugno 2009. Oltre la legge, che dovrebbe obbligare un intervento, restano le pietre a terra, per non dimenticare, per non trovare scuse. E per rimettere in piedi case in grado di ballare, non tombe.
Le cittadelle fanno risparmiare il 50% L'esperto: costruire ex novo costa meno. I casi Messina e San Francisco. Il sindaco Pirozzi: si deve radere al suolo, scrive Giuseppe Marino, Sabato 27/08/2016, su "Il Giornale". Ricostruire dov'era e com'era. Un mantra che torna dopo ogni terremoto. Ma il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, va controcorrente: «Amatrice è da radere al suolo completamente», ammette dopo aver partecipato a riunioni con i vertici di vigili del fuoco e Protezione civile. Il sindaco forse non lo sa, ma ha sfidato le ire dei venerabili maestri dei beni culturali. Dopo il sisma del 2012 un assessore provinciale di Mantova ventilò l'ipotesi di mettere in moto la ruspa sui ruderi delle chiese e Salvatore Settis, ex direttore della Normale di Pisa e archeologo con fama mediatica, lo paragonò ad Attila. Sta di fatto che il dibattito è aperto e che il restauro può essere costosissimo. Per L'Aquila ad esempio, si sono spesi 12 miliardi in 7 anni, e c'è ancora tanto da fare. Si va verso una Nuova Amatrice, magari costruita altrove? Pirozzi è pronto a demolire, ma non a spostare: «A parte la chiesa romanica di San Francesco, tutto il resto non c'è più. Vorremmo però ricostruire Amatrice nello stesso posto, magari con la stessa forma e con la stessa estetica». Per Gian Michele Calvi, direttore del Centro di ricerca in ingegneria sismica e sismologia dello Iuss di Pavia che ebbe un ruolo di primo piano nella costruzione delle «new town» dell'Aquila, «costruire da zero costa molto meno, indicativamente una stima del 50% di risparmio non la trovo azzardata». Calvi cita come principale caso di spostamento di centri abitati e ricostruzione i villaggi coinvolti nel devastante sisma di Messina del 1908. «E nel 1906 a San Francisco - spiega - scelsero invece di far costruire rapidamente a privati new town affittate a un prezzo salato mentre si ricostruiva e poi ricomprate dalla mano pubblica e demolite, per spingere la popolazione a tornare al suo posto». Ci sono naturalmente anche esempi di restauro: «Sant'Angelo dei Lombardi in Irpinia e Gemona in Friuli sono i più citati - ricorda l'ingegnere - ma il primo fu lungo e costosissimo, il secondo fu frutto di una scelta drastica: si decise di privilegiare la ricostruzione delle attività produttive sulle residenze. Ad Amatrice il restauro è fuori luogo, ma si può anche scegliere di ricostruire nello stesso posto. Ma replicare tecniche ed estetica del passato è un'idea figlia di decenni bui dell'architettura in Italia. Costruire ex novo e bene si può». Nella scelta del luogo pesa anche un altro fattore praticamente dimenticato, con esiti disastrosi: i cosiddetti «effetti di sito», cioè caratteristiche del terreno che sono in grado di accelerare l'onda sismica o attenuarla. «Le norme tecniche recenti - dice Raffaele Nardone, consigliere nazionale dell'Ordine dei geologi - richiedono l'analisi geologica del sito, ma ammettono che eccezioni. Che in Italia sono diventate la regola. Ad Accumoli ad esempio non si è tenuto conto del rischio rappresentato dal terreno che è franato all'ingresso del paese, lambendo alcuni edifici. E la natura del terreno potrebbe aver influito anche nel crollo ad Amatrice. Non sempre è necessario spostare le case altrove, ma è indispensabile conoscere la natura del terreno. Magari investendo di più nella sicurezza della casa e meno nella bellezza, se bisogna scegliere».
Ristrutturazioni anti sismiche? Lo Stato penalizza i poveri. Le norme sulle detrazioni Irpef per gli adeguamenti anti-sismici hanno molte falle. Meno sgravi a chi è in difficoltà economiche, scrive Giuseppe De Lorenzo, Sabato 27/08/2016, su "Il Giornale". Dopo il terremoto che ha abbattuto Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto ci si chiede: lo Stato incentiva i cittadini ad adeguare le loro case alle nuove norme anti-sismiche? La risposta è semplice: sì, ma solo i ricchi. Chi guadagna 1.000 euro al mese, invece, si deve accontentare delle briciole. Vi sembra strano? Lo è. Anzi: è una follia. Cerchiamo di capire meglio. Sul sito dell'Agenzia delle Entrate è disponibile un documento che spiega nel dettaglio quali sono gli sgravi fiscali che il governo ha istituito nella speranza di far diventare a prova di terremoto gli edifici antiche. Le detrazioni per le ristrutturazioni anti-sismiche. In sintesi funziona così: il privato cittadino paga di tasca sua i lavori. Poi lo Stato concede uno sconto sulle tasse (Irpef) pari al 50% dell'importo speso (se fatto a partire da giugno 2012). Ovviamente c'è un tetto massimo, pari a 96mila euro. Bene. Nel caso in cui la casa sia costruita in una zona considerata "ad alta pericolosità" sismica, la detrazione sale fino al 65%. Ma c'è da affrettarsi, perché l'offerta scade il 31 dicembre 2016. Dall'anno prossimo potremo sperare di ottenere solo il 36% con un tetto massimo di 48mila euro. Son tempi di vacche magre: anche per proteggerci dal terremoto. Una volta ristrutturata la casa, comunque, al cittadino la detrazione non viene "regalata" in unica soluzione, ma in 10 comode rate annuali di pari importo. Ma c'è l'inghippo: "Ciascun contribuente - si legge - ha diritto a detrarre annualmente la quota spettante nei limiti dell'Irpef dovuta per l'anno in questione. Non è ammesso il rimborso di somme eccedenti l'imposta". In sostanza lo sconto non può essere superiore alle tasse da versare e quindi meno Irpef paghi e minori sgravi puoi ottenere. In questo modo le persone in difficoltà economica hanno uno sconto Irpef inferiore. E così non sono incentivate ad adeguare gli edifici alle norme sismiche, col rischio di morirci dentro. Il pensionato prende meno sgravi del Vip. Facciamo un esempio. Il signor Mario ha una pensione pari a 12.000 euro all'anno. Pochi: parliamo di 1.000 euro al mese. Con il lavoro di una vita mette da parte un bel gruzzoletto e un giorno decide di spendere 50mila euro per rendere la casa anti-sismica. A quel punto chiede la detrazione di 32.500 euro (il 65% di 50mila) che divisi in 10 anni significano 3.250 euro all'anno di quote detraibili. Ma visto che di Irpef (lorda) Mario deve pagare solo 2.760 euro (inferiori ai 3.250 euro di sgravio fiscale), perderà la differenza di 490 euro. E non può nemmeno chiedere un rimborso o farli diventare una diminuzione di imposta nell'anno successivo. Cornuto e mazziato. Quei 5mila euro a Mario avrebbero fatto sicuramente comodo. Se lo Stato fosse stato più generoso, forse, la casa l'avrebbe ristrutturata. Ma così sa di beffa: meno guadagni e maggiore sarà l'ingiustizia. Al contrario, chi è ha un reddito alto (e quindi paga più Irpef) s'intascherà per intero la detrazione. Se non basta, ecco la seconda anomalia: lo sgravio fiscale "extra" per le zone sismiche vale solo per la prima casa. Ma ad Amatrice, Accumuli e via dicendo, molti degli edifici erano abitazioni per le vacanze. Che quindi non avrebbero potuto ottenere la detrazione.
Adeguamento sismico, quanto costa l'edilizia che può salvare la vita. Si va da 100 a 300 euro a metro quadro. Per un palazzo di medie dimensioni si tratterebbe di una spesa di circa mezzo milione. Una cifra vicina a quelle spesso impiegate per interventi di altro tipo. Le detrazioni fiscali ci sono, ma parziali e spalmate nel tempo. E così i lavori per la messa in sicurezza sono una rarità, scrive Paolo Fantauzzi il 25 agosto 2016 su "L'Espresso". L'Italia ha una delle legislazioni più all'avanguardia, in tema di normativa antisismica. Il problema è che interessa solo le nuove costruzioni. E in un Paese dove l'edilizia storica di vario tipo rappresenta l'80-90 per cento, è come dire che - se i lavori sono eseguiti come si deve - solo una piccolissima fetta di edifici è davvero al sicuro. Oltre il 40 per cento del territorio italiano è a rischio sismico elevato e il 60 per cento degli edifici è stato costruito prima del 1974, quanto sono entrate in vigore le prime norme antisismiche. Almeno un terzo degli immobili andrebbe adeguato. Sulla base di questi parametri nel 2013 l'Oice, l'associazione delle organizzazioni di ingegneria, architettura e consulenza tecnico-economica, stimava che il mercato per questo tipo di interventi valesse 36 miliardi. Perché pure se l'adeguamento costa salato, può salvare la vita. Ma di che cifre parliamo? “Con una spesa compresa fra 100 e 300 euro a metro quadro è possibile mettere al sicuro un edificio” spiega Camillo Nuti, a lungo docente di Tecnica delle costruzioni in zona sismica alla facoltà di Ingegneria di Roma Tre e attualmente ordinario di Progettazione strutturale ad Architettura: “Vuol dire 30 mila euro per appartamento di dimensioni medio-grandi e 200-600 mila euro per un classico condominio di quattro piani. Non poco ma si tratta di cifre che spesso, a pensarci, nel complesso vengono spese per una serie di interventi di tanti alti tipi ma assai meno importanti. Bisogna mettersi in testa che non ha senso rifare la cucina se poi le strutture della casa sono a rischio”. Il campionario dei lavori che si possono effettuare è lungo: isolatori o cuscinetti antisismici da disporre alla base degli edifici, l’utilizzo della fibra di carbonio attorno ai pilastri che riduce notevolmente il rischio di fratture, la disposizione di controventi dissipativi tra un piano e l'altro per ammortizzare le scosse, rinforzi tramite l’installazione di catene o il risarcimento delle murature. L’ultimo ritrovato, ancora allo studio, sono particolari pannelli in legno che coprono le tamponature all'interno e che sono in grado di fare da dissipatori. “È la dimostrazione che abbiamo un grande patrimonio di conoscenze e che le tecnologie esistono. Tutto sta a favorirne l’impiego” sintetizza Nuti. Ma ecco sorgere il problema economico. Chi effettua lavori di adeguamento sismico in zone a elevata pericolosità può recuperare il 65 per cento della spesa, ma in dieci anni. Proprio come previsto per gli interventi per il risparmio energetico. Il problema così è che, trattandosi di somme ingenti, in pochi vi ricorrono. Anche perché si tratta di un investimento sul futuro che non dà ritorni immediati in bolletta, né estetici, come nel caso di una ristrutturazione. Così, se la proposta di ricorrere ai margini di flessibilità concessi dalla Ue potrebbe essere una soluzione, si potrebbe pensare anche a un’altra strada: una detrazione immediata o quanto meno in un arco di tempo assai più ristretto rispetto a quello attuale. E le mancate entrate potrebbero essere compensate dal gettito Iva derivante dagli incentivi e dalle tasse pagate da imprese e progettisti. Con un mercato dei lavori stimato in 36 miliardi, solo l’imposta sul valore aggiunto potrebbe portarne sette nelle casse dell’erario. A meno che non si voglia pensare che la vita di una persona, dal punto di vista fiscale, valga quanto una caldaia a condensazione.
Come rendere antisismica la tua vecchia abitazione. Un sismologo ha ristrutturato la sua casa, costruita sessanta anni fa, rendendola sicura. Ecco come e con quali costi, scrive il 25 agosto 2016 Nadia Francalacci su Panorama. Il terremoto che devastato l'Italia centrale, distruggendo completamente interi paesi e estinguendo quasi intere comunità, ha riportato al centro del dibattito la necessità di adeguare le abitazioni agli eventi sismici. L'Italia, purtroppo, come viene ribadito in queste ore dall'Ingv, è un Paese che per sua natura è altamente a rischio eventi sismici. E la storia sia recente che passata ce lo ha ricordato. Dunque, si può trasformare le vecchie case in edifici antisismici? Lo si può fare e anche prezzi contenuti. Non occorre demolire e ricostruire ma solamente apportare piccole modifiche strutturali tali da rendere l’edificio “dinamico” alle scosse sismiche. Con questo articolo scritto a seguito del sisma che colpì l'Emilia Romagna nel 2012, Panorama.it, si era già occupato dell'argomento. Ecco che cosa ci suggerì l'esperto contattato. E i suoi suggerimenti sono sempre attuali. Paolo Frediani, sismologo e direttore dell’Osservatorio Sismico Apuano, dodici anni fa, ha ristrutturato la propria abitazione, una struttura costruita negli anni Cinquanta, rendendola “resistente” al terremoto con un investimento di "soli" 48 milioni di lire che grazie alle detrazioni, sono diventati poco più di 20 milioni. In sostanza,10-13 mila euro circa.
Geometra Paolo Benvenuti, lei ha progettato e seguito la ristrutturazione dell’abitazione del sismologo Paolo Frediani. Com'è riuscito a trasformare la vecchia villetta in un’abitazione che non uccide?
«I cedimenti strutturali che si verificano durante un sisma sono dovuti in gran parte all'enorme quantità di peso che la struttura “portante” dell'edificio deve sopportare. In particolare, mi riferisco al tetto. Durante un evento sismico tutti questi carichi passano da una situazione “statica” ad una “dinamica” in modo repentino ed è questo che ne favorisce il crollo. La problematica principale della villetta del sismologo Frediani costruita circa sessanta anni fa, era quella innanzitutto di legare le quattro pareti costruite in epoche diverse e con materiali differenti. Quindi, per rendere l’edificio dinamico, capace di assorbire il sisma, abbiamo dovuto costruire un cordolo all’altezza del solaio e lo abbiamo fissato alla muratura verticale, ovvero alle pareti, con tondini di acciaio e collante chimico. Poi abbiamo realizzato ex novo una struttura in acciaio per la copertura. Questo ha permesso di alleggerire il tetto».
Ma nel dettaglio quali sono state le fasi principali della ristrutturazione antisismica?
«Volendo mantenere nel locale sottotetto, un vano fruibile, si è pensato di modificare la struttura come da classica capanna con le falde a pendenza diversa, ad una copertura mista a capanna e a padiglione, questo ultimo fatto dovuto anche ad esigenze urbanistiche. Per realizzare il progetto occorreva un materiale leggero, maneggevole, coibentante e facilmente sagomabile proprio considerando la forma della copertura. L'abbinamento che abbiamo scelto è stato tra acciaio e pannelli autoportanti ardesiati. In questo modo si è evitato di aggiungere le tegole che sono pesanti e durante il sisma diventano pericolose. Le travi, invece, sono state collegate tramite idonee piastre di distribuzione ad un cordolo in calcestruzzo armato in modo da scaricare il peso di tutta la struttura sulla sottostante muratura. E’ fondamentale sottolineare che durante tutta la durata del cantiere, non è stato demolito il solaio e questo ha permesso a coloro che vi abitavano di non lasciare mai la villetta».
Con questo metodo di quanto è riuscito ad alleggerire il tetto?
«Di circa due terzi. In sostanza, con il metodo classico, il solaio in laterocemento e calcestruzzo avrebbe avuto un peso medio per metro quadrato di circa 290 chilogrammi mentre con il metodo antisismico abbiamo ridotto il peso a 100 kg per metro quadrato».
Oggi, quanto può costare un intervento come quello appena descritto?
«Calcolando una superficie di circa 90-100 metri quadrati, realizzare una ristrutturazione antisismica, può costare da 20 e 30 mila euro circa».
Ed è possibile intervenire con altrettanta facilità anche negli appartamenti? E con che costi?
«Negli appartamenti è più impegnativo anche perché il progettista deve necessariamente verificare e analizzare tutta la struttura portante dell’edificio e poi intervenire eventualmente sulla singola unità. Ma ad esempio l’istallazione di una catena che serve per collegare ovvero tenere unite, le due facciate opposte di un palazzo il costo può variare dagli 800 ai 1.200 euro a seconda della dimensione. Anche questo è un intervento antisismico, certamente minimo, ma pur sempre funzionale».
TERREMOTO E LOBBY. Il Fascicolo del fabbricato: Ecco poi, come la lobby degli ingegneri specula e tira acqua al suo mulino per creare burocrazia ed a loro ulteriore lavoro.
Terremoto: norme permissive, poche risorse e niente mappatura. “In zone a rischio l’80% dei fabbricati crollerebbe”. Alessandro Martelli, ingegnere sismico, e presidente del Glis: "L'enorme patrimonio edilizio del Paese, che è vecchio, non è in grado di sostenere questi sismi. La normativa però non impone né l’adeguamento né il miglioramento sismico e i finanziamenti che il governo dovrebbe stanziare arrivano con il contagocce". In più non esiste una vera mappa dei fabbricati (almeno quelli pubblici) più vulnerabili, scrive di Melania Carnevali il 25 agosto 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “L’80% dei fabbricati nelle zone ad alto rischio non reggerebbe un terremoto come quello della scorsa notte (leggi). Crollerebbero tutti”. Incluso scuole, ospedali, caserme, prefetture, ossia i luoghi considerati strategici in caso di emergenza, come un terremoto. A dirlo è Alessandro Martelli, ingegnere sismico, presidente del Glis (istituito dall’associazione nazionale italiana di ingegneria sismica), docente a cui nei primi anni Duemila venne tolta la cattedra ad architettura all’università di Ferrara in Costruzioni in zona sismica: “Dissero che era inutile nella regione”, racconta ailfattoquotidiano.it. Poco dopo ci fu il terremoto in Emilia. L’80% è la percentuale di costruzioni storiche in Italia, realizzate prima del 1981, anno in cui – dopo il sisma che devastò Irpinia – venne introdotto l’obbligo del rispetto di specifiche norme antisismiche per le costruzioni. Da allora la normativa viene aggiornata sisma dopo sisma, strage dopo strage, alzando di volta in volta l’asticella di sicurezza. E – salvo lavori non eseguiti come da progetto – le nuove costruzioni risultano sicure. “Il problema grave di questo territorio – spiega a ilfattoquotidiano.it Martelli – è l’enorme patrimonio edilizio del Paese, che è vecchio e non è in grado di sostenere questi terremoti”. Secondo il sismologo Massimo Cocco, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), ben il 50% delle scuole è stato costruito prima del 1981. La normativa però non impone né l’adeguamento sismico, né il miglioramento sismico, se non nel caso di lavori che interessino le parti strutturali. E questo riguarda sia i privati sia il pubblico. I Comuni e le Regioni sono obbligati solo – da una legge introdotta nel 2002 dopo il terremoto in Molise, dove crollò una scuola, e operativa solo dal 2012 – a uno studio di vulnerabilità dei palazzi di loro proprietà. Ossia a verificare se sono sicuri o meno. Punto. Poi, di fatto, possono rimanere come sono: sicuri o no. Perché? I finanziamenti: nel Paese più insicuro d’Europa dal punto di vista sismico (insieme a Grecia e Turchia), si contano con il contagocce. “Il governo dovrebbe stanziare ogni anno una somma nella sua Finanziaria per arrivare alla sicurezza nel giro di un decennio – commenta Martelli, ingegnere sismico – E invece ogni anno dicono che non ci sono soldi, aggravando la situazione. Poi, quando ci sono terremoti di questo tipo, si spende tre volte tanto di quello che si saprebbe dovuto spendere. In Giappone, un sisma del genere, non avrebbe fatto notizia perché hanno investito molto nell’edilizia”. Ma il punto poi è anche un altro e, se possibile, peggiore: una vera mappa dei fabbricati (almeno quelli pubblici) a rischio non esiste. Quanti ospedali o quante scuole rischiano di crollare in Italia? Quante prefetture rischiano di non poter svolgere la loro funzione in caso di emergenza? Non si sa. Da anni il Consiglio nazionale dei Geologi si sgola per chiedere un “fascicolo del fabbricato”, ma la politica ha sempre risposto picche. “Noi lo definiamo ‘libretto pediatrico’ – spiega Domenico Angelone, consigliere nazionale dei geologi – perché conterrebbe tutte le informazioni del fabbricato: dalla nascita agli ultimi interventi, incluso la collocazione. Un fabbricato spesso può essere infatti considerato a norma dal punto di vista sismico, ma magari è situato su una frana. A noi mancano tutte queste informazioni. Ci sono costruzioni di cui non sappiamo proprio nulla”. L’unico dato certo, fornito dai geologi, è che in Italia circa 24 milioni di persone vivono in zone ad elevato rischio sismico: è la cosiddetta zona 1 (le zone sono 4), quella che prende parte dell’Appennino, dal sud dell’Umbria fino alla Calabria e una parte di Sicilia. Ma la prevenzione, secondo i geologi, è pari a zero. “Da anni diciamo che in Italia siamo ben lontani da una cultura di prevenzione – spiega il presidente del Consiglio nazionale dei Geologi, Francesco Peduto – Innanzitutto sarebbe necessaria una normativa più confacente alla situazione del territorio italiano: oltre al fascicolo del fabbricato chiediamo un piano del governo per mettere in sicurezza tutti gli edifici pubblici. Inoltre, affinché cresca la coscienza civica dei cittadini nell’ambito della prevenzione sismica, bisognerebbe cominciare a fare anche una seria opera di educazione scolastica che renda la popolazione più cosciente dei rischi che pervadono il territorio che abitano. Non dimentichiamo – continua il presidente dei geologi – che, secondo alcuni studi, una percentuale tra il 20 e il 50% dei decessi, in questi casi, è causata da comportamenti sbagliati dei cittadini durante l’evento sismico”. Prevedere un terremoto, secondo i geologi, è impossibile. “Sappiamo che l’Italia è un territorio a rischio – spiega Peduto – ma non è possibile sapere in anticipo dove verrà e di che intensità”. Quello che rimane quindi è la prevenzione. “Che, in Italia – chiosa il geologo -, è proprio ciò che manca”.
E dopo la lobby degli ingegneri ecco le pretese della confedilizia.
Terremoto, ingegneri: "La messa in sicurezza delle case italiane costa 93 miliardi. Il 50% non adeguate per un sisma", scrive "L'Huffington Post" di ANSA il 25/08/2016. "Per la messa in sicurezza del patrimonio abitativo degli italiani da eventi sismici medi" il costo complessivo è "pari a circa 93 miliardi di euro". E' uno dei dati forniti dal Consiglio nazionale degli ingegneri (su elaborazione del suo Centro studi), a seguito degli eventi tragici nell'Italia centrale. Il complesso delle abitazioni residenziali, recita il dossier, "si presenta particolarmente vetusto e, per questa ragione, potenzialmente bisognoso" di interventi: circa "15 milioni di case (più del 50% del totale) sono state costruite, infatti, prima del 1974, in completa assenza di una qualsivoglia normativa antisismica". E, inoltre, almeno "4 milioni di immobili sono stati edificati prima del 1920 e altri 2,7 milioni prima del 1945". Secondo i professionisti, la quota di immobili da recuperare, sulla base dell'esame dei danni registrati alle abitazioni de L'Aquila e delle condizioni del patrimonio abitativo raccolte dalle indagini censuarie, "è pari a circa il 40% delle abitazioni del Paese, indipendentemente dal livello di rischio sismico". Politiche di incentivazione, soprattutto fiscale, degli interventi per la tutela del patrimonio immobiliare e per la prevenzione dei danni da calamità. E' questa, secondo Confedilizia, la strada da seguire alla luce del terremoto nel centro Italia. Secondo l'associazione, "quel che certamente non serve - e che, anzi, porta danni - è ipotizzare obblighi generalizzati di intervento o di redazione di improbabili certificati ovvero riesumare proposte bocciate dalla storia: come quella di un obbligo assicurativo, contrastata anche dall'Antitrust, o quella del fascicolo del fabbricato, libretto cartaceo dichiarato illegittimo dai giudici di ogni ordine e grado e avversato anche dal Governo Renzi, che ha tempo fa impugnato una legge regionale in tal senso". Quanto al post-terremoto, il Governo in carica, con un provvedimento previsto dall'ultima legge di stabilità e attuato con una delibera pubblicata in Gazzetta Ufficiale proprio venti giorni fa, ricorda Confedilizia, "ha varato un sistema di gestione delle calamità naturali che permette a cittadini e imprenditori danneggiati di ottenere considerevoli aiuti per la riparazione o ricostruzione delle case e per il ripristino delle attività produttive. Confidiamo che le relative risorse siano incrementate, a beneficio delle popolazioni colpite dal sisma che ha colpito Lazio e Marche".
TERREMOTO E SPRECHI. I fondi per la ricostruzione spartiti in “consulenze d’oro”. Così dal ’97 i partiti hanno gestito i soldi pubblici del dopo-terremoto. 790 professionisti. Ingegneri, geometri, architetti e geologi che hanno avuto consulenze nella ricostruzione, scrive Paolo Festuccia il 31/08/2016 su "La Stampa". La caccia agli appalti è cominciata. La sta facendo la Guardia di Finanza su delega della procura di Rieti. Obiettivo: accertare quali ditte, quali tecnici e con quali criteri sono stati concessi soldi pubblici per la ricostruzione post sisma del 1997. A cominciare dai lavori svolti nei Comuni di Accumoli ed Amatrice dove le opere rifatte e realizzate per il miglioramento sismico sono crollate nuovamente. Ma Amatrice e Accumoli, in questa storia di crolli e ricostruzioni, rappresentano solo una piccola parte del fiume di denaro pubblico che con il sisma umbro-marchigiano sono piovuti sull’intera provincia di Rieti. Non solo, il reatino ha beneficiato anche di un’altra cospicua iniezione di denaro pubblico anche per lo sciame sismico del 2001. Risultato: tra il primo stralcio e il secondo i soldi pubblici spesi per riedificare gli immobili lesionati, chiese, scuola e abitazioni private sono stati 61 milioni e 625 mila euro. A questi si devono aggiungere altri 5 milioni (sempre di euro) e il totale arriva a 66 milioni di opere finanziate. Una vera manna per costruttori, professionisti, ingegneri e architetti. A vigilare sulla doppia ricostruzione, soprattutto nella prima fase dell’emergenza, in tempi diversi e in base alle alternanze di governo alla Regione Lazio, si sono avvicendati tre sub commissari: il primo l’ex presidente della Provincia di Rieti Giosuè Calabrese (Ppi all’epoca), il secondo con l’avvento della giunta Storace, l’ex assessore regionale (reatino) di Alleanza nazionale al Turismo e alla Cultura Luigi Ciaramelletti. Infine nel 2005 l’allora presidente della provincia, oggi parlamentare del Pd, Fabio Melilli, quando già molto ormai era stato assegnato. Calabrese ha affidato lavori e incarichi per oltre 30 milioni, Ciaramelletti per poco meno. Sotto il loro scettro si sono alternati oltre 790 professionisti della zona: geometri, ingegneri, architetti, geologi. Tanti anche per «dividersi» consulenze minori e appalti di lieve entità. Ma molti, come elencato nel piano di attuazione del programma stralcio, hanno lavorato su diversi fronti contemporaneamente, e quindi a piccole dosi «hanno portato a casa cifre interessanti», afferma una fonte ben informata. In molti casi nella lista ci sono pure ex sindaci, ex consiglieri comunali di vari Comuni, figli di: alcuni tra questi sono passati da un municipio all’altro. Del resto i Comuni beneficiati dalla manna pubblica (tra il primo e il secondo stralcio) sono stati 49 su 72 e molti professionisti sono stati chiamati come progettisti in un luogo e come collaudatori in un altro. Per ogni lavoro «sono stati impiegati tre professionisti… E va da sé che anche nelle opere minori questo ha in un certo senso - riprende la fonte - abbassato anche il valore di prestazione d’opera circa la qualità del rifacimento». Un’accusa pesante, dunque. Non solo, se si osservano i documenti balza subito agli occhi come i 33 milioni di euro stanziati siano stati frazionati in interventi, (soprattutto tra Amatrice e Accumoli dove si è verificato il sisma e i palazzi sono crollati nuovamente), con importi non oltre i 150 mila euro, cifra entro la quale appalti e incarichi, all’epoca, potevano essere affidati a trattativa privata. Chi conosce quegli atti, insomma, assicura che la pioggia finanziaria è scesa sui Comuni «mettendo d’accordo tutti: sia la destra che la sinistra, sia i liberi professionisti di destra che quelli di sinistra». Da Amatrice a Fiamignano, passando per Cittaducale e Rieti. Stime alla mano, l’incidenza delle consulenze progettuali ha pesato sull’opera per il 40 per cento dei lavori (Iva compresa). Insomma, su 125 mila euro stanziati 45 mila sono andati ai tecnici e solo 75 mila al rifacimento dei lavori. Se il nodo si affronta da questa prospettiva, allora, è probabile che gli inquirenti nel sequestrare le carte degli appalti affidati vogliano anche accertare se le imprese si siano limitate solo al rifacimento della parti crollate, oppure abbiano anche provveduto al miglioramento sismico così come previsto nel capitolato. Non quindi all’adeguamento ma almeno al miglioramento. «Un fatto è chiaro - riprende la fonte - da tutta questa vicenda si evince che dare lavori a tre progettisti significa poi tagliare i costi sui lavori effettivi». Tanto per citare un esempio, tra Amatrice e Accumoli, dove quasi tutto ciò che è stato rifatto è inagibile, crollato o fortemente compromesso dal terremoto del 24 agosto scorso, su un importo vicino ai tre milioni di euro stanziati tra integrazioni e fine lavori sono stati ben 72 i tecnici incaricati con l’aggiunta di geologi e collaudatori. Se il tariffario indica il 40% per la progettazione, questo significa che su 3 milioni circa un milione 200 mila euro è finito nelle consulenze mentre il restante milione e 800 mila euro in cemento armato e ferro. Che spalmato su 21 immobili fortemente danneggiati fa una media di poco più di 85 mila euro. Dentro questa cifra ci dev’essere il guadagno per impresa e operai.
Terremoto: costruiscono, ricostruiscono, consulenti…stessa casta, scrive Riccardo Galli su “Blitz Quotidiano” il 31 agosto 2016. Terremoto, quelli che costruiscono prima del terremoto (male molto male) sono quasi sempre gli stessi che nel dopo terremoto riparano e ricostruiscono (finora ancora male). E sono gli stessi, proprio gli stessi che intercettano i fondi per la ricostruzione e li trasformano in buona parte in consulenze. Un’altra casta, fatta di geometri e asri, consiglieri comunali e ingegneri, avvocati, commercialisti, imprenditori, notai, perfino parroci. “Non sono i terremoti ad uccidere, ma i palazzi che crollano”, diceva e continua a dire Giuseppe Zamberletti, papà della nostra Protezione Civile, trovando una forse inaspettata eco nelle parole dal Vescovo di Rieti durante i solenni funerali di ieri. Ma di terremoto, e soprattutto di ricostruzione, si vive anche. Al punto che intorno all’emergenza vive e prolifera una vera e propria piccola casta. Una casta fatta di ditte e professionisti che costruiscono (male) e ricostruiscono dopo i crolli, dando tra la prima e la seconda cosa consulenze sui lavori da fare. Sempre le stesse persone. “Capita dunque che lavorino sempre gli stessi professionisti del sisma – scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera -. Tanto più nei piccoli centri: quando si tratta di tirare su un muretto o una palazzina, ci pensa il geometra autoctono. E ci pensa pure se quel muretto o la palazzina crolla causa movimento tellurico imprevisto. Figuriamoci se poi il tecnico ha le mani in pasta nell’amministrazione comunale. Niente di illegittimo, ovvio. Ma qualche domanda è giusto farsela. Il fatto è che soprattutto nei piccoli centri la commistione fra la politica e certe figure professionali risulta inevitabile. Quello che un tempo in una comunità rappresentavano il farmacista e il notaio, ora è in molto casi il geometra. Meglio se con un incarico politico. Ha raccontato Mariano Maugeri sul Sole 24 ore che ad Amatrice il vicesindaco Gianluca Carloni è un geometra che continua a lavorare nello studio tecnico con il fratello Ivo, un ingegnere che ha costruito mezza Amatrice e negli anni 90 aveva ristrutturato la caserma dei carabinieri di Accumoli, fortemente danneggiata dal sisma’”. Se tutto sia legittimo e legale ora, almeno nel caso dei comuni e dei lavori effettuati sugli immobili venuti giù col terremoto del 24 agosto, lo stabiliranno le inchieste e, come hanno ricordato i Finanzieri incaricati delle indagini dalla procura di Rieti: “Ora andremo a vedere perché sono sempre le stesse ditte ad effettuare i lavori, certo è strano, forse qualche dipendente pubblico non ha fatto benissimo il suo lavoro”. Il dis tra legale e illegale è in questi casi però sottilissimo e, in verità, per raccontare questo mondo che di terremoto e soprattutto emergenza vive, nemmeno rilevante. Perché come racconta Paolo Festuccia su La Stampa il 31 agosto 2016 parlando della ricostruzione post sisma del ’97: “Da Amatrice a Fiamignano, passando per Cittaducale e Rieti. Stime alla mano, l’incidenza delle consulenze progettuali ha pesato sull’opera per il 40 per cento dei lavori (Iva compresa). Insomma, su 125 mila euro stanziati 45 mila sono andati ai tecnici e solo 75 mila al rifacimento dei lavori. Se il nodo si affronta da questa prospettiva, allora, è probabile che gli inquirenti nel sequestrare le carte degli appalti affidati vogliano anche accertare se le imprese si siano limitate solo al rifacimento della parti crollate, oppure abbiano anche provveduto al miglioramento sismico così come previsto nel capitolato. Non quindi all’adeguamento ma almeno al miglioramento. (…) Tanto per citare un esempio, tra Amatrice e Accumoli, dove quasi tutto ciò che è stato rifatto è inagibile, crollato o fortemente compromesso dal terremoto del 24 agosto scorso, su un importo vicino ai tre milioni di euro stanziati tra integrazioni e fine lavori sono stati ben 72 i tecnici incaricati con l’aggiunta di geologi e collaudatori. Se il tariffario indica il 40% per la progettazione, questo significa che su 3 milioni circa un milione 200 mila euro è finito nelle consulenze mentre il restante milione e 800 mila euro in cemento armato e ferro. Che spalmato su 21 immobili fortemente danneggiati fa una media di poco più di 85 mila euro. Dentro questa cifra ci dev’essere il guadagno per impresa e operai”. Si tratta, specie nelle piccole realtà e in un Paese dove le occasioni per i progettisti non sono all’ordine del giorno, anche di guerre fra poveri. Non è, o almeno non sempre, una rete votata al malaffare ma uno spaccato di quell’Italia che vive e sopravvive grazie al denaro pubblico, che considera questo alla stregua di un diritto e ha una capacità di prevenire tendente allo zero. Una casta che non gode di quell’aura negativa che circonda, ad esempio e purtroppo molte volte a ragione, i politici. E’, al contrario, una casta di cui la gente si fida: si ricorre sempre alle stesse ditte e agli stessi professionisti certo perché i lavori non vengono affidati attraverso gare d’appalto, ma anche perché il geometra fratello del sindaco, cugino della ditta che ha ristrutturato casa rappresenta una sorta di garanzia. Come dicono a Napoli: “però sparti ricchezza e addiventa puvertà”, e se sui fondi messi in campo per ogni ricostruzione quasi la metà finisce in consulenza, è conseguenziale che i lavori dovranno essere fatti al risparmio. Tanto ci sarò sempre tempo per rifarli, forse meglio, al prossimo crollo.
TERREMOTO E MONOPOLIO. Terremoto, i «professionisti» della ricostruzione. Lavorano sempre gli stessi, tirano su muretti e palazzine e li riparano se crollano. Il meccanismo che ha portato tanti affari in poche mani ha rallentato il dopo sisma, scrive Sergio Rizzo il 30 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". C’era la fila, davanti alla porta di Pasqualino Fazio. Perché fratello del sindaco, Mariano Fazio? Oppure in quanto fratello di Antonio Fazio, altissimo dirigente della Banca d’Italia? Macché. Semplicemente perché era l’ingegnere di Alvito, paese di tremila abitanti in Ciociaria. I paesani lo conoscevano e si fidavano di lui. Non che l’essere fratello del sindaco e del futuro governatore della banca centrale rappresentasse un handicap, intendiamoci: il cognome Fazio ad Alvito è sempre stato una garanzia. E Pasqualino era gettonatissimo. Suo il progetto delle case popolari, prima del terremoto. Suoi anche i progetti per gli edifici pubblici, dopo il terremoto: il municipio del fratello e il convento di San Nicola. E le abitazioni private di quelli in fila davanti alla sua porta, lesionate dal terremoto. Perché nella dorsale appenninica perennemente martoriata da sisma ci fu una scossa anche ad Alvito, nel 1984. Che si portò via un bel po’ di calcinacci restituendoli poi con gli interessi: 10 miliardi di lire per la ricostruzione. Per come hanno sempre funzionato le cose in questo Paese è normale che andasse così. E così è sempre andata anche dopo. È il sistema. Il privato che ha la casa danneggiata con i contributi statali fa quel che vuole. Dà l’incarico a chi preferisce: non ha l’obbligo di fare una gara. C’è chi la considera un’anomalia. Ma di fronte alle obiezioni i governi di turno hanno sempre deciso che quei soldi pubblici vadano considerati come quattrini privati a tutti gli effetti. Fra chi intercettato definisce il disastro «una botta di culo» (L’Aquila), chi ride nel letto di notte mentre una intera città si sbriciola (ancora l’Aquila) e chi spera «in una botta forte» perché «in un minuto ne fa di danni e crea lavoro» (Mantova), capita dunque che lavorino sempre gli stessi professionisti del sisma. Tanto più nei piccoli centri: quando si tratta di tirare su un muretto o una palazzina, ci pensa il geometra autoctono. E ci pensa pure se quel muretto o la palazzina crolla causa movimento tellurico imprevisto. Figuriamoci se poi il tecnico ha le mani in pasta nell’amministrazione comunale. Niente di illegittimo, ovvio. Ma qualche domanda è giusto farsela. Il fatto è che soprattutto nei piccoli centri la commistione fra la politica e certe figure professionali risulta inevitabile. Quello che un tempo in una comunità rappresentavano il farmacista e il notaio, ora è in molto casi il geometra. Meglio se con un incarico politico. Ha raccontato Mariano Maugeri sul «Sole 24 ore» che ad Amatrice «il vicesindaco Gianluca Carloni è un geometra che continua a lavorare nello studio tecnico con il fratello Ivo, un ingegnere che ha costruito mezza Amatrice e negli anni 90 aveva ristrutturato la caserma dei carabinieri di Accumoli, fortemente danneggiata dal sisma». Intrecci all’ordine del giorno, nell’Italia dei campanili. Quando c’è di mezzo un terremoto, però, le cose si vedono sotto una luce leggermente diversa. All’Aquila le pratiche per la ricostruzione private erano finite in pochi studi professionali. Il più noto, quello dell’ex autorevole presidente del locale ordine degli architetti, Gianlorenzo Conti, peraltro prematuramente scomparso poco tempo fa. Perché questa concentrazione di incarichi, che allora preoccupò non poco il responsabile della struttura di missione Gaetano Fontana? Forse l’idea che affidare l’incarico a uno studio locale conosciuto e ben introdotto con l’amministrazione potesse costituire una sorta di corsia preferenziale per i finanziamenti. Poco importa se l’ingegnere o il geometra è magari il responsabile del disastro. Di sicuro, questo meccanismo che ha portato tanti affari in pochissime mani ha finito per rallentare la ricostruzione. Aumentando i costi: quando all’Aquila si è passati dalle pratiche singole agli aggregati il fabbisogno finanziario si è ridotto di oltre il 20 per cento. Senza dire che in un Paese così carente di occasioni per i progettisti anche le catastrofi possono scatenare guerre fra poveri. Il 4 settembre 2012, tre mesi dopo il terremoto emiliano, l’ex presidente dell’ordine nazionale degli architetti Leopoldo Freyrie fece approvare un codice etico per i professionisti volontari iscritti al suo albo, che prevede dure sanzioni per chi sfrutti economicamente questa sua posizione. Era successo che all’Aquila qualche architetto che aveva verificato «volontariamente» le lesioni di un edificio, fosse tornato alla carica con il proprietario proponendosi per pro-gettare la ristrutturazione. Il terremoto abruzzese è stato un formidabile banco di prova per i professionisti delle catastrofi: progettisti e imprese. Si andò avanti fin da subito con le procedure straordinarie della Protezione civile, e le scelte erano puramente discrezionali. Venne poi deciso di far lavorare prevalentemente le ditte locali, il che ha ristretto ancor più l’area dei partecipanti. La cosa non mancò di avere pesanti ripercussioni. Ci fu uno scontro interno all’Ance fra la struttura centrale e l’associazione territoriale delle imprese abruzzesi, che avrebbe voluto norme per limitare la partecipazione di concorrenti provenienti da altre Regioni. Per non parlare delle infiltrazioni della ‘ndrangheta, registrate anche per i lavori del dopo terremoto nell’Emilia-Romagna. Ma questa è decisamente un’altra storia, rispetto al groviglio di fortissimi interessi locali. Certe imprese che hanno lavorato in Abruzzo sono le stesse già comparse nella ricostruzione del terremoto dell’Umbria e delle Marche. Con significative diramazioni nella provincia di Rieti, perché fin lì è arrivato il cratere del sisma abruzzese: quindi i relativi fondi. E se lo schema resterà questo anche dopo Amatrice, il gioco è destinato a continuare. Nell’ambiente dei costruttori qualcuno ha già cominciato a far girare l’idea che si debbano precostituire liste di imprese pronte a lavorare nel reatino. Dove le ditte iscritte all’associazione dei costruttori non sono che una ventina. Idea, per fortuna, prontamente messa da parte. Almeno per il momento. C’è solo da augurarsi che tutto ciò serva ora d’insegnamento…
TERREMOTO E FONDI PER LA RICOSTRUZIONE. L'affare terremoto: morti, politica e banche, scrive Andrea Spartaco Martedì 06/01/2015 su "Basilicata 24". Storia di disastri finanziari e strani intrecci che portano alla Basilicata. Nel giugno 2006, appena un anno dopo il mandato elettorale, la giunta regionale lucana presieduta da Vito De Filippo (Pd) firmò due contratti di interest rate swap (Irs, ndr) con Dexia Crediop spa e Ubs Warburg. Bisognava finanziare opere e interventi nelle zone colpite dal terremoto del '98. Una cosa decisa velocemente. Del resto con Crediop il contratto di mutuo ventennale era già stato firmato sei anni prima da un'altra giunta Pd, quella del predecessore Filippo Bubbico. Si tratta d'un volume complessivo di circa mezzo miliardo di euro di contratti di emissione, acquisto, vendita e trasferimento di strumenti finanziari siglati al di fuori della Direttiva europea in materia di Appalti Pubblici di Servizi, sebbene a copertura di soldi pubblici. In Basilicata però, la storia del rapporto tra terremoti, fondi pubblici, Regione e banche, comincia prima. Ed è molto interessante.
Banche e morti. Nel periodo successivo al sisma dell'80 una rilevante massa di soldi (10mila miliardi di lire, ndr), disse la Commissione che s'occupò del terremoto, transitò attraverso istituti di credito di Campania e Basilicata. Soldi di terzi in amministrazione presso le banche locali in cui si contabilizzavano i fondi pubblici erogati per la ricostruzione, che partiti da 160 miliardi (mld, ndr) di lire nell'83, nell'87 erano lievitati a 800. “I ritardi in alcuni Comuni dell'opera di ricostruzione – scrisse – hanno procurato un ulteriore vantaggio agli istituti di credito delle zone, rappresentato dalle giacenze presso gli stessi di notevoli somme accreditate ex legge 219/81 e non ancora utilizzate”. Cosa restava di quei novanta secondi che colpirono tra Campania e Basilicata provocando 2.914 morti? Che alcune banche, ribadì la Commissione, avevano tratto da tale “tristissimo evento un rilevante tornaconto, realizzando in pochi anni incrementi di portata assolutamente eccezionale”. Le amministrazioni pubbliche avevano lasciato che ciò accadesse mentre la gente aspettava in containers (e aspetta ancora) che la propria abitazione venisse riparata o ricostruita. Tra '80 e '84 su un totale di 3.400mld spesi, 921mld erano i soldi trasferiti ai comuni. La Commissione puntualizzò il ruolo distorto avuto spesso da sindaci e banche locali nella gestione, e l'assenza di controllo pubblico. Nel luglio '90 il presidente Antonio Boccia (Pd) dichiarò che per la 219/81 la Regione non aveva avuto, e non aveva, “nessuna competenza in materia di insediamenti industriali”. Ma quanti soldi s'erano tenuti le banche per quel loro “rilevante tornaconto”? A settembre '90 ammontavano a 907mld.
Cosche, politica e appalti. Per la Guardia di Finanza il terremoto del '80 “costituì l’occasione per risolvere i problemi sia di reinvestimento sia di riciclaggio, ma anche della ricerca di nuovi spazi territoriali ed economici d’azione e dell’appoggio o della contiguità con pezzi delle istituzioni e in particolar modo con la politica”. A soli tre anni dal terremoto a Potenza i sindacati lanciavano un allarme, sollecitando l'applicazione della legge antimafia per le irregolarità nei pubblici appalti. L'allora vicepresidente del Consiglio Regionale Mario Lettieri affermò che c'erano processi assai preoccupanti “legati agli appalti pubblici e alla ricostruzione”. C'era una criminalità economica che scaturiva da “un intreccio tra affari e politica per cui gli appalti di opere pubbliche, gli incarichi di progettazione e le agevolazioni per gli investimenti industriali, stimolavano gli appetiti di cosche e gruppi locali e no protetti dai partiti di governo”. Nell '84 a Balvano, definita vicenda esemplare dalla Commissione terremoto per l'evidente disprezzo dei piani naturali nei lavori di infrastrutturazione, e i problemi di carattere idrogeologico provocati, per l'area industriale era stato fatto un progetto di partenza costato circa 33mld di lire, cifra nella quale “stranamente” non erano compresi 5,8mld per i costi dell'impianto di depurazione per le acque nere e per quelle industriali, né i costi per l'impianto di potabilizzazione, sollevamento e diramazione dell'acqua verso l'area industriale (passati da 3 a 6mld per difficoltà tecniche, ndr), né circa 8mld del movimento terra quota parte finita in discarica a costi esorbitanti e fuori da ogni regola di mercato si disse. Si parlò di 60mld spesi per una zona priva dei requisiti minimali per ospitare siti industriali, e di modifiche risultanti solo da spinte di progettisti, imprese e controllori “a scopo evidente di lucro”.
Soldi e coma profondo. Certo nel settembre del '98, pochi giorni dopo il nuovo terremoto, il Procuratore di Potenza Gelsomino Cornetta raccontò in una Commissione parlamentare “il problema” delle immense aree industriali create dopo il terremoto del '80. “Abbiamo indagato – dichiarò – e alle nostre modestissime forze è stato riconosciuto di aver fatto tutto ciò che era possibile, tant'è che il ministero competente ha recuperato parecchie centinaia di miliardi”. Si trattava d'un patrimonio aziendale costituito in gran parte da imprese che erano "scatole vuote", e che avrebbe creato “un problema di abbattimento e di eliminazione di rifiuti di natura industriale”. Quello stesso '98 una determina dirigenziale del Dipartimento programmazione economica regionale assegnava ancora al Comune di Balvano mille milioni di lire per infrastrutturazione della zona P.I.P (legge 64/86, ndr). Nonostante lo sforzo economico nel 2012 in un Consiglio regionale si presentò, per l'area di Balvano, una interrogazione all'allora assessore alle attività produttive Marcello Pittella. Lì, soldi del terremoto o meno, i disoccupati aumentavano, le opere infrastrutturali non erano finite, e la situazione della zona industriale era di “coma profondo”.
Meno male che c'è il sisma. "Per fortuna" dopo il sisma dell'80 arrivò quello del '98. Così non dovemmo solo ridare soldi al ministero, perché lo Stato ne portò altri. A occuparsi del mutuo firmato nel 2000 dalla Regione per gestire i 42mld di lire statali annui per ricostruire, fu appunto Crediop, capofila di un pool composto da Banco di Napoli, Banca Mediterranea, Banca Opere pubbliche e delle infrastrutture (Opi, ndr), Monte dei Paschi, e Banca di Roma (BdR, ndr). La partner lucana del pool, Banca Mediterranea, che proprio nel 2000 si fuse con BdR, era nata nel '92 da una precedente fusione tra Banca di Pescopagano e Brindisi (Bpb, ndr) e Banca di Lucania (Bdl, ndr) con uno spropositato aumento di capitale, da 4,5mld a ben 130. Eppure nel '91 l'Organo di vigilanza (OdV, ndr) aveva definito critica la situazione patrimoniale della Bpb accertando che “il controllo della Banca di fatto dal Presidente del Consiglio di amministrazione”, poi presidente di Mediterranea (con sede pure a Pescopagano, ndr), aveva favorito l'ingresso di gruppi a lui vicini come i Casillo, il cui fondatore Gennaro, ricorda Rocco Sciarrone in “Mafie vecchie mafie nuove”, era legato tramite il nipote Vincenzo ai boss Raffaele Cutolo e Carmine Alfieri. Vincenzo che, con Alvaro Giardili, scrive Nicola Tranfaglia in “Cirillo, Ligato e Lima”, fu il tramite per gli affari post-terremoto '80 del pidduista Francesco Pazienza. Giardili e Pazienza che s'incontravano con Antonio Gava (Dc, ndr), e Alphonse Bove, boss italo-americano legato al Sismi e “procacciatore d'affari per la ricostruzione”.
Il sistema terremoto. Del resto il presidente di Bpb fu definito nell'88 dalla stampa nazionale "uomo-chiave" d'un certo sistema di potere politico-finanziario che vedeva coinvolti il ministro Emilio Colombo e il sottosegretario Angelo Sanza. Lucani entrambi. All'epoca un uomo di fiducia del presidente disse a un notaio azionista di minoranza della Bpb "zitto sulla banca se non vuoi guai". Il motivo stava nella sua curiosità di volerci veder chiaro sui rapporti tra il presidente di Bpb e una delle imprese del terremoto. C'erano poi guarda caso quei rapporti tra direttore generale di Bpb e un'impresa di consulenza finanziaria che sempre guarda caso teneva i libri contabili dell'impresa con cui il presidente avrebbe avuto rapporti. Tre anni prima la Guardia di Finanza aveva spedito una bella documentazione a una procura lucana. Veniva fuori che i responsabili dell'impresa con cui il presidente avrebbe avuto rapporti, assieme ai responsabili di altre quattro imprese del medesimo "giro" erano stati denunciati dal Nucleo di Polizia Tributaria per emissione di fatture false e associazione per delinquere. Nell '86 il titolare di una impresa aveva denunciato d'esser stato costretto a "sfornare centinaia di fatture false" nei confronti di tali società perché aveva bisogno di lavorare. Dell'impresa con cui il presidente Bpb avrebbe avuto relazioni la Gdf aveva sottolineato che nel prendere gli appalti violava la legge antimafia. Certo in quel 1986 Banca d'Italia lo mandò un ispettore, ma l'anno dopo ricevette un incarico "ben retribuito" dalla banca ispezionata. Emblematico per capire l'andazzo di quegli anni è la condanna, in veste di direttore d'una banchettina che di quel fiume di soldi del terremoto aveva beneficiato, del presidente di Confindustria di Potenza a 3 mesi di reclusione per appropriazione indebita. Aveva lasciato un buco di 50mld di lire.
A che servono le banche? Il presidente della Bpb intanto, fedelissimo Dc, secondo l'OdV avrebbe pure favorito altri gruppi “coinvolti in oscure vicende post-terremoto” 1980 come Pafi, Baricentro e quell'Icla spa che ebbe in concessione 616mld di lire. Il parlamentare Enrico Iandelli in un'interrogazione parlò d'operazioni societarie e finanziarie come l'aumento di capitale della Bdl “sottoscritto in gran parte da compiacenti persone assai vicine” al presidente, la fusione con Bdl e il successivo aumento di capitale della Mediterranea “senza che la Banca d'Italia intervenisse come suo dovere, e supportata talora da anomale decisioni giudiziarie”. Comunque nel '94 pure Banca d'Italia non potè astenersi dal valutare in 508mld le perdite previste su crediti alla clientela. Tra le perdite c'erano pure 73,7mld per l’ammortamento della posizione del Gruppo Casillo. Banca d'Italia accertò “diffuse irregolarità” e pure che “possessori di significative quote del capitale della banca erano beneficiari di rilevanti finanziamenti erogati dall'azienda”. I rinvii ai problemi economici del Mezzogiorno usati come scusa dal presidente di Mediterranea (prima di Bpb, ndr), ricorda la memoria difensiva presentata contro BdR/Capitalia spa nel 2005 dagli azionisti di minoranza della Mediterranea dopo il suo crack, non avrebbero dovuto essere condivisi dall’azionista di controllo BdR (anch'essa dentro il pool Crediop quando la Regione firmò nel 2000 il mutuo per il terremoto del '98, ndr), ma Generoso Puzio, rappresentante BdR, era pure titolare del 50,03% delle azioni di Mediterranea.
Pareggiare i conti a Roma lasciando buchi altrove. In quello stesso 2000 BdR aveva rappresentato ai sindacati che stavano determinando il valore di stima delle attività di compendio di Mediterranea, non ancora incorporata, da conferire nella Mediterranea Servizi 2000 spa, società costituita immediatamente dopo la stipula nel 2000 dell’atto di fusione tra il presidente di Capitalia Cesare Geronzi e Leonardo Di Brina della controllata-incorporata Mediterranea, presto rinominata Nuova Banca Mediterranea. Per il pool di avvocati che rappresentò gli azionisti di minoranza della Mediterranea, BdR già nell'esercizio finanziario del '98 “preconizzava nel suo bilancio quello che un anno dopo sarebbe stato il valore di concambio fissato per la fusione”. Dall’attuazione di quel progetto di vendita di Mediterranea, scrivono, “Banca di Roma ha conseguito un corrispettivo di 284mln di euro, una plusvalenza di circa 202mln, utile a sanare, portandolo in attivo, il bilancio 2001”. La costruzione della nuova holding BdR/Capitalia avvenne proprio dopo la vendita di Nuova Banca Mediterranea per 284mln alla Popolare di Bari, altra consorella del circuito delle banche cooperative a responsabilità limitata che avevano fatto affari col precedente terremoto del 1980 (tipo la Banca Popolare dell'Irpinia, ndr), come se Mediterranea Servizi 2000 sin dall'inizio fosse stata destinata a una operazione da cui attendere un “lucroso corrispettivo e una cospicua plusvalenza”. Certo senza vendita, specificarono gli avvocati, il bilancio della BdR si sarebbe chiuso con una perdita di 120mln di euro.
Public finance? Crediop, capofila del mutuo firmato nel 2000, diventò società per azioni nel '90, iniziando un tour di quote societarie per banche che si concluse con l'acquisizione da parte della franco-belga Dexia Crédit Local de France, del Crédit Communal de Belgique, e dalla Banque Internationale à Luxembourg, e la partecipazione del circuito delle popolari con Banca popolare di Milano, Banco popolare, e via Em.Ro Popolare Società Finanziaria di Partecipazioni spa, della Banca popolare dell'Emilia-Romagna. Ancora nel 2009, stando alla Guida agli operatori al project financing, Dexia risultava il secondo operatore in Italia per volume complessivo di finanziamenti concessi, e primo a finanziare opere pubbliche. Quando finisce indagata nel 2010 dalla Procura di Bari per bond ventennali da 870mln di euro sottoscritti dalla Regione Puglia per ristrutturare il debito della sanità, Dexia in Basilicata ha in mano la rinegoziazione di sette mutui contratti dall'85 all'89 per circa 23,5mln di euro con scadenza nel 2019, e via Crediop (anche se non esiste più) e sempre con scadenza 2019, un altro mutuo da 10.329.137 di euro in cui capofila è la Banca popolare di Bari. E ancora, 18mln sempre via Crediop con capofila Banca infrastrutture innovazione e sviluppo (Biis, ndr) con scadenza 2020 per “finanziamento spese di investimento esercizio finanziario 2000”. E ancora circa 31mln di euro per investimenti nel settore trasporti con scadenza 2018. E ovviamente è capofila come istituto mutuante per quei fondi del terremoto del '98 con scadenza 2019, per 358.479.577 euro in cui compare anche la Banca Opi che nel novembre 2007 firmava a Milano proprio con Biis un piano per creare un polo unico nell'ambito della public finance, deliberando dal 1 gennaio 2008 la scissione per incorporazione del ramo aziendale di Opi a favore della Biis.
L'indebitamento perverso. Intrecci bancari o meno a fine giugno 2011 il gruppo Dexia era a rischio di smantellamento e i governi francese e belga, co-azionisti, si impegnarono a “fornire la loro garanzia ai finanziamenti”. Pochi mesi dopo la Commissione europea diede via libera con riserva alla nazionalizzazione di Dexia Bank Belgium, precisando che l'operazione costata quattro miliardi di euro era stata necessaria per la stabilità del sistema finanziario, ma che al momento non era in grado di valutare se fosse stata in linea con le norme Ue sugli aiuti pubblici. Due anni dopo Dexia, che aveva già beneficiato tra 2008-2009 di “sostanziali sostegni”, finisce assieme a Ubs in un'altra storia di contratti tossici di cui Angelo Canale, Procuratore regionale della Corte dei conti Toscana, aveva delineato gli effetti perversi sull'indebitamento del Comune di Firenze. Si scoprirono costi non documentati né dalle banche né dagli advisor, spesso le banche medesime, di cui il Comune s'era avvalso per le consulenze. Già nel 2008 il giornalista Nicola Piccenna aveva provato a spiegare in modo informale a diverse Procure che una banca come Dexia non poteva reggere, e fatto presente che di 12mld di euro di crediti solo 300mln erano garantiti, c'erano invece 12mld di debiti.
Storie di consuetudine. Guarda caso anche in Basilicata Dexia e Ubs, per la Corte dei conti, sul mutuo per i fondi del terremoto '98 avevano “svolto sia attività di consulenti finanziari dell’ente sia quella, successiva, di firmatari del contratto in derivati”. I contratti con Dexia e Ubs erano stati inoltre stipulati in inglese, “criticità di non poco rilievo” per la Corte dei conti lucana, e oltre a “diminuire la trasparenza del regolamento negoziale” la pubblica amministrazione si trova oggi ad applicare regole diverse da quelle dell’ordinamento interno. In una nota del novembre 2008 la Regione dichiarò d'essere in possesso delle traduzioni dei documenti, d'aver preso visione del contenuto degli stessi prima della loro sottoscrizione e aver richiesto un “parere” all'Ufficio legale dell'Ente sia riguardo alla tutela che la sottoscrizione di tale schema poteva garantire, sia alla interpretazione di alcuni istituti contenuti nell'accordo (legge e giurisdizione competente, ndr). Non si specificava l’esito della richiesta. Nel “Prospetto delle clausole specifiche” accettate dalla Regione Basilicata, continua la Corte, c'è scritto che “sarà regolato e interpretato in conformità alle leggi in vigore in Inghilterra” e che i contraenti sono obbligati “a sottomettersi alla giurisdizione dei tribunali del Regno Unito”, rinunciando “a qualsiasi eccezione di incompetenza per territorio in qualsiasi data, e per qualsiasi Procedimento aperto presso uno di tali tribunali”.
Beata vigilanza. Abbiamo dunque ricostruito il tessuto socio-economico talmente bene in Basilicata dopo due terremoti che la Regione non solo può permettersi di firmare a nome di tutti i cittadini debiti rinunciando alla giurisdizione italiana, ma disinteressarsi del precedente contratto, il debito residuo di 211,820mln di euro verso il pool di banche attaccate a Crediop (ancora in essere, ndr), e collocarsi in una “singolare” posizione contrattuale con gli Istituti firmatari dell’operazione in derivati. “Uno degli stessi, Dexia Crediop – scrive la Corte – è lo stesso istituto firmatario, sia pure in qualità di capogruppo e mandatario di una Associazione Temporanea di Imprese (in cui figuravano Banca Mediterranea e BdR appena fuse, ndr), dell’originario contratto di mutuo, e quindi viene a trovarsi sia pure in parte, nella posizione di creditore e debitore”. Si fa notare che nella relazione sull'esercizio finanziario 2013, la Regione non ha fornito “evidenza contabile” dell'ammontare ipotetico che deve incassare (se positivo) o pagare (se negativo) per uscire dal mutuo, specificando che verrebbe contabilizzato nel bilancio dell'Ente “solo” se fosse deliberata la chiusura del contratto. Valore che, sottolinea la Corte, tra 2007 e 2013 è costantemente negativo. La Regione ha dunque già sborsato parecchi milioni di euro. La Corte ricorda la natura “fortemente aleatoria” di tali contratti per le finanze di un’amministrazione pubblica, e insiste sul fatto che la Regione non ha indicato le “unità previsionali di base” e i “capitoli di spesa” sui quali ricade la gestione del mutuo. Fatti “pregiudizievoli degli equilibri dell’esercizio in corso e di quelli futuri”. Ma nel 2006 quando si firmavano swat per il terremoto del '98, una legge assegnava ancora un contributo quindicennale di 3,5mln di euro a decorrere dal 2007 per la prosecuzione nei territori colpiti dal terremoto '80-'81, e due anni dopo in un rapporto della Sezione di controllo della Corte dei conti sulla gestione dei fondi per il terremoto del '80, in relazione a quel rifinanziamento s'affermò che per “le opere in corso e da completare” il Dipartimento di protezione civile aveva inviato una nota nella quale aveva fatto presente che le Regioni interessate curavano “in toto” gli adempimenti relativi all’utilizzazione dei fondi, ma che al Dipartimento non era stato assegnato alcun potere di indirizzo, vigilanza, e controllo. Un fatto “grave” aver trascurato “semplici compiti di vigilanza”.
Quello che "sapevano tutti". Nel settembre 2007 il pm Annunziata Cazzetta, su procedimento penale aperto nel 2003 nei confronti della Banca popolare del Materano (Bpm, ndr), inviava al giudice Angelo Onorati la richiesta di rinvio a giudizio di 35 persone, tra cui funzionari della stessa e imprenditori locali, accusati di una serie di reati bancari. Una storia che si chiude anni dopo con l'assoluzione degli indagati e la fusione di Bpm con la Banca popolare del mezzogiorno. Tra gli indagati c'è Guido Leoni, all'epoca amministratore delegato della Bper, vicepresidente dell'Istituti banche popolari italiane, e consigliere di amministrazione di Em.Ro popolare, Banca popolare di Crotone, e infine Dexia Crediop. A Milano invece, sempre in quel 2007, viene aperto un fascicolo nei confronti dalla Banca Italease. Nelle intercettazioni autorizzate nel procedimento penale sull'aggregazione Banca popolare di Milano-Bper, il gip Cesare Tacconi sottolinea una telefonata tra Leoni (quello a cui nel 2004 Giovanni Conforti della scalata occulta Unipol diceva al telefono che “gli immobiliaristi sono inaffidabili e ricattano”, ndr), e Sergio Iotti (vicedirettore, ndr). “Pare ci siano buchi paurosi” dice Leoni a Iotti, “c'è un buco pauroso... lo sapevano tutti che vendevano questi derivati”. L'anno dopo Claudio Calza, consigliere del cda del Banco popolare del Materano, della Bper, e ovviamente pure della Dexia, è arrestato, nell'ambito dell'indagine sui derivati di Banca Italease, per associazione a delinquere finalizzata all'appropriazione indebita. Questa storia finanziaria finisce che nonostante chi vendeva questi derivati sapeva i “buchi paurosi” che creavano (e chi li firmava? sapeva?), in Basilicata fino al dicembre 2019, per i derivati dell'ultimo terremoto la Regione deve sborsare a Dexia 11.250.000euro l'anno. Quali benefici ne abbiano tratto i terremotati lo sanno solo loro.
TERREMOTO E RESIDENZE. Terremoto Amatrice, boom di richieste residenza. Fondi ricostruzione fanno gola, scrive il 4 settembre 2016 Spartaco Ferretti su “Blitz Quotidiano”. Ci sono gli sciacalli che cercano di intrufolarsi nelle case inagibili dopo il terremoto per rubare quello che è rimasto intatto. Poi ci sono gli sciacalli che cercano di mettere le mani anche sui giocattoli mandati per beneficenza ai bambini. E ancora ci sono gli imbucati, sciacalli di serie B, che cercano di scroccare pasti alle mense riservate a chi nel terremoto ha perso cari e casa. E infine ci sono i furbetti del terremoto. Quelli che cercano, se non di guadagnarci, almeno di non rimetterci. Funziona così: se ti crolla la casa ed è la tua prima e unica casa, quella fino a dove ieri vivevi, Stato come è normale ti aiuta per primo. Se poi avanza qualcosa si dà qualche incentivo anche a chi la casa la aveva ma non era la prima, era un di più, una seconda casa per le vacanze. Non sono e non possono essere loro, per forza di cose, i primi a essere aiutati. E così, racconta Il Messaggero, ad Accumoli, Amatrice e negli altri luoghi squassati dal terremoto, dopo il 24 agosto è successo qualcosa di strano: tante, troppe, persone, hanno chiesto la residenza in uno dei comuni distrutti. Facile capire che qualcosa non torni. Prima, quando casa ce l’avevi agibile, ad Amatrice non vivevi. Ora che la casa è inagibile o crollata, dichiari e chiedi di viverci. Il perché è presto spiegato da Valentina Errante per Il Messaggero: il procuratore Giuseppe Saieva, numero uno della procura di Rieti, ha aperto un altro fascicolo che questa volta non riguarda gli sciacalli responsabili di furti nelle case distrutte, quanto piuttosto quelli che sperano di lucrare sui contributi statali destinati a chi abbia subito danni dal terremoto del 24 agosto scorso. Ossia chi, dopo il sisma, ha chiesto il trasferimento di residenza, da Roma ai centri colpiti. All’attenzione della magistratura, che ha aperto un altro fascicolo, sono finite le anomale richieste di cambio di residenza, inoltrate il 31 agosto nei centri temporanei aperti, in sostituzione degli uffici dichiarati inagibili, per accogliere le istanze dei cittadini. Secondo i sospetti dei pm, le richieste sarebbero arrivate proprio al fine di ottenere contributi per la ricostruzione degli immobili, previsti, secondo la legge, solo per le prime case. Alcuni episodi, già confermati, riguardano il trasferimento da Roma ad Accumoli. Ma adesso gli accertamenti riguarderanno anche le altre amministrazioni. Alla polizia giudiziaria spetterà anche la verifica delle pratiche presentate da quanti hanno sostenuto di essere residenti da tempo e di avere soltanto tardato nella regolarizzazione con l’ufficio Anagrafe. L’ipotesi è che sia in atto una forma di speculazione per ottenere i contributi che saranno stanziati per la ricostruzione. Nei casi ritenuti sospetti, chi ha inoltrato la domanda, ha indicato come indirizzo case distrutte, strade oramai inesistenti e quartieri ridotti in macerie.
Terremoto: non solo sciacalli, si indaga su furbetti di residenza, scrive il 5 settembre 2016 Alberto Battaglia su "Wallstreetitalia.com". La Procura di Rieti ha aperto un fascicolo sulle richieste di residenza sospette che sono giunte al Comune di Amatrice nei giorni successivi al terremoto che ha devastato la città. Un volume di domande poco chiaro che potrebbe nascondere il tentativo di accaparrarsi una fetta dei contributi pubblici che saranno affidati ai residenti del paese per la ricostruzione degli immobili. Il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, non teme che i “furbetti della residenza”, così battezzati dai media, possano farla franca: “Gli uffici dell’anagrafe hanno avuto disposizione di informare i carabinieri e i vigili ogni volta che arrivano richieste di questo tipo”, ha detto. Alcuni “furbi” sono già stati individuati in un altro dei centri terremotati, Accumoli. Non è detto che dietro a ciascuna richiesta di residenza si celi un proposito fraudolento: la polizia giudiziaria avrà, appunto, il compito di discernere le domande di coloro che semplicemente si erano attardati a regolarizzare presso l’Anagrafe una residenza in atto già da tempo, da quanti si trovino in posizioni più dubbie. E’ il caso di coloro che reclamano una residenza presso immobili o strade ormai completamente distrutte dal sisma.
Furbetti ad Amatrice: è corsa alla residenza per avere i fondi statali, scrive il 4 settembre 2016 Adriano Scianca su "Intelligonews.it". Perché uno dovrebbe, proprio adesso che il paese, di fatto, non esiste più, affrettarsi per prendere la residenza ad Amatrice o ad Accumoli? Semplice: per godere dei fondi stanziati dallo Stato per il terremoto. È su questo terribile sospetto che sta indagando la procura di Rieti. Il procuratore Giuseppe Saieva ha aperto un altro fascicolo che sugli “amatriciani dell'ultim'ora”, quelli che sperano di lucrare sui contributi statali destinati a chi abbia subito danni dal terremoto del 24 agosto scorso. La procura ha chiesto ieri il sequestro di tutti i registri anagrafici dei comuni interessati dal terremoto, materiale che si aggiunge alla documentazione acquisita dai Carabinieri negli uffici della Provincia di Rieti e in quelli regionali del Genio civile sugli immobili che avevano subito migliorie antisismiche e sono crollati dopo le scosse. All'attenzione della magistratura, che ha aperto un altro fascicolo, sono finite le anomale richieste di cambio di residenza, inoltrate il 31 agosto nei centri temporanei aperti, in sostituzione degli uffici dichiarati inagibili, per accogliere le istanze dei cittadini. Secondo i sospetti dei pm, le richieste sarebbero arrivate proprio al fine di ottenere contributi per la ricostruzione degli immobili, previsti, secondo la legge, solo per le prime case. Alcuni episodi, già confermati, riguardano il trasferimento da Roma ad Accumoli. Ma adesso gli accertamenti riguarderanno anche le altre amministrazioni. Alla polizia giudiziaria spetterà anche la verifica delle pratiche presentate da quanti hanno sostenuto di essere residenti da tempo e di avere soltanto tardato nella regolarizzazione con l'ufficio Anagrafe. L'ipotesi è che sia in atto una forma di speculazione per ottenere i contributi che saranno stanziati per la ricostruzione. Nei casi ritenuti sospetti, chi ha inoltrato la domanda, ha indicato come indirizzo case distrutte, strade oramai inesistenti e quartieri ridotti in macerie.
TERREMOTO: ANTE E POST DI ILLEGALITA'. Terremoto, il videoracconto di Gatti: il rischio ad Amatrice era scritto, ma è stato ignorato. Il documento del Comune, obbligatorio per legge, prevede con precisione le conseguenze catastrofiche provocate dal sisma del 24 agosto. Descrive anche la zona dell'hotel Roma come un'area ad alta instabilità geologica. E indica lo stesso hotel, ora crollato, al primo posto tra i luoghi dove ospitare eventuali sfollati, scrive Fabrizio Gatti il 26 agosto 2016 su “L’Espresso”. Il piano di protezione civile del Comune di Amatrice già prevedeva la distruzione del paese e i potenziali rischi per la popolazione: «Soprattutto nei piccoli borghi e anche nel capoluogo, caratterizzati da vie strette senza slarghi». È tutto scritto a pagina 18 del documento che per legge ogni amministrazione municipale deve predisporre. Si sapeva cioè dei pericoli. E come si è visto con il terremoto del 24 agosto, non si è fatto nulla per evitarli. «Si deve rilevare altresì che l'edilizia abitativa e non del territorio comunale è per lo più risalente all'Ottocento e ristrutturata con vari interventi risalenti al Novecento», è scritto nel piano di Amatrice tra non pochi errori di sintassi che abbiamo corretto: «Gli interventi in cemento armato e la sua diffusione sono sicuramente riconducibili agli interventi realizzati dopo il 1960, pertanto il rischio sismico è alto e lo testimoniano i danni riportati dall'edilizia pubblica e privata causati dal sisma del 1979 e da ultimo del 2009 che interessò la città dell'Aquila. Senza dubbio la tipologia costruttiva (muratura portante in pietrame locale) influenza in maniera determinante la vulnerabilità degli edifici esistenti con potenziali rischi per la popolazione». Il Comune di Amatrice ha il suo piano di protezione civile. Il documento, obbligatorio per legge, prevede con precisione le conseguenze catastrofiche provocate dal terremoto del 24 agosto. Descrive anche la zona dell'hotel Roma come un'area ad alta instabilità geologica. E indica lo stesso hotel, ora crollato, al primo posto tra i luoghi dove ospitare eventuali sfollati. Nemmeno le strade sono sufficienti in caso di calamità: «Nelle frazioni spesso la viabilità di accesso e di esodo è garantita da una unica strada. Va pertanto opportunamente monitorata la viabilità in caso di eventi calamitosi». Il piano indica tra l'altro la zona dell'hotel Roma tra quelle a maggiore instabilità idrogeologica: «Le caratteristiche dei terreni alluvionali sabbiosi limosi depositatesi su formazioni più consolidate li rendono infatti generalmente instabili. Si segnala tuttavia la necessità, da parte dell'amministrazione comunale, di porre particolare attenzione nell'approvazione di progetti pubblici e privati, subordinando gli stessi agli esiti di una relazione geotecnica e geologica che garantisca la funzionalità del complesso opere-terreni per il mantenimento della sua stabilità». I geologi sanno bene che nei terreni alluvionali le onde sismiche amplificano i loro effetti sulle costruzioni sovrastanti. Il sito del Comune distrutto dal terremoto del 24 agosto pubblica il piano di protezione civile del Comune di Amatrice. Con i rischi, le misure di emergenza, gli indirizzi, le vie, i punti di raccolta per gli abitanti di Amatrice. Quindi per i residenti di Accumoli è un piano completamente inutile. Un caso di copia-incolla? Arquata del Tronto ha invece un piano di protezione civile, ma introvabile sui canali istituzionali sia del Comune sia del dipartimento nazionale della Protezione civile. Come edificio strategico per il paese il piano di Amatrice indica il municipio di corso Umberto 70, che però non ha retto alle scosse evidentemente per scarsa resistenza antisismica. Come luogo dove riparare eventuali sfollati, al primo posto è invece indicato proprio l'hotel Roma, nella zona segnalata poche pagine prima tra le aree più instabili: lo stesso piano di protezione civile, insomma, non tiene conto di quanto prescrive. Anche il Comune di Accumoli, dove la caduta del campanile ha ucciso un'intera famiglia, ha il suo piano di protezione civile. E lo pubblica sul suo sito Internet istituzionale. Però il documento è copiato integralmente da quello di Amatrice, comprese l'intestazione, le vie, le piazze, i nomi dei referenti, le caratteristiche del territorio. Un errore oppure un maldestro copia-incolla. Nel piano obbligatorio per legge, Accumoli è citata soltanto due volte come paese confinante di Amatrice. Quindi è uno strumento accessibile ai cittadini, ma completamente inutilizzabile. Il piano di protezione civile di Arquata del Tronto resta invece un mistero. Il sito del dipartimento nazionale della Protezione civile include il Comune tra quelli che hanno rispettato la legge. Ma non c'è modo di raggiungere il piano. E cercando sulla pagina del Comune non si trova. Non deve stupire, purtroppo. Gran parte dei sindaci italiani sono nella stessa situazione. E in Calabria, regione esposta a terremoti molto più potenti del sisma del 24 agosto, un terzo delle amministrazioni comunali è del tutto privo di un piano di protezione civile. E generalmente i paesi e le città che lo hanno adottato non lo rendono pubblico e facilmente accessibile ai cittadini. Nel frattempo, nell'importante periodo di pace tra un terremoto e l'altro, proprio nelle province più lacunose raramente le agenzie di protezione civile regionali e il dipartimento nazionale hanno esercitato i loro poteri-doveri di controllo per spingere i sindaci a rispettare la legge.
Terremoto, lo scandalo-fondi: i soldi c'erano ma non furono spesi. Ad Amatrice ed Accumuli i 4 milioni di euro messi a disposizione negli ultimi due anni per la messa a norma degli edifici privati non sono mai stati spesi, scrive Ivan Francese, Giovedì 25/08/2016, su "Il Giornale". Un terremoto giudiziario originato dal terremoto vero: è questa la prospettiva che si apre nell'ambito dell'inchiesta per disastro colposo che sarà aperta dal procuratore di Rieti dopo il sisma che nella notte fra martedì e mercoledì ha devastato Amatrice, Accumuli e Pescara del Tronto, al confine fra Lazio, Umbria e Marche. Un'inchiesta che con ogni probabilità parlerà di fondi pubblici stanziati per la messa a norma degli edifici, pubblici e privati, e mai spesi. Come è successo ad Amatrice, la città-simbolo che piange oltre duecento morti e che presto chiederà verità e giustizia. Non c'è solo la scuola "Romolo Capranica", restaurata nel 2012 e crollata come un castello di sabbia. C'è anche l'ospedale, per il cui restauro erano pronti due milioni di euro che non sono stati mai spesi. C'è il municipio, crollato anch'esso, per cui erano stati messi a disposizione fondi provinciali poi dirottati altrove. Tanti casi che lasciano sgomenti, altrettante domande a cui bisognerà trovare una risposta. E purtroppo il conto dei danni, in termini umani e materiali, non si ferma solamente agli edifici pubblici. Dopo il terremoto dell'Aquila del 2009, racconta Repubblica, la Protezione Civile ha messo a disposizione 965 milioni di euro per la messa a norma degli edifici privati secondo le direttive antisismiche. Fondi che prevedevano contributi statali dai cento ai duecento euro al metro quadro per la ristrutturazione degli immobili dei centri storici, generalmente quelli più a rischio. Eppure moltissimi di quei fondi non sono stati nemmeno richiesti, a causa dei bizantinismi della burocrazia, che imponevano ad esempio la gestione regionale dei fondi, ma tramite sportelli organizzati dai Comuni. Fra Amatrice ed Accumuli, dove il rischio sismico era pure altissimo (e tutti lo sapevano), non è stato speso nemmeno un euro dei quattro milioni stanziati fra 2014 e 2015. Una circostanza che grida vendetta.
Ricostruzione, soccorsi, polemiche. La maledizione del post-terremoto. Dalla catastrofe di Messina nel 1908 a quelle del dopoguerra, il susseguirsi di errori e ritardi ha caratterizzato quasi ogni sisma che ha colpito il Paese. Al punto da imporsi come un vero e proprio genere della letteratura e della pubblicistica italiana, scrive Dino Messina il 28 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Appena passata l’onda devastatrice del terremoto, si pensa al dopo. Le esperienze possono servire per non ripetere gli errori e per rendersi conto dei passi compiuti. La storia del dopo terremoto è diventata un vero e proprio genere della letteratura e della pubblicistica italiana, soprattutto da quando la stampa liberale ha assunto un ruolo centrale di stimolo e denuncia.
Basilicata, 1857. In questo senso è emblematica la vicenda del terremoto della Basilicata che nel 1857 distrusse i paesi della Val d’Agri e colpì severamente quelli della Valle di Diano. Lo Stato unitario non era ancora nato. E ai nostalgici del Regno delle Due Sicilie (ce ne sono ancora!) vanno ricordati i ritardi nei soccorsi più elementari dopo il sisma che il 16 dicembre 1857 provocò oltre diecimila morti (fonti ufficiali dello Stato borbonico) e secondo altri studi fece invece 19 mila vittime. Un fotogiornalista francese, Alphonse Bernard, arrivò nei luoghi del disastro ben prima dei soccorritori e dell’esercito e documentò la distruzione in fotoreportage i cui introiti furono in parte destinati alla popolazione decimata dalla catastrofe. Un pubblicista come Teofile Roller sulla stampa britannica denunciò che nel febbraio 1858, oltre due mesi dopo il sisma sotto le macerie di alcuni paesi come Montemurro non erano ancora stati disseppelliti i cadaveri.
Messina 1908. Il terremoto del 1857 era stato classificato come il terzo più grave della storia, ma quello del 28 dicembre 1908 che colpì Messina e fece 80 mila morti su una popolazione di 172 mila abitanti fu una vera ecatombe (foto sotto). Il tragico evento ebbe testimoni illustri come Giovani Pascoli e lo storico Gaetano Salvemini, che in quella giornata perse la moglie e cinque figli. Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti, ci furono ritardi ma non certo paragonabili a quelli borbonici. I primi importanti soccorsi arrivarono tuttavia dai marinai delle navi russe e inglesi oltre che dal personale della Marina italiana. In quella grave calamità ci fu un concorso di aiuti internazionale. Villaggi di baracche vennero donati dal re di Prussia Guglielmo II e dal presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt. Quando nel gennaio 1975 nella zona ci fu un altro non rilevante sisma l’inviato del Corriere della sera Antonio Padellaro documentò che ancora esistevano cinque quartieri di baracche risalenti al terremoto del 1908 in cui vivevano circa 25 mila persone. Nel 2002 un reportage di Alessandro Trocino rilevò che la popolazione nelle baracche del terremoto era scesa a 3.500 abitanti, ma che c’erano generazioni di famiglie per niente disposte a mollare la baracca del 1908, anzi la tramandavano di padre in figlio perché abitare lì dava il diritto di avere una abitazione nuova. Il più lungo post terremoto della storia.
Marsica 1915. Le ruberie compiute dopo il terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915 furono denunciate dal giovane Ignazio Silone, che all’epoca ancora si chiamava Secondino Tranquilli, in articoli scritti per l’Avanti!. Anche ad Avezzano, che fu il centro più colpito dal sisma che precedette di pochi mesi la nostra entrata nella Grande Guerra, vennero costruite delle baracche. I cronisti che andarono sul posto per il terremoto del 1983 scoprirono che alcune di quelle casupole erano ancora occupate, da locali o da turisti romani che avevano trovato una sistemazione per le vacanze invernali e non erano affatto disposti a lasciarle. Così alcune delle roulotte per il terremoto del 1983 vennero piazzate accanto alle baracche superstiti del 1915.
Vulture 1930. Si parla poco del terremoto del Vulture del luglio 1930 (foto sotto), che provocò 1.404 morti e che coinvolse 50 comuni in cinque province della Basilicata, della Puglia e della Campania. Il regime fascista non perse occasione per trasformare la tragedia in un’occasione di propaganda, sicché si vantò di aver costruito in pochi anni 3.746 case e di aver riparato 5.190 abitazioni. Il coordinamento della ricostruzione e dei soccorsi venne affidato ad Araldo di Crollalanza.
Belice 1968. Nel secondo dopoguerra il terremoto del Belice del 14 gennaio 1968, che causò 300 morti e 80 mila senzatetto, rimane come un simbolo negativo non soltanto per il ritardo nei soccorsi ma per una politica di ricostruzione sbagliata. Secondo la vasta letteratura di quel terremoto, sul posto arrivarono prima i cronisti dei soccorritori. La prima casa venne ricostruita nel 1977, nove anni dopo la tragedia! Sbagliata fu anche la scelta di ricostruire Gibellina (foto sotto), il centro maggiormente danneggiato, a 18 chilometri dal sito storico. La chiesa di quel nuovo paese crollò nel 1994 e il lago progettato per il recupero delle acque piovane rimase a lungo non funzionante. È stato calcolato che questa mancata ricostruzione sia costata allo Stato italiano non meno di sette miliardi di euro.
Friuli 1976. Un modello del tutto diverso venne riproposto per la ricostruzione dei paesi del Friuli devastati dal terremoto del 6 maggio 1976 (foto sotto), che provocò 989 vittime. Tra i paesi più colpiti, Osoppo, Gemona, Trasaglio, Buja, Maiano, Colloredo, Spilinbergo, Forgaria, Venzone. Un appello lanciato nell’agosto 1977 dagli abitanti di quest’ultimo centro riassume la filosofia del modello Friuli: «Respingiamo una ricostruzione standardizzata che certamente ci renderebbe estranei nella nostra stessa patria». I friulani sconfissero così l’Orcolat, l’Orco, come in lingua locale chiamano il terremoto, con una ricostruzione che teneva conto delle esigenze della popolazione, partiva dal basso, a differenza di quel che era avvenuto in Belice dove erano stati calati megaprogetti dall’alto. I paesi vennero ricostruiti pietra su pietra secondo una scala di priorità riassunta bene dal vescovo Alfredo Battisti: «Prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese». Nel 1983, sette anni dopo il terremoto, l’80 per cento della ricostruzione era stata ultimata.
Irpinia e Basilicata 1980. Il terremoto più grave nella seconda metà del Novecento, per numero di vittime ed estensione dell’area danneggiata, rimane quello dell’Irpinia e della Basilicata, che il 23 novembre 1980 provocò quasi tremila morti, poco meno di novemila feriti e 280 mila senza tetto. Tutto l’Italia si mobilitò in una gara di solidarietà. Chi scrive, allora giovane cronista, arrivò a Balvano, in provincia di Potenza (foto sotto), la sera del 24 novembre, in tempo per vedere i 77 sacchi che contenevano i corpi dei fedeli uccisi dal crollo della chiesa. Così assistette al dramma di un padre, un vecchio medico, a Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, che aveva ingaggiato delle ruspe per far scavare sotto le macerie dell’ospedale dove giacevano i corpi dei due figli. Partirono diverse denunce per gli edifici nuovi che erano crollati perché i tecnici avevano ignorato le norme antisismiche. Numeri irrisori in confronto alle 382 persone arrestate per le vicende legate alla ricostruzione. Una ricostruzione che è costata ai contribuenti italiani più di 60 mila miliardi di lire. Una voragine provocata da contributi distribuiti a pioggia: gli aiuti invece di essere concentrati nei paesi seriamente danneggiati vennero esteri a 687 Comuni. Scandalosa anche la lievitazione di costi di alcune opere che talvolta superò il mille per cento. Una commissione d’inchiesta parlamentare denunciò inoltre che erano state consapevolmente finanziate imprese fallimentari.
Umbria e Marche 1997. Un veloce ritorno alla normalità ha caratterizzato la ricostruzione nel dopo terremoto che il 26 settembre 1997 fece undici morti e 32 mila senza tetto nell’Umbria (foto sotto, Assisi) e nelle Marche. La ricostruzione certosina della Basilica di San Francesco d’Assisi è lì a dimostrarlo. Un piccolo sisma, quello del 31 ottobre 2002 in Molise, causò una grande tragedia: il crollo di una scuola a San Giuliano che uccise 27 bambini e una maestra. Un processo dimostrò che quell’edificio era stato costruito in spregio alle più elementari norme di sicurezza.
L’Aquila 2009 ed Emilia 2012. Il sisma di questi giorni nel Centro Italia è stato definito un terremoto gemello di quello che il 6 aprile 2009 provocò all’Aquila (foto sotto) e nei comuni vicini 309 morti e 60 mila sfollati. Anche in questo caso si sono dimostrate fallimentari la filosofia e la pratica delle New Town. Il business della ricostruzione ha attirato personaggi senza scrupoli sia all’Aquila, dove qualcuno rideva per i soldi che avrebbe fatto con la catastrofe, sia in Emilia, sconvolta dal terremoto del 20 e 29 magio 2012. La rapida ricostruzione di questo cruciale territorio è stata inquinata dalla presenza di cosche di ‘ndrangheta calabresi infiltratesi al Nord.
Terremoto, crollate Torre civica e chiese dichiarate a norma. Terremoto, lo scandalo dei fondi antisisma deviati. Dai ponti non ristrutturati perché la Provincia aveva finito i suoi soldi agli stanziamenti deviati per altri scopi. Ecco come si sprecano le risorse destinate a evitare stragi, scrivono Dario Del Porto e Fabio Tonacci il 30 agosto 2016 su “La Repubblica”. Due terremoti, quello dell'Umbria nel 1997 e quello dell'Aquila nel 2009, hanno fatto piovere sul territorio della provincia di Rieti 84 milioni di euro di fondi per la ricostruzione. Negli anni se ne sono aggiunti altri, di milioni. Della Regione, dello Stato, della Chiesa. Sette giorni fa, però, un altro sisma ha sollevato una verità che era sotto gli occhi di tutti: parte di quel denaro non è stato ancora speso, o è stato speso male, o, ancora, non è stato utilizzato per rendere gli edifici sicuri. E le rovine di Amatrice e Accumoli sono lì a testimoniarlo. Sei ponti in cerca di autore. Prendiamo i ponti. Due fondamentali vie di accesso ad Amatrice, la strada provinciale 20 e la statale 260, sono interrotte dal 24 agosto perché si sono danneggiati i ponti "Rosa" e quello di "Tre Occhi". Che ne è dei 611.000 euro che la Regione ha erogato nel 2014 "per interventi di mitigazione del rischio sismico" di sei ponti tra cui il "Rosa"? Rimasti nel cassetto. La provincia di Rieti non ha più un soldo in bilancio, e non riesce a trovare i 175mila euro della sua quota parte dell'intervento progettato. Dunque non può utilizzare i 611mila della Regione perché non ha i suoi 175mila da spendere. Il presidente della giunta Giuseppe Rinaldi, temendo di perdere i fondi, è stato costretto a inviare una lettera alla direzione regionale, nella quale spiega che "l'amministrazione intende confermare il proprio impegno al cofinanziamento", ma che per farlo dovrà "alienare immobili". Insomma, per aggiustare un ponte coi fondi del terremoto la provincia di Rieti si deve vendere un palazzo. Il campanile killer. Dopo il sisma del 1997, il Genio civile individuò sul territorio reatino 300 interventi di ricostruzione e miglioramento sismico per un totale di 79 milioni di euro messi a disposizione dallo Stato. Tra Accumoli e Amatrice c'erano 11 immobili e 10 chiese da sistemare. Prendiamone una diventata tragicamente famosa: il complesso parrocchiale San Pietro e Lorenzo ad Accumoli. È la chiesa con accanto un campanile costruito sopra il tetto di una casa: la notte del 24 agosto, quella torre campanaria di sassi, crollando, ha ucciso la famiglia Tuccio che abitava lì sotto, padre, madre e due bambini. Una grossa fetta dei fondi per gli edifici religiosi è stata gestita direttamente dalla Curia di Rieti, attraverso un ufficio tecnico creato ad hoc presso la diocesi, che ha predisposto le gare di affidamento. Il geometra che ha seguito tutte le pratiche si chiama Mario Buzzi, e adesso è in pensione. "Per il campanile non c'è stato mai alcun finanziamento specifico né alcun lavoro di ristrutturazione", spiega a Repubblica. Aggiungendo: "Non è vero che sono stati dirottati soldi per il miglioramento sismico dal campanile alla chiesa". La chiesa di Accumoli. E però nella lista delle opere finanziate del post-sisma 97 il nome della chiesa di San Pietro e Lorenzo, c'è. "Intervento sul complesso parrocchiale da 116mila euro". Si tratta del rifacimento del tetto di 200 mq della chiesa accanto al campanile, la cui gara d'appalto è stata vinta nel 2008 dalla Steta di Stefano Cricchi, uno dei figli di Carlo Cricchi, l'imprenditore reatino che si è aggiudicato commesse anche a L'Aquila. Per i lavori in Abruzzo, l'altro figlio, architetto, è sotto inchiesta per tangenti. "Chiariremo tutto, la nostra azienda non c'entra". Oggi Cricchi senior, cavaliere del lavoro, ha di che lamentarsi: "Noi non abbiamo fatto niente su quel campanile". Seduto al tavolo nel salotto della sua ditta, mostra disegni e capitolati. "Ci arrivano minacce di morte su Facebook e via mail perché tutti ormai credono che siamo stati noi a ristrutturarlo, ma non è vero". L'appalto per "riparazione e miglioramento sismico" della chiesa valeva 75mila euro (il resto, 41 mila euro, era per la progettazione). Steta lo vince con un ribasso del 16 per cento, dunque 59mila euro. Nel capitolato si scopre una cifra sorprendente: "Per il miglioramento antisismico c'erano appena 509 euro", spiega Cricchi. "Il progetto imponeva di inserire nella muratura 33 euro di ferro, praticamente una sola barra, e di fare alcuni fori da riempire non con il cemento, ma con la calce". Il grande equivoco. Eccolo il grande equivoco della ricostruzione dopo ogni disastro. La confusione tra il "miglioramento sismico" (piccoli interventi che non modificano sostanzialmente la stabilità dell'immobile) e l'"adeguamento", molto più costoso. Quasi tutto ciò che è stato fatto coi fondi dei terremoti, per forza maggiore scarsi e non sufficienti a coprire ogni spesa possibile, è miglioramento: i 200mila euro investiti nella scuola Capranica, in parte crollata; i 250mila euro messi nella Chiesa Santa Maria Liberatrice, inagibile; i 400mila del Teatro all'inizio del corso principale di Amatrice, distrutto; i 90mila della Torre Civica di Accumoli, lesionata; i 260mila euro della Chiesa di Sant'Angelo, venuta giù due settimane dopo l'inaugurazione. Fabio Melilli, deputato del Pd, è stato dal 2006 al 2010 il sub-commissario di Rieti per il terremoto dell'Umbria: "Quando mi sono insediato, era stato ultimato appena il 20 per cento dei lavori, nonostante fossero passati quasi dieci anni dal sisma". La normativa era fatta male: lo stesso progetto doveva superare due volte lo stesso esame. "Per dare il via alla gara di appalto - ricorda Melilli - servivano le autorizzazioni del Genio civile, del comune, della Soprintendenza. Una volta avute, il progetto andava in commissione dove c'erano gli stessi rappresentanti del Genio civile, del Comune, della Soprintendenza. Si perdeva un sacco di tempo". Tant'è che dei 5 milioni arrivati dopo L'Aquila, ne sono stati spesi appena tre. Il denaro immaginario. Una coperta quasi sempre corta. Si tira da una parte, ci si scopre dall'altra. Per il consolidamento del municipio di Amatrice c'erano 800mila euro, ma l'amministrazione guidata da Sergio Pirozzi ha deciso di spostarli sull'istituto alberghiero. Questo è rimasto in piedi, il municipio è franato. Coperta corta, che a volte si sfalda nelle mani di chi la vorrebbe usare. L'ospedale "Francesco Grifoni" da sette anni attendeva un intervento "urgente" di messa in sicurezza. I soldi, 2,2 milioni di euro, vengono pescati dal fondo per l'edilizia scolastica. Si è fatta anche la gara di appalto, vinta dal Consorzio cooperative costruzioni. Ma quel denaro, hanno scoperto i dirigenti della Asl di Rieti quando tutta la procedura era ormai avviata, esisteva solo sulla carta. Il fondo statale, per il Lazio, si era prosciugato.
Le carte riservate sui lavori eseguiti nei paesi del sisma e i certificati di chi ha fatto i collaudi su edifici pubblici. Gli «ancoraggi» dichiarati e mai fatti, scrivono Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini il 29 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. C’è un documento riservato che dimostra le irregolarità compiute nella ristrutturazione degli edifici pubblici di Amatrice e Accumoli dopo il sisma del 1997 dell’Umbria. È la relazione dell’ente attuatore su 21 appalti assegnati per la messa a norma degli stabili. E svela nei dettagli anche alcuni casi clamorosi, come quello della Torre Civica di Accumoli, manufatto del XII secolo che è il più antico del paese, gravemente danneggiato dalla scossa della notte del 24 agosto scorso. E quello della caserma dei carabinieri, crollata per il terremoto. Ma anche le procedure seguite per numerose chiese e complessi parrocchiali. Si tratta di 2 milioni e 300 mila euro, soldi pubblici che si aggiungono agli altri 4 milioni spesi dopo il 2009. Il dossier elenca i soldi stanziati, gli interventi effettuati, il nome dei progettisti, le ditte incaricate. Indica anche l’effettuazione dei collaudi per la convalida di quanto era stato fatto. Interventi per una spesa ingente, che evidentemente non erano stati svolti adeguatamente, visto che alcuni edifici sono stati distrutti dal sisma di sei giorni fa e altri risultano gravemente lesionati. E questo avvalora il sospetto dei magistrati: alcuni certificati sono stati falsificati. Atti che riguardano le strutture pubbliche, ma pure le abitazioni private. Ai Vigili del fuoco sono già arrivate numerose segnalazioni di cittadini che raccontano di aver acquistato la casa con la certificazione dell’avvenuto «ancoraggio» proprio per scongiurare il pericolo di crolli. E invece, dopo la scossa che ha devastato interi paesi, si è scoperto che nulla del genere era mai stato fatto. Controlli saranno effettuati anche dai magistrati di Ascoli che indagano sui crolli avvenuti ad Arquata e Pescara del Tronto. In particolare bisognerà verificare come mai alcuni edifici di Arquata — l’ufficio postale, la scuola, il Comune e la caserma dei carabinieri — dovranno essere demoliti perché dichiarati inagibili nonostante dovessero essere perfettamente a norma. Caso esemplare è quello della Torre Civica di Accumoli, edificio storico conosciuto anche a livello internazionale. Lo stanziamento iniziale di 100 mila euro viene ridotto a poco più di 90 mila. L’impresa individuata è la «Giuseppe Franceschini». Responsabile del procedimento è l’architetto Cappelloni. È l’esperto che segue altri progetti, compreso quello del complesso parrocchiale in cui è inserita la chiesa di San Francesco, dove il campanile è crollato e ha travolto un’intera famiglia. Vengono effettuati due collaudi: uno l’11 ottobre del 2012, l’altro il 28 maggio 2013. Non vengono evidenziati problemi e la verifica concede il via libera. Ma qualcosa evidentemente non ha funzionato: le scosse di sei giorni fa non hanno lasciato scampo e la Torre risulta gravemente lesionata. L’edificio è venuto giù. Storia analoga è quella della caserma dei carabinieri di Accumoli. Dopo il terremoto dell’Umbria si decide di effettuare lavori di ristrutturazione e vengono stanziati 150 mila euro. La ditta prescelta è la «Impretekna». Responsabile del provvedimento è il geometra Granato che risulta aver seguito ben nove progetti. Anche in questo caso i lavori sono classificati come «ultimati e collaudati». Sembra che sia tutto regolare, almeno a leggere le carte. E invece la sede dei carabinieri ha subito danni gravissimi. Sono i documenti ufficiali a dimostrare che la chiesa di Accumoli e il campanile erano stati inseriti in un «sistema» ben più ampio che prevedeva la ristrutturazione dell’intero complesso parrocchiale. Spesa prevista: 125 mila euro che scendono a 116 mila. L’appalto se lo aggiudica la «Ste.Pa» che evidentemente poi concede alcuni subappalti. Alla fine arriva il collaudo e la pratica si chiude. Nessuno immagina che in realtà i soldi stanziati per il campanile siano stati utilizzati per la chiesa. E soprattutto che non sia stato effettuato alcun adeguamento antisismico, ma semplici migliorie che nulla garantiscono. La notte del 24, dopo la prima fortissima scossa, il campanile si sbriciola e uccide quattro persone. Viene giù anche la chiesa di San Michele Arcangelo di Bagnolo, frazione di Amatrice. A disposizione erano stati messi 100 mila euro. Ente attuatore in questo caso era la Curia vescovile di Rieti che aveva indicato anche gli esperti responsabili dei lavori. E adesso saranno proprio gli ingegneri e gli architetti incaricati di occuparsi del controllo delle attività a dover chiarire ai magistrati che cosa sia accaduto tra il 2004, quando si decide di mettere a norma gli edifici, e il 2013 quando risultano effettuati gli ultimi collaudi. Nei prossimi giorni i magistrati coordinati dal procuratore di Rieti Giuseppe Saieva — i pubblici ministeri Cristina Cambi, Lorenzo Francia, Raffaella Gammarota e Rocco Marvotti — acquisiranno la documentazione su tutti gli stabili crollati. La decisione è quella di aprire un fascicolo su ogni edificio in modo da poterne ricostruire la storia ed effettuare le eventuali contestazioni a chi ha seguito le ristrutturazioni. Per questo verranno interrogati gli architetti e gli ingegneri indicati nella relazione sui lavori decisi dopo il sisma dell’Umbria. Saranno loro a dover chiarire come mai si decise di effettuare — nella maggior parte dei casi — soltanto delle «migliorie», chi diede le indicazioni sugli interventi e soprattutto che cosa fu scritto nelle relazioni finali per ottenere il via libera dei collaudatori. Questi ultimi dovranno invece chiarire che tipo di controlli furono svolti, consegnando anche la documentazione relativa a ogni progetto seguito. L’attività dei pubblici ministeri in questa prima fase dell’inchiesta si muove su un doppio binario: da una parte gli edifici pubblici e dall’altra le abitazioni private. In questo secondo caso l’attenzione si concentra soprattutto sui cosiddetti «ancoraggi». Nei giorni successivi al terremoto sono arrivate numerose segnalazioni di persone che hanno raccontato di aver comprato il proprio immobile e di aver ricevuto — al momento dell’acquisto — la certificazione sulla messa in sicurezza rispetto al rischio sismico. Quando i palazzi sono crollati è apparso evidente come non fosse stato effettuato alcun intervento mirato. Per questo bisognerà confrontare gli atti di compravendita con quelli registrati nei Comuni. Partendo naturalmente dagli edifici crollati che hanno provocato morti e feriti.
Al setaccio incarichi e consulenze sui fondi del dopo terremoto 1997. Gli inquirenti vogliono capire come sono stati spesi tre milioni di euro. Indagini sui collaudi che mancano e sui lavori che non sono stati ultimati, scrive Paolo Festuccia il 30/08/2016 su “La Stampa”. Quasi tre milioni di euro. Per la precisione 2 milioni 995 mila euro. A tanto ammontano i finanziamenti che sono piovuti su Accumoli e Amatrice per i danni subiti dal sisma del 1997. A questi si deve aggiungere il finanziamento - ma fuori dal sisma dell’Aquila - che la Regione Lazio elargì al comune di Amatrice al fine di migliore la sicurezza della scuola «Romolo Capranica» e di altre strutture presenti sul territorio. Intorno a questo fiume di denaro, nelle prossime ore, si concentrerà l’attenzione della Procura di Rieti. L’obiettivo, è quello di accertare come siano stati elargiti i contributi pubblici, e soprattutto come sono stati conferiti gli incarichi a una quarantina di professionisti tra ingegneri, architetti e geometri. È questo il dubbio che anima l’iniziativa degli inquirenti. Un interrogativo che incontra anche le richieste dei cittadini, sia quelli che hanno o non hanno subito danni, sia soprattutto i familiari di chi, proprio sotto quelle strutture appena restaurate, ha perduto la vita. A cominciare dalla famiglia Tuccio di Accumoli (mamma, papà e due figli piccoli) annientata dal crollo del campanile del complesso parrocchiale di San Pietro e Lorenzo restaurata con 125 mila euro con tanto di collaudo. Insomma a distanza di quasi vent’anni, dunque, quel sisma che colpì duramente e tragicamente l’Umbria e alcuni luoghi simbolo come Assisi o Camerino nelle Marche, torna protagonista insieme al terremoto dello scorso 24 agosto. Nel territorio di Amatrice le strutture restaurate sono state tredici per un milione 860 mila euro. Ben 630 mila euro di «questi fondi - assicurano fonti - sono stati elargiti alla Curia… e mai rendicontati…». Solo due opere al maggio di quest’anno erano state collaudate. Si tratta della Chiesa di San Michele Arcangelo (100 mila euro) e di Icona Passatore per 200 mila euro. Le altre tre strutture, per un valore in euro di altre 330 mila euro (affidate come Ente attuatore alla Curia di Rieti) non risultano ancora restaurate. C’è poi il singolare caso delle caserme dei Carabinieri. Quella di Accumoli, nei fatti, è andata completamente distrutta. Ad Amatrice i lavori della caserma non sono ancora ultimati (150 mila euro) e anche l’altro edificio preso in affitto in attesa del rientro nella caserma principale è di fatto ancora inutilizzato. È davanti a queste cifre e alla presenza di tante consulenze che la procura vuole andare fino in fondo. Capire non solo come gli incarichi siano stati conferiti ma soprattutto quali rapporti sono intercorsi tra chi ha ricevuto e chi ha conferito l’incarico. Affidi più volte distribuiti a stesse persone che in talune circostanze figuravano come progettisti e in altri come collaudatori. In tutto sono una quarantina i professionisti che a vario titolo hanno partecipato alla distribuzione dei lavori che solo in parte a distanza di quasi vent’anni sono stati collaudati. In un caso, addirittura, la chiesa di Sant’Angelo di Amatrice i lavori sono ancora in fase di esecuzione. Capitolo a parte, invece, merita la scuola «Romolo Capranica» di Amatrice. La città fu tagliata fuori dai finanziamenti per il sisma aquilano del 2009. Ottenne allora una finanziamento ad hoc dalla Regione Lazio (5 milioni di euro) per una serie di lavori da svolgere sia nel palazzo che comunale che nella scuola alberghiera. Per la «Romolo Capranica» ci fu un accordo di programma in base al quale il commissario per il sisma Fabio Melilli rese ente attuatore il comune stesso per una cifra di 170 mila euro. Soldi che si aggiunsero ai circa 500 mila che lo stesso sindaco Pirozzi aveva ottenuto dalla Regione e che il comune appaltò autonomamente per i lavori.
39 anni fa l'assassinio del colonnello Russo e del prof. Costa, scrive il 20 Agosto 2016 AMDuemila. L’omicidio avvenne in modo plateale perché la “mafia voleva una esecuzione spettacolare ed esemplare”. Così scriveva il giornalista Mario Francese, che da quella stessa mafia fu assassinato il 25 gennaio 1979. Il 20 agosto del 1977, alle ore 22.00, in contrada Ficuzza di Corleone un commando formato da Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pino Greco, Filippo Marchese e Giuseppe Agrigento uccise il tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo e l'amico Filippo Costa. Secondo gli inquirenti quella sera a sparare fu Leoluca Bagarella, mentre Pino Greco e Giovanni Brusca rimasero da appoggio, e Agrigento e Marchese erano all'interno delle auto parcheggiate, pronti per la fuga. Russo fu sicuramente tra i primi investigatori a comprendere la necessità di spostare l’attività investigativa sui grandi appalti e sull’interesse che avrebbero inevitabilmente suscitato nel sodalizio criminale che stava per assumere il controllo di Cosa nostra nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento, che proprio in questa terra avrebbe avuto il suo centro nevralgico intono alle figure di Riina e Provenzano. Giuseppe Russo, secondo gli investigatori, fu tra i primi a capire le potenzialità dei corleonesi di Riina e Provenzano e a studiare le contromosse per arginarli. Così come fu pioniere nell'individuare gli interessi e le attività del gruppo mafioso che si stava organizzando intorno alle figure di Michele Greco, Riina, Provenzano e Bagarella, negli anni in cui si sarebbe consolidato il controllo della mafia sui finanziamenti pubblici e i grandi appalti per la ricostruzione del Belice, dopo il devastante terremoto del 1968. Quando fu assassinato, Russo era il comandante del Nucleo Investigativo del capoluogo siciliano, l'organo di punta nella lotta alla mafia, e uomo di assoluta fiducia dell'allora comandante della Legione carabinieri di Palermo, il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa. Grazie al suo costante impegno furono realizzate con successo diverse operazioni investigative contro ogni forma di criminalità e, in particolare, contro le varie organizzazione mafiose. Per l’omicidio del tenente colonnello e del suo amico professore furono inizialmente condannati tre pastori: Salvatore Bonello, Rosario Mulè e Casimiro Russo; quest’ultimo, autoaccusatosi, aveva chiamato in causa gli altri due; ma nel ‘97 vengono assolti e la II sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo condanna definitivamente all’ergastolo Leoluca Bagarella, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano per l’assassinio di Giuseppe Russo e Filippo Costa. Così il giornalista Mario Francese, sul “Giornale di Sicilia”, ricordò quel tragico omicidio: “Al bar entrò soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si accorse di una ’128’ verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad ’U’ e si fermò proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di ’Minerva’. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima sigaretta. Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due. Appena furono vicini aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia. Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo. Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo in via Ausonia sotto casa a Palermo e il professor Costa a Misilmeri, dove abitava? - si chiede ancora il giornalista - No, perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”.
La ricostruzione in Emilia e quello che il governo non dice. Un modello di gestione. Zero infiltrazioni mafiose e illegalità arginata. La narrazione ufficiale del Pd nazionale e regionale esclude ogni tipo di anomalie durante la fase post sisma emiliano. Eppure le inchieste giudiziarie e giornalistiche dicono altro, scrive Giovanni Tizian il 31 agosto 2016 su “L’Espresso”. Sulla via Emilia messa in ginocchio dal sisma del maggio 2012 è nata la narrazione della ricostruzione pulita. Nella roccaforte del Pd, del resto, tutto deve procedere secondo le regole. Criminali, mazzette e clan, non avrebbero trovato spazi, recita questa narrazione. Frammenti di questo racconto trionfalistico giungono anche in queste ore, a pochissima distanza dalla notizia che Vasco Errani sarà con tutta probabilità il commissario del post terremoto che ha ridotto in un cumulo di macerie i borghi storici di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Errani, appunto, scelto in virtù dell'esperienza emiliana. Dove, però, non tutto è come sembra. E sono molte le cose che il governo centrale e quello regionale non dicono. «Ha saputo garantire rigore, serietà, legalità e trasparenza. E noi oggi abbiamo ricostruito il 70 per cento di quello che avevamo, evitando infiltrazioni mafiose», intervistato da Repubblica Bologna il sindaco di San Felice Sul Panaro, Alberto Silvestri, mostra tutto il suo entusiasmo per la nomina decisa da Matteo Renzi. San Felice è il paese del cratere sismico tra i più colpiti. Il primo cittadino della bassa modenese, però, sa bene che non tutto è andato per il verso giusto. Soprattutto in tema di illegalità e inquinamento mafioso. Vicino a San Felice, per esempio, si trova Finale Emilia. Lasciamo per un momento da parte la questione mafia, perché l'ultimo episodio che ha riguardato questo comune ha a che fare con un fatto di ordinaria furbizia imprenditoriale. Al centro dello scandalo una scuola media da 5 milioni di euro, nuova di zecca e pronta per essere inaugurata. A distanza di quattro anni esatti, però, nella ricostruzione qualcosa non ha funzionato. Chi ha realizzato l'opera, per limare sui costi, avrebbe utilizzato cemento cosiddetto “depotenziato”. Materiale fragile. Così per inquirenti e investigatori la struttura della scuola media Frassoni non sarebbe sicura. Il paradosso è che il luogo scelto per edificare l'istituto era considerato tra i più sicuri del paese. Tanto, spiegano gli inquirenti, da indicare l'area come luogo di rifugio per la popolazione nel caso di terremoti. Cittadini beffati due volte, quindi. Perché avrebbero raggiunto una zona con un edificio, dicono i pm, per nulla sicuro. L'inchiesta “Cubetto” - termine che indica i campioni di calcestruzzo da sottoporre ad analisi di resistenza - è ancora in corso. Bisognerà attendere i risultati delle analisi del materiale sequestrato, e poi l'incidente probatorio. Coinvolte due importanti aziende. Entrambe con un ruolo in Confindustria. C'è la Betonrossi Spa, per esempio, attiva in tutta Italia e leader del settore. E la A&C di Mirandola, il cui proprietario Stefano Zaccarelli era presidente dell'associazione costruttori di Confindustria Modena, ha lasciato dopo la notizia dell'indagine a suo carico. L'inchiesta non è finita. Il prossimo atteso passaggio sarà l'incidente probatorio. Sarà questo il momento decisivo per verificare effettivamente la tenuta della struttura. La procura vorrebbe ottenerlo prima del prossimo anno scolastico. Tra gli indagati anche il direttore dei lavori, un tecnico della Regione, Antonio Ligori. In realtà, si legge nel suo curriculum, è collaboratore di una società “In house”, la Finanziaria Bologna Metropolitana S.p.a. Durante la ricostruzione post-sisma, ancora in corso, è stato incaricato della Direzione Lavori di numerosi cantieri per realizzare edifici pubblici, «per conto del Commissario Delegato alla Ricostruzione (cioè Vasco Errani ndr)». Ligori, 51 anni, negli ultimi quattro anni ha ottenuto la direzione di 33 strutture, più tre progettazioni. È responsabile di cantieri che valgono in tutto 75 milioni di euro. Ma non è la prima ombra che si addensa sulla ricostruzione post sisma. Anzi, è solo l'ultima di una lunga serie di anomalie. Prima, come documentato da “l'Espresso” ormai tre anni fa, l'intromissione della 'ndrangheta nella filiera dello smaltimento delle macerie. Poi i subappalti finiti ad aziende legate ai clan e i sospetti su una cricca di professionisti che si sarebbero arricchiti con i fondi per la ricostruzione. E infine il caso del cemento “fragile” usato per una scuola pubblica. Per quanto riguarda le macerie, il meccanismo con cui la 'ndrangheta ha potuto lavorare è molto semplice. In piena urgenza con la catena del subappalto, le strade dei paesi terremotati sono state battute dai camion dei clan. Hanno smaltito una quantità importante di detriti, non residuale, stando a quanto scritto dagli investigatori del Gruppo interforze guidato dal poliziotto Cono Incognito. Un team, questo, costituito ad hoc per vigilare sulle opere da realizzare nella ricostruzione. Hanno lavorato sodo, e prodotto decine di misure interdittive, escludendo numerose aziende, alcune delle quali già attive nei cantieri emiliani, dalla “White list”, gli elenchi della Prefettura ai quali è necessario iscriversi per poter lavorare nella ricostruzione. C'è stato poi il caso della Bianchini costruzioni. Leader nel territorio della bassa. Fino a quando la procura antimafia di Bologna e i carabinieri di Modena non hanno scoperto la sua vicinanza alla 'ndrangheta emiliana. Così prima è scattata l'interdittiva antimafia, e due anni dopo i proprietari sono finiti nella maxi indagine Aemilia (oltre 200 indagati, ora imputati) sui clan calabresi emigrati nelle province di Modena, Reggio, Parma e Piacenza. La vicenda Bianchini conduce esattamente al cuore della ricostruzione. Alle cose che non hanno funzionato in materia di prevenzione. La società ha continuato a lavorare anche dopo il blocco della prefettura. Con un'altra società, è stato sufficiente cambiare il nome. Per queste anomalie la prefettura di Modena aveva disposto persino l'accesso nel Comune di Finale Emilia. La commissione scrisse una relazione in cui evidenziava diverse criticità nella gestione degli appalti. Il Prefetto chiese lo scioglimento, ma il Viminale archiviò il caso. A luglio del 2012 il commissario per l’emergenza Vasco Errani, aveva stanziato l’ingente somma di 56 milioni di euro, al fine di ricostruire entro la fine di settembre, edifici scolastici temporanei, a seguito della rovina di quelli esistenti. Ecco comparire di nuovo la società di San Felice (finita sotto sequestro e adesso gestita da un amministratore giudiziario per conto del tribunale), guidata all'epoca da Augusto Bianchini - ora imputato per concorso esterno. In questo caso è sospettata di aver smaltito amianto in alcuni cantieri della ricostruzione. Nelle strade, ma anche in una scuola di Reggiolo. È emerso, inoltre, dall'indagine Aemilia che nei cantieri di Bianchini lavoravano maestranze assunte grazie all'intermediazione dei boss delle 'ndrine emiliane. Trattati come schiavi. Con il salario decurtato per pagare il “pizzo” ai padroni delinquenti. Sfruttamento in piena regola, che ha spinto i sindacati a costituirsi parte civile nel maxi processo in corso a Reggio Emilia. In Emilia, dunque, la ricostruzione è stata inquinata. Non sveliamo nulla riportando un'intercettazione tra due affiliati che nei giorni successivi al sisma ridono alla grande, e sui morti, per le opportunità di lavoro che si prospettavano. Come fu per L'Aquila, anche qui gli affaristi hanno visto nelle macerie nuove opportunità. Ma la ’ndrangheta si è infilata nella ricostruzione anche ad un altro livello. Ci sono indagini che tuttora proseguono, e puntano verso le figure dei tecnici. Collaboratori o assunti da imprese contigue alle cosche. Il sospetto è raccolto dall'Arma dei Carabinieri che ricevono la segnalazione di una donna sfollata. Si era rivolta a loro perché non la convinceva la dinamica in cui era finita: l’ingegnere incaricato di redigere il progetto di ricostruzione aveva assoldato un professionista di fuori regione, facendo lievitare le spese. Quell’ingegnere ha rapporti con uomini del clan. Ed è socio di uno studio tecnico della bassa emiliana, tra i lavori ottenuti anche la progettazione della sicurezza di un cantiere post sisma a Finale Emilia. Tutto questo -tralasciando episodi minori di truffe e raggiri - nella narrazione renziana della ricostruzione emiliana non può esistere. Il rischio è di passare dalla parte dei “gufi”.
Terremoto: la mafia è già pronta a guadagnare. Fermate subito quelle mani. Dobbiamo imparare dalle ferite ancora aperte dell'Aquila e dell'Emilia, e dalla storia del Belice e dell'Irpinia. Per impedire alle organizzazioni criminali e a imprenditori-sciacalli di brindare sul dolore del 24 agosto. Perché la ricostruzione non sia un business. Ma un valore, scrive Lirio Abbate il 29 agosto 2016 su “L’Espresso”. La ricostruzione post terremoto è il punto da cui adesso si deve ripartire. Potranno speculazioni e criminalità restare fuori da questa tragedia? Si riuscirà a non fare business sulla morte e il dolore? Dovrà pur servire a qualcosa l’esperienza amministrativa e giudiziaria fatta su un territorio altamente sismico. E queste nuove vittime non dovranno servire a sostenere vecchi business e nuovi appetiti per le mafie e i mafiosi. Questa tragedia che ha colpito l’Italia centrale dovrà necessariamente attingere all’esperienza fatta dopo il sisma dell’Aquila e dell’Emilia. Ferite ancora aperte, anche per il dolore inflitto da imprenditori-sciacalli e organizzazioni criminali che su queste tragedie non hanno visto la morte come sofferenza, ma un motivo, spesso illegale per arricchirsi. La storia italiana di ogni ricostruzione ci ha consegnato non solo sofferenza e dolore, ma soprattutto malaffare. A cominciare dal Belice, passando per l’Irpinia, fino ad arrivare in Abruzzo e in Emilia Romagna. Le mafie si sono lanciate sui ruderi dei paesi distrutti come se i cocci caduti dalle abitazioni in cui sono morti donne e bambini, studenti e pensionati, fossero pepite d’oro da raccoglie. A tutti i costi e con tutti i mezzi irregolari. I protocolli di legalità pensati e firmati in questi decenni si sprecano. Qualcuno ha funzionato, altri sono stati raggirati. Ad ogni modo, sul dopo terremoto si è sempre trovato un prestanome di mafiosi, un’impresa irregolare che ha messo le mani sugli appalti. È stata ancora una volta fotografata un’Italia illegale che si contrappone alla grande solidarietà che questo Paese è capace di offrire a chi ne ha bisogno. L’esperienza quindi ci dice che il grande business della ricostruzione non viene mai ignorato dalla criminalità organizzata, e per questo motivo occorre attuare tutti gli strumenti necessari per evitare l’inquinamento mafioso. Perché sulle emergenze è più facile che le organizzazioni trovino spazi e modi per infiltrarsi e lucrare. E guadagnare sulla morte. Negli ultimi vent’anni è stata combattuta la mafia, ma meno efficacemente la corruzione. E mafia e corruzione sono sempre più intrecciate. Lo ha dimostrato l’inchiesta “mafia Capitale” che ha messo in luce un modello tipicamente mafioso; un modello, come ripete il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, «che già aveva funzionato per gli appalti post terremoto in Campania» e che vede un intreccio tra mafia, politica e imprenditoria. La caratteristica della criminalità mafiosa è la mimeticità nell’area grigia: ovvero esponenti delle istituzioni, dell’imprenditoria, delle professioni. Non basta intervenire con la repressione ma bisogna prevenire: l’educazione ai valori della Costituzione è fondamentale per recuperare il rispetto della legge. Soprattutto dopo una nuova tragedia come questa del terremoto.
"La ricostruzione post terremoto boccone ghiotto per la mafia". Il procuratore antimafia Roberti: "Non si ripeterà lo scandalo Irpinia. Abbiamo il modello dell'Aquila, che ha funzionato. Siamo pronti", scrive Luca Romano, Domenica 28/08/2016, su "Il Giornale". "I rischi ci sono, inutile nasconderlo. E la ricostruzione post terremoto è storicamente il boccone ghiotto di consorterie criminali e comitati d'affari collusi". A dirlo, in una intervista a Repubblica, è il procuratore Antimafia Franco Roberti, che aggiunge: "Però va detto che abbiamo alle spalle gruppi di contrasto consolidati, esperienza, attività importanti. E abbiamo il modello dell'Aquila, che ha funzionato. Siamo pronti". Secondo il procuratore, che seguì in prima persona come pm di Napoli il terremoto dell'Irpinia oggi "l'esperienza e le acquisizioni scientifiche e giudiziarie ci dicono che se una casa è costruita bene, se sono state rispettate le norme anti sismiche, di fronte a un evento drammatico quel corpo di fabbrica può lesionarsi, incrinarsi: ma non può polverizzarsi e implodere. Ecco perché, senza azzardare previsioni, immagino ci sia molto da approfondire". I rischi di infiltrazioni mafiose, perché sottolinea Roberti "i guadagni dei clan cominciano proprio dal calcestruzzo scadente", "sono sempre alti ma l'esperienza drammatica del sisma a L'Aquila ci lascia anche un modello importante che ha funzionato bene". Il magistrato parla infatti di "un modello costruito da tutti insieme, dal lavoro della Procura distrettuale della città colpita, dal monitoraggio della Procura nazionale antimafia, dagli uffici giudiziari competenti e naturalmente dall'Anticorruzione ". Sulla collaborazione con l'Anac infine precisa "l'Anticorruzione fa bene il suo lavoro di prevenzione della corruzione, nella acquisizione e gestione degli appalti. Mentre la procura nazionale svolge il suo monitoraggio sugli eventuali collegamenti mafiosi delle imprese che concorrono agli appalti".
La sfida di Cantone: "Modello Expo per ricostruire senza mafia e ladri". L'intervista. Il presidente dell'Autorità anticorruzione: "Non sarà una grande abbuffata", scrive Liana Milella il 27 agosto 2016 su "La Repubblica”. "Vedo due pericoli, tutti italiani, anche in questo terremoto, la mafia che ne approfitta e s'infiltra nella ricostruzione e le grandi abbuffate dei soliti speculatori". Ma Raffaele Cantone, il presidente dell'Autorità anticorruzione, prim'ancora di suggerire la sua strategia per evitare entrambe le minacce, vuole raccontare cos'ha provato alle 3 e 36 di mercoledì notte: "Per chi, come me, ha vissuto il terremoto del 1980 in Irpinia, pur abitando in una zona non direttamente colpita, la prima cosa è il grande dolore che provo e la solidarietà forte per chi si è visto crollare addosso la casa. Poi c'è la preoccupazione per gli speculatori in agguato".
L'Italia è questo purtroppo. Solidarietà e malaffare...
"Sì, vedo due Paesi inconciliabili. Quello dei volontari che arrivano da tutta Italia e scavano fino allo sfinimento con una gara di solidarietà che coinvolge l'intero paese. Ma poi si fa fatica a pensare che è lo stesso paese delle grandi abbuffate, di chi ne approfitta e specula, di chi, quella famosa notte del terremoto dell'Aquila, rideva pensando agli affari che avrebbe fatto. Da un lato c'è un pezzo d'Italia bellissimo, dall'altro c'è chi pensa che sui morti si possono fare più affari".
Renzi ha citato lei e l'Anac. Un'altra grana?
"La vedo come un'importante manifestazione di fiducia, che mi inorgoglisce sia a titolo personale che per il lavoro svolto dall'Autorità in questi due anni. E poi già penso al futuro e a cosa potremmo fare".
Ha già un'idea?
"Dipende dalle scelte politiche. L'Anac può avere una funzione proficua se riesce a ricreare una situazione analoga a quella di Expo o del Giubileo. Ma perché ciò avvenga gli organi decisionali che gestiscono gli appalti devono essere uno solo o al massimo pochi. Un'attribuzione polverizzata a vari soggetti impedirebbe o renderebbe difficile un controllo a 360 gradi. Per le risorse che abbiamo non possiamo seguire 50 stazioni appaltanti".
Il terremoto però ha distrutto molte case private.
"È molto importante capire quale parte della ricostruzione sarà oggetto di interventi pubblici. Se si decide di seguire il modello aquilano - contributi singoli e lavori a cura dei privati - l'Anac potrà avere un ruolo relativo. Potrà seguire soprattutto la ricostruzione delle strutture pubbliche".
Lei cosa suggerisce?
"Esempi possibili ci vengono dagli ultimi terremoti. All'Aquila si è optato per le new town in attesa della ricostruzione. Un'opzione criticabile, ma che al momento sembrava razionale perché funzionale a un'intera città caduta. In alternativa bisogna comunque trovare formule per ricostruire rapidamente e questa è l'opzione decisamente preferibile".
Ma qual è quella di Cantone?
"Il modello Expo, sperimentato anche in altre situazione note e meno note. La vigilanza collaborativa, oggi prevista pure nel codice dei contratti, utilizzata tra l'altro per Bagnoli e per il Giubileo. Ma le soluzioni vanno calibrate sulle tipologie degli eventi. La priorità è dare subito le case, perché adesso vanno bene le tende, ma ad Amatrice tra poco farà freddo, quindi l'urgenza è sistemare 2mila persone. La logica delle new town fu quella, anche se poi fallì del tutto perché non furono ricostruite le vecchie case".
Lei ricordava l'intercettazione della notte dell'Aquila. Teme anche ora la grande abbuffata?
"Bisogna evitare che i soldi pubblici finiscano in operazioni illecite. Ma quando Renzi parla di modello Anac pensa anche al rischio di infiltrazioni mafiose, perché tra le imprese che provvedono alla rimozione dei detriti e al movimento terra il rischio di infiltrazioni è altissimo. È necessario un controllo preventivo come avvenne per il terremoto in Emilia. Bisogna evitare il grande bubbone del sisma in Irpinia, non solo per il clamoroso spreco di denaro pubblico, ma perché proprio allora la camorra, da associazione dedita ad affari tradizionali, divenne imprenditrice".
Il codice degli appalti, su cui si riversano tante critiche, potrà creare difficoltà?
"Mi sento di escluderlo. Il codice consente di fare qualsiasi tipologia di appalti. Comunque sarà una delle priorità dell'Anac verificare se possono esserci provvedimenti attuativi da emettere che potrebbero incidere sulla ricostruzione".
Ad Amatrice crolla una scuola costruita senza garanzie sismiche. Non è anche questa una minaccia?
"Su quell'appalto bisogna accendere subito una luce. Sarebbe ingiusto dare giudizi su due piedi, ma se il terremoto fosse avvenuto in un altro momento dell'anno finiva come a San Giuliano di Puglia. Una strage di bambini. La scuole di Amatrice era stata ristrutturata nel 2012 ed è caduta. In teoria anche un edificio perfetto può cadere per un terremoto fortissimo. L'Autorità giudiziaria e noi dell'Anac ce ne occuperemo per individuare le responsabilità".
Repubblica ha scoperto che ci sono fondi per il rischio sismico neppure spesi...
"Non è il momento di fare polemiche perché il dolore deve prevalere su tutto, ma bisogna individuare le responsabilità di chi avrebbe potuto utilizzare quel denaro e non lo ha fatto e se questo incide sulla capacità di questi amministratori di gestire la ricostruzione".
Renzi e il terremoto in Centro Italia: «Prendiamo esempio dall’Emilia», scrive il 29 agosto 2016 “La Repubblica”. Il presidente del Consiglio non parla di Errani commissario ma cita la ricostruzione dopo il sisma del 2012. Ma i Cinque Stelle attaccano. Non parla di Vasco Errani come commissario per la ricostruzione in Centro Italia, ma designa l’Emilia-Romagna come un modello per il post-terremoto. Matteo Renzi, nella enews pubblicata lunedì, fornisce le coordinate per l’immediato futuro delle zone terremotate. «La storia italiana - scrive il presidente del Consiglio - ci consegna pagine negative nella gestione del dopo-terremoto, come l’Irpinia, ma anche esempi positivi. Su tutti il Friuli del 1976, certo. Ma anche l’Umbria di vent’anni fa. E soprattutto penso al modello emiliano del 2012». Quel territorio, sottolinea il premier, «ha `tenuto botta´, come si dice da quelle parti, ricostruendo subito e bene. Le aziende sono ripartite, più forti di prima. E la coesione mostrata è stata cruciale per raggiungere l’obiettivo». Secondo Renzi «dovremo prendere esempio da queste pagine positive. E fare del nostro meglio - senza annunci roboanti - per restituire un tetto a queste famiglie e restituire un futuro a queste comunità». Ma i grillini partono all’attacco. Il deputato Michele Dell’Orco lancia un primo tweet in cui accosta il nome del «disoccupato» Errani all’inchiesta Aemilia. «Il Governo — ha rincarato poi via web Dell’Orco — chiama Vasco #Errani per la ricostruzione: “verrà adottato il modello Emilia’” Modello Emilia??! Dal processo Aemilia emerge che la movimentazione della terra nel post-terremoto ha visto un coinvolgimento di aziende direttamente o indirettamente vicine alla criminalità mafiosa; c’è stata una sottovalutazione del problema da parte delle pubbliche amministrazioni. Insomma- rimarca il parlamentare M5s- la mafia si è infiltrata a piene mani nella ricostruzione. E Renzi nomina Errani? Vogliamo ripetere gli stessi errori? Io no». In casa Pd scatta il contrattacco. «Il deputato 5 stelle Dell’Orco- reagiscono in una nota i parlamentari dem Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra e Stefano Vaccari- straparla, o peggio, se parla con convinzione allora diffama. Perché se c’è un aggettivo che chi lo conosce associa al nome Vasco Errani è onesto, oltre che competente». E, dunque, «far intendere, come fa il collega Dell’Orco con il suo tweet, che ci sia una qualsivoglia connessione tra la nomina di Errani a commissario straordinario per il sisma nel 2012 e l’inchiesta Aemilia è mistificare la realtà. Perchè se c’è una cosa per cui Errani ha lavorato, in questi anni, è proprio l’obiettivo per cui ogni euro speso per il cratere sismico fosse rintracciabile e impiegato in maniera legittima».
Cinque Stelle e leghisti contestano Errani e la validità del "modello Emilia". M5S e centrodestra bocciano la scelta dell'ex governatore come commissario per la ricostruzione e citano le infiltrazioni della criminalità emerse dal processo Aemilia. Di Maio: "Renzi usa il terremoto per ricucire il Pd". La replica di Guerini, scrive il 29 agosto 2016 “La Repubblica”. La tregua e l'unità nazionale sul terremoto è già finita. Il Movimento Cinque Stelle, infatti, non ha gradito la scelta di Vasco Errani come commissario per la ricostruzione delle aree devastate dal sisma. E lo stesso atteggiamento di chiusura adottano anche Lega e Forza Italia. Il primo affondo è lanciato dal deputato grillino emiliano Michele dell'Orco. "Il governo - dice il parlamentare - chiama Errani per la ricostruzione e verrà adottato il modello Emilià. Modello Emilia? Ma dal processo Aemilia emerge che la movimentazione della terra nel post-terremoto ha visto un coinvolgimento di aziende direttamente o indirettamente vicine alla criminalità mafiosa; c'è stata una sottovalutazione del problema da parte delle pubbliche amministrazioni. Insomma - conclude Dell'Orco - la mafia si è infiltrata a piene mani nella ricostruzione. E Renzi nomina Errani? vogliamo ripetere gli stessi errori?" Un attacco durissimo che viene rilanciato anche da Laura Castelli, capogruppo grillina alla Camera: "Quanto accaduto in seguito al commissariamento di Errani in Emilia lo conosciamo tutti, arriva anche a includere inchieste che hanno sottolineato quanto la 'ndrangheta entri in questi appalti e in queste ricostruzioni", dice Castelli. Poi arriva l'affondo di Luigi Di Maio, membro del direttorio M5S che scrive su Facebook: "Mi lascia sgomento un presidente del Consiglio che poche ore fa ha guardato negli occhi i sopravvissuti dell'ennesimo terremoto e adesso pensa di sfruttare la tragedia per ricucire il Pd affidando l'incarico di commissario per la ricostruzione a Vasco Errani. Gestisce un'emergenza con le logiche del congresso di partito. Vasco Errani non può essere il commissario al terremoto del Centro Italia. Ora serve un profilo al di fuori del sistema dei partiti". Un altro colpo al clima di unità arriva dalla Lega. "In Emilia Romagna Errani ha fallito completamente, vorremmo evitare un fallimento due. Chiediamo a Renzi di non fare nomine in base a logiche di equilibrio interne" dice il senatore leghista Gian Marco Centinaio. Poi tocca al leader Matteo Salvini: "La Lega è pronta ad aiutare e collaborare con tutti per il bene delle persone colpite dal terremoto ma non a guardare in silenzio il ripetersi di vecchi errori, sprechi e ruberie. Il fallimento e la lentezza della ricostruzione in Emilia non si devono ripetere". E critiche arrivano anche dal centrodestra. Il consigliere regionale di An-Fdi Tommaso Foti accusa: "Neppure abili prestigiatori possono nascondere che, nella bassa modenese in particolare, si registrano ritardi gravissimi nella ricostruzione". E da Roma Maurizio Gasparri fa sapere: "Nessuna apertura nei confronti di Renzi e della sua fallimentare politica". Secondo il vicepresidente forzista del Senato "FI farà proposte per la ricostruzione delle zone terremotate e darà piena disponibilità in ogni passaggio parlamentare con uno spirito di coesione che è doveroso e che altri non sempre hanno dimostrato in occasioni analoghe a ruoli inversi. È però certamente un avvio sbagliato quello della nomina di Errani a commissario". A Di Maio ha replicato Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd: "Mi spiace che Di Maio utilizzi una tragedia come quella del terremoto per aprire un'inutile polemica con il Pd e il presidente del consiglio - ha detto Guerini - . Errani è un ottimo amministratore che ha già dato prova di capacità, competenza ed efficienza come commissario per il terremoto in Emilia, esperienza che potrà mettere a disposizione per la delicata opera di ricostruzione delle zone del Centro Italia colpite dal sisma. È tempo di unità e responsabilità per dare risposte alle popolazioni colpite così duramente e non di polemiche".
TERREMOTO E GIUSTIZIA. Per i morti dell'Aquila solo 9 colpevoli. E ora a fermare i processi arriva la prescrizione. Responsabilità difficili da stabilire. Perizie contrastanti. Vecchi edifici costruiti da tecnici ormai defunti. Per il sisma del 2009 sono stati condannati in via definitiva una manciata di imputati. E fra poche settimane un colpo di spugna finale cancellerà le ultime inchieste. Uno scenario che rischia di ripetersi col terremoto di Amatrice, scrive, nascondendo le responsabilità delle toghe e da antiberlusconiano, Paolo Fantauzzi il 2 settembre 2016 su "L'Espresso". Le indagini della Procura di Rieti. Quelle della Procura di Ascoli Piceno. Gli accertamenti dell’Anticorruzione. L’opinione pubblica che chiede, come sempre in questi casi, “pene esemplari”. Dopo il sisma che ha colpito Amatrice, Accumoli e Borgo Arquata, la macchina della giustizia si è subito messa in moto per individuare i responsabili dei crolli. La speranza è che non finisca come all’Aquila: nel capoluogo abruzzese i condannati per il terremoto sono stati una manciata. Per la difficoltà di accertare le colpe, innanzitutto. Ma anche per effetto della prescrizione, i cui tempi sono stati generosamente accorciati nel 2005 dal governo Berlusconi. Così fra poche settimane (il 6 ottobre) un definitivo colpo di spugna cancellerà tutti i processi non ancora terminati. Compreso quello al più noto degli imputati, Guido Bertolaso, a giudizio per omicidio colposo plurimo. A meno che non intenda rinunciare al “salvataggio” come ha detto nei mesi scorsi. Anche all’Aquila la magistratura si mise subito al lavoro con grande impegno. Su circa 200 fascicoli d’indagine aperti dopo il sisma, però, solo una quindicina hanno raccolto elementi sufficienti per arrivare a dibattimento. E soltanto pochissime inchieste si sono concluse in Cassazione con delle condanne, nove in tutto: quattro per il crollo della Casa dello studente (costato la vita a otto ragazzi), due per il Convitto nazionale (in cui persero la vita tre minorenni), altrettante per il collasso della facoltà di Ingegneria, più l'ex vice capo della Protezione civile Bernardo De Bernardinis , cui sono stati inflitti due anni di reclusione per l’informazione “imprudente” e “scorretta” che rassicurando immotivatamente i cittadini fece aumentare il numero delle vittime. Circostanza che non gli ha impedito di essere in prima linea nella macchina dei soccorsi nei giorni scorsi, essendo la sua pena stata sospesa. Nelle aule di giustizia molti altri casi si sono conclusi con l’assoluzione, spesso chiesta direttamente dall’accusa. «Processi del genere sono molto complessi» spiega il sostituto procuratore Fabio Picuti, che li ha seguiti tutti: «Molte case erano costruite con tecniche di un secolo fa, quando le norme antisismiche non erano ancora in vigore, e questo ci ha spinto a chiedere l’archiviazione. In altri casi si trattava di edifici realizzati male in partenza ma decenni fa, e i progettisti erano morti o molto anziani e quindi incapaci di affrontare i processi. E poi non bisogna dimenticare che per giungere a una condanna bisogna dimostrare un nesso causale fra i crolli e i lavori di ristrutturazione: si rivelano fondamentali le perizie e non sempre si riescono a provare condotte colpevoli». A questo complicato groviglio si aggiunge la prescrizione. Giovedì 6 ottobre si estingueranno tutti i processi non ancora conclusi. Secondo quanto previsto dalla legge ex Cirielli, infatti, i delitti con pena massima di cinque anni, come l’omicidio colposo, si estinguono dopo sei anni. Se c’è stata qualche interruzione, si può ottenere un altro 25 per cento di “bonus”. Totale: sette anni e mezzo dal sisma del 6 aprile 2009. Senza la riforma del governo Berlusconi sarebbero stati cinque in più: fondamentali per accertare tutte le responsabilità. Il risultato è che andrà sicuramente in fumo il processo per il crollo del palazzo di via D’Annunzio, che costò la vita 13 persone. A maggio la Cassazione ha annullato con rinvio la condanna dell’ingegnere che restaurò l’edificio (costruito negli anni ’60 con calcestruzzo scadente) e non si accorse dei rischi: tre anni e mezzo di reclusione in primo grado, ridotti a 22 mesi in appello e adesso tempi insufficienti per affrontare nuovamente due gradi. Situazione identica per i due palazzi gemelli che in via Sturzo provocarono 29 vittime. Anche in questo caso, a causa del calcestruzzo di scarsa qualità ed errori di progetto. Solo che quattro presunti responsabili sono deceduti e l’unico superstite ha quasi 90 anni. Così, dopo i tre anni comminati in primo grado, il giudizio si è fermato a causa delle sue condizioni di salute. E si salveranno pure i due imputati per il crollo di due palazzi in via Milonia, condannati a due anni di carcere: il processo è ancora in Corte d’Appello. Ci sono poi le inchieste finite nel nulla. Magari perché la Cassazione ha ribaltato i verdetti precedenti: nel crollo del condominio di via Rossi morirono in 17 e l’amministratore e direttore dei lavori di rifacimento del tetto (che sotto le macerie perse la figlia), dopo essere stato condannato in primo e secondo grado per disastro e omicidio colposo plurimo, a giugno è stato assolto con formula piena: “il fatto non sussiste”. Per il collasso dello stabile di via XX Settembre 123 (cinque morti), invece, l’unico imputato ancora in vita, il collaudatore oggi 91 enne, è stato assolto in tutti i gradi di giudizio. In altri casi i palazzi erano talmente mal costruiti, secondo le perizie, da rendere impossibile addebitare alcunché alle ristrutturazioni. Tanto da spingere l’accusa a chiedere l’assoluzione, come per gli edifici di via XX Settembre 79 (nove morti) e via Persichetti (due vittime). E nessuno ha pagato nemmeno per i danni subiti dall’ospedale, reso inagibile dal sisma al punto che quel 6 aprile i feriti dovettero essere medicati sul piazzale antistante: quattro imputati tutti assolti. La Procura, che aveva chiesto tre condanne, non ha nemmeno impugnato la sentenza. Anche chi ha pagato spesso se l’è cavata con poco. Oltre al già citato vice di Bertolaso, De Bernardinis, ci sono i quattro tecnici ritenuti colpevoli per il crollo della Casa dello studente (otto morti): pene comprese fra due anni e mezzo e quattro anni per accuse che vanno dal disastro alle lesioni all’omicidio colposo, ma pure a due di loro il provvedimento è stato sospeso per motivi di salute. Ventidue mesi di reclusione (quattro anni inizialmente) e interdizione quinquennale dai pubblici uffici, invece, per il direttore di cantiere e il direttore dei lavori della facoltà di Ingegneria, che collassò e non uccise nessuno solo perché era notte: qualche ora dopo sarebbe stata una tragedia. Infine i due responsabili del crollo del Convitto (tre vittime), accusati di inerzia anche per non aver fatto evacuare la scuola, frequentata da minori, dopo la prima forte scossa che precedette di poco quella fatale: il dirigente della Provincia con delega all'edilizia scolastica (due anni e mezzo di reclusione) e l’ex rettore Livio Bearzi (quattro anni). Per quest’ultimo dopo l’arresto si sono mobilitati il sindacato dei presidi, gli enti locali, vari parlamentari. La governatrice Debora Serracchiani ha addirittura scritto a Sergio Mattarella. Tutti concordi nell’ingiustizia di mandare in prigione un preside. Dopo 44 giorni Bearzi, che ha anche chiesto la grazia al Quirinale, è stato scarcerato. Ora è ai servizi sociali.
Dopo l’assoluzione definitiva in Cassazione, Enzo Boschi scrive al Corriere della Sera, scrive "Il Foglietto" il 26 Novembre 2015. Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera inviata dal geofisico Enzo Boschi al direttore del Corriere della Sera, all’indomani della sua piena assoluzione in Cassazione. “Caro Direttore, a pagina 25 del suo giornale del 21 novembre 2015, in basso a destra, in una decina di righe di una piccola frazione di colonna, con il titolo "Sisma all'Aquila. Assolti gli Scienziati", è apparsa la notizia che la Cassazione ci ha assolto definitivamente. Eravamo già stati assolti con formula piena un anno fa nel processo d'appello. Ovviamente lei è padrone di pubblicare come meglio crede ciò che crede opportuno. Tuttavia, giornali prestigiosi come La Repubblica, La Stampa e Il Messaggero ... hanno dato un adeguato risalto alla notizia. Lo scopo di questa mia lettera non è quindi di recriminare con lei, ci mancherebbe. Piuttosto vorrei farle notare la sproporzione fra il trafiletto di sabato e il lungo articolo apparso sul Corriere della Sera del 28 ottobre 2012, all'indomani della nostra condanna nel processo di primo grado. È un articolo scritto da un'anziana Signora, autrice di libri dimenticabili e dimenticati. Non ha mai seguito il processo svoltosi a L'Aquila, dove peraltro non mi sembra siano capitati giornalisti del Corriere. Ciononostante, la Signora sembra far fatica, nell'empito del suo sfogo, nel trattenersi dal chiedere per noi la pena di morte per impiccagione. Ebbene, se avesse seguito il processo, cioè se avesse provato l'esperienza di scrivere di cose a lei note, forse si sarebbe accorta di qualche incongruenza. Per esempio, il Sindaco Cialente durante la sua deposizione al processo dichiara che era rimasto fortemente impressionato dalle mie dichiarazioni sulla pericolosità sismica abruzzese, tanto da prendere misure cautelari. La cosa può essere verificata senza dubbi di sorta! Lo dichiara anche in un’intervista successiva alla deposizione, che può essere trovata sul web. Addirittura arriverà a chiedere lo stato di emergenza per la sua città. Il 2 aprile 2009, quattro giorni prima del terremoto, Il Centro, il più importante giornale abruzzese, dedicherà a questa sua richiesta un'intera pagina. L'incongruenza, che poteva esser compresa anche dalla Signora, risiede nel fatto che il PM e il Giudice di primo grado hanno ignorato le dichiarazioni di Cialente mentre sono state uno degli argomenti che hanno portato il Giudice del processo d'appello ad assolverci con formula piena. Inoltre, se la Signora era così convinta nell'accusarci di aver rassicurato gli aquilani, l'avrà senz'altro fatto sulla base di riscontri. Strano che nessuno abbia trovato alcunché che giustifichi la sua indignazione. Mi rendo conto che a una certa età anche un viaggio Roma-L'Aquila-Roma può essere faticoso ... Potrebbe allora coltivare il dubbio come fanno le persone colte e intelligenti e di conseguenza informarsi. Invece, nell'articolo, la Signora ci indica come riferimento morale la Senatrice Pezzopane, all'epoca, credo, Presidente della Provincia de L'Aquila. Ebbene la invito, caro Direttore, ad ascoltare sul web alcune conversazioni fra la Pezzopane e la Stati, all'epoca Assessora per la Protezione Civile della Regione Abruzzo, cioè (titolo V della Costituzione) la massima e unica autorità in materia di sicurezza dei cittadini abruzzesi. Per sua comodità le allego una pagina della trascrizione del dialogo "illuminante" Pezzopane-Stati ...Mi farebbe piacere che anche la nostra spietata accusatrice ne prendesse visione ... forse potrebbe anche trovarne una qualche ispirazione per uno dei suoi romanzetti. Non credo che lei pubblicherà questa mia lettera. In fondo quando uscì l'articolo, il Corriere era diretto da altri. Mi piacerebbe tuttavia conoscere la sua opinione su un fatto: perché, secondo lei, la richiesta di stato di emergenza non fu concessa? Se fosse stata concessa forse non ci sarebbero state vittime ... o sarebbero state molte meno. E perché, secondo lei, nessun giornale si è posto questa domanda? Una ragione ci sarà, c'è sempre una ragione ...Grazie per l'attenzione. Enzo Boschi”.
TERREMOTO DELL’AQUILA. C’E’ IL COLPEVOLE! CAMORRISTI, SCIENZIATI & FACCENDIERI TUTTE VIOLE MAMMOLE. Scrive il 9 dicembre 2015 Paolo Spiga su "La Voce delle voci". Dentro il primo! Terremoto dell’Aquila, 309 corpi sotto le macerie quel maledetto 6 aprile 2009. Finalmente la implacabile giustizia comincia a colpire, il pugno di ferro dei magistrati a farsi sentire. In galera i progettisti che hanno inventato case di cartone? I costruttori che hanno usato materiali scadenti? Chi ha impugnato compassi, ruspe e betoniere per la ricostruzione post sisma? Casalesi arrivati in un baleno a impastare calcestruzzo, subappalti e milioni di euro? Politici collusi? Colletti bianchi? Scienziati della commissione “Grandi Rischi” che non hanno allertato sugli imminenti pericoli? No. La mannaia è scesa sul capo di Livio Bearzi, il preside del convitto “Domenico Cutugno” dove persero la vita tre studenti e altri due rimasero feriti. Condannato a 4 anni per omicidio colposo, avendo “omesso di valutare l’enorme pericolo incombente” e colpevole – secondo gli ermellini del palazzaccio di Roma – di non aver fatto uscire in tempo i ragazzi dal convitto killer. Eccolo, dunque, il Grande Colpevole, Bearzi. E chi se ne frega se più volte, nei mesi precedenti, aveva denunciato alla Provincia – proprietaria dell’istituto – tutte le insidie rappresentate da una struttura costruita addirittura duecento anni prima, e con tutti i segni dell’età nelle strutture! “Non c’è alcun pericolo – avevano rassicurato – prima o poi daremo a sistematina. Ma per ora potete stare sereni”. Renziani ante litteram, i solerti amministratori della Provincia? Ma per fortuna oggi giustizia è fatta. Il mostro di Cividale è assicurato alle patrie galere. Forse perchè – avranno pensato i togati – porta anche sfiga. Si era salvato per miracolo, quasi quarant’anni fa, nel 1976, dal terremoto che sconvolse il Friuli: era con i calzoncini corti, allora, studente del convitto. I terremoti, forse, sono nel suo Dna: e anche per questo la galera è sacrosanta. Un fesso pericoloso, il preside, secondo la giustizia di casa nostra: non fu in grado di capire quanto i cervelloni, gli Einstein della commissione “Grandi Rischi” potevano tranquillamente non sapere, come ha poche settimane fa stabilito la stessa Cassazione. Ergo: i geni come Franco Barberi ed Enzo Boschi, che conoscono ogni piega del territorio e “ascoltano” il nostro suolo come neanche una mamma con il bimbo in grembo, sono giustificati circa il loro clamoroso flop e, per di più, non sono colpevoli di aver in somma incoscienza “rassicurato” i cittadini e tranquillizzato il popolo bue aquilano (giusta vittima sacrificale). Il preside Bearzi, invece, doveva “prevedere” il futuro: gli è mancata – gigantesca colpa – la palla di vetro…Caritatevole, corre in soccorso del condannato a 4 anni di galera il procuratore capo dell’Aquila Franco Cardella: “posso soltanto esprimere la mia solidarietà per il dramma della persona. Un uomo di scuola che perde i propri studenti è come il capitano che vede affondare i marinai”. Uno Schettino sulle scole d’Abruzzo: solo che il comandante, che ha sulla coscienza i 32 morti del Giglio, è libero (per ora) come un fringuello. Ma il lavoro, a quanto pare, ferve nel foro dell’Aquila. Un iper attivismo per far luce su tanti altri colpevoli di quelle morti sotto le macerie del sisma. Alcuni avvocati parlano di “oltre 200 procedimenti aperti”. Un pò – c’è chi racconta – “come quando Fantozzi dava i numeri sui gol per le partite della Nazionale, 15 a 7 o 24 a 12. Solo che qui la situazione non è tragicomica, ma solo tragica, perchè si tratta di giustizia finora negata ai familiari delle vittime”. Numeri a parte (la quota di 200 sembra davvero campata per aria, a meno che non vengano comprese eventuali – e poco immaginabili – liti condominiali post sisma) è la qualità delle inchieste e dei relativi processi che desta non poca preoccupazione. “Una delle indagini cardine riguarda la malcostruzione dei balconi per il progetto Case – racconta un architetto – alcune centinaia di situazioni. Ma con tutto quello che è successo sembra il classico topolino…”. Tutto quello che concerne la malcostruzione di prima, la prevenzione zero, la non informazione dei cittadini sui rischi, i soccorsi e l’emergenza, le varie fasi della ricostruzione post sisma…, su tutto questo – un vero ben di Dio – non si muove una foglia. Affaristi, politici, camorristi, faccendieri d’ogni specie possono dormire sonni tra tanti morbidi guanciali. Perchè la giustizia di casa nostra funziona così: basta un preside in galera perchè non ha suonato la campanella…
Magistrati al posto di scienziati. Pontificano su terremoti, su ogm, su stamina, su Xylella, su prospezioni, su onde herziane. Fanno spesso buchi nell'acqua, sprecando tempo e risorse, scrive Domenico Cacopardo. Se David Bowie, il duca bianco, che aveva raffigurato se stesso nei panni di un marziano che cade sulla terra, si reincarnasse in Italia avrebbe di che rimanere, nel giro di qualche ora, stupificato (magnifico neologismo attribuibile alla rabbina Barbara Aiello). Nel mondo della tecnologia, figlia della scienza, in Italia scoprirebbe che gli scienziati non vanno di moda, né vanno di moda i termometri. Il potere giudiziario, infatti, conferendo a se stesso un esercizio del potere che va al di là del sapere scientifico, ama aprire e condurre processi alle fonti del sapere, spesso contestate, per meri interessi di botteguccia da chi la scienza non sa dove sta di casa. Pensiamo al caso L'Aquila con i sismologi condannati e assolti in appello. Pensiamo al caso Stamina, una ciarlateneria che, per alcuni anni, è stata presa sul serio da magistrati che hanno creduto alla pietra filosofale, più che alle valutazioni del Consiglio superiore di sanità, contribuendo alle illusioni di ammalati e loro familiari sulle virtù terapeutiche di un metodo inesistente sul piano scientifico e su quello dei risultati. A quanto è dato di capire da un breve giro sul web, Stamina esiste ancora ed è illegalmente praticato nel territorio della Repubblica italiana. Pensiamo al caso della Xylella (Xylella fastidiosa, batterio Gram negativo che vive e si riproduce all'interno dell'apparato conduttore della linfa grezza) che ha colpito grandi superfici pugliesi coltivate a olivi. Per combatterla, l'Unione europea e lo Stato italiano, hanno avviato un programma di abbattimenti di essenze malate e di essenze sane, in prossimità, appunto, di quelle colpite per realizzare una specie di cortina sterile a difesa del resto delle piantagioni. Ovviamente, sono sorti subito comitati e comitatini di oppositori della misura profilattica, supportati da sedicenti tecnici o da tecnici veri che, tuttavia, non hanno responsabilità specifiche nella gestione del problema. Ebbene, anche in questo caso non si trova di meglio che processare gli scienziati che hanno identificato il batterio e che hanno indicato le terapie difensive da attuare. Anche per il Muos siciliano, alcuni magistrati, in contestazione degli studi del Consiglio superiore di sanità (con il Cnr), hanno avviato un procedimento nei confronti dei realizzatori dell'opera, vitale per la sicurezza dell'Occidente e dell'Italia, sulla base di non dimostrate né dimostrabili conseguenze nei confronti della popolazione civile. In Puglia, l'ipotesi di ampliare le aree di prospezioni petrolifere in mare Adriatico, nell'interesse primario della bilancia dei pagamenti italiani e dell'economia nazionale e regionale, incontra l'opposizione di Notriv, una specie di Notav, mobilitati nella ingiustificata opposizione a una possibile via di rilancio economico. Il presidente della Regione, Emiliano, i cui passi da borghese da grand-élite non disdegnano le vie della smaccata demagogia, indulge nell'appoggio ai Notriv, per ricostruirsi un'immagine, dopo il deterioramento provocato da anni di potere. La Lucania, ora, gode degli effetti positivi dei ricavi da estrazione di petrolio, dopo avere combattuto tale possibilità. Messina è governata da un desperado agitatore che è riuscito a convincere l'elettorato della città a eleggerlo sindaco sulla stupida e autolesionistica promessa Noponte. Anni di studi di scienziati buttati nel cesso da un professore di ginnastica con la vocazione del protestatario. Certo, onesto rispetto ai soldi, ma privo dell'onestà intellettuale di ammettere che chi sa più di lui, sa più di lui. Vedrà anche il nostro David Bowie, marziano in Italia, che si processano i termometri non le febbri. In passato, da una procura italiana furono mandati avvisi di garanzia o mandati di comparizione a Reagan, Gorbaciov, Mitterand per commercio di armi nucleari. Il commercio di armi è stato anche il settore elettivo di alcuni magistrati per avviare procedimenti nei confronti di capi di governo e ministri della difesa. Tutti finiti in una bolla di sapone. In tema di termometri, sembra di questo genere il processo alle agenzie di rating in relazione al quale si sarebbero svolti costosi (e di dubbia utilità) accessi in uffici americani. La prima vittima di questo caos, è il sistema giudiziario italiano: migliaia di magistrati tessono la tela per una giustizia operosa e tempestiva, in silenzio facendo senza apparire, mentre altri appaiono senza fare (il caso de Magistris e le recenti assoluzioni di tutti coloro che lui aveva accusato di vari reati contro l'amministrazione). Eppure ci vorrebbe poco, se il governo Renzi, che si autoqualifica governo del fare, decidesse di mettere alla prova la capacità dell'Associazione nazionali magistrati di convenire una piattaforma di iniziative amministrative e legislative per dare ai processi tempi normali, analoghi a quelli degli altri paesi. Con ciò getterebbe un bel guanto di sfida. Per quel che riesco a capire, la sfida sarebbe accolta e dal caos creativo (e distruttivo) passeremmo a un ordine creativo, capace di battere la strada della certezza del diritto, della pena e della sentenza, un qualcosa che sembra, appunto, appartenere più a Marte che all'Italia repubblicana e democratica. Basterebbe riflettere sul felice esito della questione della caserma Manara, finalmente ceduta - ma solo dopo l'avvio di un'azione di coordinamento e pungolo della presidenza del consiglio - all'amministrazione della giustizia che lì concentrerà gli uffici giudiziari civili, lasciando l'infelice pseudobunker di Piazzale Clodio a quelli penali in una purtroppo ritardata razionalizzazione del sistema giustizia romano. Non è infatti vero che in Italia non si può cambiare nulla: fa solo comodo a pochi non cambiare nulla. Per gli altri, per la collettività cioè il cambiamento è vitale. Basterebbe pensare com'è cambiato il paese per la semplice (mica tanto) costruzione dell'Alta velocità Torino-Milano-Salerno per capire come serve intervenire nelle arterie della penisola rendendole tal quali la modernità pretende. Il nostro Bowie, infine, rimarrebbe senza parole osservando come una parte della sinistra storica italiana è fisiologicamente conservatrice e combatta tutto ciò che comporta, in fin dei conti, nuova occupazione (il ponte sullo Stretto) e futuri benefici per la collettività. La vecchia psicopatologia, tutti uguali, perciò poveri e disperati che ispirò le politiche economiche dell'Urss, continua ancora a colpire nella Corea del Nord e, per fortuna solo in modo marginale, in Italia. ItaliaOggi. Numero 016, pag. 5 del 20/01/2016.
Giustizia folle dopo L'Aquila: 200 inchieste, poche condanne. Anche in Abruzzo il sisma del 2009 scatenò le procure. Ma il bilancio è un flop: 19 processi e assolti a pioggia, scrive Giuseppe Marino, Mercoledì 31/08/2016, su "Il Giornale". Il dolore causato dal terremoto dell'Aquila, così come quello di Amatrice, non è risarcibile, eppure è nella natura umana cercare un colpevole. Ma a nessuno gioverà il tormento ricaduto sulle spalle di decine di persone finite nel mirino della magistratura dopo la tragedia. Spesso con risultati modesti, un copione da non ripetere ad Amatrice e dintorni. All'indomani del terremoto del 6 aprile 2009, proprio come sta accadendo ora tra Ascoli e Rieti, cominciò a spirare un potente vento giustizialista e non solo tra chi aveva legittimamente diritto a chiedere conto delle morti. La Procura dell'Aquila avviò duecento fascicoli di inchiesta sui crolli. A distanza di sette anni, i dibattimenti che risultano effettivamente aperti sono solo 19 e le condanne una manciata. Ci sono poi altri processi collaterali, come quello contro la Commissione Grandi rischi, terminato con una sola condanna. Ma è anche sul piano della «qualità» delle condanne che si può nutrire qualche dubbio visto l'esito di tanto sforzo giudiziario. Anche allora, come oggi, giornali e tv diedero in pasto all'opinione pubblica notizie di losche macchinazioni per appropriarsi cinicamente di soldi pubblici in barba ai rischi per gli edifici, sospetti su clamorose truffe nelle costruzioni che poi furono causa di morti. A guardare bene però, fin qui a pagare sono state un pugno di uomini, a loro volta spesso già colpiti personalmente dal terremoto. Sono due i casi clamorosi che hanno condotto a condanne definitive. Per i ragazzi morti alla Casa dello studente sono stati ritenuti colpevoli tre tecnici che eseguirono un restauro e il presidente della commissione di collaudo. Per il crollo del Convitto nazionale dell'Aquila, sotto le cui macerie morirono tre studenti, è stato condannato a 30 mesi un ingegnere della Provincia, ma in carcere è finito solo il povero preside Livio Bearzi, che in quell'edificio viveva con la sua famiglia, incolpato di «aver omesso di valutare l'enorme pericolo incombente» e non aver evacuato preventivamente l'edificio. Un caso umano, che ha spinto anche una richiesta di grazia e si è presto tramutato in servizi sociali per Bearzi. Tutti assolti in Cassazione invece per uno dei crolli più letali, quello dell'edificio di via XX Settembre, che provocò nove vittime. Bearzi non è l'unico caso umano tra i condannati. Ci sono anche un 80enne e un 84enne, accusati di aver conferito l'incarico di direttore dei lavori di restauro di un palazzo nel quartiere di Pettino a un geometra anziché a un ingegnere: quattro anni di carcere, nonostante il palazzo abbia retto al sisma dando modo a tutti gli inquilini di salvarsi e sia crollato solo dopo nove giorni. Ed è stato invece prosciolto il geometra. Ci sono poi tecnici che hanno dovuto combattere anni in tribunale. Come l'ingegner Diego De Angelis. Fu processato per il crollo di un palazzo di cui aveva curato gratis il restauro del tetto. Era il condominio in cui viveva e in quel disastro morì la figlia Jenny. Sette anni con il tormento per la perdita e per le accuse infamanti per poi essere assolto in Cassazione. «In una città come L'Aquila, con un sisma così forte molti crolli erano inevitabili - dice Gianluca Racano, avvocato aquilano che ha seguito alcuni processi - ma concentrare tutte le energie sulla caccia al colpevole è fuorviante, il problema della cultura anti sismica è politico».
Nordio, il pm contro: "Trovare i colpevoli? Una caccia alle streghe". "La nostra società non ammette l'imponderabile, non sarà facile dimostrare chi e se ha sbagliato", scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 31/08/2016, su "Il Giornale". La caccia alle streghe non gli è mai piaciuta e la rotta non cambia nemmeno oggi. Anche se ci sono i morti, i crolli, le rovine. «Dopo il terremoto - dice Carlo Nordio - si è scatenata una corsa spasmodica alla ricerca del colpevole, si additano presunti responsabili di qua e di là, ma questo meccanismo mi lascia perplesso. Mi pare che la società contemporanea, laicizzata, cerchi il capro espiatorio per superare tragedie che altrimenti sarebbero insuperabili, con il loro carico di morte e di dolore». Va controcorrente anche questa volta il procuratore aggiunto di Venezia, uno dei magistrati più famosi d'Italia, prima con un editoriale per il Messaggero, poi con questa intervista al Giornale.
Dottor Nordio, che cosa non la convince?
«Viviamo in un mondo che non accetta più il lutto, il cataclisma, il terremoto che ci annichilisce e annulla le nostre presunte certezze. Un mondo che ha perso il senso del sacro».
Certo, ma qui parliamo di costruzioni inadeguate, di ritardi, di soldi mal spesi o dimenticati.
«Un attimo, questo viene dopo».
E prima cosa c'e?
«Se la società non ammette più che ci sia qualcosa che sfugge al proprio controllo, allora subito dopo il disastro parte la caccia al colpevole. Per forza. A prescindere».
Scusi ma l'Italia è piena di tecnici che hanno chiuso gli occhi e di collaudatori che hanno certificato ristrutturazioni che gridavano vendetta.
«Non sono nato ieri e faccio di mestiere il pubblico ministero, ma segnalo un modo di ragionare che secondo me è distorto. Si parte in automatico alla ricerca del colpevole e, siccome siamo in Italia e tutto viene giurisdizionalizzato, il colpevole diventa imputato a furor di popolo e va alla sbarra. Mi pare che in questi giorni si stia assistendo allo stesso fenomeno».
Guardi che sono stati i suoi colleghi a denunciare anomalie, stranezze, incongruenze. Dovrebbero forse fingere che tutto è stato fatto a regola d'arte?
«Ovviamente no, ma ci vuole cautela, non si può procedere impulsivamente, sulla base di sentimenti e risentimenti».
Si faranno indagini e verifiche e alla fine chi non ha rispettato la legge sarà punito. Non è giusto che sia così?
«Si, purché si sappia che sarà molto difficile dimostrare le colpe che tutti oggi danno per sicure».
Perché?
«Perché non è affatto semplice arrivare a una condanna per omicidio colposo o per disastro colposo, il reato classico del terremoto. Attenzione: nel processo non basta stabilire che i lavori siano stati fatti male, no si deve dimostrare che se fossero stati eseguiti nel migliore dei modi quella casa oggi non sarebbe in macerie, quel campanile non sarebbe venuto giù, quella chiesa sarebbe ancora al suo posto. Capisce?»
Non si può andare avanti per slogan o tesi semplicistiche?
«L'Italia è un Paese complesso, parliamo di un patrimonio che ha centinaia di anni, parliamo di beni che hanno avuto una vita lunga e travagliata, parliamo di opere con vincoli di ogni tipo. Naturalmente per gli edifici costruiti negli ultimi anni il discorso è più facile, ma molte abitazioni sono il risultato finale di interventi spalmati nel tempo».
Il paragone con il Giappone non regge?
«Non sono mai stato in Giappone ma mi pare che i nostri borghi e le nostre città abbiano una fisionomia assai diversa dalla loro».
L'indignazione di oggi lascerà il posto ad un'interminabile guerra di perizie?
«È un rischio concreto: perizie e controperizie in un estenuante duello fra le parti. Con un ulteriore problematica: se scopriamo che i privati per risparmiare non hanno effettuato le migliorie previste che facciamo, mettiamo sotto inchiesta le famiglie dei morti?».
D'accordo, ma l'Italia è il Paese delle tangenti, delle abitazioni realizzate più con la sabbia che con il cemento, dello scandalo dell'Irpinia. Vuole forse passare con la spugna su decenni di ruberie?
«No, dobbiamo perseguire la tangente, il falso, l'abuso, ma il disastro colposo non ammette scorciatoie. E poi dobbiamo metterci in testa che nel codice penale non esiste l'imponderabile, anche se nel nostro Paese sono stati processati perfino i professori che non avevano previsto, poveretti, il terremoto dell'Aquila».
PARLIAMO DI RIFIUTI.
Rifiuti in viaggio nell'estate del caos: il Sud li esporta, il nord ci guadagna. L'inchiesta di Paolo Griseri del 26 luglio 2016 su “La Repubblica”. Nel Mezzogiorno gli impianti scarseggiano e l'immondizia emigra a spese dei cittadini. Alle 8 del mattino del 7 gennaio 2012, al molo 44 del porto di Napoli l'attracco della nave olandese Nordstream portò sollievo all'intera città. La nave avrebbe infatti trasportato all'inceneritore di Rotterdam qualcosa come 250mila tonnellate di rifiuti così liberando l'area vesuviana da un'emergenza che durava da anni. Ma a che prezzo? Le indiscrezioni dell'epoca parlarono di 100 euro a tonnellata. In tutto un contratto da 25 milioni tra l'amministrazione comunale e la società olandese. Molti gridarono al successo: i 100 euro erano quasi la metà dei 173 a tonnellata pagati all'epoca per trasferire la stessa immondizia in Emilia o in Puglia. Il turismo dei rifiuti, da allora, non si è certo fermato ed è un ottimo indicatore per misurare il tasso di inefficienza e di populismo della classe politica italiana. Risale ad appena due settimane fa un accordo tra le Regioni Puglia ed Emilia Romagna per portare da Sud a Nord 20mila tonnellate di rifiuti al costo di 192 euro a tonnellata. Di quel costo, 60 euro sono per il trasporto, 118 andranno agli inceneritori di Bologna e Ferrara che smaltiranno il rifiuto e altri 14 euro a tonnellata saranno destinati ai due Comuni che ospitano gli impianti. Che cosa giustifica i lunghi viaggi dei rifiuti attraverso l'Italia? E chi ci guadagna? I casi più recenti sono quelli di Puglia e Sicilia. In ambedue le Regioni la chiusura di discariche, private delle autorizzazioni necessarie per problemi ambientali, ha fatto crescere il livello di allarme. "Non farò la fine di Bassolino", ha promesso il governatore pugliese, Michele Emiliano, evocando proprio l'emergenza rifiuti a Napoli nei primi anni Duemila. Se l'Emilia accoglierà (e si farà pagare) i rifiuti pugliesi, Toscana e Piemonte sono i candidati più probabili per trattare quelli siciliani. Filippo Brandolini, romagnolo, presidente nazionale di Federambiente, l'associazione delle società che trattano i rifiuti, spiega che "in generale i problemi sono legati al fatto che nel Sud gli impianti di smaltimento sono meno numerosi che al Nord". "Basta molto poco - aggiunge - perché il sistema vada in crisi. La scarsità di impianti è legata al fatto che spesso le amministrazioni locali preferiscono portare altrove i rifiuti, pagando, piuttosto che affrontare le proteste dei cittadini per la realizzazione degli impianti di smaltimento. L'emergenza maggiore oggi è quella dei rifiuti organici che derivano dalla raccolta differenziata. Un recente inconveniente proprio a un impianto pugliese ha finito per mettere in difficoltà l'intera rete italiana". Ormai, sottolinea Federambiente, dei trenta milioni di tonnellate di rifiuti che ogni anno produce in media la Penisola, la parte maggiore, 13,5 milioni, proviene dalla raccolta differenziata. Dodici milioni di tonnellate finiscono invece in discarica. Gli inceneritori bruciano circa 5 milioni di tonnellate. Sono infine 300mila le tonnellate che ogni anno finiscono all'estero, anche partendo da Regioni del Nord: "Si tratta di un residuo secco che viene ridotto in coriandoli e diventa combustibile", spiega Brandolini. Il sistema italiano è particolarmente frammentato. La raccolta e lo smaltimento sono affidati a 463 aziende sul territorio nazionale, ma a queste vanno aggiunti circa 1.000 Comuni che smaltiscono in proprio, su terreni talvolta demaniali ma spesso di proprietà di privati. La frammentazione è molto spinta, al punto che il 4 per cento delle 463 aziende realizza il 40 per cento del fatturato del settore. Uno dei risultati della grande dispersione di aziende, anche qui soprattutto al Sud, è l'aumento dei costi a carico dei cittadini. Non solo perché gli oneri industriali aumentano, ma anche perché aziende con limitata capacità di trattamento finiscono per conferire nelle discariche o creare le condizioni per dover trasferire altrove i rifiuti, con un ulteriore aumento della spesa. Senza considerare l'effetto ricatto di quei privati che, proprietari di un terreno in un piccolo Comune, possono proporre tariffe fuori mercato sapendo che l'amministrazione non ha alternative. Così, nel 2015, la spesa media italiana per i rifiuti in una famiglia di tre persone che vive in un appartamento di 80 metri quadrati è stata di 271 euro. Ma si tratta di una media. Perché la stessa famiglia al Nord ha speso 239 euro, al Centro 279 e al Sud addirittura 317. La strada per abbattere i costi dovrebbe essere quella della concentrazione delle aziende e di una migliore distribuzione geografica degli impianti alternativi alle discariche. Secondo i dati del rapporto Ispra, nel 2014, dei 44 inceneritori italiani, 29 erano al Nord, otto al centro e sette al Sud. Insomma, tutto fa pensare che il "turismo dei rifiuti" sia destinato a proseguire anche negli anni a venire.
LE TERRE DEI FUOCHI. “L’Italia è una terra dei fuochi”. Lo rivela l’Istituto Superiore della Sanità. Ma l’informazione balbetta, scrive Marco Mastrandrea su "Articolo 21" il 13 gennaio 2016. «’O vogl’ squartat viv’», «‘o giurnalist’ je a spacc a cap’», «ve ne dovete andare». Sono solo alcune delle parole dei camorristi che hanno minacciato e aggredito fisicamente diversi giornalisti che hanno solo svolto il proprio mestiere nella Terra dei Fuochi. Nello Trocchia, Marilena Natale, Sandro Ruotolo, per fare qualche nome. Ed è proprio Ruotolo che attualmente vive sotto scorta dopo le minacce di Michele Zagaria, numero uno del clan dei Casalesi, a scrivere dal proprio profilo facebook: con la pubblicazione dell’11 gennaio a cura dell’Istituto Superiore di Sanità emerge «il più grande atto di accusa contro lo Stato, lo si aspettava da 20 anni, ora è arrivato: l’Italia è una terra dei fuochi». Il rapporto dell’ISS giudica «in eccesso rispetto alla media regionale» il tasso di mortalità, ricoveri e tumori nell’area. L’allarme drammatico riguarda anche i bambini: «si osservano eccessi di bambini ricoverati nel primo anno di vita per tutti i tumori e eccessi di tumori del sistema nervoso centrale, questi ultimi anche nella fascia 0-14 anni». Dopo tante difficoltà e tante battaglie condotte da giornalisti, studiosi, comitati e società civile finalmente una notizia che determina la gravità in cui versa un’area dove è presente un’importante fetta della popolazione campana. Ma se alcuni si sono sacrificati per raccontare una terra in difficoltà e soggiogata alla camorra, i quotidiani del 12 gennaio non sembrano ritenere i dati del rapporto ISS un caso grave, al punto tale da compiere una scelta editoriale di rilievo. Per “Il Mattino”, storico quotidiano partenopeo, la notizia va collocata nella sezione locale e solamente dopo il dibattito attorno alle comunali 2016 e la “festa dall’avvocato al barista” in doppia pagina sul Napoli, infatti, la squadra di calcio ha vinto il cosiddetto “campionato d’inverno”. E pensare che gli ultimi giorni del 2015 “Il Mattino” aveva rivelato con un’inchiesta di Gigi Di Fiore in parte le cifre contenute nel rapporto dell’ISS. Per il “Corriere della Sera” la notizia va posta nella sezione cronache a pagina 22 e dedica un minibox nella parte inferiore della prima pagina; la vicenda non viene menzionata affatto dalla prossima quarantenne “La Repubblica”. “Il Tempo” si arrischia con il titolo ad effetto: “La Terra dei Fuochi rom: 2000 roghi”, un’inchiesta in cui dall’area campana si fa un balzo nella Capitale con tanto di mappa corredata. Il lavoro del quotidiano si concentra su “la Terra dei Fuochi de’ noantri” con il dito puntato nei confronti della situazione “esplosiva nei campi rom”: appena citata la vicenda campana che funge da allaccio per l’inchiesta romana. D’altra parte, le parole di Sandro Ruotolo spingono ad approfondire il lavoro giornalistico e l’impegno di tutti attorno alla vicenda come necessità da cogliere in quanto sfida quotidiana non solo per chi abita queste terre: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più. Non sono Howard Beale del Quinto potere. E non sono uno scienziato. Ma un giornalista che ha raccontato la terra dei fuochi. Accusato di aver “esagerato”, di essere un catastrofista. Il rapporto dell’istituto superiore della sanità è una pessima notizia per tutti, perché purtroppo certifica quello che tutti sapevano e che in tanti hanno finta di non sapere. La terra dei fuochi è diventata la terra dei morti per avvelenamento. Noi che siamo vivi non lo possiamo sopportare più».
Il poliziotto comunista che ha scoperto la terra dei fuochi. Roberto Mancini è l'investigatore che per primo si è messo sulle tracce dei veleni sversati in terra di Gomorra. "Io morto per dovere" è il libro in uscita la prossima settimana che racconta la sua storia: dal collettivo comunista alle informative in cui descriveva il sistema camorra- massoneria- politica che ha ucciso un'intera regione. Fino alla sua morte, stroncato da un tumore contratto durante i sopralluoghi sui terreni colmi di veleni, scrive Giovanni Tizian il 5 febbraio 2016 su “L’Espresso”. Dalla barricate degli anni '70 alla trincea della terra dei fuochi. Sempre in prima linea. Sempre a sinistra e per la giustizia sociale. Nel collettivo studentesco del liceo Augusto di Roma all'alba degli anni di piombo, e poi poliziotto col Manifesto sotto braccio. Con o senza divisa, Roberto Mancini non ha mai abdicato ai suoi ideali. A 17 anni lottando con i “compagni” per una società più giusta, a 20, con il tesserino da sbirro, indagando sui crimini più squallidi. Il poliziotto Mancini non è un eroe. Negli ultimi anni della sua vita ha tentato in tutti i modi di sfuggire a questa etichetta. Lui sapeva bene che gli eroi servono a pulire la coscienza di chi non si sporca le mani. È comodo indicare l'eroe e poi starsene sul divano a guardare le imprese dei tanti paladini che salveranno questo mondo. Mancini è stato il primo poliziotto a investigare sui rifiuti tossici. Le sue indagini hanno anticipato di quasi due decenni la scoperta del disastro ambientale in alcune zone della Campania, la cosiddetta Terra dei fuochi. Quando era nella Criminalpol, a metà degli anni Novanta, Mancini ha smascherato la connivenza tra imprenditoria e camorra; tra politica, massoneria e bassa manovalanza criminale. Il risultato della sua inchiesta è scritto nero su bianco in un’informativa che, per qualche sconosciuto motivo, è rimasta chiusa in un cassetto per più di dieci anni. Mancini ha completato quel documento ormai storico senza mai curarsi dei rischi che correva. «Voglio credere che allora non fossero ancora maturi i tempi e l’opinione pubblica non fosse pronta» ha detto il poliziotto poco prima di morire commentando il fatto che le sue indagini fino a quel momento fossero state ignorate. I suoi sopralluoghi sui terreni inquinati e l'aria avvelenata respirata durante l'inchiesta sono stati la causa della malattia che lo ha ucciso lentamente. La storia di Roberto adesso è un libro dal titolo "Io, morto per dovere" in uscita il 12 febbraio. Scritto dai giornalistiLuca Ferrari e Nello Trocchia, edito da Chiarelettere, con la prefazione di Beppe Fiorello e la postfazione della moglie Monika Dobrowolska Mancini. La vita del poliziotto che scoprì la terra dei fuochi sarà anche un fiction (in onda il 15 e il 16 febbraio su Rai Uno), e sarà proprio Fiorello a interpretare Mancini. Il libro è un racconto intimo della gioventù di Roberto. Gli scontri coi fascisti e le sassaiole negli anni caldi delle rivolte, il sogno della rivoluzione, la vicinanza a Democrazia proletaria, la ferma condanna della lotta armata. E infine, quando il sogno di un mondo migliore era ormai stato distrutto dal piombo dei terroristi rossi e neri e dal compromesso storico, la scelta di entrare in polizia, «perché bisogna provare a cambiare il sistema dall'interno», tenendo sempre ben distinte la parola legalità dal concetto di giustizia sociale, che non sempre coincide con la prima. Frammenti di vita, speranze e illusioni, che gli autori riportano fedelmente facendo parlare i testimoni di quel periodo e gli amici più cari di Mancini. La prima parte del libro è un flusso di emozioni. La passione politica e l'impegno che pagina dopo pagina si trasformano in delusione per come evolve la società, stretta tra violenza e ingiustizia sociale. Ma “Io morto per dovere” è soprattutto un focus sul lavoro del poliziotto comunista. Le sue inchieste, le sue informative, i suoi rapporti inediti inviati alla procura antimafia di Napoli. Nomi, cognomi, affaristi dei rifiuti, massoni, politici complici che negli anni sono stati promossi a incarichi di prestigio. Un buco nero della democrazia dove regna il malaffare. Tutto questo, Roberto, l'aveva scritto prima di tutti gli altri detective. L'aveva intuito e indagato. L'informativa più importante di tutte è quella dei primi anni '90. Lì, tra quelle pagine intestate Criminalpol, c'era già tutto il sistema svelato dalle inchieste del 2000. Gomorra, Mancini, l'aveva conosciuta e raccontata due decenni fa. Ma nessuno lo ascoltò. Fino a quando un magistrato di Napoli non ha alzato il telefono e lo ha chiamato nel suo piccolo ufficio del commissariato di San Lorenzo. La richiesta del pm è semplice: gli chiede di sbobinare tutte quelle telefonate della sua vecchissima informativa perché gli servono nel processo contro Cipriano Chianese, l'inventore dell'ecomafia, il broker dei veleni, ora sotto accusa per disastro ambientale. Finalmente, l'impegno di Mancini viene riconosciuto. Chianese ha lavorato indisturbato fino ai primi anni del Duemila. Nelle discariche gestite da Chianese sono finite le schifezze d'Italia. Rifiuti industriali delle aziende del Nord. E rifiuti “legali” con l'autorizzazione dello Stato. Eppure, quel Chianese è lo stesso che Mancini descriveva, già nel '90, come un pezzo grosso del business illegale della “monnezza”. Quando era un avvocato, di Forza Italia, candidato al Parlamento. A metà tra massoneria, camorra e politica. Una cerniera tra tre mondi, i cui interessi stavano avvelenando una terra bellissima e fertilissima. Se solo quel documento eccezionale fosse stato considerato nella sua importanza probabilmente quei territori non sarebbero stati uccisi. Ormai è tardi per impedirlo. L'omicidio ambientale è compiuto. Roberto Mancini è morto di tumore. I complici insospettabili del clan dei rifiuti hanno fatto carriera. Ma non tutto è finito, non tutto è perso. C'è ancora una speranza per Roberto. È nell'opera di verità che sta cercando di compiere il pool antimafia della procura di Napoli. Il magistrato Alessandro Milita rappresenta l'accusa contro Chianese. In quel processo i rapporti firmati Mancini stanno giocando un ruolo decisivo. Dà fastidio alla camorra anche da morto. E in fondo, il compagno Roberto è contento così.
La fondina a destra e «il Manifesto» sotto braccio. Pubblichiamo un capitolo tratto dal libro 'Io, morto per dovere' di Luca Ferrari e Nello Trocchia, sulla storia del poliziotto Roberto Mancini. La storia è diventata anche una fiction, interpretata da Giuseppe Fiorello, in onda su Raiuno il 15 e il 16 febbraio, scrive il 5 febbraio 2016 “L’Espresso”. In libreria dal 12 febbraio per Chiarelettere il libro "Io morto per dovere, la vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi" di Luca Ferrari, Nello Trocchia con Monika Dobrowolska Mancini. La storia è diventata anche una fiction per la televisione, interpretata da Giuseppe Fiorello, che sarà trasmessa su Raiuno il 15 e il 16 febbraio. Quando Roberto parte per Trieste per seguire un corso di sei mesi, mamma Giovanna alla stazione Termini lo stringe in un forte abbraccio. Non una lacrima di fronte a lui, ma a casa afferra i panni del ragazzo, li annusa, se li passa sul viso e scoppia in un pianto dirotto. «Robe’, sei nato per farmi soffrire» ripeterà per giorni nella sua solitudine. Un nuovo cambiamento radicale, l’arruolamento in polizia dopo gli anni del liceo vissuti con la paura costante guardando in tv gli scontri di piazza e pregando perché il figlio «ribelle», come lo chiamava una delle sue docenti, tornasse a casa sano e salvo. E pensare che poco dopo sarebbe arrivata anche l’assunzione da parte delle Ferrovie dello Stato, ma Roberto ha fatto ormai la sua scelta definitiva: sarà uno sbirro in prima linea e non un capotreno. In quel periodo Mancini tiene un fitto carteggio con Gianni Angelici e la corrispondenza con l’amico scolpisce il suo stato d’animo. «Il mio allontanamento altro non è stato che il “frutto dei tempi”, non trovarsi più a proprio agio nell’ambiente nel quale sono cresciuto, in cui ho passato i momenti più belli e divertenti nonché i più tristi. Ho condiviso con tutti voi i miei pensieri, i miei stati d’animo di persona triste, ma a un certo momento mi sono reso conto che quelle cose erano ormai superate, storicamente determinate, e che era inutile continuare a vivere situazioni ormai passate, che era futile impegnarsi per ricercare episodi e momenti che, a loro tempo, avevano suscitato emozioni originalissime, ma che ora risultano assiduamente patetiche e nostalgiche.» E ancora: «La tristezza sale sempre più, il senso di nullità pervade tutto il mio essere». Roberto rimugina i pensieri mentre li scrive, quel cambiamento in atto lo sta mettendo senz’altro a dura prova: «Sono privo di qualunque certezza. Mi aiuterebbe molto in questo momento, e anche in altri, averti vicino per cercare di capirci fino al limite del possibile. [...] Erro misero e solo». Al giuramento la famiglia arriva al completo. La madre lo ritrova, fiero, dopo pochi mesi, nella sua divisa di ordinanza. C’è anche lo zio Betto, quello che era stato pestato dai neri, che si guarda intorno attonito e che mai avrebbe immaginato di trovarsi in quel luogo ad applaudire, orgoglioso, il nipote comunista e guardia. Di lì a poco Roberto sarebbe diventato il più giovane viceispettore di polizia d’Italia. Tornerà presto a Roma, al ministero dell’Interno. Come al solito testardo, capace. Sarà lui stesso, sul letto d’ospedale, poco prima di morire, a enfatizzare lo spirito che l’ha sempre contraddistinto, scrivendo: «L’essere quel che sono mi ha penalizzato. La professionalità dovrebbe essere l’unico elemento di giudizio, dovrebbe essere sempre presente nella valutazione delle capacità di un investigatore. E invece no! È obbligatorio obbedire agli ordini superiori al di là di ogni logica, al di là di ogni buon senso e così la carriera è assicurata». E ancora: «Per fare carriera devi essere quel che non sei. Devi uniformarti al comportamento della massa. Non devi discutere le decisioni dei superiori. Soprattutto non devi dimostrare che ne sai di più di chi deve decidere!». Sono queste le regole per avere successo in polizia, ma Roberto non si piega e qualcuno nell’ambiente non gli perdona il suo odio per la neutralità. «Il manifesto» sotto braccio procura la reazione di alcuni colleghi: «Ci siamo messi il nemico in casa» è la frase che serpeggia nei corridoi, e Roberto finisce a mettere in ordine le auto di servizio nella rimessa. All’Ucigos – l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali – dura poco: quello strazio, quell’ordine rarefatto, quella disciplina finta, quell’imposizione, quella boria, quel retaggio fascista non fanno per lui. Roberto parte di nuovo, inizia il suo giro per l’Italia, passerà diversi anni tra la Toscana e l’Umbria. Ogni città amori e sogni, divisa e conflitti. Tornerà a Roma alla Criminalpol per iniziare a occuparsi di crimine organizzato, siamo a metà degli anni Ottanta. Quell’esperienza lo porterà a indagare poco dopo sull’organigramma imprenditoriale, affaristico e politico che ha saccheggiato risorse pubbliche e devastato territori.
Tra roghi e indifferenza la Terra dei Fuochi continua a bruciare, scrive Marco Cesario il 3 Agosto 2015 su “L’Inkiesta”. Napoli. Il viaggio nella Terra dei Fuochi comincia quasi sempre qui, lungo una tetra strada che serpeggia tra caseggiati, pescheti e campi coltivati che s'estendono a perdita d'occhio. L’asse mediano è una strada a scorrimento veloce che collega Napoli e i comuni dell'hinterland partenopeo ai paesi del casertano. Basta percorrerne pochi chilometri per essere investiti dal lezzo acre e pungente dei roghi che spuntano qua e là nel territorio appestando l’aria di chi ci vive. Le rare piazzole di sosta che costeggiano la strada sono trasformate in improvvisate discariche a cielo aperto. Giuseppe Ruggiero, dirigente campano di Legambiente, fu il primo nel 2003 a coniare il termine “Terra dei Fuochi” in riferimento ai roghi di pneumatici e di materiali tossici che tempestavano la zona. Oggi come allora niente è cambiato e l’aria continua ad essere irrespirabile. Ogni giorno decine di segnalazioni vengono raccolte sulla pagina Facebook “La Terra dei Fuochi” mentre i riflettori su queste terre si sono quasi spenti, salvo riaccendersi improvvisamente quanto si torna a parlare di tumori che colpiscono gli abitanti della zona. Percorrendo questa strada, viene improvvisamente in mente quanto nota Alessandro Iacuelli nel suo libro-inchiesta “Le vie infinite dei rifiuti”. C'è stata una vera e propria mutazione del registro dello smaltimento dei rifiuti tossici. La tecnica di smaltimento con grossi camion e ruspe all’interno di cave abusive o laghi artificiali, dopo le decine di inchieste della magistratura, le dichiarazioni dei pentiti e i successivi scavi, è stata oramai accantonata e rimpiazzata da una nuova tecnica, più leggera ma ugualmente nociva perché costante. Il “piccolo smaltimento”. Piccoli furgoni o motocarri con fusti che vengono lasciati in un posto e poi bruciati con una tecnica rudimentale ma molto efficace: una base di pneumatici fuori uso sui quali vengono deposti i rifiuti tossici ricoperti di benzina. Spesso ad appiccare questi roghi sono poveri diavoli che non sono altro che l’ultima catena del processo. I roghi sprigionano alte colonne di fumo nero e altamente tossico. Ecco cosa rende l’aria qui completamente irrespirabile. I fusti vengono bruciati con una tecnica rudimentale ma molto efficace: una base di pneumatici fuori uso sui quali vengono deposti i rifiuti tossici ricoperti di benzina. A Frattamaggiore, Luigi Costanzo è medico di famiglia ISDE Napoli, e fa parte di una rete di medici che lavora per la creazione di un registro tumori del territorio. «Io sono medico di famiglia – spiega a L’Inkiesta Costanzo - e ho circa 1600 assistiti. Il medico di famiglia è quello che tocca con mano le realtà del territorio e conosce da vicino le patologie che ne colpiscono gli abitanti. Con altri colleghi abbiano cercato di raccogliere dei dati che noi come medici di famiglia abbiano nei nostri database. In questi database è già presente un piccolo registro tumori. Se incrociamo i dati di tutti i medici di famiglia del territorio possiamo, a tempo zero e a costo zero, effettuare una fotografia del territorio. Un progetto del genere è stato fatto a Casoria e si chiama EPI.CA (EPIdemiologia CAncro ndr). Sia i pediatri sia i medici di famiglia hanno estrapolato dei dati ed hanno dimostrato che c’è un aumento d’incidenza di tumori nel territorio dove questi medici di famiglia esercitano la propria professione. Io, per quanto riguarda la mia esperienza, ho assistito ad un aumento di patologie tumorali che colpiscono soprattutto giovani. Nello specifico per quanto riguarda il tumore alla mammella, su 1600 pazienti, ho cinque donne che sono al di sotto dell’età dello screening della mammella, che è i 45 anni, affette da patologie tumorali. Oltre a questo però, possiamo anche agire ad un secondo livello, ovvero quello della geo-localizzazione. Conoscendo dove abitano i pazienti possiamo anche geo-localizzare la malattia ovvero sapere se in una determinata area c’è una concentrazione maggiore di patologie rispetto ad un’altra. È un’operazione importante perché in quelle aree in cui ci sono picchi di malattia possiamo stabilire se è stato commesso anche qualche delitto ambientale e lasciare in seguito gli scienziati e gli epidemiologi studiare i nostri dati grezzi e stabilire il nesso e l’impatto sulla salute umana. In attesa del famoso registro tumori dunque possiamo già fornire delle prime risposte a quelli che sono i problemi che attanagliano il nostro territorio». Luigi Costanza è un medico di famiglia: «Per quanto riguarda la mia esperienza, ho assistito ad un aumento di patologie tumorali che colpiscono soprattutto giovani». Era il lontano 1991 quando un certo Mario Tamburino, camionista italo-argentino, correva in ospedale a Pozzuoli per un improvviso bruciore agli occhi che gl’impediva anche di vedere. Di li a poco sarebbe diventato completamente cieco. Quel bruciore era provocato da gocce di una sostanza corrosiva fuoriuscita dai fusti tossici (ben 571) che lui stesso aveva caricato a Cuneo, in Piemonte, presso un’azienda specializzata nello smaltimento di rifiuti pericolosi, e aveva scaricato in una fossa nelle campagne di Sant’Anastasia, a Nord di Napoli. Dall’inchiesta che ne scaturì nacque la parola “ecomafia” e si palesò un business di miliardi tra l’imprenditoria del Nord Italia e la classe politica campana. Due anni prima, nell’albergo ristorante ‘La Lanterna’ di Villaricca, un conciliabolo di politici, camorristi, mafiosi, esponenti della Loggia Massonica P2 e servizi deviati stringevano un patto diabolico per sotterrare nella Campania Felix milioni di tonnellate di rifiuti tossici. Ma gli scavi sarebbero iniziati molto tempo dopo grazie anche ad un metodo innovativo. A raccontare i passi salienti che hanno portato ai primi scavi è Sergio Costa, generale e comandante Regionale in Campania del Corpo Forestale dello Stato. «È accaduto circa quattro anni fa – dice a L’Inkiesta - quando io sono stato nominato Comandante provinciale di Napoli del Corpo Forestale dello Stato. Essendo considerato un esperto di investigazioni antimafia ambientali, ho iniziato, con quella nomina, a studiare fascicoli, a raccogliere dati e a elaborare un metodo investigativo innovativo: ho messo in relazione tutte le ortofotogrammetrie, le foto aeree degli ultimi vent’anni, le banche dati italiane, le ho raffrontate con ogni singola zona della superficie della Campania, soprattutto le zone di Napoli e Caserta, ed ho avuto l’idea di incrociarle con lo studio dei campi magnetici della crosta terrestre. Mettendo insieme foto in cui è palese che ci sono stati determinati movimenti e dati che dicono che non c’è un campo magnetico normale ma c’è qualcosa di anomalo ho tratto certe conclusioni. In più c’è stata l’attività di polizia info-investigativa (testimoni, denunce, prove sul territorio). Mettendo insieme tutti questi elementi e grazie anche alla creazione di un’équipe di esperti siamo riusciti a convincere il giudice ad effettuare il sequestro ed il successivo scavo. Col tempo abbiamo individuato le discariche di Caivano, Casal di Principe, Castel Volturno, Villa Literno, fino a quest’ultima recentissima di Calvi Risorta che potrebbe essere forse la più grande d’Europa (è grande circa 25 ettari). Finora abbiamo disseppellito circa 5 milioni di metri cubi di rifiuti tossici ma questo potrebbe essere solo il 25% del totale. Il resto è ancora da disseppellire». E i roghi quotidiani? «I roghi - spiega il generale Costa - dal punto di vista criminale, hanno la stessa matrice delle discariche abusive. Si tratta di rifiuti che attività in nero in regime di evasione fiscale ed evasione contributiva smaltiscono, seppelliscono o accatastano e bruciano. Si tratta di aziende che producono in nero e dunque smaltiscono in nero. Se non si aggrediscono queste aziende non si possono ottenere risultati di nota».
Come se non bastassero le tonnellate di rifiuti tossici seppelliti in queste terre oggi il ‘biocidio’ continua dunque sotto forma di roghi, che proliferano a tutte le ore del giorno e della notte, come ricorda l'attivista Vincenzo Petrella dei Volontari Antiroghi di Acerra. «Noi siamo un gruppo di volontari che nasce dalla necessità di dare un freno a tutti questi roghi appiccati a tutte le ore del giorno – spiega Vincenzo – e soprattutto la sera e a notte inoltrata. Giriamo la sera dalle 23 in poi facendo il giro di tutta la periferia a caccia di roghi appiccati, soprattutto in quelle campagne isolate dove potrebbero bruciare per tutta la notte e nessuno se ne accorgerebbe. Noi segnaliamo subito i roghi alle autorità e aspettiamo l'arrivo dei vigili del fuoco. Ma teniamo sott'occhio anche gli sversamenti». Enzo Tosti è un attivista che conosce molto bene le zone e fa parte del Coordinamento Comitati Fuochi. Davanti alla chiesa di Caivano, dove padre Maurizio Patriciello, simbolo della battaglia per la rinascita di un territorio inquinato dai rifiuti versati, s’appresta ad accompagnare un gruppo di missionari nella zona della discarica Resit di Giugliano, spiega: «Quando Legambiente parlò per la prima volta di Terra dei Fuochi parlava di un’area molto circoscritta, ovvero del cosiddetto triangolo della morte tra Nola e Marigliano. Oggi dobbiamo renderci conto che l’area non è soltanto circoscritta a quel triangolo ma è molto più vasta. Partiva da quelle zone per arrivare all’agro aversano e fino al litorale domizio, ovvero un’area che interessa milioni di abitanti. La zona è stata declassata da SIN (sito d’interesse nazionale) a SIR (sito d’interesse regionale) ma non perché la situazione sia migliorata ma perché lo stato se n’è voluto semplicemente lavare le mani. La Campania è soltanto la punta di un iceberg che evidenzia un sistema produttivo italiano ed internazionale non sostenibile e che non tiene conto né della vita umana né dell’ambiente. Il rogo poi non ha una matrice diversa da quella del seppellimento dei rifiuti tossici ed è strumentale ad un indotto industriale che lavora localmente al nero. Parliamo dell’industria tessile e calzaturiera locale collegata con le grandi griffe nazionali ed internazionali. A che punto siamo oggi? Tutto quello che ha sbandierato il governo non è servito a nulla perché i roghi continuano. La Terra dei Fuochi continua a bruciare». «A che punto siamo oggi? Tutto quello che ha sbandierato il governo non è servito a nulla perché i roghi proseguono. La Terra dei Fuochi continua a bruciare». Enzo Tosti, padre Maurizio Patriciello ed un gruppo di missionari si recano dunque in prossimità della discarica Resit. Qui la camorra ha sversato tonnellate di rifiuti pericolosi. Il 23 luglio scorso un incendio è divampato all’interno della discarica. Dietro le transenne ancora s’intravede un cumulo fumante. «È una sorta di autocombustione interna - nota padre Maurizio Patriciello - Chissà cosa ci hanno seppellito, qui è proprio un inferno e lo stato ci ha completamente abbandonati. Ricordo quando scoppiò il problema dei rifiuti in Campania. Ne hanno approfittato per mettere a tacere il problema più grosso e grave, ovvero quello delle discariche di rifiuti tossici». Enzo Tosti spiega che quando sei sotto vento e quell’aria ti entra nei polmoni stai male. «Io ho avuto conati di vomito e sono stato male tutto un pomeriggio dopo aver respirato quell’aria». È necessario allontanarsi dalle transenne, troppo pericoloso restare li. Dopo qualche minuto, proprio a fianco alla discarica, un contadino passa in auto. Si ferma a parlare con il parroco. «Don Maurizio - dice - qui potete aiutarci solo voi». Fa riferimento non solo alla discarica fumante che intossica l’aria ma anche a quei prodotti che non sono inquinati ma che nessuno compra più. Oramai oltre i danni ambientali ci sono anche quelli collaterali. Anche se i prodotti ortofrutticoli sono controllati e sani è difficile piazzarli sul mercato. Il vento spinge le esalazioni lontano eppure l’odore acre è insostenibile. Per evitare spiacevoli conseguenze, il gruppo si muove poche centinaia di metri più in là per un’altra visita sorprendente. Attaccato ad un'altra discarica e a poche centinaia di metri da un sito dove rifiuti pericolosi continuano a bruciare, sorge un campo rom dove risiedono settanta famiglie (circa trecento persone) di cui duecento bambini. I bambini giocano tra i rifiuti di una discarica a cielo aperto e respirano a pieni polmoni le esalazioni della discarica che pure quando il vento soffia in una certa direzione giungono fino a qui. Difficile non chiedersi come si possa lasciare vivere dei bambini in mezzo a discariche e esalazioni tossiche. È quasi come lasciarli in mezzo alle bombe. I missionari abituati a luoghi poveri d'Africa e del Sudamerica forse non si aspettavano di vedere tanta miseria e abbandono in un paese “civilizzato” come l'Italia. Uno dei responsabili del campo racconta che è lo Stato ad averli messi li dopo successivi sgomberi da altri campi. «Ci hanno messo qui per far morire i nostri bambini di tumore» protestano. Dopo un po’ il gruppo di missionari viene circondato da un gruppo di bambine. Sono incuriosite dai nuovi arrivati. Alcune sono bellissime, dagli occhi verdi ed i capelli arruffati. Altre camminano con i piedi scalzi nella melma sorridendo. Sguardi speranzosi ed innocenti il cui futuro è più cupo che mai. Il pensiero va subito ad Anna Magri, che qui, nella Terra dei Fuochi ci ha perso un figlio, il piccolo Riccardo, di soli ventidue mesi. Coi suoi grandi occhi verdi che si velano di tristezza nel ripercorrere le tappe di quella tragedia, Anna racconta la diagnosi, le cure e poi il terribile epilogo. Da allora, una ricerca continua delle cause e poi l’amara scoperta, quella Terra dei Fuochi e quelle discariche di rifiuti tossici disseminate ovunque. Dal dramma però nasce anche l’esigenza di federarsi con altre mamme, altri cittadini, attivisti per proteggere altre vite innocenti, per scoprire la verità, per aiutare questa terra martoriata a risorgere. Ultime tappa del viaggio a Villaricca. Maura Messina è nata qui ed ha solo ventisei anni quando le diagnosticano un tumore. Ha un’energia contagiosa e gli occhi che sprizzano una gioia quasi incontenibile. «Da quando sono guarita ogni giorno per me è Capodanno» dice sorridendo. Basta guardarla negli occhi per crederle. Ma la sua è stata una battaglia dura, che continua tutt’oggi. Maura racconta le cure, la paura, la difficoltà di mantenere le amicizie, il sostegno della famiglia e del ragazzo che l’hanno aiutata ad affrontare questa dura tappa della sua esistenza. Cosi, decisa a combattere contro il suo personale e terribile nemico, s'imbarca nella prova più dura e dolorosa della sua vita usando anche i mezzi della letteratura e del disegno per sopravvivere. Ne nasce così un diario che, con delicatezza, sensibilità e un tocco d'ironia, racconta per parole e per immagini la storia di una viaggiatrice in un altro mondo, quello difficile e oscuro della chemioterapia, da cui deriva il titolo del suo libro “Storia di una kemionauta” (Homo Scrivens). Non so se è la battaglia contro la malattia ad averla forgiata, la catarsi della letteratura oppure è proprio la sua natura gioiosa ma sentendola ridere di gusto tra le mura serene della sua casa è come se la Terra dei Fuochi tutta intera ridesse. Dei suoi mali, delle sue paure, della sua insospettabile forza.
Il Sud avvelenato dalla “monnezza di stato”: un nuovo libro sulla terra dei fuochi. Antonio Giordano, oncologo e docente alla Temple University di Philadelphia, e il giornalista Paolo Chiariello firmano un libro che ripercorre la storia dello scempio che ha portato alla terra dei fuochi tra le provincie di Napoli e Caserta, tra stato colluso, politica inerte, scienza negazionista e stampa omertosa, scrive Nunzia Marciano il 22 gennaio 2015 su “La Voce di New York". Monnezza di stato: è già nel titolo, esplicativo, diretto, duro, drammatico e paradossale che ben si comprende il lavoro dovizioso che diventa denuncia di Antonio Giordano, oncologo e direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine della Temple University di Philadelphia (oltre che columnist di recente acquisizione de La VOCE di New York), che, a quattro mani con il giornalista Paolo Chiariello, ripercorre lo scempio che ha portato alla terra dei fuochi, al disastro tra le provincie di Napoli e Caserta. Le Terre dei Fuochi nell’Italia dei veleni, questo il sottotitolo del libro con prefazione a cura di Franco Roberti, procuratore nazionale Antimafia edito dalla Minerva Edizioni. Le “terre”, perché non c’è solo la Campania, la morte non c’è solo tra Acerra, Giugliano e Casal di Principe. Il libro va oltre. Scoperchia i legami fittissimi tra la Camorra senza scrupoli, la politica inerte, lo stato connivente, la scienza negazionista e la stampa silente. La strada per uscirne c’è, “la strategia”, ci dice Giordano, “è nelle bonifiche di quei territori e soprattutto nella prevenzione per la popolazione (3,5 milioni di abitanti, nda) che vive quelle zone. Cittadini che sono suscettibili a sviluppare patologie in maniera più elevata rispetto ad altre zone”. Tra gli aspetti clamorosi poi, c’è l’atteggiamento della scienza “omertoso”, come lo definisce Giordano, su qualcosa che si sapeva da 40 anni. E neppure la necessità di non creare allarmismo può giustificare un atteggiamento del genere, poiché, continua l’oncologo, “l’allarmismo vale se si dicono cose non vere”.
Antonio Giordano: prima la conoscenza, poi la protesta. Quante sono le terre dei fuochi? L'Italia è tutta avvelenata?
«Nel libro analizziamo la realtà campana che, grazie all’attività della magistratura, della stampa, ma anche dei cittadini che si sono riuniti, spontaneamente, in associazioni, hanno portato alla ribalta un problema che affligge quel territorio così come altre zone d’Italia e, più in generale, del mondo. Pensiamo, ad esempio, all’Africa diventata la discarica dei Paesi più industrializzati, ma anche all’America. È evidente che il business dei rifiuti tossici è globale e che non conosce confini, tuttavia diversi sono i rimedi. In Texas, per esempio, sono state effettuate opere di bonifica che hanno drasticamente ridotto il problema e l’impatto sulla salute dei cittadini. In Italia troppo poco è stato fatto».
Nel suo libro ha evidenziato i legami strettissimi tra camorra, politica, imprenditoria e, persino scienza. Legami strettissimi, dicevamo. Come combatterli se anche la scienza diventa connivente quando nega l’evidenza?
«Il problema, come diceva, investe differenti categorie sociali. Questo è il motivo per cui non mi stanco di profondere il mio impegno all’interno delle scuole e delle università. La nostra generazione e quella precedente hanno fallito. La speranza del mondo sono i giovani di oggi».
Nel libro si parla di camorra e di mafia, ma anche di terrorismo. Qual è la differenza tra questi due tipi di criminalità?
«Sinteticamente possiamo dire che il terrorismo ha combattuto e combatte lo Stato dall’esterno mentre la camorra, così come la mafia, ha le sue estensioni e ramificazioni negli organi dello Stato attraverso referenti insospettabili e di spicco».
Il suo libro è molto divulgativo. Crede che basti scrivere per diffondere l'informazione? Crede nelle manifestazioni di piazza, nei cortei, nelle associazioni? È quella la strada da imboccare, quella della protesta?
«Credo che la protesta fine a se stessa debba essere definita sterile. La conoscenza dei problemi, invece, e la conseguente protesta, possono accendere i riflettori sulla questione ambientale e sconfiggere l’immobilismo in cui ci hanno costretti a vivere per oltre quarant’anni. Oggi i cittadini vogliono sapere, sono desiderosi di informarsi e di contare nelle decisioni che riguardano se stessi e le loro famiglie. Un esempio recente è quello dei cittadini di Ercolano che si sono stretti intorno al loro parroco, Don Marco Ricci, per raccogliere le firme e denunciare l’aumento delle patologie tumorali in una zona dove insiste una discarica di rifiuti tossici. Ecco l’opinione pubblica ha finalmente coscienza del problema e si unisce per denunciare. Dove i politici non provvedono, tradendo il mandato che gli hanno conferito gli elettori, si trovano di fronte alle proteste. È finito il tempo in cui ci si affidava alla classe politico dirigenziale. Oggi la gente ha capito che deve muoversi in prima persona».
L'America è oramai la sua seconda patria. Ma ci sono anche lì "terre dei fuochi" o è un fenomeno made in Italy?
«È innegabile che anche l’America viva il problema dell’inquinamento. La differenza rispetto all’Italia consiste nella certezza della pena. I colpevoli, una volta assicurati alla giustizia, pagano anche attraverso importanti risarcimenti ai danneggiati e alle loro famiglie. Inoltre, la classe politica americana così come quella amministrativa è più sensibile ed educata alla tutela del territorio. Forse perché beneficia, da sempre, di un maggiore e più costante ricambio generazionale».
Nel 1992, ha individuato e clonato il gene oncosoppressore RB2/p130, che ha una funzione di primaria importanza nel ciclo cellulare dal momento che controlla la corretta replicazione del DNA e, quindi, previene l'insorgenza del cancro. Lei, ad oggi, dirige lo Sbarro Istitute di Philadelphia: quali passi avanti sono stati fatti dalla sua scoperta? Ci sarà davvero un giorno la cura per il cancro? E, infine, crede che se ci fosse una cura "alternativa" questa potrebbe essere ostacolata dalle multinazionali farmaceutiche che non avrebbero interesse a diffonderla?
«I passi fatti dagli scienza dagli anni Novanta ad oggi sono immensi e sono sicuro che nel prossimo futuro ci saranno delle cure sempre più specifiche e tagliate su misura rispetto al male del paziente. Del resto questo già sta accadendo. Relativamente alle multinazionali posso dire che il condizionamento della ricerca da parte loro si concretizza maggiormente in quei Paesi in cui la ricerca è poco finanziata dal Governo, come ad esempio avviene in Italia. In America, invece, questo fenomeno è fortemente ridotto. Le grandi scoperte avvengono all’interno delle Università da sempre sostenute dal Governo Federale Americano. Mi auguro, quindi, maggiori investimenti nel settore della ricerca scientifica in Italia. Nessuno è immune, nessuno è innocente, nessuno che può tirarsene fuori. Tra gli attori del disastro sinonimo di morte che ha infangato anche l’immagine di ciò che ancora c’è di buono, c’è anche la stampa. E senza nascondersi dietro ad un dito, lo sottolinea il giornalista Chiariello: “Il ciclo dei rifiuti – spiega – era in mano ad aziende proprietarie di importanti testate nazionali ed è per questo che i messaggi in passato non sono stati divulgati, anche perché allora senza i social network, non c’era interesse a che le informazioni passassero. Oggi c’è un bel pezzo di società che ha capito che bisogna liberarsi da un'informazione non corretta”».
Una criminalità onnipresente, uno Stato inerme, una politica collusa, un'imprenditoria malsana, una scienza negazionista. E un'informazione che tace. Questi gli attori dello scempio, come descriveresti le responsabilità di ciascuno?
Qualunque discorso serio intorno ai veleni che respiriamo, alle acque avvelenate, alle terre che hanno ingoiato rifiuti d’ogni genere, non può prescindere da una premessa: non esiste solo una terra dei fuochi in Campania. È un dramma che colpisce anche altre regioni dove però si finge che il problema non esista. L’Italia è un Paese che deve sciogliere un nodo serio: ogni anno il giro d’affari in euro del traffico di rifiuti speciali, ossia della sola produzione industriale, si aggira sui sette miliardi di euro. Quel che inquieta è la discrasia nei dati tra rifiuti industriali prodotti e quelli smaltiti. In pratica sappiamo che produciamo un tot di tonnellate di rifiuti industriali, ma poi di fatto legalmente abbiamo dati secondo cui vengono smaltite decine di migliaia di tonnellate in meno. Che fine fanno questi rifiuti industriali che mancano all’appello? Dove vanno a finire? Chi li smaltisce? Dove vengono smaltiti? Molte tonnellate le stiamo trovando sotto terra tra Napoli e Caserta. Noi lo sappiamo. Sappiamo che questi rifiuti sono stati affidati a cifre irrisorie da imprenditori del Nord ai camorristi del clan dei Casalesi che hanno fatto fortune incredibili interrando tutto in Campania e in altre regioni del Sud. Se ne parla poco inspiegabilmente ma Lazio, Molise, Puglia hanno subito lo stesso affronto, le stesse ferite. E ora veniamo al resto della domanda. Tutto questo è potuto succedere perché Stato e Antistato spesso sono andati a braccetto. Negli anni passati si è realizzato tra Napoli e Caserta un patto scellerato tra Stato, Camorra e imprenditoria deviata, sulla pelle dei cittadini».
L’informazione è stata silente, ha taciuto?
«I fatti dicono che un giornalista è stato ucciso (Giancarlo Siani) perché voleva fare luce sui rapporti Stato-camorra. I fatti dicono che uno scrittore, Roberto Saviano, vive scortato, da fantasma, ed è costretto a stare fuori dai confini nazionali perché vogliono ucciderlo in quanto colpevole di aver acceso un faro permanente sui loschi traffici del clan dei Casalesi, quelli che hanno accumulato miliardi di euro con i rifiuti interrati sotto i nostri piedi. I fatti dicono che senza questi giornalisti e senza la gente che è scesa in piazza, si è ribellata, il dramma della terra dei fuochi non avrebbe mai avuto l’attenzione che meritava. Quanto alla scienza negazionista o positivista, non amo partecipare ai dibattiti sul nulla. La scienza si fa nei laboratori e negli istituiti specializzati, dove nasce una sana competizione. Quando la scienza esce da questi ambiti, diventa marketing e spesso fa anche cattiva comunicazione non è più scienza ma qualcos’altro. Non ne posso più di politici che parlano di scienze, scienziati che fanno politica, giornalisti che dicono messa e preti che fanno i reporter».
Vittime delle terre dei fuochi sono i cittadini. Quanta consapevolezza credi ci sia oggi rispetto al passato?
«Credo che l’attenzione e la consapevolezza della gente sia massima in questo momento. Troppi morti per tumori, troppa disattenzione dello Stato hanno costretto la gente a documentarsi, a confrontarsi anche con esperti per capire che cos’è successo, che cosa sta succedendo nella loro terra, perché tanti di loro muoiono di tumori, che cosa c’è di vero nella questione delle falde acquifere avvelenate, dei camorristi che hanno interrato i veleni».
Molti studi sulla terra dei fuochi, che in realtà sono "le" terre dei fuochi, partono dall'America: credi che all'estero ci sia una diversa libertà di ricerca e di conoscenza e, soprattutto, di espressione?
«In Italia libertà e indipendenza della ricerca scientifica, così come la libertà d’espressione e d’informazione sono aspetti della nostra quotidianità da incentivare, migliorare. C’è sempre troppa politica dietro scienza e informazione. Se siamo arrivati tardi a stimolare una sensibilità seria rispetto ai temi dell’ambiente forse la responsabilità è stata anche di una informazione un po’ superficiale e di una scienza che non sempre ha brillato per indipendenza dal potere politico. Sapere che il Governo federale americano trova risorse per finanziare una ricerca sulla salubrità dell’ambiente e delle acque in un pezzo d’Italia (la zona tra Napoli e Caserta) dove ci sono suoi concittadini che lavorano (militari e civili delle basi USA) fa piacere, fa rabbrividire che l’Italia non usi la stessa attenzione per i suoi cittadini sul suo territorio».
Molto spesso la stampa tace perché (come sottolineavi) è condizionata da chi ne detiene la proprietà. Questo significa che in Italia non esiste un'informazione libera? Come può un cittadino fidarsi degli organi di informazione?
«La libertà d’informazione quando è condizionata non la si può più definire libertà, proprio perché ha un limite nel momento in cui può essere condizionata. Dire che dietro certi gruppi editoriali importanti ci sono gruppi economici o anche politici è la rappresentazione di una verità fattuale che rende il nostro Paese una sorta di unicum nella comunità internazionale occidentale. In fondo quando parliamo di confitto di interessi, concentrazioni editoriali, a questo ci riferiamo. Poi però devo aggiungere che anche in questi gruppi editoriali, è il giornalista che può e anzi deve ritagliarsi il massimo della libertà. È qui, in questi contesti, che un giornalista italiano riesce a stabilire se è un cane da guardia delle istituzioni piuttosto che un cane da salotto o da riporto dei potenti di turno».
Monnezza di Stato descrive meccanismi e collusioni. Quali sono le difficoltà che incontra chi vuole raccontarli?
«L’Italia è un grande Paese, una grande democrazia e qualunque difficoltà incontri sul tuo cammino per raccontare una tragedia come quella della terra dei fuochi, dei veleni interrati, del futuro dei nostri figli avvelenato da camorristi e imprenditori senza scrupoli può essere superata grazie alla grande capacità che abbiamo di raccontare la realtà. Non esiste alcun impedimento se non la tua intelligenza nel cogliere il dramma, la tua capacità nel trovare le fonti giuste per raccontarlo e soprattutto il modo per illuminare pagine buie della nostra storia recente. Nella questione terra dei fuochi lo Stato ha avuto gravi comportamenti omissivi e commissivi. Lo Stato è andato a braccetto con i mafiosi in alcuni frangenti. Lo Stato ha agevolato l’esportazione verso la Campania di rifiuti industriali smaltiti illegalmente. Lo Stato ha ora l’obbligo di bonificare e controllare che le risorse usate non finiscano nuovamente nelle mani dei camorristi che hanno sporcato».
Carpiano, la terra dei fuochi in versione lombarda. Veleni oltre i limiti di legge: contaminati ettari di terreni tra il Pavese e il Milanese, scrive Patrizia Tossi il 16 settembre 2015 su “Il Giorno”. Dodici ettari di terreni contaminati dai veleni, un’area agricola coltivata tra il Sud Milano e il Pavese piena zeppa di metalli pesanti, diossina e sostanze potenzialmente pericolose per i geni umani. Secondo il dossier dell’Agenzia di ricerca europea di Ispra, i livelli di diossina presenti nel suolo sarebbero 25 volte superiori ai limiti di legge a causa di presunti «sversamenti pirata». Tutti sapevano da anni: il primo dossier europeo risale al 2007 e poi ce n’è stato un altro nel 2011, ma finora una fitta coltre di silenzio ha avvolto quel «quadrilatero nero» tra Carpiano, Landriano, Pairana e Bascapè. «L’ennesima terra dei fuochi lombarda», denuncia la consigliera regionale del Movimento 5 Stelle Iolanda Nanni, prima firmataria di un’interrogazione al Pirellone: «Ho iniziato a scavare tra le carte a seguito di una segnalazione dei cittadini – spiega Nanni, da tempo in prima linea per denunciare i problemi ambientali del territorio lombardo – ed è emersa una situazione inquietante. Le due ricerche Ispra attestano la contaminazione oltre i limiti di legge dei terreni da metalli pesanti, Pcb, furani, composti geno-tossici (vale a dire in grado di alterare il Dna, scatenando nel medio-lungo periodo l’insorgenza di tumori), che avrebbero inquinato i suoli con ricadute tossiche e nocive sulla catena agro-alimentare. Le istituzioni sapevano da anni, ma nessuno è mai intervenuto». Il dossier dell’Agenzia europea per l’ambiente non lascia spazio a dubbi e parla di un’area, per la maggior parte, «direttamente e soprattutto indirettamente pericolosa per la salute degli animali e dell’uomo». Ma non solo. «Ispra ipotizza uno ‘spargimento pirata’ di rifiuti tossici sui terreni – continua Nanni – e nello studio 2011 denuncia uno “stato di compromissione del suolo e della stessa vita degli organismi vegetali e animali che sono presenti nel suolo” della zona. È un’emergenza sanitaria gravissima, la Regione non può più tacere. Alla nostra interrogazione devono seguire risposte concrete». La cosa assurda è che quei terreni sono coltivati con prodotti destinati alla vendita, senza che nessun ente abbia mai imposto la sospensione dell’attività agricola, almeno a livello precauzionale. «Mi domando come sia possibile che le istituzioni competenti non abbiano immediatamente denunciato la situazione alla Procura competente – conclude Iolanda Nanni – affinché si verificassero le responsabilità penali, allertando contemporaneamente la Procura Antimafia di Milano. E come sia possibile che, dal 2007 a oggi, le istituzioni non abbiano vietato la coltivazione dei terreni contaminati, al contempo ingiungendo in modo perentorio all’azienda proprietaria dei terreni l’immediata e tempestiva bonifica dei terreni stessi, nonché il sequestro di qualsiasi prodotto agro-alimentare frutto dei terreni contaminati già presente sul mercato». E il sindaco di Carpiano? Nessuna denuncia, nessuna ordinanza per vietare la coltivazione dei terreni, nessun allerta per i cittadini. «E' vero che il caso è noto da tempo –risponde il primo cittadino Paolo Branca – ma la competenza sulla materia ambientale è del Pirellone. La Regione ha aperto un tavolo tecnico per approfondire la vicenda e noi, come Comune, abbiamo partecipato. È stata chiesta all’Arpa un’attualizzazione dei dati con nuove analisi sull’eventuale presenza di sostante inquinanti sui terreni, ma non ha ancora risposto». E prosegue: «Non mi risulta che esista un esposto in Procura. Come Comune non possiamo fare nulla. Il nostro è un territorio molto vasto, quei terreni si trovano lontano dal centro abitato e riguardano più da vicino gli abitanti di Landriano. Non ci sono odori, il caso è talmente datato che la componente volatile di eventuali sostanze inquinanti è già evaporata anni fa. Penso che sia più probabile che ci siano più metalli pesanti e sostanze tossico nocive nel terreno». E la falda? «Difficile valutare se sia stata contaminata la falda, bisognerebbe fare un’indagine accurata. L’agricoltore è attento a non coltivare una determinata area, ma 12 ettari sono tanti, non si tratta di un fazzoletto di terra, non posso dire se i veri perimetri sono gli stessi di quelli indicati dall’agricoltore».
Rifiuti, è qui la terra dei fuochi. Cinque volte più della Campania. La denuncia di fondatore di Marino Ruzzanenti, ambientalista fondatore di «Cittadini per il riciclaggio»: «La provincia di Brescia smaltisce 57 milioni di metri cubi di rifiuti tossici, quella di Caserta, nella Gomorra di Saviano, 10 milioni», scrive Bruna Bianchi il 5 giugno 2015 su “Il Giorno”.
Terra dei Fuochi del Nordè un’espressione che fa inorridire.
«E allora chiamiamola l’immondezzaio d’Italia». Marino Ruzzenenti ha l’età della memoria storica, quella di chi ha accumulato la lunga esperienza di cittadino di Brescia e la forza morale di un ambientalista convinto. Non è fanatico, non fa barricate: mette in fila i fatti e i dati. «La provincia di Brescia smaltisce 57 milioni di metri cubi di rifiuti tossici, quella di Caserta, nella Gomorra di Saviano, 10 milioni».
La verità fa male se si mettono in fila altri dati: l’incanto delle colline moreniche dei laghi, quelle dolci e succose di Franciacorta, le bellezze della Brescia antica attorniate da cave piene di amianto, pcb, metalli ferrosi. Ogni tanto qualcosa si incendia, i fumi neri escono dai comignoli degli impianti di trattamento e poi tutto tace e il lavoro dei camion e dello smaltimento prosegue, un tempo selvaggio, ora approvato a suon di piani e delibere.
«La situazione del Bresciano è del tutto eccezionale. Noi tumuliamo in discarica circa il 70 per cento dei rifiuti speciali della Lombardia. Questo territorio è diventato di rifiuti per vocazione»
Torniamo indietro nel tempo.
«Fino agli anni ’80 non c’era una legge sullo smaltimento dei rifiuti speciali e le cave di terra e sabbia erano buche perfette. Le aziende pagavano il proprietario e buttavano tutto lì».
Che tipo di scorie?
«Il 50 per cento dei rottami dell’industria siderurgica ha trovato posto in tutta la provincia di Brescia».
Altro?
«Non ci manca proprio niente! Abbiamo anche quattro discariche di scorie radioattive. Per una sola, a Lumezzane, è stato costruito un bunker».
E sottoterra c’è quello che ancora non è stato trovato...
«Decine e decine di cave chiuse nascondono rifiuti fantasma ricoperti da terra e erba. Sappiamo che esistono ma non sappiamo dove siano».
Signor Ruzzenenti, lei, insieme a Legambiente e altre associazioni ha fatto un lavoro certosino di denuncia.
«C’è un’indagine in corso alla procura di Brescia sui rifiuti tossici provenienti dall’estero. Come si dice? Rifiuto chiama rifiuto. Ormai qui è stata fatta una scelta produttiva, come le armi. Ad esempio, lo smaltimento dell’amianto a Montichiari in teoria è legale, ma quando un camion si è rovesciato è stato scoperto che non era trattato come avrebbe dovuto essere prima di finire in discarica. I controlli sono praticamente impossibili. Con l’autocertificazione si possono trasformare rifiuti pericolosi in non pericolosi».
È un bell’affare, no?
«Lo stanno facendo a spese nostre. Compreso Manlio Cerroni, il re della monnezza di Roma».
I bresciani cosa dicono?
«Cominciano a ribellarsi, osteggiano le nuove discariche. Hanno già dato tanto».
C’è anche l’inceneritore più potente d’Europa.
«Anche quello. In una città già avvelenata dalla Caffaro...»
Pure la Valcamonica ha scoperto la sua gatta da pelare...
«Il sindaco di Berzo Demo si è ritrovato in casa migliaia di metri cubi di scarti di alluminio provenienti dall’Australia».
Cosa chiede ai politici?
«Basta discariche e almeno una mappatura per sapere dove sono nascosti altri veleni. Non è tutto inquinato, sia chiaro: dobbiamo solo individuare il marcio per evitare che si estenda».
"Terra dei fuochi" alle porte di Torino, scoperta una discarica con 450 tonnellate di veleni. I finanzieri torinesi nella discarica abusiva a ridosso dell'abitato. Blitz della Guardia di finanza a San Gillio, alle porte del capoluogo: denunciato il titolare di un'immobiliare proprietaria dell'area dove erano stoccati rifiuti industriali pericolosi di ogni tipo compresi 120 quintali di amianto. I complimenti del ministro Galletti: "Liberiamo l'Italia dagli inquinatori", scrive il 28 agosto 2015 “La Repubblica". C'erano 450 tonnellate di rifiuti speciali pericolosi in un capannone industriale abbandonato a San Gillio, nel Torinese, alle porte del capoluogo e a ridosso del centro abitato. A scoprire la "terra dei fuochi" piemontese sono stati i militari del Comando provinciale della Guardia di Finanza di Torino. I finanzieri hanno notato sul piazzale, visibile anche dall'esterno, "cumuli disomogenei" di rifiuti in evidente stato di abbandono. Dopo aver individuato il proprietario e l'utilizzatore dell'area, che si estende per circa cinquemila metri quadrati, i "baschi verdi" sono entrati per le verifiche sui materiali eseguite insieme all'Arpa Piemonte. E' stata confermata la grave pericolosità dei materiali, riconducibili in parte all'attività di officina meccanica ed elettromeccanica e di stampaggio di materiali a freddo, svolta negli anni scorsi da una ditta di San Gillio dichiarata fallita nel maggio 2006, e in parte ad una società immobiliare attuale proprietaria del sito. Al termine delle attività di rilevazione, spiega la Finanza, sono stati sequestrati rifiuti speciali e pericolosi per circa 450 tonnellate, delle quali 430 provenienti da lavori di demolizione, 12 da fibra d'amianto e la restante parte, per oltre 6 tonnellate, di prodotti chimici da decontaminare. Il percolato dei materiali rinvenuti dai finanzieri, in parte, avrebbe potuto finire negli scarichi per il recupero dell'acqua piovana. Al momento l'amministratore unico dell'immobiliare proprietaria del sito è stato denunciato per deposito incontrollato di rifiuti; è anche stato segnalato al Comune per le violazioni in materia di edilizia e urbanistica, per avere effettuato lavori di demolizione in assenza di autorizzazione. Proseguono gli accertamenti per la messa in sicurezza del sito e per verificare eventuale contaminazione ambientale. "Liberare l'Italia dagli inquinatori": ribadendo questo obiettivo il ministro dell'Ambiente, Gian Luca Galletti, si è complimentato con la Guardia di finanza. "Le mie congratulazioni - ha detto - per l'importante operazione che ha permesso il sequestro di 450 tonnellate di rifiuti pericolosi nel Torinese. Contro chi avvelena il nostro territorio abbiamo scelto di condurre una battaglia senza quartiere, affiancando al tenace lavoro di magistrati e forze dell'ordine l'introduzione degli ecoreati nel Codice penale: una vera svolta per restituire la certezza ai cittadini di vivere in zone sicure sotto il profilo ambientale e liberare l'Italia dagli inquinatori".
Duemila incendi l’anno, ecco la terra dei fuochi de’ noantri, scrive Grazia Maria Coletti il 12 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Situazione esplosiva nei campi rom. I romani stremati dal fumo si ribellano. E in Campania l’Istituto di Sanità accerta aumento di tumori in 55 comuni La mappa dei roghi. Se ogni porta di casa deve essere una Porta Santa, tuteliamo anche le porte sante delle case dei romani, soffocate dal fumo dei rom. È questo il messaggio che arriva dagli esposti piovuti sui tavoli del prefetto di Roma, Franco Gabrielli e del commissario Francesco Paolo Tronca, impegnati nei giorni del Giubileo e dell’allarme terrorismo. Duemila roghi tossici in un anno e un solo arresto (due rom fermati dai carabinieri a Castel Romano a settembre), è questa la caporetto delle pene esemplari del decreto "terra dei fuochi" che non hanno fermato la terra dei fuochi "de’noantri". E i romani esasperati, chiedono un piano di salvataggio dai "terroristi-rom", «gli unici al momento - dicono - ad attentare alla vita di adulti, vecchi e bambini». Hanno ragione di temere? I risultati drammatici della ricerca dell’Iss sui 55 comuni della "Terra dei fuochi" campana ci dicono che in quella zona «si muore di più che in altre zone d’Italia», ci si ammala «più di cancro», anche tra i «bambini» nella fascia «0-14», e si «registrano più ricoveri». L’Europa ha condannato Roma più volte. 172mila390 i metri quadri di terreno, l’equivalente di 40 campi da calcio, sequestrati come discariche abusive dallo Spe della polizia locale del vicecomandante del Corpo Antonio Di Maggio. Interpellanze del parlamentare europeo Giovanni La Via e della Angelilli. Ma a Roma nessuno ha ancora monitorato l’aria prodotta dai quasi 2mila roghi, contati da Il Tempo con l’aiuto dei cittadini di ogni quadrante, perché una mappa ufficiale ancora non c’è. Considerando una media di 3-4 roghi a settimana, tutti i giorni d’estate, e giorno e notte, accesi anche più volte al dì, nei campi legali e tollerati - che ci costano 24 milioni di euro l’anno - si arriva a quasi mille. Altrettanti nella miriade di accampamenti abusivi, nella riserva delle Valle dell’Aniene, sotto i cavalcavia, sgomberati e ripopolati, con fonderie illegali in ogni quartiere: da Magliana a Tor Sapienza, da Ponte di Nona, a Ciampino, dal Nuovo Salario a Ciampino, da La Rustica fino alla provincia romana, specialmente a est. Come racconta la mappa pubblicata qui a fianco. E quando tira il vento non si salvano nemmeno i Parioli, come aveva già denunciato su queste pagine anche il comico Enrico Montesano. Mentre il web fa il pieno di post sulla pagina facebook "richiesta la chiusura del campo di via di Salone", dove i vigili del fuoco di La Rustica vengono presi sempre a sassate, che porterà alla manifestazione popolare in primavera per chiedere la chiusura anche di via Salviati, La Barbuta, vicino all’aeroporto di Ciampino, Castel Romano sulla Pontina, la Monachina, sull’Aurelia, Lombroso a Torrevecchia. Ma gli inceneritori a tutti gli effetti di rifiuti tossici speciali, da cui si sprigiona diossina, sono presenti anche in centinaia di microaccampamenti nelle radure del Pratone delle valli, nelle valli di Quartaccio, segnalazioni nel quartiere Quintiliani, Pietralata, via dei Durantini. Il comitato di quartiere Tor Sapienza è stato il primo a contare i roghi: «155 roghi in 15 mesi da via Salviati», con il presidente Roberto Torre che nei giorni scorsi lanciava l’anatema contro l’immobilismo. «152 roghi tossici in un anno da via di Salone» dice Franco Pirina, del Caop Ponte di Nona - qui i roghi, ultimamente, durante la notte e solo al mattino la gente si rende conto dell’aria irrespirabile». Il conto sale vertiginosamente con il campo di via Candoni, alla Magliana, e Candoni bis, fucina che arde, notte e giorno, e avvelena l’aria dei quartieri Marconi, Magliana, Casetta Mattei, Muratella, agli autisti della rimessa Atac servono gli antinebbia. Il capogruppo di Forza Italia in XI Municipio, Marco Palma, ha chiesto «l’esercito» al posto dei vigili urbani. «Già messi "ko" da schiere di minorenni». Aperte le «indagini» a un anno dall’esposto in Procura presentato dal consigliere regionale Fabrizio Santori.
Brucia la città, ma nessuno spegne i roghi, scrive Maria Lombardi il 4 febbraio 2016 su “Il Messaggero". Il fumo s'alza sulla via Olimpica, poco prima dello svincolo per Tor di Quinto, e disegna un arcobaleno nero. Dalla nuvola bassa e puzzolente sbucano comitive di rom, scavalcano il guardrail e attraversano la strada anche se non ci sono strisce pedonali, lasciandosi alle spalle il villaggio di lamiere che perennemente arde. C'è una Roma che brucia senza sosta, ignorata, ci sono intere zone della città condannate ai roghi, un inferno velenoso, peggio di qualsiasi altro inferno. C'è un'altra terra dei fuochi a dieci chilometri dal Quirinale e si va allargando. Quartieri soffocati dalle nubi pesanti delle baraccopoli. Magari ci fossero solo le polveri sottili, qui si respira aria ancora più malata e non si sa di che. Anneriranno in fretta le lenzuola bianche che i cittadini hanno appeso alle finestre, verranno presto corrose dai vapori di diossina. «Basta roghi criminali», c'è scritto. Decine e decine di striscioni nei palazzi di Conca d'Oro, Tiburtina, San Basilio, Casal Bertone, La Rustica, Tor Sapienza, Ponte di Nona. Chi abita in queste zone si sente perduto, il fumo dei rifiuti bruciati nei campi per prendere il rame può uccidere. Gli appelli finora non sono serviti, adesso è il momento della protesta corale, l'urlo esibito ai balconi. Roghi criminali, appunto, perché di crimini si tratta. Il reato esiste dal dicembre 2013 «combustione illecita di rifiuti», prevede il carcere dai 2 ai 5 anni, stessa pena per chi trasporta gli scarti con l'intenzione di dargli fuoco. Eppure gli incendi di Roma nessuno riesce a spegnerli.
Terra dei Fuochi, il sequel. Terni, Rieti e Viterbo nuova frontiera per rom e colletti bianchi, scrive “Libero Quotidiano” il 5 febbraio 2016. Terra dei Fuochi, il sequel. Come al cinema, il cancro criminale che affligge la Campania ha un seguito... a Roma e non solo. A raccontarlo è il giudice Mauro Santoloci, gip di Terni, membro della Commissione ministeriale per la revisione del Testo Unico ambientale e autore, con Valentina Vattani, di una collana di pubblicazioni sul tema delle eco mafie, intervenuto a Corretta informazione sui temi ambientali. Fonti ufficiali e fonti ufficiose, corso di aggiornamento promosso dall'Ordine dei Giornalisti dell'Umbria. "Sorvolando Roma di notte – ha spiegato Santoloci – non è difficile individuare un corollario di fuochi, in particolare nei pressi della tangenziale. Sono i roghi appiccati nei campi rom, destinati a smaltire rifiuti. Un meccanismo pericoloso, per la salute e per l'ambiente, nonché nocivo per le attività legali di smaltimento". Secondo le informazioni in possesso del magistrato "i rom si appoggiano ad una flotta di furgoni, guidati talvolta da schiavi bianchi, vale a dire persone disagiate, ad esempio immigrati, che per pochi euro ti smontano un pannello di amianto senza rispettare alcuna regola di sicurezza, lo caricano su un camion, lo portano alla discarica abusiva. Una giro per orchestrato, grazie anche alla conoscenza delle lacune (buchi neri, li chiama il gip, ndr) della nostra giustizia. Ad esempio, un vigile urbano mi ha raccontato che, in due mesi, ha fermato lo stesso mezzo trentasette volte, senza riuscire però a sequestrarlo". Il sequestro non è possibile, perché? La risposta è nell'ex art. 240 co. 1 c.p., che elenca i requisiti di confiscabilità di un autoveicolo usato per un illecito e la cui applicazione potrebbe sollevare incertezze sul nesso di asservimento/strumentalità che deve legare la cosa al reato. Interpretazioni normative a parte, ciò che lascia basiti è la ramificazione di questa piccola criminalità: seppure non classificabile come eco mafia, infatti, la rete rom è estesa è guarda già oltre la Campania e la zona di Roma. Ad esempio, Rieti, Viterbo, Terni sono "candidate" ad diventare una nuova Terra dei Fuochi. Santoloci: "In seguito ad azioni di repressione delle forze dell'ordine, è plausibile che l'attenzione dei criminali si sposti altrove, in città poco distanti dalla Capitale come questa (Terni, ndr) o come il reatino e il viterbese. Dopo aver appurato, chiaramente, che le aree interessate siano più 'tranquille', gli illeciti potrebbero trovare nuovi siti". I campi nomadi nei quali si "accendono" i fuochi sono un problema, vero, ma ostacolo non inferiore è quello dei colletti bianchi, vale a dire professionisti ed imprenditori insospettabili che alimentano il giro di affari che ruota intorno allo smaltimento abusivo. Il gip: "Alla Guardia Costiera chiedo di controllare non solo la bolla di carico, ma anche di aprire i container: i documenti sono in regola, però a bordo della nave hai tonnellate di materiale che poi viene trasformato e che torna, in Italia, sotto forma di prodotto per il mercato". Ecco cosa significa "colletto bianco": far apparire corretto ciò che non lo è. Come uscirne? Fra le soluzioni, il giudice propone anche una "formazione continua" sul tema dei rifiuti per le forze dell'ordine, sia per capire le modalità di gestione del traffico illegale, sia per rendersi conto che la domanda "è di mia competenza"? di fronte ad un potenziale illecito non è assolutamente da porsi. Nessun riferimento, invece, alla questione inceneritori che, proprio in queste settimane, ha ri-assistito a polemiche e manifestazioni di protesta dei comitati ambientalisti. In particolare, nelle ultime ore, il Comitato No Inceneritori di Terni ha aspramente criticato il voto favorevole all'articolo 35 dello Sblocca Italia, che permette la creazione di una rete di smaltimento a livello nazionale. Secondo il Comitato, infatti, ciò andrebbe a scapito di Terni i cui due impianti si troverebbero così a bruciare consistenti quantitativi di immondizia. Una circostanza che nulla ha a che vedere con la lotta al malaffare, ma che tuttavia lascia perplesse le organizzazioni cittadine, preoccupate per le eventuali conseguenze a livello ambientale e sanitario.
Terra dei Fuochi in Toscana, scrive Vanessa Roghi, storica, l'11 luglio 2015 su “Internazionale". Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna. Quando Beppe Fenoglio scrive Un giorno di fuoco, negli anni della sua giovinezza, l’acqua del fiume Bormida è già rossa, porca e avvelenata, ma la parola ambientalismo, in Italia, non esiste o è patrimonio di illuminate minoranze. Non si pronuncia mai, tuttavia, in presenza di un’altra parola: lavoro. Semmai fabbrica, ma lavoro no. Perché, come nella morra cinese, lavoro spazza via ambiente; che, come la carta, avvolge il sasso, la fabbrica. Ma è sempre meno forte della forbice, il lavoro appunto. Quando Beppe Fenoglio descrive il fiume Bormida, l’Acna di Cengio la conoscono solo i suoi abitanti e gli operai che ogni giorno timbrano il cartellino e producono coloranti e gas tossici, da più di mezzo secolo. Quando nel 1963 esce Un giorno di fuoco, Beppe Fenoglio è morto di cancro, ed è passato solo un anno dalla sentenza che ha costretto i contadini della val Bormida a risarcire l’Acna, ora di proprietà della Montecatini, per le spese di un processo durato 24 anni nel quale gli abitanti della valle hanno osato far notare che in effetti va bene l’acqua rossa, ma il fatto che nei campi non cresca un filo d’erba non va bene, o no? La Montecatini è cresciuta negli anni del fascismo, ha allargato la sua attività in vaste aree del Piemonte, della Liguria, della Toscana, dell’Emilia Romagna: risorse da sfruttare, acqua, manodopera a basso costo e sono nate alcune delle industrie più importanti della chimica italiana. “Montecatini”, scrive Alberto Prunetti Amianto “non è quella famosa delle terme e di Miss Italia, ma la Montecatini aspra delle Colline metallifere della Val di Cecina, in alta Maremma. La Montecatini che diventerà Edison, poi Montedison, poi si smembrerà in altre società, svenderà alcuni stabilimenti (…)”. La Montecatini, dalla quale sgorgheranno fiumi e fiumi di storie, storie di minerali e di fabbriche, storie di lavoro, scrive ancora Prunetti, “che hanno avvelenato e rovinato i polmoni con la silicosi, per poi impestare di fanghi rossi il mare di fronte all’arcipelago toscano e alla Corsica, smaltire ceneri di pirite nelle miniere scavate decenni prima e intossicare di metalli pesanti i fiumi e il mare”. Risorse naturali, acqua, manodopera a basso costo: vengono scavate nuove miniere, ampliate quelle esistenti: rame, zolfo, piriti, fino al grande incidente, quello del 1954, quando a Ribolla, vicino Grosseto, esplode il pozzo Camorra e muoiono 43 minatori. La storia è nota. Luciano Bianciardi e Carlo Cassola sulla tragedia pubblicano I minatori della Maremma. Poi arriva la prima grande crisi industriale dopo gli anni del boom, la crisi che porta l’Eni a rilevare la Montecatini, è il 1966, nasce la Montedison, l’Italia è in fase di “congiuntura”, ma l’industria chimica continua a crescere, a creare centinaia di posti di lavoro. La parola ambientalismo è sempre poco usata, poco la usa anche Antonio Cederna, pure tra i pochi in Italia a porre all’attenzione della politica il problema della tutela dell’ambiente insieme a quello della qualità della vita dei cittadini. Proprio nel 1966 pubblica su L’Espresso un’inchiesta sulla distruzione delle coste italiane, la sua attenzione è rivolta principalmente alla speculazione edilizia, nessuno ancora si pone il problema di come ben più grave sia la questione dell’inquinamento. Eppure gli abitanti della val Bormida continuano le loro battaglie, denunciano l’Acna, ancora non esiste l’orrenda espressione nimby (non nel mio giardino) e nessuno si permette di trattarli come dei terroristi, come succederà anni dopo ai loro omologhi della val Susa; ma in quei primi anni settanta lavoro vince su fabbrica che vince su ambiente. Questo fino al 1976 quando esplode a Seveso un reattore chimico destinato alla produzione di triclorofenolo, parola incomprensibile, ma tutti, dai quarant’anni in su ne ricordano un’altra: diossina. Ascoltatelo Marco Gisotti che racconta quel 10 luglio e la diossina sprigionata nell’aria che ricopre tutta la Brianza. Bisogna ricordarsele queste tappe, partire da lontano, allargare lo sguardo nel lungo periodo se vogliamo ricucire le tappe che da Seveso e diossina, e Acna e Cengio, portano a un altro luogo della memoria del movimento ambientalista italiano, ovvero l’incidente della Farmoplant che oggi possiamo ricordare attraverso un libro, La terra bianca, chi l’ha scritto si chiama Giulio Milani, la storia che racconta è questa. 17 luglio 1988. Il serbatoio Rogor della Farmoplant esplode. Tutti ricordano la nube nera che si solleva dalla fabbrica e spinge le persone a fuggire dalla città avvelenata. Quasi un anno prima, il 25 ottobre del 1987 il 75 per cento degli aventi diritto aveva votato per il referendum che chiedeva la chiusura immediata della fabbrica. È il primo referendum consultivo d’Europa per chiedere la chiusura di una fabbrica. L’eco ormai attutita di Seveso è appena stata risvegliata dal boato di Cernobyl. Risponde sì il 71,69 per cento, la fabbrica deve essere chiusa, perché dall’anno della sua apertura, il 1976, ci sono stati quaranta incidenti, il più grave, un incendio nel 1980 al magazzino esterno del Mancozeb – un pesticida cancerogeno tutt’ora impiegato in viticoltura. Segue la revoca immediata delle licenze per la produzione di Rogor e di Cidial, i due insetticidi considerati più pericolosi. Il 2 novembre 1987, scrive Milani, “la gerenza della Farmoplant licenzia in tronco tutti i dipendenti, perché afferma che senza la produzione di queste due richiestissime sostanze non ci sono le condizioni per proseguire l’attività”. Ma la Farmoplant vince il ricorso e tutti i lavoratori sono di nuovo assunti. Lo stabilimento riprende la produzione. “Naturalmente il Comune di Massa, Lega ambiente e i Verdi fanno ricorso al Consiglio di Stato contro la sospensione del Tar, e a marzo del 1988 il Consiglio di Stato sospende la sospensione”. Seguono mesi di commissioni, ricorsi e controricorsi. Il ministro dell’ambiente è Giorgio Ruffolo, la persona giusta al posto sbagliato, come titolerà il mensile di Legambiente, per la sua inerzia nell’affrontare il disastro che gli si riversa addosso. E arriva l’estate del 1988: gli ambientalisti propongono di impiegare gli operai, “durante la riconversione dell’impianto, nella bonifica dei 65 ettari di terreno contaminato dal complesso industriale, ma il progetto non viene neppure preso in considerazione dalla Montedison”. Nessuno si pronuncia, né il sindaco, né il ministero, né il consiglio dell’azienda. “In questa attesa il 17 luglio esplode proprio il serbatoio dei formulati liquidi che conteneva Rogor e cicloesanone”. L’annuncio del tg diffonde il panico nelle regioni confinanti malgrado il tono pacato al telegiornale di Luigi Frajese. Muoiono i pesci, muoiono le anguille, il divieto di balneazione appare sulle spiagge di Massa. Ma cresce la consapevolezza che senza determinate condizioni di sicurezza lavorare uccide, non stanca, come scrive nel suo libro un altro figlio di queste terre, Marco Rovelli. Un disastro ambientale che riguarda però anche un altro fondamentale settore produttivo, e questa è l’altra grande storia che Milani ricostruisce: “È stata Tangentopoli a indicare in che misura anche per il versante ligure-apuano e apuo-versiliese l’infiltrazione mafiosa – insieme all’arrivo della chimica di Raul Gardini – abbia accompagnato la nascita di un’economia di rapina a esclusivo appannaggio delle multinazionali del carbonato di calcio, fondata sul riciclaggio di proventi al nero e il commercio di rifiuti pericolosi”. Salvatore Calleri è il presidente della fondazione Caponnetto e, racconta Milani, ha denunciato come la Toscana, con trentacinque diverse organizzazioni criminali censite, non sembrasse rendersi conto di rappresentare una potenziale terra di conquista delle mafie. La chiama, Calleri, auto-omertà. Un silenzio indotto dalla paura di andare a incidere negativamente sulla rappresentazione pubblica della Toscana, marchio nel mondo, di buongoverno unito ad assenza di inquinamento del territorio, ma la “terra dei fuochi”, dice uno dei testimoni del libro di Milani “è anche qui, da noi e da ben prima”. Decidere quale sia la vocazione di un’area non è cosa semplice: polo chimico o cave di marmo, o addirittura turismo, o altro? “La Farmoplant”, scrive Milani, “chiude nel 1988. La Dalmine nel 1990, è l’ultima grande industria ad andarsene dalla zona. Gli operai della Dalmine sono l’aristocrazia. Ma dalla sera alla mattina perdono il lavoro in 1.500”. A quel punto la vocazione sembra essere una e una solo, quella del marmo: “Adesso i sindaci si stracciano le vesti per i lavoratori del lapideo”, dice a Milani un operaio in pensione, “ma in tutta la provincia è un miracolo se contano ancora duemila occupati con l’indotto e sono disposti a perdere la ricchezza delle montagne e dell’acqua, a sborsare cifre colossali per il continuo ripristino del dissesto prodotto dall’escavazione, dai trasporti su camion e dalla strozzatura della rete fluviale, a mettere a repentaglio la vita delle persone sotto le alluvioni e le frane pur di salvarli: chiediamoci come mai”. Qualche anno fa Roberto Barocci ha pubblicato un prezioso libretto, ormai esaurito, per Stampa alternativa, si intitolava ArsENIco. Come avvelenare la Maremma fino alla catastrofe ambientale. In questo si faceva la stessa, identica domanda: perché le istituzioni avevano accettato l’inquinamento delle zone minerarie della bassa Toscana, il colpevole ritardo delle bonifiche ambientali, ritardo che aveva finito per avvelenare terreni e corsi d’acqua, e corpi, dalle Colline Metallifere giù fino alla costa? Si domandava l’autore nell’introduzione: “Chi governa nel nostro paese? Nella Regione Toscana? Dove vengono prese le decisioni importanti che riguardano le risorse strategiche, dalla salute alle risorse idriche, al lavoro, alla qualità dell’ambiente…? Chi sono i mercificatori che si piegano a interessi di pochi e riescono ad imporre queste scelte anche agli onesti? Come può avvenire tutto ciò?”. “Avevamo bisogno di lavorare e le cose che dicevano sulla pericolosità delle produzioni ci parevano esagerate. Le istituzioni, i partiti, i sindacati, i tecnici: per tutti l’insediamento era sicuro, anzi, una vera benedizione per la zona industriale e per il nostro avvenire. I quadri dell’azienda abitavano nei dintorni della fabbrica, ma anche i politici abitavano non lontano. Se il pericolo c’era, c’era per tutti. Come si poteva pensare di essere ingannati fino a questo punto?”. Alla fine, comunque, questo rimane l’interrogativo più lacerante lasciato aperto dall’inchiesta di Milani, non le mafie, non le morti, non la fine del lavoro, ma questo: se il pericolo c’era, c’era per tutti, perché inquinare, avvelenare, uccidere? Mi raccontava qualche anno fa Sandro Veronesi una scritta che aveva visto una volta su muro: “Chi inquina l’acqua beve pure lui”. Ci ho pensato tutto il tempo a questa scritta mentre leggevo il libro di Milani, così come ho pensato alle acque rosse del fiume Bormida, all’arsenico della Maremma. Chi inquina la terra ci vive pure lui. Deve essere dunque solo una questione d’amore, senza altre spiegazioni, come suggerisce nella sua recensione a Milani, Annalisa Andreoni, parafrasando Brecht: “Sventurata la terra che non è amata dai suoi”.
Cantone: “Balle spaziali sulla Terra dei fuochi, mai trovato un fusto radioattivo”. “Vivo a Giugliano, piena Terra dei fuochi. E su questa storia so con cognizione di causa che si sono dette balle spaziali. Si è andati dietro alle parole di un pentito, Carmine Schiavone, che dal 1993 noi magistrati consideravamo inattendibile su questo argomento”. “Mai trovati fusti radioattivi. Mai, nemmeno un fusto. Quella del traffico dei rifiuti è una faccenda seria. Lei crede che le zone più industriali della Pianura padana siano meno inquinate della Terra dei fuochi? Nessuno si è occupato di queste faccende per decenni. Poi all’improvviso si è creato un mostro mediatico, tutto suggestione, umori, sensazionalismo, pigrizia, ignoranza, si è fatto confusione tra la spazzatura bruciata, quella seppellita e quella che appesta certe zone della campagna. Un polverone inutile, che adesso ovviamente si è depositato. Nel silenzio e nell’inazione”. “Io rispetto don Patriciello. Ma lui non è un medico, non è uno scienziato e non è nemmeno un poliziotto. Si è fatto un collegamento acrobatico tra i rifiuti interrati e l’insorgenza dei tumori. Un collegamento smentito dai tecnici. Ne è venuto fuori un pasticcio imprendibile. Lei pensi che alle ultime elezioni, lì dove abito io, si è persino presentata una lista che si chiamava ‘Terra dei fuochi’”. Raffaele Cantone (da un’intervista di al quotidiano Il Foglio – di Salvatore Merlo).
Lo smacchiatore d'Italia. Renzi e De Magistris, la politica e la giustizia, le banche popolari e l’antimafia, la simpatia per il Msi e il rischio di fallire. A tu per tu con Raffaele Cantone. Scusi dottore, lei è un moralista? “Ebbene sì”, scrive Salvatore Merlo il 2 Gennaio 2016 su “Il Foglio”. L’immagine suggerisce confidenza. Quante volte al giorno sente Renzi?
“Poche. Usiamo WhatsApp”. Ovviamente lei è un elettore del centrosinistra, si sente dire questo gran togato che gode della massima fiducia di Matteo Renzi. Silenzio. Occhi in movimento, come seguissero di soppiatto qualche orbita segreta, ticchettando calcoli occulti. Sorriso appena diffidente. Poi tutto d’un fiato: “Veramente ho votato anche altro”. Non mi dica Berlusconi. “Questo non dovrei dirglielo, ma una volta da ragazzino a Napoli feci ‘filone’ a scuola…”. E che sarà mai. “… E andai con gli amici a sentire un comizio di Gianfranco Fini che era allora il capo del Fronte della gioventù”. Ma va’. Poi Alleanza nazionale? “Movimento sociale. La mia collocazione è la destra”. Legge e ordine, dunque. Nulla a che fare, come si vede, con la formazione politico giudiziaria di Pietro Grasso o di Luciano Violante, più Antonio Di Pietro che Gian Carlo Caselli. “Ma non ho mai fatto politica, nemmeno all’università. Credo di non aver mai nemmeno votato per i rappresentanti d’istituto al liceo. Non mi sono mai iscritto a un partito”. E adesso? “Adesso faccio il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione”, trecento persone impiegate in un labirintico palazzo che si affaccia su Galleria Sciarra, a un passo dalla Fontana di Trevi, un luogo che per sapienza del destino fu anche l’epicentro del primo grande scandalo di corruzione della storia d’Italia: nel 1893 il padrone di casa, principe Maffeo Barberini-Colonna di Sciarra, fu implicato nell’affaire della Banca Romana. Così Raffaele Cantone, questo signore magro, di media altezza, semplice nel vestire (con un tocco eversivo: calze a rombi colorati in campo verde), cade ironicamente dalle nuvole: “Lei apre nuovi orizzonti alla mia fantasia”. L’autorità Anticorruzione nel palazzo del primo grande scandalo di corruttela. “E’ un divertente contrappasso”. Ma viene pure da pensare che altro stile non ci sia stato mai, sotto sotto, nelle cose d’Italia. “La corruzione è un fatto sistemico, fisiologico”, arieggia lui, con l’espressione dell’entomologo che descrivendo gli insetti giustifica anche la propria esistenza. “Nel 1900, il presidente del Consiglio Giuseppe Saracco istituì una commissione per indagare sulla corruzione e il clientelismo nel comune di Napoli. Gli atti di quella commissione sembrano scritti oggi”. Manzoni diceva che l’Italia è “pentita sempre e non cangiata mai”. E Cantone: “Se dovessimo ritenere che l’illegalità è immanente, dovremmo dire che c’è un tratto antropologico nel nostro paese. E io questo non posso accettarlo”. Renzi ha caricato di aspettative salvifiche totali questo magistrato che molti anni fa fece condannare all’ergastolo il boss della camorra Francesco Schiavone (“mai fatto il giudice, soltanto il pubblico ministero”). E già qualcuno lo chiama lo “smacchiatore”, come fosse un prodotto per lavanderia, da supermercato, da banco, è pronto all’uso e non c’è nemmeno bisogno di agitarlo: l’Expo (“è stato un successo, potremmo vivere di rendita ma non lo facciamo”), Mafia Capitale, poi le ecoballe in Campania, e ora anche le banche popolari, dopo il fallimento di Banca Etruria e di Banca Marche. “La storia degli arbitrati apparentemente non c’entra niente con l’Autorità anticorruzione”, ammette l’uomo della renziana provvidenza. Ma poi aggiunge: “Il nostro compito è di creare un meccanismo, un sistema per stabilire chi avrà diritto agli indennizzi e chi no”. Ma non tocca alla Banca d’Italia? “Quando avremo finito questa nostra conversazione dovrò incontrare il governatore Ignazio Visco. Ma guardi che l’Autorità è già dotata di una camera arbitrale. Voglio dire che non ci occupiamo di una faccenda completamente estranea alle nostre competenze. Insomma, non ci è stato mica chiesto di riformare il calcio!”. E appena pronuncia queste parole Cantone si blocca, come sfiorato da un’inafferrabile ombra associativa, da un dubbio… E se succede? Mai dire mai, dottore. Non sia precipitoso. E d’altra parte lui è stato investito del ruolo di autorità morale, di vestale della legalità, di salvifica fatalità dell’italico destino, anche se dice che non è vero, che è una supersemplificazione rozza, persino inquietante. “Cercare un salvatore è molto deresponsabilizzante per una società”, dice. “Sono le democrazie poco mature che cercano demiurghi e super-eroi”. Il Foglio lo ha spiritosamente eletto uomo dell’anno appena trascorso: il suo nome rimbalza ogni giorno e più volte al giorno tra i più alti seggi dell’empireo politico nazionale. Cantone è stato candidato a tutto: sindaco di Roma, presidente della Campania, sindaco di Napoli, e persino presidente della Repubblica. “La invito a verificare l’abisso che c’è tra le funzioni che i giornali tendono ad attribuirmi e quelle che effettivamente esercito”. E allora gli si riferiscono alcuni commenti ironici che lo riguardano, su Twitter. “Anche io vado a dormire. #Cantone mi rimbocchi le coperte?”, scrive @ValentinaMeiss. Poi un falso e ironico Gianni Cuperlo: “Dalle urne spagnole esce un paese ingovernabile. L’unica è chiamare Cantone”. E ancora: “Stanotte l’ho visto finalmente. Cantone Natale che scendeva per i camini a portare i regali”. E poi @FabrizioRoncone: “L’Inter ha chiesto a Cantone di seguire dal punto di vista psicologico Melo. Cantone, all’inizio un filo riluttante, ha accettato”. Persino Mara Maionchi, la madrina di “X Factor”, alla domanda su chi secondo lei dovrebbe essere il prossimo giudice nel reality show di Sky ha risposto così: “Ma che domande sono? Cantone, ovviamente”. Lui ascolta e sorride, con un atteggiamento di ritegno che pare allo stesso tempo di allerta. “Di tutto questo colgo l’aspetto ironico e positivo”, soffia, con una limatura di sorriso. “Ma respingo l’idea che io sia una specie di mister ‘Wolf’ o peggio una fogliolina di fico. E poi, guardi, che essere evocato per un compito non significa che lo stai svolgendo”. Sindaco di Roma? “Nessuno me lo ha mai chiesto, e io non avrei mai nemmeno accettato”. Sindaco di Napoli? “Me lo chiesero”. Eh, allora vede. Ora a Cantone tocca occuparsi anche delle banche, degli indennizzi, degli arbitrati… “Non sfuggo alle responsabilità, se sono confacenti alle funzioni della struttura che presiedo. Sarebbe sbagliato tirarsi indietro. Ma non sono disposto a fare cose per le quali mi sento inadatto. Roma, per esempio, non è la mia città. Non farei mai il sindaco”. E insomma ad animarlo è la certezza di essere attore e non agito. E c’è d’altra parte una foto, scattata da Filippo Sensi, il portavoce di Palazzo Chigi, nella quale Renzi è ripreso di spalle mentre Cantone gli sussurra qualcosa all’orecchio. L’immagine suggerisce confidenza, un rapporto intimo e segreto. Quante volte vi sentite al giorno? “Quasi mai”. Mai? “Ogni tanto un messaggio su WhatsApp”. E all’orecchio di Renzi lei cosa sussurra? “Davvero non sono in grado di sussurrare nell’orecchio del presidente del Consiglio… Che peraltro è uno che non si fa sussurrare nell’orecchio da nessuno”. Non ascolta. “Tiene in considerazione le opinioni”. Diciamo così. Anche nel governo Berlusconi, con le dovute differenze, s’intende, c’era una specie di Raffaele Cantone. Era uno che faceva tutto, risolveva problemi, si chiamava… “Guardi che faccio gli scongiuri, se mi paragona a Guido Bertolaso”, ride. Perché gli scongiuri? “Perché è finito male. Bertolaso è stato molto a lungo un personaggio positivo. Poi è andata com’è andata. Alla fine, gratta gratta, questo è sempre il paese dell’osanna e del crucifige, è sempre il paese di Masaniello. C’è una parte d’Italia che prova una contorta soddisfazione a veder cadere un simbolo nella polvere. La caduta permette poi di dire che nei comportamenti borderline siamo tutti uguali”. Ma in realtà la storia politica d’Italia è piena di tecnici finiti malissimo, e non per comportamenti borderline. Persino Mario Monti oggi si aggira per il Senato con la maestà malinconica delle rovine. E lo stesso vale per i troppi commissari alla spending review, per i super prefetti delle mille emergenze italiane e per tutti i salvatori della patria che con indifferente pendolarità questo paese ha masticato e sputato via in sembianze tragiche, o macchiettistiche. Tutte falene che si accostano al freddo fuoco del linguaggio politico e vengono immancabilmente e cinicamente buttate via dai loro sfruttatori non appena le loro grazie appassiscono. Dottor Cantone, per lei sarà diverso? “La tendenza a nominare commissari ogni volta che c’è un guasto è la prova che il sistema non funziona. Ma io non sono chiamato a gestire un’emergenza, non sono il tipico commissario, parola che evoca l’idea della straordinarietà. Il mio è un compito che sta nella fisiologia dell’amministrazione”. E davvero tutto in lui svela l’impegno di una vocazione stabilita fin dalla sua nomina, mantenuta nell’intonazione libera, ma accordata sui tempi musicali del renzismo, persino nel sorriso, che in lui non è raro ma è attento, come studiato. Lei è un moralista, dottor Cantone? “La parola morale non mi dispiace. Preferisco però la parola ‘etica’, quell’insieme di principi ai quali ancorare la propria attività. Dunque se con moralista si vuol intendere qualcuno che crede nella forza dell’etica, allora sì, sono un moralista”. In un paese in cui tuttavia i moralisti sono finiti troppo spesso moralizzati. L’Antimafia sociale, politica e giudiziaria è precipitata in una nera pozza con l’affaire dell’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata per corruzione e abuso d’ufficio a Caltanissetta. “L’incarnazione più completa e sorprendente, preoccupante, del professionismo descritto da Sciascia”, dice Cantone. La morale è dovunque conforme ai valori mutevoli nello spazio e nel tempo: con la prerogativa però, in Italia, di essere di generale convenienza. Si fanno anche carriere politiche così. “Perché l’Italia ha sete di legalità. Dunque ci sono anche i cinici, gli opportunisti, o gli sciocchi, come viene spesso raccontato, che la utilizzano. Ma io mi chiederei perché esiste questa patologia politica”, la patologia dei magistrati che per esempio fanno grandi inchieste pirotecniche, poi le abbandonano prima della sentenza come Antonio Ingroia, e ancora prima che un giudice smonti tutto in tribunale si candidano alle elezioni. “Questa patologia esiste perché c’è una domanda forte di legalità nel paese, che si esprime anche in questo modo. Con tutti gli inestetismi del caso. Luigi De Magistris, quando venne eletto deputato europeo, fu tra i più votati in assoluto. E a Napoli, quando si è candidato sindaco, è stato un plebiscito. La domanda da farsi è: perché De Magistris prese tutti quei voti?”. E perché li prese? “Li prese perché le persone ritengono che quello della legalità sia un nervo scoperto del paese. Se la gente vuole l’angelo vendicatore c’è un motivo. Può essere che sia immaturità dell’elettorato, ma può darsi che invece sia soprattutto un fortissimo desiderio di legalità. Allora la politica invece di lamentarsi della patologia, dovrebbe domandarsi perché la patologia ha grande successo. E porvi rimedio”. L’inchiesta che rese famoso De Magistris, la notissima Why not, si è poi afflosciata come un pallone sgonfio, anzi alla fine a essere condannato dal tribunale di Roma è stato proprio De Magistris: un anno e tre mesi per abuso d’ufficio. “Il paese accetta gli errori, le contraddizioni, gli inestetismi e le cadute di stile, come quella di candidarsi nello stesso collegio in cui si è indagato con grande clamore. Accetta persino il sospetto della strumentalità, e lo fa perché questi aspetti sono considerati meno importanti di una battaglia di principio. Della battaglia per la legalità”. E lei dottore, lei ritornerà a fare il magistrato? “Ad oggi la mia idea è di tornare in magistratura, ma il mio incarico all’Autorità anticorruzione scade nel 2020”. E insomma c’è tempo. E mai Cantone è stato iscritto a un partito, come dice. Ma a una corrente della magistratura, sì. “Al Movimento per la giustizia, che era la corrente di Giovanni Falcone. Sono stato presidente dell’Anm regionale in Campania. Sono stato segretario del Movimento per la Giustizia a Napoli, ho sempre fatto parte attiva nel mondo della magistratura organizzata. A Napoli creammo una lista che si chiamava “Primo maggio”, c’era anche De Magistris”. Siete amici. “Con Luigi? Eravamo amici, anche se lui mi ha un po’ punzecchiato di recente. Aveva la stanza accanto alla mia in procura”. E De Magistris, o’ sindaco di Napoli, è uno dei tanti magistrati contagiati dall’infezione della politica, uno di quelli che ha fatto “l’operazione”, contribuendo non poco all’ambiguità dei tempi. “De Magistris si è dimesso dalla magistratura”. Ma non sono troppi i magistrati in politica e nelle amministrazioni, persino quelli in aspettativa? “E’ un diritto che non si può negare, e un sistema che non garantisca il libero accesso alle cariche amministrative o rappresentative sarebbe un sistema ben poco democratico. Certo, ci vogliono regole d’accesso, ma il pluralismo delle provenienze arricchisce la democrazia. Il problema vero è il periodo successivo, sono le cosiddette porte girevoli”. Cioè i magistrati che dopo aver fatto politica tornano a indossare la toga, e senza passare dal via. “Alfredo Mantovano oggi è giudice in tribunale”, ricorda Cantone. E Michele Emiliano, da pubblico ministero di Bari, nel 2004 si fece eleggere sindaco della città in cui aveva indagato. Oggi è presidente della regione Puglia. Emiliano è un politico o è un magistrato? “La scelta delle dimissioni è un fatto personale. Non può essere obbligatorio”. Tuttavia Pietro Grasso si è elegantemente dimesso dalla magistratura. “Ma era prossimo alla pensione!”. Pausa. Sorriso. “Guardi, una cosa è sicura: chi ha fatto politica, poi non può tornare a fare il giudice esattamente come gli altri”. Sabino Cassese ne ha scritto sul Corriere di recente, persino il Csm ha evidenziato il problema. “Ma non può essere il Csm a intervenire. Sono la politica e il Parlamento che devono fare una scelta di fondo. La magistratura ordinaria ha già fatto molto, come organismo, nel “self-restraint”: ha rinunciato agli arbitrati, alla giustizia sportiva… Tocca alla politica assumersi la responsabilità di una scelta. Non si può prevedere per legge che un certo ruolo all’interno del ministero della Giustizia sia riservato a un magistrato, e poi stupirsi con recitato scandalo se è un magistrato a ricoprirlo”. E forse vuole dire che in questo astratto paese il nodo pratico e urgente delle questioni si diluisce sempre in dosi omeopatiche tra sguaiatissimi dibattiti da talk-show serale, tra furbizie e urlanti sceneggiate. E un motivo c’è se Cantone non è precisamente amato dai suoi colleghi dell’Associazione nazionale magistrati. La sua è una lingua basica, apparentemente priva di trappole, trabocchetti, doppi fondi. Sulla Terra dei fuochi, per esempio, Cantone non liscia il pelo del senso comune: “Vivo a Giugliano, piena terra dei fuochi. E su questa storia so con cognizione di causa che si sono dette balle spaziali. Si è andati dietro alle parole di un pentito, Carmine Schiavone, che dal 1993 noi magistrati consideravamo inattendibile su questo argomento”. Fusti radioattivi, inferno atomico nelle campagne intorno Casal di Principe. “Mai trovati. Mai nemmeno un fusto. E quando sono stati trovati rifiuti interrati, non erano mai dove diceva lui”. Ma la televisione sparava forte, per mesi, ci fu anche una prima pagina del New York Times. “Quella del traffico dei rifiuti è una faccenda seria. Lei crede che le zone più industriali della Pianura padana siano meno inquinate della Terra dei fuochi? Nessuno si è occupato di queste faccende per decenni. Poi all’improvviso si è creato un mostro mediatico, tutto suggestione, umori, sensazionalismo, pigrizia, ignoranza, si è fatto confusione tra la spazzatura bruciata, quella seppellita e quella che appesta certe zone della campagna. Un polverone inutile, che adesso ovviamente si è depositato. Nel silenzio e nell’inazione”. A Caivano, padre Patriciello, prete di strada e di popolo, malediva i pomodori dal pulpito. “Io rispetto don Patriciello. Ma lui non è un medico, non è uno scienziato e non è nemmeno un poliziotto. Si è fatto un collegamento acrobatico tra i rifiuti interrati e l’insorgenza dei tumori. Un collegamento smentito dai tecnici. Ne è venuto fuori un pasticcio imprendibile. Lei pensi che alle ultime elezioni, lì dove abito io, si è persino presentata una lista che si chiamava ‘Terra dei fuochi’”. E insomma, dice Cantone, l’emotività è gratuita, fine a se stessa, il suo proposito non è la risoluzione dei problemi (che per loro natura sono pratici, non filosofici né sentimentali), ma soltanto di creare sempre nuovi pretesti al suo libero e spensierato gioco ai danni dell’azione e persino dell’efficienza. E queste sono evidentemente posizioni che gli condensano attorno al capo vaste nubi di antipatia. Come quando, a Milano, presentando il libro dell’ex magistrato Piero Tony, disse che le correnti della magistratura “sono un cancro”. E Md? “Non mi piace l’utilizzo della giustizia come lotta di classe”. E l’Anm? “Non mi sento rappresentato”. E il Csm? “Un centro di potere vuoto”. Oggi Cantone dice che “molti di quei giudizi erano semplificati, perché si trattava della presentazione di un libro. E forse certe parole non le avrei dovute utilizzare, anche se esprimevano concetti di cui sono ancora persuaso. Per quelle frasi ho ricevuto attacchi violentissimi sulle mailing list della magistratura, ma ho anche ricevuto un numero rilevante di messaggi privati, di mail di incoraggiamento personale, da parte di moltissimi colleghi, attestati che ritengo importanti”. Anche l’Anm l’ha criticata. “Persino in questi giorni leggo giudizi molto severi nei miei confronti sulla questione degli arbitrati, critiche da parte di colleghi che a Napoli appartengono alla lista dalla quale anche io provengo, magistrati che forse mi votarono persino. Vede, l’Anm non è la magistratura. E la magistratura non è un monolite. E’ un potere diffuso che rozzamente alcuni politici pensano si muova come un partito. E’ ridicolo. E’ una cosa tecnicamente impossibile. La magistratura è composta da molti uomini e molto diversi. E anche l’esercizio di critica, la vivacità persino dura con la quale si discute, ne è una prova, oltre a essere un sintomo di salute democratica”. Berlusconi parlava di partito dei giudici. “Non solo Berlusconi. Ci sono uomini politici che pensano di poter influenzare un tribunale o una procura favorendo delle nomine, ingraziandosi alcune personalità della magistratura. Ma non è così che funziona. Questa è un’idea sciocca. Con tutti i suoi difetti la magistratura italiana non soltanto è un’istituzione libera da condizionamenti, ma è un fondamentale presidio di legalità”. Con tutti i suoi difetti. “La magistratura ha spesso esorbitato, ci sono stati esempi di protagonismo esasperato. Ma l’umanità, si sa, è un legno storto”. E bene ancora non si capisce quale ruolo lui sia destinato a giocare in quel labirinto di specchi, strumentalizzazioni e furberie che da circa vent’anni è il conflittuale e intrecciato rapporto tra politica e giustizia. Mezzo politico e mezzo magistrato, un po’ tecnico e un po’ no, attore del renzismo e agito da Renzi, sottoposto alla maledizione che sempre grava sugli uomini della provvidenza, Cantone è una delle creature più enigmatiche della nuova era italiana: non è Di Pietro e non è nemmeno De Magistris, non è uno di quei pm che ha indagato la politica e ha poi indossato la pelle dell’imputato. “Faccio solo il mio mestiere”, dice lui, gettando uno sguardo distratto all’orologio, nel suo studio ammobiliato come un ministero di fascia alta, divano e poltrone come si deve, l’arazzo settecentesco, il ritratto del presidente della Repubblica. “E’ mezzogiorno, devo scappare”, dice. Va dal governatore della Banca d’Italia. Come un ministro. Forse di più.
CHI TUTELA LA SALUTE DEI CITTADINI ???
RIFIUTI IN ITALIA. RACCOLTA DIFFERENZIATA: SI PARLA BENE, SI RAZZOLA MALE
Nei sacchi neri del Palazzo del potere finiscono carte intestate, caffè e avanzi di salame
Gigi D’Alessio, mito pop della cultura musicale partenopea, t-shirt gialla in posa davanti al Castel dell’Ovo di Napoli, esortava «Anche tu fai come me» e prestava così il suo volto alla campagna per la raccolta differenziata che il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo aveva fortemente voluto insieme al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Da lì è ripartita «Striscia la notizia», che il 22 settembre 2008, per inaugurare la 21ª serie, ha mandato in onda lo «scoop» dell’inviato Valerio Staffelli proprio sul comportamento dei palazzi del potere in materia di differenziata.
Le telecamere nascoste frugano nei sacchi di immondizia davanti a Palazzo Chigi (sede del Governo) e Palazzo Madama (Senato): ne escono pomodori, salame, caffè, bottiglie di plastica, carta intestata «Governo italiano». E il camioncino dell’immondizia riversa il suo contenuto in un camion più grande; di differenziata neanche l’ombra.
EMERGENZA RIFIUTI
Gestione ''arretrata'' dei rifiuti, ''grave emergenza'' in cinque regioni (Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia), produzione boom con 32 milioni di tonnellate nel 2005 contro i 26 milioni del '96, ancora primato assoluto della discarica con il 54% dei rifiuti urbani raccolti. Intanto la raccolta differenziata divide l'Italia in tre con il 38,1% al nord, il 19,4% al centro e l'8,7% al sud. Grave il quadro sulla gestione dei rifiuti speciali e pericolosi: ''Ben 26 milioni sono scomparsi nel nulla nel 2004''. Commissariati per l'emergenza ''un fallimento costato 1,8 miliardi dal '97 al 2005''.
Questa la fotografia scattata in un dossier al centro dell'VII Congresso nazionale di Legambiente presentato a Roma il 4 dicembre 2007 al convegno dal titolo ''Emergenza rifiuti, fuori dal tunnel - Le luci, le ombre e le proposte per superare la crisi''.
In particolare dal Congresso di Legambiente emergerebbe un'Italia con molte ombre e qualche luce. Ecco il pacchetto-immondizia che contraddistingue il nostro Paese:
Produzione: 32 milioni nel 2005 contro poco meno di 26 milioni nel '96.
Gestione: 54% dei rifiuti urbani prodotti finisce in discarica.
Raccolta differenziata: Italia a tre velocità. Nel 2005 il nord a 38,1% con punte record in Veneto con 47,7% e in Trentino Alto Adige con il 44,2%; il centro al 19,4% e solo in alcune aree allo standard del nord; il sud all'8,7%. Per le città, la prima su 103 capoluoghi di provincia è Novara con 66,9%, ultima con 1,8%. Milano è 43° con il 30,5%, Roma 64° con 16,2%, Napoli 94° con 6,1%.
Rifiuti pericolosi: 26 milioni di tonnellate scomparsi nel nulla nel 2004.
Ombre: in 4 anni la novità negativa più importante è il Codice ambientale (ora in revisione dall'attuale Governo); mancato avvio operativo per il sistema di raccolta dei rifiuti hi-tech; "incomprensibili proroghe" sul divieto di smaltire in discarica rifiuti indifferenziati non pretrattati, divieto previsto inizialmente dal 1° gennaio 2000.
Luci: crescita del numero dei comuni "ricicloni". Quelli con oltre il 35% di differenziata premiati nel 2007 sono stati 1.150 contro i 300 del 2000.
Emergenza: ancora in 5 regioni, Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia.
In Puglia e Sicilia il regime commissariale non è stato prorogato.
Commissariamenti: "Un fallimento da 1,8 miliardi di euro" spesi tra il 1997 e il 2005 senza alcun sostanziale miglioramento della gestione dei rifiuti.
Proposte: modifica del Codice ambientale; ecotassa con aumento dei costi smaltimento in discarica; raccolta porta a porta per spingere su differenziata; politiche e incentivi per riduzione di rifiuti e imballaggi; regime ordinario nelle regioni commissariate; premio economico all' attività dei Consorzi per il riciclaggio dei rifiuti.
PARLIAMO DI RACCOLTA DIFFERENZIATA DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI
I rifiuti solidi urbani (umido, carta, vetro, alluminio, ecc.) ed i rifiuti speciali sono una risorsa che può creare lavoro e ricchezza. Il valore del materiale raccolto ed il risparmio sul suo smaltimento porterebbe benefici per tutti:
ai cittadini che pagherebbero meno la tassa sui rifiuti;
ai disoccupati che troverebbero lavoro per la raccolta porta a porta;
alle amministrazione che coniugherebbero lavoro, risparmio, tutela ambientale;
alle imprese specializzate per il riutilizzo che avrebbero una vera raccolta differenziata.
Questo perché spesso non è raccolta differenziata quella che si fa. Tutti gli errori e gli orrori del riciclo spiegato da Anna Tagliacarne.
Differenziare è fondamentale, ma l’errore è sempre in agguato. Gettate i giornali nel cassonetto condominiale per la carta e trovate residui di pizza in un cartone? In quello del vetro adocchiate un piatto di ceramica e una pirofila in frantumi? Sono gli errori più comuni. Come la Barbie in mezzo alle bottiglie dell’acqua. O i vasi sporchi di terra. Ma cosa succede quando ciò che gettiamo in pattumiera non è adatto al riciclo?
VETRO - «Si crea un grosso danno al ciclo produttivo, soprattutto buttando ceramica e pirex in mezzo al vetro. I detector non riconoscono le particelle di ceramica, pur essendo macchine molto sofisticate, e quando il vetro viene triturato e compresso, anche la ceramica, che fonde a una temperatura differente dal vetro, viene inglobata nelle nuove bottiglie», spiega Walter Facciotto, direttore generale del Conai, Consorzio nazionale imballaggi. «Queste bottiglie però, che contengono particelle differenti dal vetro, possono scoppiare, sono a rischio». Quindi dipende da noi la qualità delle nuove bottiglie in circolazione. Riciclando un chilo di vetro si evitano le emissioni di CO2 di una utilitaria che percorre quasi 10 chilometri, secondo i dati del Coreve (Consorzio recupero vetro), mentre grazie al recupero e al riciclo di carta e cartone tra il 1999 al 2011 il Comieco (Consorzio nazionale recupero e riciclo imballaggi a base cellulosica) ha evitato la formazione di 222 discariche.
CARTA - «Per quanto riguarda la carta, l’errore più comune è buttare gli scontrini, carta termica che contiene solventi e aumenta lo scarto, oppure cartoni sporchi, con avanzi di cibo, che fermentano», continua Facciotto. Bisogna sottolineare che la raccolta differenziata è strettamente limitata ai soli imballaggi: e in questo senso gli errori più vistosi li registriamo tra i manufatti in plastica: giocattoli, articoli per la casa, articoli di cancelleria, da ferramenta e giardinaggio, piccoli elettrodomestici, qualsiasi oggetto in plastica o con parti in plastica, viene erroneamente buttato nella raccolta differenziata ma, per fare un esempio, una bambola o un gioco in generale, è prodotta con differenti polimeri, non riciclabili.
PLASTICA - Lo stesso vale per il vaso o la penna sfera, anche se privata del refill. Nella fase di selezione i singoli polimeri vengono separati prima del riciclo, e ciò che viene scartato va ai termovalorizzatori e recuperato energeticamente». Se con venti bottiglie di plastica (Pet) si fa una coperta in pile, con sette vaschette portauova si può tenere accesa una lampadina per un’ora e mezza, e le tonnellate di rifiuti in plastica raccolte in Italia lo scorso anno (dati Corepla, Consorzio raccolta recupero riciclaggio rifiuti imballaggi in plastica) sono pari a sette volte il volume della Grande Piramide in Egitto e a due volte il peso dell’Empire State Building. Considerando la mole dei rifiuti prodotti è quanto mai opportuno separare e riciclare al meglio. Anche perché i rifiuti «migliori» hanno più valore. Maggiore è la qualità del materiale che scartiamo, maggiore è il corrispettivo riconosciuto ai Comuni.
METALLI - Per l’acciaio, ad esempio, si va da un minimo di 38,27 euro a tonnellata a un massimo di 83,51 euro, per l’alluminio da un minimo di 173, 96 euro a tonnellata a un massimo di 426,79. L’Italia è al primo posto in Europa per il riciclo dell’alluminio: secondo dati Ciai (Consorzio imballaggi alluminio) nell’ultimo anno è stato recuperato l’80% degli imballaggi in alluminio circolanti nel Paese, mentre in più di dieci anni secondo il Consorzio nazionale acciaio sono state recuperate quasi 3 milioni di tonnellate di acciaio, l’equivalente in peso di 300 torri Eiffel. «Le buone ragioni per differenziare correttamente non mancano: tutto ciò che scartiamo è riutilizzabile come materia prima, se lo buttiamo correttamente», conclude Walter Facciotto. «Per questa ragione, dovremmo andare periodicamente alle isole ecologiche e smaltire là le lampadine, i piccoli elettrodomestici, i cellulari, il legno. È un piccolo gesto che ognuno di noi può fare per l’ambiente senza troppa fatica».
Ci siamo mai chiesti se e quanto convenga al cittadino fare la raccolta differenziata della spazzatura, anziché buttare il “tal quale” nel cassonetto?
La raccolta e lo smaltimento dei rifiuti ha un costo per la comunità: per le aziende di raccolta e per l’ecotassa di smaltimento alle discariche.
Il riciclaggio è più complesso dello smaltimento in discarica o negli inceneritori, cui non si sostituisce, ma che ne limita comunque l'utilizzo. Si parla di sistema di riciclaggio riferendosi all'intero processo produttivo, e non soltanto alla fase finale; questo comporta la raccolta differenziata dei rifiuti, passaggio fondamentale del processo. Per realizzare una raccolta differenziata efficace è di grande importanza la fase di differenziazione attuata dai singoli utenti. Il riciclaggio apre un nuovo mercato, in cui nuove piccole e medie imprese recuperano i materiali riciclabili per rivenderli come materia prima o semilavorati alle imprese produttrici di beni. Un mercato che si traduce pertanto in nuova occupazione. Se al ricavo effettuato dalla vendita dei materiali riciclati si destinasse anche il risparmio effettuato dalla mancata raccolta e smaltimento dei medesimi materiali, vi sarebbe un incentivo per nuovi posti di lavoro e una raccolta più efficace porta a porta. Invece le amministrazioni comunali, anziché programmare una raccolta intelligente e vantaggiosa dal punto di vista economico, la disincentivano, invitando i cittadini alla raccolta differenziata, senza diminuire, però, (anzi si aumenta), il costo TARSU pro capite. Probabilmente non è solo incompetenza, ma un rapporto losco di affari e corruttela, che non deve essere tranciato tra amministratori ed aziende di raccolta e smaltimento.
Non solo. Ci siamo mai chiesti chi decide gli aumenti e i ribassi delle nostra bolletta della luce?
Si tratta dell’Autorità per l’energia e il gas (AEEG), competente nella determinazione delle tariffe della luce e del gas. Non sono più Eni e neppure Enel a fissare il prezzo e le accise che andiamo a pagare, come spesso erroneamente ci comunicano i diversi call center. La AEEG con scadenza trimestrale pubblica sul suo sito diverse delibere contenenti i valori aggiornati delle componenti che andranno ad imbellettare la nostra bolletta. La bolletta italiana, anche se ai più non piace e non si fa capire, può almeno definirsi democratica, poiché sia a nord sia a sud i suoi costi rimangono invariati: c’è un’unica tariffa nazionale regolata. I costi della bolletta cambiano a seconda dell’utenza: pagherete la tariffa D2 se siete un consumatore residente con fabbisogno casalingo che non supera i 3 kW di potenza. Nel caso invece non siate residenti oppure nel caso i vostri consumi domestici superino una capacità di 3 kW pagherete automaticamente una tariffa più cara, chiamata tariffa D3.
Ma andiamo ad analizzare le voci segrete della bolletta: si parla di costi di trasporto, prezzo energia ed accise, ma in realtà le voci sottintese sono molte di più.
Quando accendiamo la luce, in realtà paghiamo:
una quota potenza, che rappresenta un fisso all’anno da moltiplicare al valore della propria potenza casalinga; il valore di tale quota varia a seconda della tariffa utilizzata;
una quota fissa, un fisso da pagare una volta all’anno;
una quota energia, ancora un fisso da pagare in base ai propri consumi, a copertura dei costi relativi alle infrastrutture dedicate al servizio di trasmissione, di distribuzione e di misura;
un prezzo energia, che è la componente che ci interessa di più, poiché va a coprire i costi di approvvigionamento dell’energia elettrica. Quando i fornitori di energia elettrica ci parlano di sconti si riferiscono solo a questa componente. Questo costo influisce per il 60% sull’intera bolletta della luce. E’ solo su questa voce che si devono fare i calcoli per eventuali sconti derivanti da impianti fotovoltaici domestici;
il prezzo dispacciamento, un piccolo costo che si riferisce alla gestione della trasmissione giornaliera di energia;
la componente Disp.BT, che va a coprire ulteriori costi del dispacciamento;
la componente UC1 che copre i costi dovuti all’acquisto dell’energia elettrica, tale componente non viene pagata se si è già passati al mercato liberalizzato.
Ora seguono le componenti chiamate oneri generali di sistema che incidono per l’8% sulla bolletta:
la componente UC3 è prevista per la perequazione dei costi di trasmissione e di distribuzione;
la UC4 è per le imprese elettriche minori;
la componente MCT è a favore dei siti che ospitano centrali nucleari e impianti del ciclo del combustibile nucleare, fino al definitivo smantellamento degli impianti (anche se in realtà ora non si parla più di smantellare ma di ricostruire centrali nucleari);
la AS è una componente introdotta il 1° ottobre 2008 per compensare le agevolazioni previste per quei clienti che usufruiranno della tariffa sociale;
la A2 è un’ulteriore componente per lo smantellamento delle centrali nucleari;
la A3 è per la promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili;
la A4 copre i tariffari speciali, previste per esempio per le Ferrovie dello Stato;
la A5 è per il finanziamento delle attività di ricerca e sviluppo;
infine la A6 è dovuta ai costi sostenuti dalle imprese in seguito alla liberalizzazione. Tale componente è al momento uguale a zero.
E ancora le tasse chiamate imposta erariale e accisa comunale che vanno a coprire il 14% dei costi totali della bolletta. E infine c’è l’immancabile l’Iva del 10% - 20%. È stata una lunga apnea, ma ora possiamo leggere con occhi più consapevoli la nostra bolletta della luce, e comunque capire che i costi fissi, rimangono tali, mentre solo i costi variabili, diminuiscono con l’uso del fotovoltaico, salvo che non diventa un onere il suo mancato uso.
Inceneritori, termovalorizzatori e discariche: che impatto hanno sulla salute? Dal pericolo delle discariche ai rischi della presenza di inceneritori, dal collegamento tra rifiuti e malattie alle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità: quanto è necessario sapere per capire i danni che può arrecare l’immondizia all’uomo e all’ambiente, scrive Margherita De Bac il 18 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera".
Cosa sono le discariche?
Sono in genere vecchie cave impermeabilizzate dove vengono stipati a vari strati i rifiuti compattati. L’immondizia produce percolato, liquido della decomposizione che se non viene raccolto bene e trattato in impianti di depurazione può inquinare le falde acquifere. Quando la falda si riempie possono essere autorizzati i sopralzi, le montagne di rifiuti che «ornano» alcuni panorami.
E gli inceneritori?
Quelli degli anni 50-70 bruciavano materiali eterogenei, in assenza di filtri, e rilasciavano dai grandi camini emissioni in grande quantità su aree ristrette con formazione e dispersione di diossina, una sostanza cancerogena. Gli inceneritori di seconda generazione (o termovalorizzatori) dovrebbero seguire le Best Available Techiques europee degli anni 90. Dovrebbero essere bruciati, in condizioni ben definite, materiali selezionati in modo da prevenire o ridurre la formazione di una serie di inquinanti. I camini sono alti e le emissioni si diffondono su aree vaste.
Perché la Terra dei fuochi è chiamata così?
È un’espressione degli anni Duemila che indica una vasta area della Campania, a cavallo tra Napoli e Caserta. I comuni all’interno del perimetro sono elencati in una legge del 2014: sono 55, poi estesi a 90. La denominazione si riferisce all’interramento di rifiuti tossici speciali e all’innesco di numerosi fuochi per eliminarli con conseguenze sulla salute della popolazione circostante.
Cosa si sa del rapporto tra rifiuti e malattie?
L’Istituto superiore di sanità con una legge del 2014 è stato incaricato di effettuare un aggiornamento della situazione. I dati, rilevati tra 2010 e 2011, sono stati pubblicati nel 2015 e, secondo quanto ha riferito il sottosegretario alla Salute Bartolazzi rispondendo a un’interrogazione parlamentare, hanno «evidenziato che il profilo di salute della popolazione residente nella Terra dei fuochi è caratterizzato da una serie di eccessi della mortalità, incidenza di tumori e ricoveri in ospedali per diverse patologie. Queste patologie fra i fattori di rischio includono l’esposizione a inquinanti rilasciati da siti di smaltimento illegale di rifiuti o alla combustione incontrollata». Nessuna ulteriore richiesta di approfondimenti è arrivata all’Istituto.
Esistono studi sull’eventuale impatto sulla salute dei termovalorizzatori?
Uno dei più completi è il progetto Moniter (pubblicato nel 2013 sulla rivista Epidemiology) che riguarda gli inceneritori di seconda generazione dell’Emilia-Romagna. Gli impianti moderni e ben controllati hanno un impatto molto minore sulla salute dei residenti, anche se è stato rilevato un eccesso di nascite pretermine.
Il tema del rischio legato ai rifiuti pericolosi come viene affrontato a livello europeo?
Nel giugno 2017 a Ostrava i 53 Paesi della Regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità hanno per la prima volta inserito fra le priorità il tema dei rifiuti pericolosi e dei siti contaminati. L’Oms già nel 2015 ha approvato un documento che insisteva sulla necessità di ridurre il più possibile la produzione di rifiuti e potenziare il riciclo e il riuso.
L’Oms come si è espresso sui rifiuti?
L’agenzia mondiale ha rilevato che resterà sempre una frazione di immondizia da smaltire ed è preferibile che ciò non avvenga nelle discariche ma negli inceneritori di nuova generazione costruiti secondo le Best Available Techniques, capaci di produrre energia. (Hanno risposto alle domande Pietro Comba, direttore del reparto di epidemiologia ambientale e sociale dell’Istituto superiore di sanità e Michele Conversano, direttore dipartimento prevenzione Asl Taranto).
Perché i rifiuti in Italia sono ancora un problema, scrive domenica 18 novembre 2018 "Il Post". Con pochi impianti adeguati e proteste che bloccano quelli nuovi, anche l'aumento della raccolta differenziata finisce per produrre guai: il risultato sono i roghi nei capannoni. Da un paio di settimane si è tornati a discutere della difficile situazione in cui si trova la gestione dei rifiuti in Italia. Il problema è che ci sono pochi impianti adeguati e c’è troppo materiale da smaltire, e la combinazione di questi due fattori – che ha varie cause – sta portando tutto il sistema in una situazione di stallo, non riuscendo più a sostenere lo smaltimento di tutti i rifiuti prodotti in Italia. Non si parla soltanto dei cassonetti stracolmi di alcune città che tante volte hanno fatto parlare di “emergenza rifiuti”, ma di un problema a monte che riguarda tutto il sistema nazionale della gestione dei rifiuti e che ha come conseguenza i sempre più frequenti incendi dolosi nei capannoni, le discariche abusive e gli impianti sovraccarichi di materiale, insieme alle nuove discussioni sugli inceneritori e sui termovalorizzatori.
Dove finiscono i rifiuti in Italia. Per capire da dove arrivino tutti i problemi bisogna prima spiegare rapidamente come funziona la gestione dei rifiuti in Italia. In generale la gestione dei rifiuti si può suddividere in due grandi blocchi distinti: operazioni di recupero e operazioni di trattamento-smaltimento. Delle prime si occupano principalmente gli impianti che gestiscono i rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata, mentre delle seconde si occupano discariche, inceneritori, impianti di trattamento meccanico-biologico: lo smaltimento viene definito tale anche se successivamente può avere come risultato secondario il recupero di sostanze o di energia. Per quanto riguarda il recupero dei rifiuti, l’Italia è un paese piuttosto virtuoso: eppure non basta a tenere in piedi tutto il sistema di smaltimento. Ogni anno più del 50 per cento dei rifiuti urbani – quelli prodotti dai singoli cittadini, e non dalle industrie – viene riciclato: un dato sopra la media dell’Unione Europea, dove viene sottoposto a riciclo il 47 per cento dei rifiuti urbani. Il 25 per cento dei rifiuti finisce ancora in discarica, un valore che il Parlamento Europeo ha stabilito debba essere limitato al 10 per cento entro il 2035. Nel 2016, secondo il rapporto del 2017 dell’ISPRA sui rifiuti urbani (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), in Italia sono stati prodotti 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, mentre sono state 135 milioni le tonnellate di rifiuti speciali (cioè i rifiuti industriali), a loro volta divisi in pericolosi e non pericolosi. A occuparsi del riciclo dei rifiuti urbani frutto della raccolta differenziata sono gli impianti di recupero, mentre per i rifiuti indifferenziati ci sono gli impianti di smaltimento. Tra quelli più utilizzati ci sono gli inceneritori (chiamati anche termovalorizzatori quando il calore prodotto dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per produrre energia) dove finiscono anche diverse tipologie di rifiuti speciali, come quelli ospedalieri e industriali.
La raccolta differenziata è un mercato chiuso. La raccolta differenziata è, paradossalmente, uno dei fattori principali che stanno causando questa situazione di stallo nella gestione dei rifiuti. In Italia se ne fa sempre di più – nel giro dieci anni si è passati dal 28,5 per cento del 2006 al 52,5 per cento del 2016 – ma succede che spesso venga fatta male, mischiando rifiuti che non andrebbero messi insieme. Gli impianti di riciclo che ricevono questi rifiuti dividono quelli riciclabili da quelli non riciclabili, e finiscono per riempirsi di materiale di scarto da avviare a smaltimento. C’è poi un altro problema che riguarda la raccolta differenziata, e cioè che se ne fa troppa rispetto alla domanda del mercato. I materiali derivati dal riciclo hanno sempre meno spazio sul mercato, e quello che non si riesce a vendere si prova a mandarlo in discariche o inceneritori. Quando questi ultimi sono pieni, però, può succedere quello che racconta Jacopo Giliberto sul Sole 24 Ore a proposito della plastica: «La plastica che non riesce a finire negli inceneritori viene accumulata dai riciclatori che non trovano acquirenti del prodotto finito, con un rischio grande di incidenti. Oppure finisce in mano alla malavita, che riempie di plastica di capannoni che bruciano».
La questione cinese. Non è l’unica, ma una delle cause principali del sovraccarico degli impianti è la decisione presa dal governo cinese l’estate scorsa di diminuire le importazioni dei rifiuti plastici e cartacei: una scelta che ha messo in crisi non solo l’Italia ma tutta l’Europa, che vendeva alla Cina gran parte dei suoi rifiuti differenziati. In Italia questa decisione ha riguardato soprattutto il settore della carta e in particolare quella da macero, cioè i residui impuri della carta riciclata: il blocco delle importazioni da parte della Cina infatti non ha riguardato tutti i materiali plastici e cartacei, ma solo quelli con impurità superiori allo 0,5 per cento. Nel 2016 l’Italia esportava 1,9 milioni di tonnellate di carta e più della metà finiva in Cina, che poi la riconvertiva in carta da imballaggio; ora che le nostre esportazioni di rifiuti sono in calo, il ciclo dei rifiuti ha avuto un improvviso rallentamento e gli impianti italiani si sono trovati con un surplus di carta da macero da smaltire.
“Not in my backyard”. A complicare questa situazione c’è lo stato attuale degli impianti italiani, sia di riciclo che di smaltimento. Per quanto riguarda i primi, alla buona notizia dell’aumento progressivo dei materiali da riciclare non è seguito nel corso degli anni un aumento del numero degli impianti, costringendo l’Italia a esportare sempre più rifiuti all’estero, in particolare verso Austria e Ungheria. Nel rapporto dell’ISPRA si nota infatti come nel 2016 i rifiuti esportati siano stati il doppio di quelli importati: 433mila tonnellate contro 208mila. La soluzione sarebbe la costruzione di più impianti, ma negli anni amministrazioni locali e proteste dei cittadini hanno rallentato l’espansione, chiedendo in molti casi la chiusura degli impianti esistenti. Si tratta del cosiddetto fattore nimby – acronimo per not in my backyard (“non nel mio cortile”) – ovvero l’ostilità della popolazione alla presenza nel proprio territorio di opere pubbliche, come appunto gli impianti di recupero o smaltimento, per la preoccupazione dei loro effetti negativi sulla salute o sul territorio. Questa ostilità ha riguardato trasversalmente tutta l’Italia e amministrazioni di tutti gli schieramenti politici, seppure con intensità e frequenze diverse. Possono succedere quindi cose bizzarre come le proteste per la presenza di un impianto di riciclo TMB (trattamento meccanico-biologico) nel quartiere Salario a Roma, di cui un comitato cittadino appoggiato dal PD chiede la chiusura a causa delle emissioni maleodoranti, e che è invece difeso dal Movimento 5 Stelle; lo stesso Movimento 5 Stelle che ne chiedeva la chiusura prima di governare la Capitale. Quelle per gli impianti di riciclo, però, sono solo una piccola parte delle proteste dei nimby. A creare più divisioni e scontri negli anni sono stati gli inceneritori/termovalorizzatori, le cui emissioni sono state il principale motivo di preoccupazione. Il dibattito sull’utilità o pericolosità degli inceneritori va avanti da anni, e anche in questo caso i partiti politici si sono dichiarati favorevoli o contrari, a seconda della situazione. Lo scontro più recente è avvenuto nei giorni scorsi all’interno del governo, in seguito a una visita del ministro dell’Interno Matteo Salvini in Campania. Salvini ha parlato della necessità di avere più inceneritori per lo smaltimento, sostenendo che «occorre il coraggio di dire che serve un termovalorizzatore per ogni provincia, perché se produci rifiuti li devi smaltire». A Salvini ha risposto il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, secondo cui in Campania «gli inceneritori non c’entrano una beneamata ceppa e tra l’altro non sono nel contratto di governo». Ai due si è aggiunto poi il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, anche lui contrario a nuovi inceneritori, con una risposta piuttosto semplificatoria: «Quando arriva l’inceneritore, o termovalorizzatore, il ciclo dei rifiuti è fallito». Il “contratto di governo” parla di rifiuti solo in modo molto vago, con i soliti richiami a “incentivare la raccolta differenziata”, ma senza essere più precisi: lo ha ricordato ieri Di Maio, aggiungendo che in Campania «non bisogna fare il business degli inceneritori ma bisogna fermare il business dei rifiuti». A proposito degli inceneritori, nel 2014 il governo Renzi inserì nel cosiddetto decreto “Sblocca Italia” un articolo, il 35, che prevedeva la costruzione di 12 nuovi impianti – da aggiungere ai 42 attualmente attivi – e la decisione fu molto contestata dalle opposizioni e dalle associazioni ambientaliste. Lo scorso aprile un ricorso presentato da alcuni comitati è stato accolto dal TAR del Lazio, che ha bloccato l’attuazione del decreto rinviandone la valutazione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea; alcuni giorni fa il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha fatto sapere che ne proporrà la modifica in Parlamento. La proposta di Renzi, però, già all’epoca aveva trovato l’opposizione del suo stesso partito a livello regionale. È il caso del Lazio, dove nel 2016 l’allora ministro dell’Ambiente Galletti chiedeva la costruzione di un nuovo inceneritore per migliorare la gestione dei rifiuti, e a cui si oppose il suo collega di partito, il presidente della regione Nicola Zingaretti, oggi candidato alla segreteria del PD. Non solo alla fine il nuovo inceneritore non si è fatto, ma il 16 ottobre per decisione di Zingaretti è stato chiuso l’inceneritore di Colleferro, che era rimasto fermo per oltre un anno a causa delle proteste dei cittadini.
I roghi nel Nord Italia. E arriviamo così ai molti roghi di rifiuti avvenuti negli ultimi mesi nel Nord Italia, una delle conseguenze più tangibili della grave situazione in cui versa il sistema della gestione dei rifiuti. Per capire la causa di così tanti roghi bisogna fare un passo indietro: con l’articolo 35 del decreto “Sblocca Italia” non si è solo proposta la costruzione di nuovi inceneritori, ma si è anche introdotta una nuova norma sulla gestione dei rifiuti urbani tra le varie regioni. Se prima dello “Sblocca Italia” i rifiuti urbani indifferenziati potevano essere smaltiti solo nelle zone in cui venivano prodotti, ora è possibile portarli in altre regioni. Questo ha aiutato le regioni del Centro e del Sud – con impianti e discariche spesso piccoli e tecnologicamente arretrati, e che rifiutano più delle altre di costruirne di nuovi – a portare i loro rifiuti nei più grandi impianti del Nord, ovviamente pagando, ma ha avuto diverse altre conseguenze. La prima è che gli impianti che si occupano di smaltimento al Nord si sono ritrovati saturi di materiale da gestire, e per poter continuare a ricevere rifiuti hanno dovuto alzare le tariffe; la seconda è che, con gli impianti pieni e i costi aumentati, sono diventati sempre più frequenti, specialmente in Lombardia, i casi di roghi in discariche abusive e capannoni abbandonati. Quello che succede è che alcuni imprenditori, piuttosto che cercare di portare i rifiuti in un impianto di smaltimento a prezzi elevati, preferiscono pagare qualcuno perché stipi i rifiuti in uno dei tanti capannoni vuoti del Nord Italia, a cui poi viene dato fuoco per liberarsi del problema. Ovviamente quello dei roghi non è un fenomeno che riguarda solo il Nord, visto che dal 2014 si sono contati più di 300 casi in tutta Italia, ma – come dice il ministro dell’Ambiente Sergio Costa – sarebbe ormai «qualcosa di strutturale».
Dalle città d'arte alle metropoli, tutti i volti (e i costi) della raccolta differenziata. L’analisi promossa da Utilitalia e realizzata da Bain, scrive il 16/02/2017 Adnkronos. Porta a porta o stradale con campane e cassonetti, monomateriale o multimateriale. Non c’è un modo unico per fare la raccolta differenziata in Italia dove, complici le caratteristiche geografiche, la gestione dei rifiuti e relativi costi sono influenzati da diverse variabili e ogni città è una storia a sé. Dalla raccolta delle grandi città come Milano o Torino, a Venezia dove i rifiuti si raccolgono con le barche nei canali; dalle città balneari come Rimini che vivono volumi differenti di rifiuti a seconda della stagione turistica, alle città d’arte con la loro viabilità limitata dal patrimonio architettonico; per non parlare di comuni montani e delle isole. La scelta degli enti locali e il lavoro delle aziende di igiene urbana può presentare scenari totalmente differenti, che vengono studiati da alcuni anni e lo scenario è tracciato dai risultati dello studio "Analisi Costi Raccolta Differenziata Multimateriale", promosso da Utilitalia, la federazione delle imprese dei servizi ambientali, idrici ed energetici, e realizzato da Bain, su un campione rappresentativo del Paese, pari al 24% della popolazione italiana. Secondo la ricerca, le imprese che utilizzano almeno una modalità di raccolta multimateriale sono il 94%. I modelli di raccolta sono principalmente cinque divisi in leggero (plastica-metalli e carta-plastica-metalli) e pesante (vetro-metalli, vetro-plastica-metalli, carta-vetro-plastica-metalli). Il modello leggero incide per il 47%, quello pesante per il 53%. In tutti e cinque i modelli è presente la raccolta di metalli. Quelli più diffusi sono: plastica-metalli (42%), vetro-plastica-metalli (25%), vetro-metalli (23%). Guardando alla categoria di rifiuto, per il vetro il modello più diffuso è quello ‘vetro-metalli’ (23%), per la plastica è plastica-metalli (62%), per i metalli è plastica-metalli (36%). Il porta a porta vince, sia pur di poco, con il 51% sulla raccolta stradale (49%). Nello specifico, quando il modello è il multimateriale leggero prevale il porta a porta con il 56%; quando invece il modello è ‘pesante’ la raccolta stradale arriva al 60%. Oltre il 30% dei rifiuti della differenziata sono raccolti con modalità multimateriale: circa 1,9 milioni di tonnellate all’anno (6% della produzione totale di rifiuti urbani) su un totale di oltre 6,3 milioni di tonnellate. Sono oltre 119 mila le tonnellate di carta e cartone (pari al 4% del totale) raccolte; più di 839 mila quelle di vetro (48%); quasi 819 mila di plastica (70%); oltre 132 mila di metalli (51% del totale). La percentuale sale al 56% escludendo dal computo carta e cartone. Perciò considerando soltanto plastica, vetro e metalli sono quasi 1,8 milioni le tonnellate raccolte con modalità multimateriale su un totale di quasi 3,2 milioni di tonnellate. “Non c’è un unico modo di fare le cose – osserva il vicepresidente di Utilitalia, Filippo Brandolini – ci sono delle variabili che cambiano in base alle caratteristiche del territorio, della popolazione, della stagionalità. Le aziende, in generale, sono attente a tutti i modelli che si stanno sviluppando perché soltanto da un’analisi comparata di dati effettivi, riscontrabili e statisticamente rappresentativi, si riescono a fare scelte di efficienza industriale e di riduzione dei costi di gestione”. Il costo di raccolta del multimateriale in Italia è pari a 185 euro a tonnellata. In generale per la raccolta multimateriale il porta a porta costa di più con una differenza che oscilla tra il 30 e il 40%. Costi maggiori che vengono riassorbiti però dal trattamento industriale successivo, che è naturalmente più basso quando concentrato su un'unica tipologia. Guardando invece alla comparazione dei costi, emerge mediamente una maggiore convenienza della raccolta con il sistema multimateriale rispetto a quello monomateriale. La ricerca rileva anche come, a fronte di una maggiore efficienza, i valori di intercettazione della differenziata pro-capite siano mediamente più bassi.
Rifiuti: costi e modelli della raccolta differenziata in Italia, scrive il 16 febbraio 2017 confservizi.emr.it. Non c’è un modo unico per fare la raccolta differenziata. Raccolta porta a porta o raccolta stradale con campane e cassonetti, ma anche raccolta monomateriale o raccolta multimateriale. In Italia, anche per le sue caratteristiche geografiche, la gestione dei rifiuti è influenzata da diverse variabili e ogni città è una storia a sé. Dalla raccolta delle grandi città come Milano o Torino, si va alle peculiarità di Venezia dove i rifiuti si raccolgono con le barche nei canali; dalle città balneari come Rimini che vivono volumi differenti di rifiuti a seconda della stagione turistica, si passa alle città d’arte con la loro viabilità limitata dal patrimonio architettonico; per non parlare di comuni montani e delle isole. Come è meglio raccogliere il vetro, la plastica, la carta, il metallo e le frazioni umide dei nostri rifiuti? Come cambia il costo del servizio di raccolta se basato su un unico cassonetto stradale, o anche sulle campane per il vetro e sui cassonetti per la carta o il ferro? È più utile la raccolta monomateriale, che segmenta ogni tipologia di rifiuto o quella multimateriale che accorpa nello stesso cassonetto vetro-plastica-metalli oppure carta-vetro-plastica-metalli? Quale è la scelta migliore perché un Comune raggiunga gli obiettivi di raccolta differenziata previsti dalla legge? La scelta degli enti locali e il lavoro delle aziende di igiene urbana può presentare scenari totalmente differenti, che vengono studiati da alcuni anni e lo scenario è tracciato dai risultati dello studio ‘Analisi Costi Raccolta Differenziata Multimateriale’, promosso da UTILITALIA – la federazione delle imprese dei servizi ambientali, idrici ed energetici – e realizzato da BAIN, su un campione molto rappresentativo del Paese, pari al 24% della popolazione italiana. Dopo l’analisi che nel 2013 Utilitalia e Bain hanno presentato sui costi della Raccolta Monomateriale dei rifiuti da imballaggi e quella del 2015 sulla Raccolta Differenziata della frazione organica (con un’appendice sulla raccolta indifferenziata) nel 2017 è la volta di uno studio sui diversi costi sostenuti dalle imprese sulla base delle diverse combinazioni e modalità di raccolta (stradale e/o domiciliare). La fotografia scattata dalla ricerca – presentata il 16 febbraio a Roma – offre alcuni dati su composizione, modelli, sistemi e analisi dei costi della raccolta differenziata, facendo anche una comparazione tra ritiro stradale e domiciliare. Le imprese che utilizzano almeno una modalità di raccolta multimateriale sono il 94%. I modelli di raccolta sono principalmente cinque, divisi in leggero (plastica-metalli e carta-plastica-metalli) e pesante (vetro-metalli, vetro-plastica-metalli, carta-vetro-plastica-metalli). Il modello leggero incide per il 47%, quello pesante per il 53%. In tutti e cinque i modelli è presente la raccolta di metalli. Quelli più diffusi sono: plastica-metalli (42%), vetro-plastica-metalli (25%), vetro-metalli (23%). Guardando alla categoria di rifiuto, per il vetro il modello più diffuso è quello vetro-metalli’ (23%), per la plastica è plastica-metalli (62%), per i metalli è plastica-metalli (36%). Il porta a porta vince, sia pur di poco, con il 51% sulla raccolta stradale (49%).Nello specifico, quando il modello è il multimateriale leggero prevale il porta a porta con il 56%; quando invece il modello è pesante la raccolta stradale arriva al 60%. Oltre il 30% dei rifiuti della differenziata – spiega il documento – sono raccolti con modalità multimateriale: circa 1,9 milioni di tonnellate all’anno (6% della produzione totale di rifiuti urbani) su un totale di oltre 6,3 milioni di tonnellate. Sono oltre 119 mila le tonnellate di carta e cartone (pari al 4% del totale) raccolte; più di 839 mila quelle di vetro (48%); quasi 819 mila di plastica (70%); oltre 132 mila di metalli (51% del totale). La percentuale sale al 56% escludendo dal computo carta e cartone. Perciò considerando soltanto plastica, vetro e metalli sono quasi 1,8 milioni le tonnellate raccolte con modalità multimateriale su un totale di quasi 3,2 milioni di tonnellate. “Non c’è un unico modo di fare le cose – osserva il vicepresidente di Utilitalia, Filippo Brandolini (nella foto) – ci sono delle variabili che cambiano in base alle caratteristiche del territorio, della popolazione, della stagionalità. Le aziende, in generale, sono attente a tutti i modelli che si stanno sviluppando perché soltanto da un’analisi comparata di dati effettivi, riscontrabili e statisticamente rappresentativi, si riescono a fare scelte di efficienza industriale e di riduzione dei costi di gestione”. Il costo di raccolta del multimateriale in Italia è pari a 185 euro a tonnellata. In generale per la raccolta multimateriale il ‘porta a porta’ costa di più con una differenza che oscilla tra il 30 e il 40%. Costi maggiori che vengono riassorbiti però dal trattamento industriale successivo, che è naturalmente più basso quando concentrato su un’unica tipologia. Guardando invece alla comparazione dei costi, emerge mediamente una maggiore convenienza della raccolta con il sistema multimateriale rispetto a quello monomateriale. La ricerca rileva anche come, a fronte di una maggiore efficienza, i valori di intercettazione della differenziata pro-capite siano mediamente più bassi.
Riciclare ma non troppo: ecco i paradossi della differenziata. La ricerca: se si arrivasse al 70% sarebbe insostenibile. Ma gli esperti insistono: “I benefici per l’ambiente non hanno prezzo”, scrive Elena Dusi su "La Repubblica" il 23 ottobre 2015. Ma quanto conviene fare la differenziata? Nel 2001, quando solo il 20% della spazzatura veniva selezionata, il costo di ogni tonnellata era di 12 euro ad abitante. Oggi che il tasso di differenziazione ha superato il 42%, il costo del servizio è quasi quadruplicato: 46 euro per tonnellata ad abitante. Secondo i dati Nomisma Energia del 2014, quella del riciclaggio non sembra un’economia di scala. I costi aumentano con il giro d’attività, mentre i ricavi - che coprono solo un quarto dei costi - sono rimasti fissi, o quasi, negli ultimi anni. L’impennata dei costi è in parte dovuta al porta a porta, sistema adottato per raccogliere il 49% di carta, plastica e vetro. Nel 2007 il dato era solo del 28%, secondo un rapporto di Bain & Company per Federambiente. Il servizio di raccolta a domicilio richiede personale, camion e benzina assai più del singolo compattatore che ingurgita tutto. Uno studio del gruppo Hera sui “Modelli territoriali a confronto” ha calcolato nel 2013 che il porta a porta costa più del triplo rispetto ai cassonetti, anche se garantisce percentuali di differenziazione più alte. Ed è soprattutto grazie a questo metodo che la raccolta di materiali riciclabili è balzata in su nonostante il calo della produzione di spazzatura provocato dalla crisi economica (meno 8% tra il 2007 e il 2012). Oltre ai costi del porta a porta, il problema di una differenziata molto spinta è la qualità dei rifiuti raccolti. Più si seleziona, più nei sacchetti colorati finiscono materiali spuri o scadenti. E i benefici della differenziata finiscano per diluirsi soprattutto nelle grandi città, dove più difficile è controllare la qualità dei rifiuti riciclabili. «Oltre una certa percentuale di differenziazione, i costi aumentano vertiginosamente», conferma Giovanni Fraquelli, economista dell’Università del Piemonte Orientale e del Cnr di Torino, autore nel 2011 di uno studio sui costi del riciclaggio con Graziano Abrate, Fabrizio Erbetta e Davide Vannoni. «Piccole realtà entro i 200-300 mila abitanti possono raggiungere percentuali del 70% senza enormi aggravi» aggiunge Fraquelli. «Ma se si cerca di spingere oltre la differenziata si incappa in costi insostenibili». I dati di Nomisma Energia confermano l’esistenza di un “confine” oltre il quale non è più conveniente andare. «In Emilia Romagna — spiega il presidente Davide Tabarelli — abbiamo fatto dei tentativi di fare una raccolta differenziata molto spinta, ma questo si è tradotto in maggiori costi, e quindi in aumenti per le bollette, anche del 20%». Abrate e i suoi colleghi sono molto schietti nel considerare un’altra componente di costo per alcuni comuni: la corruzione. “Riducendo il loro livello di corruzione a quello medio del campione — scrivono nello studio The costs of corruption in the italian solid waste industry — i due più grandi comuni italiani, Milano e Roma, risparmierebbero rispettivamente 10 e 50 milioni di euro all’anno, pari all’8,8% e 14% della spesa per i rifiuti”. Per Rosanna Laraia, responsabile del servizio rifiuti di Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) il riciclaggio resta comunque un impegno imprescindibile: «È vero che i suoi costi aumentano con la crescita della differenziazione, ma il riuso permette di risparmiare sulla voce delle discariche». E i benefici ambientali restano importanti anche quando i prodotti da riciclare sono venduti a paesi dall’altra parte del mondo. Secondo l’Epa (l’Environmental Protection Agency americana), il materiale più proficuo da riutilizzare è l’alluminio: riciclarne 500 tonnellate permette di risparmiare 2mila tonnellate di CO2 equivalente (pari a 1.569 auto), seguito da carta e cartone (700 tonnellate) e dalla plastica di tappi e detersivi (192 tonnellate).
Raccolta differenziata, tra conflitti di interesse e dati segreti: “Costi a carico delle casse pubbliche”. Tra opacità e critiche dell'Antitrust, il sistema Conai non garantisce la copertura dei costi di raccolta a carico dei Comuni con i prezzi di fatto definiti dai produttori di imballaggi. Una situazione capovolta rispetto a quella di altri Paesi europei, scrive Luigi Franco l'8 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Domanda numero uno: quanta plastica, carta o vetro da riciclare ha raccolto il tal comune? Domanda numero due: lo stesso comune quanti contributi che gli spettano per legge ha incassato a fronte dei costi sostenuti per la raccolta differenziata degli imballaggi? Due domande le cui risposte sono contenute nella banca dati Anci–Conai prevista dagli accordi tra l’Associazione nazionale dei comuni italiani e il Conai, ovvero il consorzio privato che è al centro del sistema della raccolta differenziata degli imballaggi. Numeri non diffusi ai cittadini, che possono contare solo su un report annuale con dati aggregati. Ma i dati aggregati non sempre vanno d’accordo con la trasparenza. E soprattutto non rendono conto delle incongruenze di una situazione su cui l’Antitrust di recente ha espresso le sue critiche, mettendo nero su bianco che “il finanziamento da parte dei produttori di imballaggi dei costi della raccolta differenziata non supera il 20% del totale, laddove invece, dovrebbe essere per intero a loro carico”. Con la conseguenza che a rimetterci sono le casse pubbliche, visto che tocca ai comuni coprire gran parte di quei costi. I dati sulla raccolta differenziata? In mano a un privato pagato dal Conai – Il sistema Conai, creato alla fine degli anni novanta per recepire la direttiva europea in materia e per soddisfare il principio del “chi inquina paga”, funziona così: per ogni tonnellata di imballaggi immessa sul mercato i produttori di imballaggi versano un contributo (cac, contributo ambiente Conai) al Conai, che poi distribuisce ai vari consorzi di filiera le quote spettanti. Per gli imballaggi di plastica il consorzio di riferimento è il Corepla, per quelli di carta il Comieco, e così via. Tutti consorzi che fanno capo al Conai e che sono controllati dagli stessi produttori di imballaggi e da chi li immette sul mercato. Il sistema Conai, che tra le sue entrate può contare anche sui ricavi ottenuti con la vendita dei materiali conferiti dai comuni, riconosce a questi un corrispettivo a tonnellata che dovrebbe compensare gli extra costi sostenuti per la raccolta differenziata degli imballaggi rispetto a quella dei rifiuti generici. “Solo che ad oggi – spiega Marco Boschini, coordinatore dell’Associazione dei comuni virtuosi – non esiste ancora uno studio che stabilisca quali sono realmente in media gli extra costi sostenuti dai comuni per ogni tipologia di tonnellata di materiale raccolta”. E così il corrispettivo dovuto ai comuni viene stabilito da una trattativa effettuata ogni cinque anni nell’ambito del rinnovo dell’accordo tra Anci e Conai, dove finora hanno prevalso gli interessi del sistema Conai. Con un particolare: i dati relativi alla raccolta differenziata sono custoditi nella famosa banca dati, che viene gestita a spese del Conai da Ancitel Energia e Ambiente (Ancitel E&A), a cui è stata affidata in modo diretto da Anci, senza alcun bando di gara. Ancitel E&A è una società che, al di là di una quota del 10 per cento in mano ai comuni attraverso Ancitel spa, è al 90 percento di proprietà di privati. Con un primo conflitto di interessi che salta subito all’occhio, come fa notare Boschini: “Il Conai e i suoi consorzi di filiera pagano ad Ancitel E&A la gestione della banca dati e sono quindi i suoi principali clienti, clienti che hanno garantito finora quasi per intero il fatturato di tale società. Se dall’elaborazione dei dati dovesse emergere, cosa peraltro in linea con quanto rilevato dall’Antitrust, che i sovra costi della raccolta differenziata degli imballaggi sono ben più elevati di quelli riconosciuti attualmente ai comuni, si verrebbe a determinare un aumento di costi a carico proprio dei clienti più importanti e decisivi di Ancitel E&A”. Le critiche dell’Antitrust: “Il sistema Conai copre solo il 20% dei costi di raccolta” – Quando nel 2013 l’Associazione dei comuni virtuosi ha affidato alla società di ingegneria Esper (Ente di studio per la pianificazione ecosostenibile dei rifiuti) la redazione di un’analisi sugli effetti degli accordi tra Anci e Conai, ecco cosa è saltato fuori: “Analizzando gli ultimi dati disponibili nel 2013 – spiega Ezio Orzes, uno dei curatori della ricerca e assessore all’Ambiente di Ponte alle Alpi, comune più volte premiato da Legambiente per i risultati raggiunti nella raccolta differenziata – si è visto che ai comuni italiani il Conai riconosceva solo il 37% di quanto incassato grazie al cac e alla vendita dei rifiuti raccolti, mentre i corrispettivi per tonnellata raccolta ricevuti dai nostri enti locali erano tra i più bassi in Europa. Così, a fronte dei circa 300 milioni versati dal Conai ai comuni, questi ne spendevano almeno tre volte tanto per la raccolta degli imballaggi”. Da allora, seppur con qualche miglioramento dovuto anche alle prese di posizione dell’Associazione dei comuni virtuosi, lo sbilanciamento a favore dei privati (sistema Conai) rispetto al pubblico (Anci) è rimasto. Così nel 2015 il sistema Conai ha incassato 593 milioni di euro grazie al cac e circa 225 dalla vendita dei materiali conferiti dagli enti locali. Valore, quest’ultimo, che potrebbe essere ancora più alto visto che, per fare un esempio, il consorzio Comieco vende sul mercato libero solo il 40% della carta recuperata, quota a cui è salito dopo un impegno preso nel 2011 con l’Autorità garante della concorrenza e del mercato che aveva censurato l’“opacità gestionale” determinata dalla pratica di cedere alle cartiere consorziate i materiali raccolti a prezzi inferiori a quelli di mercato. In ogni caso, a fronte delle somme incassate, nel 2015 il Conai ha versato ai comuni, secondo quanto comunicato a ilfattoquotidiano.it, solo 437 milioni. Numeri che contribuiscono a creare la situazione che – come detto – l’Antitrust lo scorso febbraio ha descritto così: “Il finanziamento da parte dei produttori (attraverso il sistema Conai) dei costi della raccolta differenziata non supera il 20% del totale, laddove invece, dovrebbe essere per intero a loro carico”. Una situazione capovolta rispetto a quella di altri Paesi europei, evidenzia Attilio Tornavacca, direttore generale di Esper: “In Germania e in Austria i costi di raccolta degli imballaggi domestici sono a carico esclusivamente di chi produce e commercializza imballaggi. In Francia, secondo un rapporto del 2015 di Ademe (un’agenzia pubblica di controllo a supporto tecnico del ministero dell’Ambiente, ndr), la percentuale dei costi di gestione degli imballaggi domestici a carico di Ecomballages e Adelphes, consorzi che svolgono una funzione similare a quella del sistema Conai in Italia, nel 2014 è stata pari al 74,8%”. Un unico sistema, tanti conflitti di interesse – I conflitti di interesse non si limitano alla gestione della banca dati Anci-Conai. “Il cac versato in Italia dai produttori di imballaggi è mediamente tra i più contenuti tra quelli applicati in Europa – spiega Tornavacca -. Ad esempio in Francia per il cartone si pagano 163 euro a tonnellata, mentre in Italia solo 4”. E chi decide a quanto deve ammontare il cac? “Il Conai stesso. E quindi, in definitiva, lo decidono gli stessi produttori di imballaggi che pagano il cac e che nel consorzio detengono l’assoluta maggioranza delle quote”. C’è poi un altro punto. Il corrispettivo versato ai comuni dal sistema Conai dipende dalla percentuale di impurità del materiale raccolto: quante più frazioni estranee sono presenti per esempio in una tonnellata di imballaggi plastici conferiti, come può essere un giocattolo che non è classificato come imballaggio, tanto più bassa è la somma riconosciuta al comune dal consorzio di filiera Corepla. A valutare la qualità del materiale raccolto sono alcune società scelte e pagate dal Conai, che potrebbe quindi decidere di rinnovare o meno il contratto a seconda che siano state soddisfatte o meno le proprie aspettative. Il che basta a spiegare questo altro potenziale conflitto di interessi presente nel sistema all’italiana di gestione della raccolta differenziata. Sebbene infatti l’analisi di qualità possa essere eseguita in contraddittorio tra le parti, una cosa è chiara: un corrispettivo più basso versato al comune in seguito al risultato dell’analisi corrisponde a un esborso inferiore da parte del Conai. E ancora. Che fine fa la differenza tra quanto incassato dal Conai grazie al cac e alla vendita del materiale raccolto e quanto versato ai comuni? “In parte viene accantonata a riserva per esigenze di anni successivi – spiega Tornavacca – in parte viene utilizzata per finanziare la struttura e tutte le attività promozionali del Conai e dei consorzi di filiera”. E anche qui casca l’asino su un altro bel conflitto di interessi. Perché nelle sue campagne promozionali il Conai si guarda bene dal promuovere pratiche che porterebbero a una riduzione del consumo di imballaggi, come la diffusione delvuoto a rendere, cosa che avrebbe conseguenze negative sui fatturati dei produttori suoi consorziati. Conai e Anci: “Siamo per la trasparenza”. Ma la banca dati resta chiusa a chiave – Tra conflitti di interesse e costi di raccolta degli imballaggi che pesano soprattutto sulle casse pubbliche, anziché sui produttori, forse un po’ più di trasparenzaci vorrebbe. Magari rendendo visibile a tutti i cittadini il contenuto della banca dati da cui siamo partiti. Che ne pensa il Conai? “La banca dati Anci-Conai – risponde il direttore generale del consorzio Walter Facciotto – è uno strumento introdotto dal precedente accordo quadro Anci-Conai (2009-2013) ed è un sistema gestito direttamente da Anci. Restiamo convinti che sia il primo strumento per trasparenza e completezza nel settore dei rifiuti, a completa disposizione di chi ne ha la proprietà (i comuni) e la gestione (società e/o comune medesimo)”. E siccome la palla viene passata ai comuni, non resta che sentire il parere di Filippo Bernocchi, delegato Anci alle politiche per la gestione dei rifiuti e fino a pochi mesi fa presidente di Ancitel E&A: “Io sono sempre stato per il green open data. Le regole per rendere visibili i dati della banca dati sono definiti dal comitato di coordinamento Anci-Conai, ma ogni singolo comune dovrebbe dare il suo consenso perché possano essere pubblicati i dati che lo riguardano”. In attesa che Anci e Conai chiedano questo consenso, quei numeri continuano a essere chiusi a chiave nella banca dati.
Lite fra Salvini e Di Maio sui termovalorizzatori. Salvini, uno per provincia. Di Maio, non c'entrano una ceppa, scrive l'Ansa" il 15 novembre 2018. Salvini, serve un termovalorizzatore per ogni provincia. "Occorre il coraggio di dire che serve un termovalorizzatore per ogni provincia perché se produci rifiuti li devi smaltire". Lo ha detto Matteo Salvini, ministro dell'Interno, a Napoli per il Comitato per l'ordine pubblico e la sicurezza. "A metà gennaio va in manutenzione l'unico termovalorizzatore della regione - ha affermato - è in pratica una emergenza annunciata". "C'è veramente una incapacità folle - ha aggiunto - dall'emergenza del 2008 siamo tornati indietro, ma nessun miglioramento". Di Maio, gli inceneritori non c'entrano una ceppa. "Quando si viene in Campania e si parla di terra dei fuochi si dovrebbero tener presenti la storia e le difficoltà di questo popolo. La terra dei fuochi è un disastro legato ai rifiuti industriali (provenienti da tutta Italia) non a quelli domestici. Quindi gli inceneritori non c'entrano una beneamata ceppa e tra l'altro non sono nel contratto di Governo". Lo scrive su Facebook il vicepremier Luigi Di Maio che fa riferimento, senza citarlo, a quanto affermato da Matteo Salvini sui rifiuti in Campania. Costa, termovalorizzatore è fallimento del ciclo dei rifiuti. "Quando arriva l'inceneritore, o termovalorizzatore, il ciclo dei rifiuti è fallito". Lo ha detto in una nota il ministro dell'Ambiente, Sergio Costa, dopo che Salvini ha proposto un impianto per ogni provincia della Campania. "Stiamo lavorando - ha aggiunto - ogni giorno per portare l'Italia, e non solo la Terra dei Fuochi, fuori dall'ormai cronico ritardo nella gestione del ciclo dei rifiuti. Riduzione, riuso, recupero, riciclo, sono le quattro R che devono diventare un mantra per tutti. Chi non è in sintonia con queste direttrici vive in un'epoca passata". M5S, in contratto esclusa costruzione inceneritori. "Sia il Contratto di Governo che punta al superamento degli inceneritori non a costruirne di nuovi, che i numeri della produzione dei rifiuti in Campania e lo stato d'avanzamento della raccolta differenziata nella Regione, escludono industrialmente la realizzazione di nuovi impianti incenerimento". E' quanto si legge in una nota dei parlamentari del Movimento 5 Stelle della Commissione Ambiente della Camera con la capogruppo Ilaria Fontana. De Magistris, Salvini fra i responsabili dell'emergenza. ''Ricorderei a Salvini che ha sostenuto un Governo, quello Berlusconi, che è stato tra i principali responsabili dell'emergenza rifiuti. Credo che si debba lavorare con spirito di leale collaborazione senza fare battaglie di religione o i professorini e credo che realizzare un termovalorizzatore in ogni angolo della Campania non sia la risposta''. Così il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha replicato alle parole del ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Il sindaco ha inoltre sottolineato che ''di quell'emergenza rifiuti il Comune di Napoli paga anche la calamità finanziaria perché il debito del Comune è così alto anche a causa di quell'emergenza''. Salvini, facciamo gestire rifiuti a camorra? "Io sono per costruire e non per i no, perché con i no non si va da nessuna parte. Questo vale soprattutto per gli enti locali, penso a tutti quei sindaci e alla stessa regione Campania che ha sempre detto no, no, no e i rifiuti cosa facciamo? Li facciamo gestire alla camorra?". Lo ha detto il ministro degli interni Matteo Salvini rispondendo a Napoli ai cronisti che gli chiedevano della replica di Luigi Di Maio alla sua proposta di un termovalorizzatore in ogni provincia in Campania.
Tecnica, paura e fede: lo strabismo dei grillini. Rifiutano la modernità e sognano l’Eden. La contraddizione dei 5 Stelle emerge per esempio nel caso dei rifiuti campani con il no Di Maio ai termovalorizzatori, scrive Antonio Polito il 19 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Una paura irrazionale del futuro e una fede incrollabile nell’avvenire possono convivere. Il comunismo ne fu una grande (e fallimentare) prova. Allo stesso modo il crogiolo di culture che si è fuso nel Movimento Cinquestelle sembra rifiutare la modernità in cui vive proprio mentre sogna un Eden post moderno da venire. È singolare il rapporto che i pentastellati intrattengono con la tecnologia. Ciò che è rimasto del messaggio, insieme visionario e apocalittico, di Gianroberto Casaleggio, li spinge a credere che il progresso della tecnica possa risolvere gran parte dei problemi umani, e questo è un atteggiamento positivo. Ma della tecnica che già esiste oggi e che fa funzionare, anche meglio della nostra, tutte le altre società complesse e moderne, diffidano con tutte le loro forze, al punto da tentare di impedirne l’utilizzo. Il caso dei termovalorizzatori è emblematico. Ci sono in tutta Europa, in grandi metropoli come Parigi, Vienna e Copenaghen; ci sono nelle regioni, come la Lombardia o l’Emilia, che hanno risolto da tempo il problema dei rifiuti. Ma Di Maio dice che non li vuole in Campania perché sono «vintage», e un giorno non saranno più necessari, quando la raccolta differenziata e l’«economia circolare» trionferanno. In effetti nessuno può essere contro il riciclo: è la strada da seguire. Ma anche ammesso che un giorno nei vicoli di Napoli (dove si differenzia oggi solo il 38% dei rifiuti), si possa trattare in casa l’immondizia come non si fa ancora neanche in Svezia, un po’ ne resterebbe sempre da interrare o da bruciare. E intanto, nel frattempo che non entriamo nel futuro, la «monnezza» che non si può né interrare né bruciare finisce all’aperto, per strada, sotto i ponti, accatastata su grandi piattaforme, in siti cosiddetti di stoccaggio, dove il primo che passa può darle fuoco. Così, in attesa dell’Eden, la gente della Terra dei Fuochi vive all’Inferno. E i rifiuti viaggiano vorticosamente in giro per l’Italia in cerca di smaltimento. Dalla sola Roma partono 170 camion al giorno per il Veneto: inquinano di meno? Ieri a Caserta il governo ha promesso di usare anche i droni, oltre ai militari, contro i roghi. Bene (anche perché l’impiego dei soldati è già stato annunciato una volta all’anno da ognuno degli ultimi governi). Ma se, nel frattempo che non arrivano i droni, si rimuovesse la materia prima dell’incendio, e cioè l’immondizia parcheggiata in attesa? Già quattordici anni fa si facevano manifestazioni per impedire la costruzione del termovalorizzatore di Acerra con lo stesso argomento: che era obsoleto e che in breve tempo non sarebbe stato più necessario. Pensate dove sarebbe oggi la Campania senza quell’unico impianto, che oggi smaltisce settecentomila tonnellate di immondizia, più della metà di quella prodotta ogni anno nella regione. E la cosa più singolare è che i Cinquestelle si oppongono spesso anche alle soluzioni alternative da essi stessi proposte. Per esempio a Pomigliano d’Arco, patria di Di Maio, dove dovrebbe andare uno di quegli impianti per il trattamento dell’organico (compostaggio) appena sollecitati dal Presidente Fico. L’immondizia non è però il solo campo di applicazione di questo singolare strabismo. Sono molti i casi in cui l’attesa di un avvenire migliore si trasforma nel rifiuto di gestire il presente. Uno degli argomenti usati contro l’Alta Velocità Torino-Lione è che a breve non ci sarà più bisogno di spostare tutte queste merci, perché — è stato detto — saranno trasportate dalle stampanti a tre D. È possibile: chi può dire che cosa ci riserverà il futuro? Ma se si ha tutta questa fiducia in una tecnologia che non è ancora tra noi, come se ne può avere così poca in un’altra che usiamo da secoli, e cioè la perforazione della montagna per fare un tunnel (il Buco del Viso risale al 1480)? Allo stesso modo si ostenta sfiducia verso le banche che muovono i nostri soldi ma si scommette sulla tecnologia blockchain, forse nella convinzione che rischieremo di meno convertendo i nostri risparmi in una moneta virtuale. Oppure si diffida della democrazia rappresentativa, al punto di immaginare un tempo in cui non ci sarà più bisogno del Parlamento eletto a suffragio universale; ma si affida quella «diretta» a una piattaforma dove possono votare non più di centomila persone e che si è rivelata non esente da rischi di hackeraggio. Cambiare il mondo è l’aspirazione di tutte le rivoluzioni. Ma nel frattempo? In questa domanda si misura il divario tra un movimento utopico e una forza di governo. I Cinquestelle sono ancora lontani dal colmarlo.
L’ITALIA PIÙ PULITA CON I TERMOVALORIZZATORI, scrive Donato Bonanni il 19 novembre 2018 su L’Opinione. In questi giorni il Movimento 5 Stelle e la Lega (senza sottovalutare gli altri scontri sulle materie importanti per il nostro Paese) stanno litigando sull’utilità o meno dei termovalorizzatori. In particolare, il leader della Lega Matteo Salvini ha detto che tali impianti sono fondamentali per chiudere il ciclo dei rifiuti e necessari per contrastare l’affarismo malavitoso. Sono d’accordissimo. Insomma, il tema rifiuti diventa il detonatore che fa esplodere le contraddizioni della maggioranza parlamentare. I termovalorizzatori (da non confondere con i classici inceneritori che hanno la funzione solamente di bruciare i rifiuti) sono impianti ad alta tecnologia, a impatto zero e rappresentano una parte dell’economia circolare dei rifiuti. Ovvero, i rifiuti non riciclabili vengono utilizzati per la produzione di energia elettrica e calore per le comunità locali. Un vantaggio importante per la collettività. In molte città europee come Vienna, Parigi, Barcellona, Malmoe, Stoccolma, Copenaghen (ma anche nel Nord Italia), i termovalorizzatori sono situati nel pieno centro della città e producono vantaggi ambientali ed economici molto significativi, in grado di soddisfare le comunità locali. In particolare, il nuovo impianto di Copenaghen, Amager Resource Center (nella foto), fornisce energia elettrica a più di 60mila abitazioni e acqua calda ad altre 160mila e mette a disposizione dei cittadini una pista sci realizzata con materiale innovativo prodotto (guarda caso) da una società italiana. Un grande capolavoro di progresso tecnologico e ambientale e un modello di gestione sostenibile dei rifiuti da prendere in considerazione. Perché in Italia, ma soprattutto, nel Centro e nel Sud non è possibile? A Roma l’emergenza rifiuti è oramai sotto gli occhi di tutti ed è causata dalla mancanza di impianti quali quelli di compostaggio, di ammodernamento di Tmb (trattamento meccanico biologico) dell’azienda municipalizzata Ama e soprattutto dei termovalorizzatori. Questi ultimi, sono previsti non solo dal Piano regionale dei rifiuti, ma anche dal Dpcm attuativo dell’articolo 35 del decreto legge n. 133/2014 (il cosiddetto “Sblocca Italia”). La Regione Lazio e il Comune di Roma non hanno voluto assumersi la responsabilità di realizzare e sbloccare i termovalorizzatori. Ad esempio, il termovalorizzatore di Colleferro (Rm) è stato bloccato dalla Regione Lazio (con la complicità del sindaco di quel Comune) e i lavoratori di quell’impianto gestito da Lazio Ambiente, quale società controllata dalla Regione Lazio, sono in forte difficoltà economica. La stessa Regione (e non mi capacito) vuole, invece, incenerire i rifiuti non riciclabili nei cementifici con conseguenze negative per l’ambiente e per la salute dei cittadini e riapre nella stesso Comune di Colleferro una grande discarica. La de-responsabilizzazione politica ha comportato il trasferimento di tante tonnellate di Css (combustibile solido secondario ricavato dal trattamento dei rifiuti indifferenziati da parte dei 4 Tmb presenti a Roma) nei termovalorizzatori di altre Regioni, come in Emilia-Romagna, in Lombardia e persino in Austria con costi notevoli per la collettività, ossia facendo alzare di molto la tariffa rifiuti dei romani che è tra le più alte d’Italia. Gli enti pubblici locali hanno il dovere di investire in un mix equilibrato di trattamento e smaltimento dei rifiuti: i termovalorizzatori sono una soluzione innovativa e ambientale fondamentale per spazzare via le organizzazioni criminali che fanno dei roghi tossici il loro business sporco e dannoso per l’ambiente e la salute dei cittadini.
Termovalorizzatori, perché ha ragione Salvini (e i Cinque Stelle fanno un danno enorme all’ambiente). Prima si eliminano le discariche, poi si può discutere dei termovalorizzatori: questa è la strategia sullo smaltimento di rifiuti di qualunque Paese serio. Evidentemente, noi non lo siamo, scrive il 19 novembre 2018 L’inkiesta. 64-35-1. No, non sono i numeri da giocare al lotto, ma le percentuali di rifiuti che, in Germania, vengono riciclate, termovalorizzate e mandate in discarica. Se c’è un modello da cui partire, nel definire il ciclo dei rifiuti in Europa, è questo. Un modello in cui la totalità (o quasi) degli scarti che produciamo viene reimmesso nel ciclo economico: due volte su tre come materia prima, una volta su tre come energia. Se si vuole parlare di rifiuti, cari Di Maio e Conte, partiremmo da qui. O, se vi sono antipatici i tedeschi, da Paesi come Austria, Olanda, Belgio, Svezia che non sanno più cosa sia una discarica e non sotterrano più nulla di ciò che scartano. Di sicuro, eviteremmo di parlare di quanto sono brutti e cattivi i termovalorizzatori, contro cui i Cinque Stelle hanno messo in piedi una surreale crociata, ancora di più in un Paese come l’Italia in cui in discarica ci finisce ancora il 32% dei rifiuti. O in cui il 7% nemmeno viene trattato e messo su un camion verso il nord Europa.
Se parliamo di malagestione, di costi alle stelle, di pericolo per la salute e di criminalità organizzata è alle discariche e alle emergenze che bisogna guardare, non certo ai termovalorizzatori. Ancora di più eviteremmo di farlo nel Mezzogiorno, dove la gestione dei rifiuti è a livelli bulgari - letteralmente: le percentuali sono quelle - con una percentuale di raccolta differenziata quasi dimezzata rispetto al nord Italia (37% contro 64%), con la totale assenza di impianti di termovalorizzazione e un processo di smaltimento che, se parlassimo di uno Stato sovrano, si fonderebbe quasi interamente sulle discariche e sull’esportazione dei rifiuti all’estero. A cui si aggiunge, ciliegina sulla torta, una gestione carissima rispetto al Nord - la Tari al sud è del 33,6% più alta rispetto alla media nazionale -, lo “spettacolo” dei rifiuti abbandonati in strada e l’enorme business che tutta questa inefficienza genera per la criminalità organizzata. Giova ricordare come dei 26mila crimini ambientali scoperti ogni anno in Italia, quasi seimila riguardano la gestione dei rifiuti. E che dietro questi reati, oltre ai roghi illegali, c’è il pericolosissimo business del giro-bolla per declassare la pericolosità dei rifiuti e consentirne l’impiego in cantieri e opere (pubbliche e private) infrastrutturali. In altre parole: se parliamo di malagestione, di costi alle stelle, di pericolo per la salute e di criminalità organizzata è alle discariche e alle emergenze che bisogna guardare, non certo ai termovalorizzatori. Che forse ne sono l'anello meno pregiato, ma che sono comunque economia circolare, a differenza delle discariche. Non a caso, all’estero non se ne costruiscono più: una volta eliminate le discariche, la strategia di gestione dei rifiuti si fonda sulla riduzione, sul riciclo e sul riuso. Una volta eliminate le discariche, lo ripetiamo. È così che nascono le terre dei cuori dalle terre dei fuochi, non con i proclami a vanvera e con l’esercito che controlla che nessuno bruci le pile di monnezza a cielo aperto. Così dovrebbe affrontare il problema un Paese serio. Evidentemente non lo siamo.
Così la scienza incenerisce i “no termo”. Lo scontro sui termovalorizzatori nel governo Lega-M5s e l'idea (sbagliata) che la raccolta differenziata sia l’alternativa. Stefano Consonni del Politecnico di Milano spiega dati, sistema lombardo e idee del centro studi MatER, scrive Daniele Bonecchi il 22 Novembre 2018 su Il Foglio. Il dubbio resta. Lo scontro sui termovalorizzatori è la nascita dei no termo (un po’ come i no vax e i no tav) o più semplicemente l’iniziativa “vintage” dell’allegra brigata Di Maio-Casaleggio per recuperare il terreno elettorale perduto su un Salvini quotidianamente all’attacco? Il dubbio resta, ma la Lombardia che crede ai fatti più che alle parole va avanti. Coi suoi termovalorizzatori che macinano rifiuti (il 34 per cento di tutta Italia) e distribuiscono calore a Milano e Brescia, con il marchio di efficienza di A2A. E c’è anche chi, come il governatore lombardo Attilio Fontana, dissotterra l’ascia di guerra dell’antica Lega Nord, spiegando a Di Maio che “se dice che gli inceneritori inquinano, io rilancio con questa mezza provocazione e mezza proposta, dicendo che iniziamo a smettere di bruciare rifiuti di altre regioni” (leggi il Sud). E’ così che inizia la caccia alle streghe contro i termovalorizzatori. Anche al Pirellone scattano le mozioni pro e contro, proprio mentre a Brescia il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ostenta le certezze targate Cinque stelle: “Una cosa è aprire termovalorizzatori, una cosa è chiuderne. Aprirne è antieconomico. Se il primo gennaio del 2019 dovessimo mai autorizzare un termovalorizzatore ci vogliono non meno di 7 anni per costruirlo e il businessplan prevede non meno di 20 anni per il recupero economico. Saremmo nel 2046, quando avremo percentuali tra 90 per cento e 95 per cento di differenziata e di riciclo e quindi non ci sarà più nulla da bruciare. Ecco perché dico che è una questione economica, tanto è vero che le gare vanno tutte deserte”. Non succederà, la competenza scientifica non è un punto di riferimento per questo governo, ma se il ministro dovesse mai passare per le aule del Politecnico di Milano gli infilerebbero un bel paio di orecchie d’asino. “Da molto tempo passa il messaggio che la raccolta differenziata sia l’alternativa alla termoutilizzazione e alla discarica, ma non è così”, spiega Stefano Consonni, professore di Sistemi per l’energia e l’ambiente al Politecnico. “Un equilibrato e moderno sistema di gestione dei rifiuti necessita della raccolta differenziata, dei termoutilizzatori, di una piccola quota di discarica (materiale inerte da mettere a riposo al sicuro). Quindi nel sistema integrato ciascuna tecnologia deve fare la sua parte. Se ne togliamo una, tutto il sistema non sta in piedi e va in emergenza”. “La tecnologia della termovalorizzazione – ma possiamo anche chiamarli inceneritori perché il principio di funzionamento è comunque quello di sottoporre a trattamento termico di combustione i rifiuti – è nata 150 anni fa con il primario obiettivo, allora, di sterilizzare, ridurre il volume dei rifiuti e renderli inerti. Nel corso di oltre un secolo e mezzo di storia questa tecnologia si è evoluta cambiando radicalmente le sue caratteristiche. Se potevano essere giustificate le preoccupazioni di oltre un secolo fa per le emissioni in atmosfera e per l’impatto sull’ambiente, queste preoccupazioni non sono più giustificate oggi. Diciamo che i termovalorizzatori di oggi sono molto diversi da quelli che si realizzavano fino a 50 anni fa, hanno anche cambiato nome non a caso perché mentre gli inceneritori di una volta avevano il mero obiettivo di smaltire. I termoutilizzatori di oggi hanno un effetto utile: la produzione di notevoli quantità di elettricità e calore che possono sostituire combustibili fossili e altre fonti da cui tutt’ora dipendiamo in modo massiccio”, spiega paziente e puntuale il professore. Ma come stanno in salute gli impianti italiani? “Gli impianti di termoutilizzazione in Italia sono di buona qualità, non sono per nulla obsoleti, sono buoni. La Lombardia, quasi completamente autonoma nel trattamento dei rifiuti, è un esempio con un sistema integrato ben equilibrato che recupera sia la materia che l’energia. Al Sud situazione assolutamente insoddisfacente. Roma poi è l’unica capitale europea senza un impianto di termoutilizzazione. Ci sono ad Amsterdam, a Parigi, a Stoccolma, a Londra, a Berlino, a Zurigo. Ne hanno tutti. Dove ci sono alte concentrazioni di popolazione è indispensabile provvedere a una civile e ordinata gestione dei rifiuti che consiste nel recupero di materia (riciclaggio, ndr) e recupero di energia”. In questi giorni ha fatto la sua comparsa l’impianto di Copenaghen, con tanto di pista da sci sul tetto “l’ho visitato mentre era in costruzione – spiega Consonni – sostituisce un impianto vecchio di trent’anni. Ma i termovalorizzatori che abbiamo a Milano, Torino e Brescia dal punto di vista tecnologico e delle prestazioni non hanno nulla da invidiare a quello di Copenaghen”. I ricercatori del Poli non si meravigliano della sagra delle bufale promossa da Grillo e soci, che accompagna innovazione e ricerca, soprattutto in campo ambientale. “Mi sembrano paure medioevali, demoniache, ma non hanno nulla a che fare con la tecnologia attuale”, protesta il professore. E poi spiega: “Abbiamo costituito al Politecnico il centro studi MatER (materia ed energia), che da molti anni si occupa di questi temi nell’ottica di individuare tecnologie e pratiche che possano garantire la sostenibilità di tutto il sistema di gestione dei rifiuti”. E’ istruttivo aprire la hompage del sito (mater.Polimi.it) dove campeggia una frase da “Le città invisibili” di Italo Calvino: “Una volta buttata via la roba, nessuno vuole più averci da pensare”. Più avanti c’è una rubrica dal suggestivo titolo: “Rifiutiamo le bufale” e poi “facciamo chiarezza. Grazie all’aiuto di ricercatori e ricercatrici del Centro studi MatER, usiamo la scienza per sfatare i falsi miti sul recupero di materia ed energia dai rifiuti”. Studiare per credere.
Quello che di Maio e Salvini non vi dicono su rifiuti e termovalorizzatori, scrive Marco Esposito il 22 novembre 2018 su nexquotidiano. Diceva il buon Einstein che solo due cose sembravano non avere limiti: l’Universo e la stupidità umana, ma mentre sulla prima questione aveva dei dubbi della seconda asseriva una certezza. Per confermare questa dichiarazione di Einstein (da cui ci dissociamo) in questi giorni hanno parlato di “rifiuti” i due vicepremier che l’Italia ha avuto in dote: Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il primo ha parlato, a proposito della Regione Campania e della gestione rifiuti, di “un termovalorizzatore in ogni provincia”, da cui si evince che, essendocene uno solo al momento, la Campania avrebbe bisogno di ben 4 termovalorizzatori, sparando una fesseria immane, il secondo, per non essergli da meno ha detto che “i termovalorizzatori sono una tecnologia superata”. Forse pensava alla Biowash di Beppe Grillo o al “ponte dove si mangia” di Toninelli e non sapeva come superarli in fesserie. Se c’è una cosa su cui il mondo economico-scientifico-tecnologico è abbastanza d’accordo è la gestione del ciclo dei rifiuti, il luogo di discussione è l’ISWA, l’associazione internazionale del “waste management”, e in tutto il globo terracqueo si parla di un ciclo di rifiuti basato su:
1. Biodigestori per l’umido.
2. Recupero metalli, carta, vetro e alcuni tipi di plastica (in particolare PET e PA6).
3. Recupero dell’energia (termovalorizzazione) da tutto il resto.
L’accordo è talmente ampio che anche l’Unione Europea ha emanato una direttiva in tal senso, come anche l’EPA (Ente per la Protezione dell’Ambiente negli USA): all’interno di queste tre aree esistono varie tipologie d’impianto, ma nessuno mette in dubbio che da qui si parte, e in particolare che il punto 3 è fondamentale. Sì, ma quanto e cosa recuperare di energia? Beh, se ci concentriamo sulla Campania, visto che i due vicepremier di quello parlavano, la Campania produce circa 2 mln di tonnellate di rifiuti urbani, di cui il 35% circa di “organico”, ovvero oltre 700.000 tonnellate di umido. La sola Napoli ne produce circa 500.000 tonnellate. Indovinate Napoli quanti biodigestori ha? Ve lo dico io: ZERO. Indovinate chi si oppone alla costruzione di un biodigestore a S. Pietro a Patierno (NA)? Ve lo dico di nuovo io: il Movimento 5 Stelle. Indovinate cosa fanno oggi di quell’umido? Ve lo dico io per la terza volta: viene “stabilizzato” e mandato a incenerimento. Di Maio spara cavolate a raffica, si oppone agli impianti che renderebbero inutili o quasi altri termovalorizzatori (ne servirebbe un altro, ma son calcoli economico-scientifici complessi, oltre a coinvolgere problematiche legislative e di altro tipo che richiederebbero un articolo a parte, per cui credetemi sulla parola). Ma perchè anche Salvini ha detto una fesseria? Perchè i termovalorizzatori si reggono solo se bruciano una quantità X di rifiuti con potere calorifico Y e la Campania non ne produce abbastanza per giustificare simili sforzi economici, ovvero anche Salvini chiacchiera “a vanvera”. Potrei adesso annoiarvi con varie considerazioni, ma ve ne sottopongo una sola: il Movimento 5 Stelle si oppone ai biodigestori “anaerobici” per motivi ideologici, e dice che quelli “aerobici” sono migliori (se volete vedere un biodigestore anaerobico digitate su Google “biodigestore di Augusta” e poi preparate le ghiandole salivari per quando incontrate un pentastellato). Comunque alla conferenza del clima di Parigi si è deciso di chiedere il bando per un tipo di digestori, in quanto “fortemente inquinanti”. Indovinate quale tipo…sì, esatto, quelli che piacciono a Di Maio. Colui che vive in una cabina telefonica a gettoni.
Le fake news (smontate) sui termovalorizzatori, scrive Raffaella Tregua su Quotidiano di Sicilia il 20 novembre 2018. Giuseppe Mancini, docente di Impianti chimici di UniCT spiega i luoghi comuni in cui è facile cadere. Dopo che lo scontro tra i leader del governo Giallo-Verde, i ministri Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ha riacceso il dibattito sui termovalorizzatori, per sfatare le false notizie che impazzano in questi giorni, soprattutto sul web, abbiamo intervistato Giuseppe Mancini, docente di Impianti chimici del Corso di laurea in Chemical engineering for industrial sustainability dell’Università degli studi di Catania. Ecco alcuni luoghi comuni in cui è facile cadere:
La raccolta differenziata risolve tutti i problemi (FALSO). La raccolta differenziata è uno strumento, non il risultato finale da raggiungere. Se per anni hai raccontato alla gente che i termovalorizzatori sono brutti e cattivi e che facendo la RD risolvi completamente il problema dei rifiuti, quando la gente inizia a farla sul serio e con fatica, pretende che il problema sia risolto mentre del tutto risolto non è perché c’è ancora tutto il rifiuto residuale ancora da gestire ed è tantissimo. A meno che non lo si voglia continuare a mandare in discarica o peggio spedire all’estero. E se non si mette in moto, parallelamente e nel lungo periodo, un mercato dei materiali riciclati che assorba veramente tutti i flussi (quindi anche cartiere, vetrerie, impianti per la produzione di prodotti in plastica riciclata) che sia in loco (meglio) o anche all’estero, la sola corsa all’aumento della RD, con o senza qualità, porterà comunque ad un sistema industriale insostenibile e dovremo accumulare il materiale raccolto a caro prezzo in mega depositi come abbiamo fatto per le eco-balle di Napoli. Lo sapete che queste, di sole multe, continuano a costare un caffè all’anno a tutti gli italiani, bambini compresi? Certo mi si dirà: cosa vuoi che sia un caffè all’anno? Ma 60 milioni di caffè all’anno per decine di anni, dico io, non fanno male?
I termovalorizzatori non producono energia (FALSO). Ogni singolo chilogrammo di rifiuto residuale possiede circa 10 Mega Joule di energia che se immessa in discarica andrebbe persa producendo emissioni sul lunghissimo periodo. Se si realizzano impianti di giusta taglia parte di questa energia viene recuperata sia sotto forma elettrica che di calore e non persa. Poca, molta? Moltissima. Anche se l’efficienza è solo un poco più bassa di una centrale a combustibile fossile, non stiamo bruciando un combustibile fossile ma stiamo recuperando l’energia da qualcosa, il rifiuto residuale, che andrebbe altrimenti solo a mangiarsi altre porzioni del nostro bellissimo territorio producendo molte ma molte più emissioni. Recuperando le sue scorie in prodotti certificati, un moderno termovalorizzatore permette di ridurre il fabbisogno di discarica almeno ad un ventesimo. Quindi nei prossimi vent’anni una sola discarica invece che 20. E questo è un guadagno immenso che si somma all’energia recuperata.
I termovalorizzatori inquinano più di altri sistemi (FALSO). Non conosco impianti che funzionando non hanno degli impatti. Ma i termovalorizzatori non sono più quelli di un tempo. L’avanzamento tecnologico e la grande attenzione agli stessi in passato li rende oggi sistemi avanzatissimi in grado di trattare i rifiuti con bassissime emissioni per kg di rifiuto trattato, molto ma molto inferiori a quelle prodotte in discarica dallo stesso chilo di rifiuti. è tutto qui il punto; bisogna fare il confronto quando devi scegliere. Non guardare solo a quello che produce un termovalorizzatore in termini di emissioni ma verificare quelle che evita. è un po' come dire che l’impianto di depurazione dei reflui produce CO2 ed acqua non pulitissima al suo scarico senza tener conto che l’alternativa è mandare la fogna tal quale in mare (cosa che mi pare succeda proprio in Sicilia). Come lo si spiega che moltissimi impianti di trattamento termico dei rifiuti siano stati costruiti proprio nel centro delle capitali europee o nelle più grandi città dell’avanzatissimo Giappone? Asserire che gli inceneritori inquinano senza tener conto che mandare il rifiuto residuale in discarica inquina molto di più i terreni, le falde e l’atmosfera, come tante inchieste sui giornali e della magistratura purtroppo ci ricordano ogni giorno, è una ulteriore balla che vi raccontano.
Il trattamento meccanico biologico “TMB” è utile (FALSO). è un trattamento che non recupera praticamente niente sull’indifferenziato mandandolo tutto in discarica ed è del tutto inutile se si fa a monte una buona raccolta differenziata dell’umido. Pertanto quando si parla con grande fantasia di “piattaforme” o “impianti tecnologici” da realizzare, informatevi se non è semplicemente previsto un impianto TMB che è indissolubilmente (per legge) legato ad una discarica (per quanto chiamata allegramente “di servizio”). Il recupero di materia di un TMB è di pochi punti percentuali (2-4%), quindi state nei fatti ributtando tutto in discarica e continuando a favorire l’indifferenziato.
I termovalorizzatori contrastano la Raccolta differenziata (FALSO). Nei termovalorizzatori non va immesso il rifiuto organico che è composto prevalentemente da acqua e ostacolerebbe la combustione. Quindi asserire che l’inceneritore è in competizione con la digestione anaerobica o il compostaggio nel recupero di questa importante frazione (35%) è una balla. Non va neanche immesso il rifiuto riciclabile, ma solo il rifiuto residuale che non ha altre soluzioni di smaltimento se non la discarica o il trasporto fuori regione o peggio all’estero. In tutti i paesi che hanno termovalorizzatori il riciclo è altissimo ed è la discarica ad essere stata ridotta a zero. è la discarica che si mangia la raccolta differenziata. Asserire che l’inceneritore è in competizione con il recupero di materia e la raccolta differenziata è ancora un’altra delle balle che vi raccontano.
Bisogna fare tantissima raccolta differenziata (FALSO). Aumentare la RD oltre certi limiti ti porta necessariamente ad una sua scarsa qualità perché aumentano le impurezze al suo interno e ti costa molto di più raffinarla. Se non si ammette per tempo che anche nel sistema industriale del recupero dei rifiuti occorre la qualità richiesta dal mercato, puntando su una RD di qualità, si fallirà come sono fallite in passato tante aziende in Sicilia e nel paese che hanno puntato solo sulla quantità e non sulla qualità dei loro prodotti. è chiaro che per ora in Sicilia di arrivare al 65% ce lo sogniamo e quindi occorre ancora spingerla questa raccolta differenziata ma facendola di qualità.
L’energia al Sud non si può recuperare perché fa caldo (FALSO). Se è vero che è difficile ipotizzare di realizzare ormai reti per l’utilizzo del calore a livello domestico nelle città del nostro Sud e collocare i termovalorizzatori al centro della città stesse (riducendo quindi le percorrenze dei compattatori e relative emissioni, quelle sì molto inquinanti) come ha fatto per tempo Parigi o appena ri-fatto Copenaghen, è molto semplice ipotizzare di realizzare le stesse reti nelle nostre aree industriali dove non solo l’elettricità ma anche il calore può essere ampiamente utilizzato in un’ottica di piena simbiosi industriale. Oggi gli avanzamenti tecnologici permettono anche di fare il freddo dal calore quindi l’energia termica viene utilizzata sia d’estate che di inverno. Che l’energia recuperata non possa essere utilizzata anche nelle regioni del Mezzogiorno è un'altra balla che vi raccontano.
Con compostaggio e selezione risolviamo tutto (FALSO). Ci vogliono gli impianti giusto, ma tutti gli impianti, anche quelli che ti fanno perdere voti all’inizio ma guadagnarne tanti dopo. Il compostaggio richiede molta energia, va bene per i piccoli centri ma dobbiamo pensare a soluzioni industriali più sostenibili con grandi impianti a servizio del territorio provinciale che utilizzino la combinazione di processi anaerobici – aerobici e che ci permettano di estrarre l’energia dalla frazione organica sotto forma di biogas ed eventualmente biometano. E lo scarto prodotto anche da questi impianti va a recupero energetico portando la discarica gradualmente a zero come fanno tutti i paesi più civili, ma come fa anche Milano.
E quindi? Qual è la soluzione? Se non iniziamo, e abbiamo perso tanto ma tanto tempo, a programmare soluzioni capaci di chiudere veramente la filiera, come si fa in qualunque comparto industriale, prevedendo una soluzione anche per gli scarti non recuperabili, ci troveremo nei prossimi dieci anni ad affrontare la solita continua e insopportabile emergenza. Perché anche recuperando la metà o poco più dei nostri rifiuti dovremmo sempre gestirne un’altra metà. E metà emergenza sarà comunque una emergenza.
Termovalorizzatori e inceneritori, ecco verità e bufale, scrive Nino Galloni su Starmag il 19 novembre 2018. Perché si confondono termovalorizzatori e inceneritori? Ha ragione Matteo Salvini, per due ordini di motivi:
1) né le discariche né la differenziata rappresentano la soluzione del problema;
2) il patto o contratto di governo è fondamentale (come rispettare il sabato) ma se ti cade l’asino nel pozzo lo vai a tirar fuori anche se è sabato.
Tuttavia, sia Salvini, sia la stampa e la televisione hanno parlato di termovalorizzatori e di inceneritori. Bene, quarant’anni fa c’erano gli inceneritori e una discreta mafia se ne interessò, ma la loro capacità di inquinare e rilasciare diossina quando gli impianti si raffreddavano era massima. Vent’anni fa arrivarono i termovalorizzatori – dotati di filtri – riducevano l’inquinamento del bruciare, ma non abbastanza, in cambio fornivano energia elettrica da combustione (legno, rifiuti, gasolio, tutto può bruciare). Oggi esistono gli Apparati di Pirolisi; due brevetti italiani, Italgas e Ansaldo. Oggi, dunque, esistono Pirolizzatori di cui un tipo che emette gas combustibile, inerti ed anidride carbonica; ed un altro che non emette l’anidride carbonica perché svolge al chiuso i processi. Perché non si parla di dotare l’Italia di questi apparati attuali? Perché si confondono termovalorizzatori e inceneritori? Perché la mafia non solo non si è interessata ai Pirolizzatori, ma anzi, li ha osteggiati in tutti i modi entrando nella politica e nell’economia per impedirne la diffusione? Perché a Roma Virginia Raggi ed il suo staff non hanno voluto prendere in considerazione tale proposta? Ci sono anche altre tecniche non aerobiche – in cui, sempre al chiuso, intervengono i batteri – e che consentono di trasformare la risorsa “rifiuti” in concimi, fertilizzanti e gas naturali, combustibili, a impatto ambientale negativo (cioè risolvono più problemi dell’abbandonare i rifiuti – come tali – a sé stessi o cercare di riciclarli in modo non efficiente). Intendiamoci, la differenziata e l’economia circolare sono buonissime idee; ma perché vetro, metalli, plastica eccetera vengano recuperati occorre dotare le città di industrie adeguate, non mandare tali risorse in Svezia o in Germania (che, invece, al pari di alcuni lodevolissimi comuni italiani – ma l’eccezione conferma la regola- sanno approfittare di tali opportunità. Credo che dell’ambiente – e non solo – si debba ragionare in modo non propagandistico, valutando bene, di ogni cosa, l’impatto economico, finanziario e sociale. (Estratto di un articolo tratto da Scenari economici)
Termovalorizzatori o inceneritori: dannosi per la salute? Scrive il 19.11.2018 Eleonora Lorusso su Donna Moderna. Che differenza c’è tra i due tipi di impianti, come funzionano, servono davvero o inquinano? Fanno male alla salute? Ecco le risposte, proprio mentre è di nuovo emergenza rifiuti. Inceneritori sì o no? Che differenza c’è con i termovalorizzatori? Quando e per cosa si usano, ma soprattutto: è vero che inquinano e producono sostanze nocive? In questi giorni di (nuova) emergenza rifiuti si torna a parlare di queste strutture, che rappresentano ad oggi il principale sistema di smaltimento di rifiuti non riciclabili, in alternativa (o insieme) alle discariche. In Italia ci sono 41 impianti, dei quali la maggior parte è di nuova generazione, dunque in grado di produrre energia dalla combustione di rifiuti, riutilizzata sotto forma di elettricità o calore per riscaldare altre strutture, come ospedali o abitazioni. Si trovano, però, quasi tutti in Lombardia.
Inceneritori e termovalorizzatori. Entrambi gli impianti servono a bruciare rifiuti ed esattamente quelli solidi urbani (come piccoli imballaggi, carta non riciclabile perché sporca, piatti e bicchieri di plastica anch’essi non destinati a seconda vita) e gli “speciali”, frutto di attività produttive per lo più industriali. La principale differenza tra inceneritori e termovalorizzatori consiste nel fatto che i secondi sono in grado di sfruttare il calore prodotto dalla combustione, ad esempio per distribuire acqua calda anche alle abitazioni civili, contribuendo al riscaldamento domestico (teleriscaldamento), come nel caso di Brescia, la città più teleriscaldata d’Italia. La possibilità di utilizzare energia elettrica prodotta mediante la combustione dei rifiuti ha anche permesso al comune lombardo di essere quello con le bollette per la luce e la Tari più basse del Paese (in media del 35% in meno). I termovalorizzatori, infatti, hanno più radiatori nei quali portare a ebollizione l’acqua, dispongono di turbine a vapore e alternatori che producono energia.
La polemica sull’inquinamento. Se da un lato i termovalorizzatori sono fondamentali per lo smaltimento di rifiuti che altrimenti finirebbero in discarica, dall’altra gli oppositori sottolineano i possibili effetti negativi sulla salute e l’ambiente. La legge prevede che la temperatura di combustione debba essere superiore agli 850 gradi, per evitare la formazione di diossine. Al di sotto di questo valore, infatti, si attivano bruciatori a metano. Studi del Cnr, il Consiglio nazionale della ricerca, e Ispra hanno mostrato come l’inquinamento prodotto da questi impianti è sostanzialmente inesistente. Per gestire gli scarti di combustione, i termovalorizzatori moderni hanno mediamente 4 livelli di filtraggio per i fumi e sistemi di trattamento e sistemi di riciclo delle ceneri molto sofisticati. Le analisi sulla qualità dell’aria e di tipo epidemiologico sulle popolazioni che si trovano nei pressi di impianti di moderna generazione, come nel nord Europa, non hanno evidenziato un aumento di patologie nelle zone dove sorgono questi termovalorizzatori. Trattandosi di strutture che funzionano a combustione, però, contribuiscono all’effetto serra, al pari degli impianti di riscaldamento o dei veicoli circolanti su strada, perché producono anidride carbonica.
Servono davvero? «Serve davvero un impianto di incenerimento in ogni provincia? Secondo noi no. Questo non vuole dire opporsi a qualsiasi termovalorizzatore» spiega Barbara Meggetto, responsabile di Legambiente Lombardia. «Le realtà sul territorio sono molto differenti tra loro: in alcuni casi, come in Lombardia, la dotazione è sufficiente, in altre no. Servirebbero più impianti, ma questa non è comunque la soluzione definitiva: negli anni ’90, in piena emergenza rifiuti nel milanese, si è messo in moto un meccanismo per cui si sono costruiti impianti di incenerimento, ma si è anche potenziata la raccolta differenziata. È su questo punto che bisogna agire, anche perché per realizzare un termovalorizzatore occorrono anni: nel frattempo? Per questo dobbiamo prima di tutto potenziare la differenziata, poi capire esattamente quanti impianti occorrono per arrivare a chiudere le discariche. In Lombardia i rifiuti che vi finiscono sono meno dell’1%» aggiunge Meggetto. «No rifiuti, sì impianti. Economia circolare per la sostenibilità» sostiene FISE-Assoambiente, che riunisce le imprese che operano nel campo dei servizi ambientali: «Oggi l’attenzione è focalizzata tutta sui termovalorizzatori, ma il discorso è più ampio. L’Europa ci ha indicato alcuni obiettivi importanti: il 65% di raccolta differenziata e non oltre il 10% dei rifiuti da conferire in discarica. Avanza dunque una quota che quindi è logico pensare sia la termovalorizzare. Noi però riteniamo che i passaggi fondamentali siano tre: per prima cosa ridurre i rifiuti; in secondo luogo riciclarli, riportandoli nel mercato sotto forma di materie prime secondarie; in terzo luogo, cercare di portare il meno possibile in discarica, ricorrendo all’incenerimento per la quota residuale di rifiuti che non possono essere destinati a nuova vita, sfruttando l’energia che se ne può ricavare. I termovalorizzatori, dunque, servono ma devono essere parte di un sistema completo, una economia circolare» spiega il direttore della Federazione Imprese di Servizi-Assoambiente.
Come funzione all’estero? In Europa si producono in media 480 chili di rifiuti all’anno a testa. L’Italia è in linea con quasi mezza tonnellata (495 chili) per ciascun abitante. Il record negativo spetta a Danimarca (770 kg), Svizzera e Norvegia (circa 700 kg). Secondo il recente rapporto Eurostat, a fare la differenza sono però le quote riciclate: in Germania, ad esempio, dove si producono in media 600 chili di rifiuti per abitante, la differenziata si attesta intorno al 75%, mentre il resto viene bruciato e in discarica finiscono appena 9 kg, a fronte dei 123 kg dell’Italia. Complessivamente in Europa si ricicla circa il 30% di carta, vetro e plastica, mentre il compostaggio della frazione umida è pari al 17%. Sono 125 milioni, però, le tonnellate che in Europa finiscono agli inceneritori e in discarica, dove però la quantità di rifiuti che viene conferita è calata negli ultimi 23 anni da 145 milioni a 59 milioni di tonnellate.
Inceneritori in Europa. Sono oltre 350 gli impianti di termovalorizzazione o incenerimento che si trovano in 18 Paesi europei. Il report Ispra (2015) indica la Danimarca come Stato col maggior quantitativo di rifiuti bruciati (415 kg/abitante per anno), seguita da Paesi Bassi (245 kg), Finlandia (239 kg), Svezia (229 kg), Lussemburgo (213 kg), Austria (212 kg) e Germania (196 kg). L’Italia brucia appena 99 chili pro capite all’anno, meno anche rispetto a Paesi come l’Estonia (185 kg), il Belgio (181 kg), la Francia (174 kg) e il Regno Unito (152 kg). «Il paradosso è che noi portiamo all’estero una quota di rifiuti da bruciare, perché da noi non è possibile farlo. Sono Paesi definiti “virtuosi”, come Olanda, Svezia o Germania, dove esistono inceneritori e cosiddette ‘miniere di sale’, ex cave oggi riempite di rifiuti per evitare che collassino e che dunque si sono trasformate in discariche» spiega Elisabetta Perrotta, direttore di FISE-Assoambiente.
Dove sono gli inceneritori? Oltre al caso di Brescia (con 880 mila tonnellate di rifiuti all’anno smaltiti), che rappresenta un’eccellenza italiana nel settore ed è nata dopo l’emergenza rifiuti degli anni '90, per via delle discariche piene, la maggior parte degli impianti che bruciano rifiuti in Italia si trova al Nord: secondo il Rapporto rifiuti urbani 2017dell’Ispra, dei 41 complessivi ben 14 sono in Lombardia. A seguire ci sono l’Emilia Romagna (con 8 strutture) e la Toscana (5 sulle complessive 9 del centro Italia), seguite da Veneto (2), Piemonte, Trentino Alto Adige e Fiuli Venezia Giulia, con uno per ciascuna regione. I più importanti sono quelli di Torino, Milano, Brescia e Parma. Sono solo 7 invece gli inceneritori al Sud: solo in Sardegna sono due, ma l’unico impianto di dimensioni adeguate è quello ad Acerra (Napoli), dove si bruciano 600mila tonnellate all’anno di rifiuti. Sicilia e Abruzzo ne sono completamente sprovviste. I cosiddetti “inceneritori senza recupero energetico” sono pochi: i principali sono a Marghera (Venezia), disattivato di recente, San Vittore (Frosinone), Colleferro (Roma), Gioia Tauro (Reggio Calabria), Capoterra (Cagliari), Melfi (Potenza), Statte (Taranto). Sono strutture dalle dimensioni ridotte (sotto le 100 mila tonnellate di rifiuti smaltiti all’anno), più costose e destinate alla dimissione, come nei casi di Vercelli, Ospedaletto (Pisa), Tolentino (Macerata), Statte (Taranto) o Macomer (Nuoro).
Effetto B.A.N.A.N.A (e NIMBY) ed esempi virtuosi. L’emergenza rifiuti in Italia deve fare i conti con l’effetto NIMBY, acronimo inglese di Not In My Back Yard ("non nel mio giardino"). A questo di recente se ne è aggiunto un altro: il cosiddetto B.A.N.A.N.A, ossia Built Absolutely Nothing Anywhere Near Anything: "non costruire assolutamente nulla da nessuna parte vicino a niente". Un paradosso, se si pensa che esistono esempi virtuosi di impianti realizzati nel centro di capitali europee, come la Danimarca. Qui, dove la quantità di rifiuti smaltiti tramite combustione è elevata, lo scorso anno è stato inaugurato un termovalorizzatore nel centro della capitale, Copenhaghen, e sul suo tetto a dicembre sarà aperta una pista da sci. Costato 670 milioni di dollari, l’impianto di Amager Bakke - CopenHill ha sostituito il vecchio inceneritore: brucia circa 400mila tonnellate di rifiuti all’anno e secondo le autorità danesi emette solo vapore acqueo, perché i filtri trattengono polveri e fumi. Permette di produrre elettricità, destinata a 62.500 abitazioni, e acqua calda a 160.000 unità.
Le materie prime secondarie. «Per fare questo occorre però anche creare un mercato delle cosiddette "materie prime seconde": sono quelle realizzate con il trattamento dei rifiuti, lavorati e trasformati in materiali riutilizzabili, che possono fare concorrenza a quelli primari. È il caso della carta riciclata o delle bottiglie in Pet riciclato, o ancora di alcuni materiali ricavati dal riciclo dei cellulari: contengono materiali anche preziosi che, se riutilizzati, ci permettono di ridurre l’importazione di materie prime dall’estero, in modo da essere più autosufficienti, e di ridurre i costi» conclude Perrotta.
Inceneritori in Italia, dove sono e qual è la differenza coi termovalorizzatori. Diversamente dai primi, i termoutilizzatori producono elettricità e non inquinano. Ma c'è il problema CO2. Da Nord a Sud, la mappa completa, scrive Paco Misale il 19 novembre 2018 su Quotidiano.net. Inceneritori e termovalorizzatori. In molti li identificano come la stessa cosa. In realtà, non è così. I primi sono impianti che bruciano i rifiuti e basta, mentre i secondi sono impianti che bruciano i rifiuti per generare energia. Gli inceneritori sono impianti vecchi, che oggi non si costruiscono più: si preferiscono i termovalorizzatori, che permettono non solo di distruggere i rifiuti, ma anche di produrre elettricità.
DOVE SONO - In Italia gli inceneritori senza recupero energetico sono pochi e soprattutto al Sud: i principali sono a Porto Marghera (Venezia), San Vittore(Frosinone), Colleferro (Roma), Gioia Tauro (Reggio Calabria), Capoterra (Cagliari), Melfi (Potenza), Statte (Taranto). Gli impianti che bruciano rifiuti in Italia sono complessivamente 56, e per la maggior parte termovalorizzatori collocati al Nord (28 in tutto). Per quanto riguarda il Centro Italia, il numero maggiore di termovalorizzatori è in Toscana (5 su 9). L’intero Mezzogiorno che deve esportare l’immondizia ha appena 8 termoutilizzatori, di cui uno solo, quello di Acerra (Napoli), ha dimensioni efficienti. I più grandi d’Italia sono a Brescia (A2a, 880mila tonnellate l’anno) e Acerra (A2a, 600mila tonnellate l’anno). Di dimensioni industrialmente interessanti sono anche Milano (A2a), Torino (Iren), Parona Pavia (A2a), Padova (Hera), Granarolo Bologna(Hera), San Vittore del Lazio (Acea). Infine, ci sono decine di impiantini costosi, la cui ragione economica è sorretta dai vecchi incentivi Cip6 che stanno uscendo di scena insieme con gli inceneritori di cui sostengono il pareggio di bilancio. Diversi impianti di capacità inferiore alle 100mila tonnellate l’anno infatti sono spenti o funzionano in modo marginale, come quelli di Vercelli, Ospedaletto (Pisa), Tolentino (Macerata), Statte (Taranto)o Macomer (Nuoro).
IL BUSINESS DEI RIFIUTI AL SUD - Il fatto che la maggior parte di impianti sia al Nord non è senza conseguenze. Il caso di studio più importante è la Campania: con pochi e malfunzionanti impianti, nel 2016 (ultimo dato disponibile) la regione ha esportato 258 mila tonnellate di rifiuti urbani, arricchendo i consorzi di autotrasportatori e le municipalizzate settentrionali, proprietarie di impianti altrimenti affamati dall’aumento della raccolta differenziata (al Nord oltre il 64%, al Sud 37,6%; la Campania è al 52%, Napoli al 38%). Altre 103 mila tonnellate sono andate dalla Campania all’estero. In questa fase, il mercato paga 200 euro a tonnellata. Il conto è facile: il business dei rifiuti che la Campania non riesce a trattare vale almeno 70 milioni l’anno. Che consentono ai Comuni del Nord di calmierare le tasse sui rifiuti, a spese dei cittadini campani (ma anche dei romani, il meccanismo è analogo).
QUALI EFFETTI PER AMBIENTE E SALUTE - Inceneritori e termovalorizzatori bruciano lo stesso tipo di rifiuti, quelli solidi urbani (piccoli imballaggi, carta sporca e stoviglie di plastica, ad esempio) e quelli speciali (derivanti da attività produttive di industrie e aziende). Per legge la temperatura di combustione deve essere sopra gli 850 gradi, per evitare la formazione di diossine. Se la temperatura scende, si attivano bruciatori a metano. Rispetto agli inceneritori, i termovalorizzatori hanno in più radiatori dove l'acqua viene portata ad ebollizione, turbine azionate dal vapore e alternatori mossi dalle turbine che producono energia. Gli impianti più moderni distribuiscono anche acqua calda per i termosifoni delle case. Anche se l'impatto zero non esiste, come evidenziato da studi del Cnr e dell'Ispra, questi impianti sostanzialmente sono non inquinanti, ma hanno il problema degli scarti, in particolare ceneri e fumi. Per sopperire a questa complicazione, i moderni termovalorizzatori hanno 4 livelli di filtraggio per i fumi e sistemi di trattamento e riciclo delle ceneri molto avanzati. Anche per questo tutte le analisi epidemiologiche recenti condotte intorno agli impianti moderni non hanno evidenziato un aumento di patologie. Nel paesi del Nord Europa i termovalorizzatori sorgono in mezzo alle città. La combustione tuttavia produce CO2 e contribuisce all'effetto serra.
Copenaghen, l'inceneritore con pista da sci sul tetto. Di Maio: "Ce la vedo ad Acerra..." Tutto pronto per il nuovo termovalorizzatore costato 670 milioni di dollari. Produrrà energia a impatto zero. Attorno un parco con piste ciclabili e impianti sportivi. Sul lato più alto della struttura la parete artificiale d'arrampicata più alta del mondo, scrive Paco Misale il 19 novembre 2018 su Quotidiano.net. Da un lato il Movimento cinque stelle con Di Maio apertamente contrario agli inceneritori. Dall'altro Salvini, sicuro che su questo tema l'Italia non tornerà indietro. La gestione dei rifiuti è ormai diventata un enorme problema globale, tanto da entrare prepotentemente nella dialettica di governo con i contrari e i favorevoli. Ma se l'Italia si scopre (in parte) spaventata da questi impianti che bruciano rifiuti e preoccupano per a loro incompatibilità con la salute pubblica, c'è chi va dritto per la propria strada e sposa la filosofia degli inceneritori senza avere paura. E' la Danimarca: a Copenaghen sta infatti per entrare definitivamente in funzione un termovalorizzatore che non solo brucia i rifiuti della città scandinava, ma produce energia sorgendo al centro di un parco pubblico e ospitando sul suo tetto una pista da sci, in funzione da dicembre. L'impianto della capitale danese (citato da Salvini e che brucia 400.000 tonnellate di rifiuti all'anno) è costato 670 milioni di dollari, ha cominciato i test di funzionamento nel 2017 ed è in fase di ultimazione. Di Maio, sul collega vicepremier che ha chiamato in causa l'esempio di Copenaghen, si è lasciato scappare una battuta. "Sì, ce la vedo proprio la pista di sci ad Acerra", ha detto a Caserta dopo la firma del protocollo d'intesa sulla Terra dei Fuochi.
I SEGRETI DEL TERMOVALORIZZATORE - La struttura sorge in un’area verde 5 chilometri a nord della città e sarà gestito da un consorzio pubblico di 5 comuni a cominciare dal municipio di Copenaghen. L’impianto ne sostituirà uno già in funzione, fornirà energia elettrica a 62.500 mila abitazioni e acqua calda a 160mila. Di più. Funzionerà a impatto zero: dai camini uscirà infatti solo vapore acqueo. Non basta: attorno all’inceneritore di Copenaghen un parco con piste ciclabili e impianti sportivi, mentre sul tetto dell’impianto progettato dallo studio di architettura Bjarke Ingels Group, sarà realizzata una pista da sci lunga 200 metri mentre su uno dei lati dell’edificio è prevista una parete per l’arrampicata libera. Per quanto riguarda la prima novità, si tratta di un pendio lungo 200 metri sul tetto, con un grande tornante e una pendenza che arriva al 45%. Su questo pendio, che scende da un'altezza di 90 metri, è stata realizzata una pista da sci larga 60 metri con fondo in plastica, fornito dalla Neveplast di Nembro (Bergamo). Un ascensore e tappeti mobili permetteranno agli utenti di risalire. La struttura può accogliere fino a 200 sciatori e il biglietto dovrebbe costare 9,50 all'ora. Intorno alla pista verranno piantati alberi e realizzati sentieri per trekking e jogging e aree picnic. Sul lato più alto dell'impianto è in corso di costruzione una parete artificiale d'arrampicata alta 85 metri, la più alta del mondo. L'offerta "turistica" dell'impianto (chiamato Copenhill) sarà completata da un grande caffetteria con vista sul porto e da un ampio parcheggio, utilizzabile anche per eventi di pattinaggio.
Rifiuti. Cosa fanno a Parigi. Scrive il Consorzio Recuperi Energetici. Un termovalorizzatore in parte interrato che tratta 460 mila tonnellate di rifiuti l’anno sull’argine della Senna. Vi sembra una fantasia? No è la realtà dell’impianto di Syctom Isseane, a Issy -les- Moulineeaux, un Comune della cintura di Parigi. Il progetto raggruppa 48 Comuni che hanno aderito ad un medesimo piano e si sono messi insieme per smaltire i rifiuti, realizzando quest’impianto. Dal 2007 il centro tratta i rifiuti prodotti di circa un milione di abitanti...Un’apposita carta della qualità ambientale è stata sottoscritta con il comune di Issy che garantisce le condizioni di qualità, di sicurezza e di protezione dell’ambiente. L’impatto sulla salubrità dell’ambiente è regolato da limiti rigorosissimi. Un impianto simile e forse anche più avanzato è quello di Firenze almeno sul ciclo dei rifiuti. Qui si raggiunge il 54% della raccolta differenziata ed entro il 2020 è previsto il 70%. Il termovalorizzatore di Case Passerini eviterà che i rifiuti residui, ossia quelli non riciclabili, siano inviati altrove producendo energia elettrica equivalente al fabbisogno annuo di 40 mila persone, climatizzando l’intero aeroporto ed eliminando lo smog causato dai camion che trasportano rifiuti nelle discariche.
Sta per entrare in funzione la nuova struttura, che produrrà energia a impatto zero: dai camini uscirà solo vapore acqueo. Attorno un parco con impianti sportivi, scrive Claudio Del Frate 19 novembre 2018 "Il Corriere della Sera". Chi ha paura degli inceneritori? Di sicuro non la Danimarca: a Copenaghen sta per entrare definitivamente in funzione un impianto che non solo brucia i rifiuti della città, non solo produce energia ma che sorge al centro di un parco pubblico e, dulcis in fundo, ospiterà sul suo tetto una pista da sci. Un altro mondo rispetto all’Italia dove in queste ore ci si interroga se continuare a far funzionare i termovalorizzatori già esistenti. Una sfida aperta a chi teme che questa attività sia incompatibile con la salute pubblica.
Energia elettrica e acqua calda. Il nuovo forno della capitale danese - citato anche da Salvini per ribadire che sui rifiuti «non si torna indietro» - è costato 520 milioni di euro, ha cominciato i test di funzionamento nel 2017 ed è in fase di ultimazione in tutti i suoi dettagli: sorge in un’area verde 5 chilometri a nord della città e sarà gestito da un consorzio pubblico di 5 comuni a cominciare dal municipio di Copenaghen. L’impianto ne sostituirà uno già in funzione, fornirà energia elettrica a 65 mila abitazioni e acqua calda a 150mila. Le tecnologie d’avanguardia consentono all’inceneritore di funzionare a impatto zero: dai camini uscirà infatti solo vapore acqueo.
Parco e pista da sci. Ma la vera sfida è quella di far convivere smaltimento dei rifiuti e presenza degli abitanti di Copenaghen: attorno all’inceneritore c’è un parco con piste ciclabili e impianti sportivi, la progettazione è stata affidata a uno dei più prestigiosi studi di architettura del paese in modo da ridurre l’impatto urbano. Fino all’obiettivo più ambizioso. La pendenza del tetto dell’impianto verrà sfruttata per realizzare una pista da sci lunga 600 metri mentre su uno dei lati dell’edificio è prevista una parete per l’arrampicata libera. Anche in questo caso, i rifiuti serviranno a generare profitto: per accedere all’impianto - ribattezzato Copenhill - occorrerà pagare un pass di circa 10 euro giornalieri.
GIORNALISMO A LIBRO PAGA DEGLI INQUINATORI.
Emiliano follie: “Cantiere TAP sembra Auschwitz”. Poi il governatore si scusa, scrive il 14 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". La replica di Calenda è arrivata via twitter: “Dire che sostengo il Tap per favorire le lobby e trovarmi un posto di lavoro è infantile e volgare ma tutto sommato innocuo, dire che il cantiere è uguale ad Auschwitz è grave e irrispettoso. Cerca di rientrare nei limiti di un confronto civile”. Ennesimo scontro tra Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, e Carlo Calenda ministro per lo Sviluppo Economico. Emiliano arriva a definire il cantiere Tap di Melendugno ad Auschwitz. “Se vedete le fotografie – ha detto – è proprio identico. Hanno alzato un muro di cinta con filo spinato, è impressionante”. Immediata la replica del ministro per lo Sviluppo Economico che ritiene le accuse molto gravi. Poi il governatore fa marcia indietro, probabilmente ben consigliato questa vota, e si scusa: “Il paragone tra il cantiere Tap e Auschwitz – si è giustificato Emiliano – è oggettivamente sbagliato e mi scuso per averlo inopportunamente utilizzato questa mattina in radio durante una diretta”. “Stanno militarizzando inutilmente una zona – aveva detto Emiliano – e i cittadini si sentono coartati e vedono in quella struttura qualcosa che ricorda cose tristi della storia”. “Noi siamo favorevoli al Tap – ha aggiunto Emiliano – ma con approdo a Brindisi. Io non sono il ‘Signor No’, perché propongo sempre alternative e in questo caso ho indicato Brindisi come approdo migliore per il gasdotto”. “Calenda – continua l’attacco di Emiliano – parli di come prevenire incidenti come quello in Austria. Il Tap non è stato assoggettato al Decreto Seveso, perché sennò avrebbe rallentato i lavori. Io segnalo che il comandante dei Vigili del Fuoco che a Lecce disse che si doveva applicare la Seveso fu trasferito nel giro di pochi giorni”. Calenda parla di pseudo-guerriglia urbana a Melendugno? “Se io guidassi la guerriglia la vincerei– risponde con la solita presunzione il Presidente della Regione Puglia – ma io sono magistrato (ma si dimentica di dire che è sotto inchiesta disciplinare del Csm n.d.r.) e non guido guerriglie. Sono lontanissimo da chi pensa di usare la violenza anche di fronte a un sopruso di Stato. Calenda parla così perché cerca una collocazione futura, visto che tra qualche mese sarà senza lavoro”. Il ministro Calenda replica duramente ma civilmente: “Caro Michele Emiliano dire che sostengo il TAP per favorire le lobby e trovarmi un posto di lavoro è infantile e volgare ma tutto sommato innocuo, dire che il cantiere è uguale ad Auschwitz è grave e irrispettoso. Cerca di rientrare nei limiti di un confronto civile”.
La storia infinita sull’ ILVA di Taranto. E qualche sospetto…, scrive il 14 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Tutelare contestualmente l’occupazione e la salute non è operazione facile ed agevole come dimostra il discutibile ricorso strumentale presentato dal Comune di Taranto e dalla Regione Puglia, fortemente osteggiato e criticato da Governo e sindacati insieme, che rischia di bloccare di nuovo la produzione ed il rilancio dell’occupazione ed economia dell’indotto tarantino. Nelle ultime settimane si è tornati a parlare della ipotesi fortemente cavalcata da Emiliano, improvvisatosi manager ed ambientalista, che lo stabilimento dell’ILVA di Taranto possa essere chiuso, facendo saltare l’acquisizione da parte della cordata Am InvestCo Italy, ma anche il posto di lavoro di 14 mila dipendenti (e circa 4.000 dell’indotto) e soprattutto la bonifica dell’area inquinata limitrofa al quartiere Tamburi di Taranto. L’ultimo problema nella prolungata difficile vita dell’acciaieria tarantina è un ricorso presentato irresponsabilmente al TAR Lecce dal Comune di Taranto e dalla Regione Puglia contro l’autorizzazione che il Governo ha dato all’azienda per consentirle di continuare a produrre fino al 2023, in cui devono essere terminati i lavori di bonifica dell’impianto. Il decreto di Palazzo Chigi di fatto consente allo stabilimento di continuare a produrre nelle condizioni attuali per cinque anni, in vista della bonifica degli impianti pronta a partire. Secondo il Comune di Taranto e la Regione, sostenuti da circa un migliaio di persone aderenti ai vari comitati di cittadini e dalle associazioni pseudo-ambientaliste, sarebbe un periodo di tempo troppo lungo, soprattutto per una città come Taranto che da anni è colpita dalle emissioni fuori misura dell’enorme stabilimento costruito a ridosso del centro urbano. Ma i due ultimi “populisti” pugliesi e cioè il governatore Emiliano ed il “fido” sindaco di Taranto Melucci hanno osteggiato la decisione, trovandosi contro il Governo ed sindacati, alleati a difesa del lavoro, sostenendo unitariamente che il ricorso alla magistratura è la strada sbagliata per poter migliorare la situazione. La travagliata vicenda dell’ILVA di Taranto ha origine nel 2012, quando una certa magistratura fortemente “politicizzata” e soprattutto alla spasmodica ricerca di protagonismo e visibilità nazionale, aveva disposto il sequestro dell’acciaieria e l’arresto di alcuni suoi dirigenti, tra cui i proprietari, la famiglia Riva, per violazioni ambientali affidandoli a commissari giudiziari che definire incompetenti e pericolosi è dir poco. Nell’ordinanza di sequestro della magistratura tarantina era scritto: “Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”. Nei successivi due anni prima il governo Letta e poi quello guidato da Matteo Renzi hanno cercato di mantenere aperta almeno una parte dell’acciaieria, per poter proseguire nella produzione (che si è dimezzata a seguito anche dei lavori di risanamento ad alcuni altoforni), che è molto importante per diversi settori dell’industria italiana. La via per ottenere questo risultato fu l’approvazione di una serie di decreti leggi che, in pratica, consentivano all’ILVA di produrre inquinando oltre i livelli consentiti e prolungando il termine entro il quale l’impianto doveva essere riportato a norma. Operazione per cui occorrevano ingenti somme che neanche il Governo poteva stanziare a causa del divieto comunitario di “aiutare” finanziariamente le aziende. Nel 2014 l’ILVA venne posta dal Governo in amministrazione straordinaria ed affidato agli amministratori nominati dallo Stato venne affidato il compito di iniziare il risanamento ambientale ed economico, e successivamente metterla in vendita. Nel gennaio 2016 venne pubblicato il bando per la messa in vendita di Ilva, e ad aggiudicarselo è stato il consorzio Am InvestCo Italy, costituito dalla multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal (85%) leader mondiale nella produzione di acciaio, e dal Gruppo Marcegaglia (15%) che finora era stato il principale cliente di acciaio prodotto nello stabilimento siderurgico di Taranto. Lo scorso 29 settembre 2017 il Governo Gentiloni ha approvato una nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), con cui autorizza lo stabilimento di Taranto a continuare a produrre alle attuali condizioni fino al 2023, allorquando le opere di bonifica e riduzione delle emissione dovranno essere definitivamente ultimate. Nello scorso mese di novembre 2017 la cordata Am InvestCo Italy ha illustrato e reso noto in una serie di incontri con il Governo e con i sindacati, le procedure e tempistiche con cui si intendeva procedere alla definitiva agognata bonifica dell’impianto di Taranto e conseguentemente all’attesa diminuzione delle sue emissioni dannose, impegnandosi a investire 1,15 miliardi di euro per il risanamento ambientale degli impianti dal 2018 al 2023, cioè anno in cui scadrà l’AIA approvata dal governo. I sindacati a partire dai leader nazionali della FIOM insieme a quelli di UILM, il più grande sindacato tra i lavoratori di Taranto, e di FIM CISL, sono sembrati abbastanza soddisfatti. Ma al Comune di Taranto guidato da Rinaldo Melucci un “neofita” della politica (con un recente passato di operatore portuale dai risultati non esaltanti, anzi deficitari) eletto per puro caso, ed alla Regione Puglia nelle mani dell’ex-magistrato Michele Emiliano, due “politicanti” che non hanno entrambi alcuna esperienza manageriale e soprattutto competenza scientifica-ambientale invece, il piano elaborato dai manager della multinazionale Arcelor Mittal non è piaciuto. Lo scorso 16 novembre, era previsto un altro incontro al Ministero dello Sviluppo Economico in cui la cordata Am InvestCo Italy avrebbe dovuto presentare il suo piano ambientale agli enti locali. Incontro a cui con poco tatto istituzionale il sindaco di Taranto, si è rifiutato di partecipare, pretendendo che venisse aperta una trattativa diretta, cioè un “tavolo” a cui avrebbero dovuto partecipare solo gli enti locali toccati direttamente dalla questione dello stabilimento di Taranto. Il sindaco di Taranto Melucci pretendeva di essere convocato entro il 24 novembre ed allorquando si è reso conto di essere stato ignorato, e la convocazione non arrivata, ha annunciato (“pilotato” dietro le quinte da Emiliano) che avrebbe fatto ricorso al TAR contro l’AIA approvata dal governo il 29 settembre, cioè l’autorizzazione che consente all’ILVA di Taranto di continuare a produrre alle attuali condizioni fino al 2023. Michele Emiliano e Melucci hanno annunciato ufficialmente il 28 novembre di aver presentato il ricorso affidandosi ad un avvocato-politicante barese Marcello Vernola già coinvolto nella vicenda delle “consulenze d’oro” del crack Ferrovie Sud Est, in cui la Guardia di Finanza e la magistratura barese hanno accertato sprechi e consulenze d’oro e soprattutto “allegre”. Come purtroppo accade in Italia quando c’è di mezzo la magistratura amministrativa, non è mai chiaro cosa potrebbe succedere in sede di giudizio. Qualora il TAR dovesse accogliere il ricorso del Comune di Taranto e della Regione Puglia è possibile che l’AIA venga sospesa in attesa della decisione finale del Consiglio di Stato al quale inevitabilmente il tal caso il Governo ricorrerebbe in appello. Ma in questa funesta ipotesi lo stabilimento dell’ILVA di Taranto verrebbe di fatto costretto a interrompere tutte le attività, con ingenti danni economici e sopratutto conseguenze sociali ed occupazionali imprevedibili. Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda molto presente e responsabilmente attivo sulla vicenda, su cui è calato il silenzio assordante dei partiti a partire dal Pd per finire a Forza Italia, ha duramente criticato la decisione del governatore Emiliano ed ha paventato l’ipotesi che il fermo delle attività produttive dell’ILVA di Taranto, potrebbe indurre la cordata Am InvestCo Italy ad un ritiro dell’offerta di acquisizione. Voci da tenere in considerazione ricordano che tale ipotesi potrebbe far rientrare in gioco il gruppo indiano Jindal concorrente nella gara pubblica di acquisizione dell’ILVA, che aveva persino manifestato (dopo aver perso la gara) la propria disponibilità ad aumentare la propria offerta iniziale che non era particolarmente vantaggiosa. Ed in certi affari dietro le quinte può succedere e “girare” di tutto e di più. Soprattutto in termine di soldi e contributi politico-elettorali…Il ministro Calendo ha ricordato che sinora “Emiliano ha fatto ricorso su tutto: dai vaccini al Tap, all’Ilva stessa. Per fortuna li ha sempre persi. Oggi però la situazione è diversa, perché il rischio è che Arcelor Mittal ritenga impossibile gestire l’acciaieria più grande dell’Unione Europea con il sindaco della città e il presidente della regione che vogliono cacciarlo via”. Come dicevamo poc’anzi i sindacati UILM e FIM-CISL sono schierati con Calenda e quindi con il Governo, la settimana scorsa hanno organizzato una forte protesta proprio di fronte alla sede del Consiglio Regionale di Puglia per protestare e manifestare contro il ricorso di Emiliano e Melucci, che mette a rischio i posti di lavoro dei 14 mila dipendenti ed i 4mila dell’indotto. Il ministro Calenda ha fatto sapere di essere pronto a ricominciare le trattative convocando per il prossimo 20 dicembre un “Tavolo per Taranto” che si terrà a condizione (giusta secondo noi) che la Regione e il Comune di Taranto ritireranno il loro ricorso, annunciando che, fino a quando il TAR non avrà adottato una propria decisione, tutti i colloqui sono sospesi, non volendo sottostare al vero e proprio “ricatto” dei due politicanti pugliesi. Infatti definire “politici” Emiliano e Melucci, potrebbe fare giustamente offendere la lunga tradizione di “veri politici” a cui la Puglia ha dato i Natali, a partire dai compianti Aldo Moro e Pinuccio Tatarella, arrivando a Claudio Signorile, Biagio Marzo, ecc…. Ma il problema ambientale di Taranto è in realtà soltanto l’ultimo dei problemi che si sono presentati nella “questione ILVA”. Un altro ostacolo è relativo alla procedura di infrazione aperta dalla Commissione Europea, in quanto secondo qualcuno con l’acquisizione di ILVA, il Gruppo Arcelor Mittal (il socio maggioritario e di controllo di Am InvestCo Italy n.d.r.) potrebbe arrivare ad avere una posizione dominante nella produzione dell’acciaio in Europa, violando così la normativa anti-trust dell’Unione. Il procedimento deve terminare entro il prossimo 23 marzo 2018, ma secondo fonti della Commissione dovrebbe concludersi anche prima. La multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal ha già annunciato che in caso di richiesta da parte dell’Antitrust Europea di ridurre la produzione per non superare le soglie comunitarie, che non ridurrà o modificherà la produzione in Italia, ma piuttosto dismetterà altre sue attività all’estero. La storia degli ultimi mesi, conferma che quella dell’ILVA è di fatto una delle questioni industriali più complesse degli ultimi anni, dove si incrociano e scontrano esigenze ed interessi (a volte occultati) differenti e spesso in contrasto fra di loro. La questione delle questioni fondamentali è quella ambientale in quanto a causa delle numerose violazioni della normativa ambientale, lo stabilimento di Taranto, ha causato non pochi danni alla popolazione cittadina, portando a proteste dei cittadini. Ma esiste anche un fondamentale problema occupazionale: l’ILVA dà lavoro direttamente a Taranto 14 mila dipendenti, mantenendo di fatto altrettante famiglie, e tramite l’indotto, ad altre 4mila ed oltre 300 imprese di fornitori ed appaltanti. A Taranto l’ILVA è l’unica reale attività produttiva industriale ed economica, importantissima e fondamentale per l’economia locale. Concludendo c’è una questione industriale, la circostanza che l’acciaio prodotto da ILVA è molto importante per l’economia italiana e, conseguentemente, se gli stabilimenti dovessero chiudere per la gioia e vanità di Emiliano e Melucci e di un migliaio di pseudo-ambientalisti della domenica, diverse aziende italiane sarebbero costrette a rifornirsi all’estero, soprattutto in Germania, acquistando peraltro acciaio a prezzi maggiorati. Ma tutto questo Emiliano e Melucci non lo capiscono o non lo sanno. O forse è proprio quello che vogliono…?
Taranto? “Questa è una città da commissariare”. Quello che i giornalisti…tarantini non hanno il coraggio di scrivere, scrive il 17 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Marco Travaglio in un suo intervento al concerto tarantino del 1 maggio disse che “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. Una sacrosanta verità. Qualcuno infatti preferisce fare interviste su commissione in ginocchio o occuparsi di “monnezza”….Permetteteci di complimentarci con l’amico e collega Enzo Ferrari direttore del quotidiano Taranto Buona Sera , uno dei pochi giornalisti seri e capaci in un deserto intellettuale e culturale come quello del giornalismo tarantino, per l’intervista odierna al collega tarantino Angelo Mellone, che anni fa ha avuto l’intuizione e la buona idea di trasferirsi anni fa a Roma per fare una carriera (in RAI) degna di essere chiamata tale . Angelo Mellone nella sua intervista dice delle verità, esprime dei concetti di cui condividiamo parola per parola, a partire dalla vertenza Ilva-Taranto, che nel suo complesso, sembrerebbe essere costata 16 miliardi di euro. “Un danno enorme prodotto dal peggior meridionalismo e dalla peggiore grettezza culturale che una parte di Taranto ha sfoggiato in questi anni”. “A quale Taranto si riferisce?” gli chiede Enzo Ferrari. “A quella lagnosa, vittimista, rivendicazionista e autolesionista – risponde Mellone – della quale fanno parte pezzi di giornalismo e ambientalismo che con la loro propaganda continuano a fare un male devastante a Taranto”. “Ce l’hai con gli ambientalisti” continua Ferrari. “L’ambiente è un tema troppo serio per relegarlo a gruppi che hanno necessità di trovare qualcuno a cui aggrappare le loro lagne. Come io non sono industrialista, loro non sono ambientalisti. Ci sono vie di Roma – dice Mellone – lo dicono i dati dell’Istituto Superiore della Sanità che hanno valori di inquinamento superiori a quelli di via Machiavelli, ai Tamburi. Eppure a Roma nessuno si è mai sognato di far girare manifesti che ritraggono i bambini con la maschera antigas. In quei manifesti c’è tutta l’impotenza culturale di questi della paura. Giocare sulla pelle dei bambini è una operazione indecente, folle, terribile”. “Credi che riusciremo ad uscire da questa vertenza così lacerante?” “La vertenza si risolverà, – risponde Angelo Mellone – nonostante la minoranza urlante, la borghesia inutile, l’inesistente classe dirigente della città. Io mi auguro che alla fine si possa davvero arrivare all’ambientalizzazione dello stabilimento e alla bonifica del territorio. Ma se la vertenza si risolverà sarà sempre per un intervento esterno, non per ciò che la città è in grado di produrre”. “Vuoi dire che Taranto da sola non riuscirà mai a farcela?” domanda Enzo Ferrari. “Taranto è una città di proprietà dello Stato. – risponde Mellone – Senza lo Stato resterebbe solo la borghesia inutile e parassitaria. E lo dico con dolore. Pensiamo che in oltre mezzo secolo di siderurgia non è mai nata una impresa di trasformazione dell’acciaio. Taranto andrebbe commissariata, non è in grado di governarsi, è vissuta sempre grazie all’intervento esterno e quando lo Stato ha cominciato a ritirarsi sono arrivati i dolori” che rispondendo alla domanda “qualche segnale incoraggiante arriva dalla valorizzazione di alcuni simboli della nostra cultura, come il Castello Aragonese e il Museo non credi ?” conclude ricordando qualcosa che ai tarantini sfugge “Il Castello è stato rilanciato dall’ammiraglio Ricci, che non è di Taranto, e il museo ha ripreso a brillare con la nuova direttrice, che non è di Taranto. L’unica realtà tarantina che ha saputo emergere a livello nazionale è la Ionian Dolphin di Carmelo Fanizza”. Un pò poco per sperare in un risveglio socio-economico-culturale della città di Taranto. Marco Travaglio in un suo intervento al concerto tarantino del 1 maggio disse che “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. Una sacrosanta verità. Il problema è che ancor prima di comprare i giornali, si sono comprati con quattro soldi i giornalisti. Quasi tutti. A partire da qualcuno che infatti è “specializzato” nel pubblicare interviste su commissione, rigorosamente in ginocchio (come scrisse tempo fa il Nuovo Quotidiano di Puglia), qualcuno che predilige occuparsi di “monnezza”. La sua specialità…
Angelo Mellone: «Questa è una città da commissariare». Intervista di domenica 17 dicembre 2017 di Enzo Ferrari, Direttore Responsabile di Taranto Buonasera. Il nuovo libro natalizio, i druidi e il siderurgico. Il giornalista-scrittore tarantino Angelo Mellone punge una certa Taranto “assistenzialista”. Ecco l'intervista realizzata dal Direttore di Taranto Buonasera Enzo Ferrari.
“La stella che vuoi” è il sequel di “Incantesimo d’amore. A distanza di un anno, sempre a Natale e sempre più fantasy.
«Sì, questo è un romanzo pienamente fantasy. L’elemento magico e la lotta tra bene e male sono preponderanti. I protagonisti sono due bambini che vivono nel mondo degli adulti: uno dal giorno dei morti del 2016 vede solo ombre, l’altra è l’ultima discendente delle streghe bianche. È il confronto tra tenebre e luce con un chiaro richiamo a quel che accade nel Signore degli Anelli».
Solo che non siamo nella Terra di Mezzo immaginata da Tolkien ma tra la gravina di Massafra, Alberobello, il bosco delle Pianelle...
«Questo gioco pagano mi permette di riannodare i fili della tradizione antecedente al Cristianesimo e di collocarla in queste terre che offrono come scenario la Valle d’Itria, Grottaglie, Martina Franca. Non ho fatto altro che rielaborare le nostre tradizioni popolari, il folclore, le superstizioni e ambientarle qui, da noi. Per scrivere un fantasy non c’è bisogno di andare lontano. In fondo i Druidi sono arrivati fino al Salento, la Cerva alla quale era intitolata l’attuale Madonna della Scala di Massafra, è un simbolo solstiziale. Per non parlare dei simboli sui trulli e della leggenda del mago Greguro e delle masciare. Intanto “Incantesimo d’amore” diventerà un film. Sarà prodotto dalla Sun Film e in questi giorni faremo i primi sopralluoghi per scegliere gli ambienti dove girare».
A proposito di ambienti, in “La stella che vuoi” ad un certo punto entra in scena anche il siderurgico.
«L’Ilva è un po’ come le caverne di Mordor. I tre folletti buoni vanno in Acciaieria per forgiare con l’acciaio la runa della luce e smascherare il maleficio».
E i tre folletti chi sono: Calenda, Mittal e Melucci?
«No, no. Nessun riferimento a loro. Ho solo voluto ricreare l’anima antica della nostra terra, quell’anima pura, spartana, che si batte contro chi crea conflitti e disastri. Sa che dico? Che la prossima Spartan Race andrebbe disputata proprio al siderurgico».
E anche questa risposta sembra metaforica...
«Purtroppo in questi anni si è sviluppato un dibattito lacerante. Si stima che la vertenza Ilva-Taranto, nel suo complesso, ci sia costata 16 miliardi di euro. Un danno enorme prodotto dal peggior meridionalismo e dalla peggiore grettezza culturale che una parte di Taranto ha sfoggiato in questi anni».
A quale Taranto si riferisce?
«A quella lagnosa, vittimista, rivendicazionista e autolesionista della quale fanno parte pezzi di giornalismo e ambientalismo che con la loro propaganda continuano a fare un male devastante a Taranto».
Ce l’hai con gli ambientalisti.
«L’ambiente è un tema troppo serio per relegarlo a gruppi che hanno necessità di trovare qualcuno a cui aggrappare le loro lagne. Come io non sono industrialista, loro non sono ambientalisti. Ci sono vie di Roma - lo dicono i dati dell’Istituto Superiore della Sanità - che hanno valori di inquinamento superiori a quelli di via Machiavelli, ai Tam buri. Eppure a Roma nessuno si è mai sognato di far girare manifesti che ritraggono i bambini con la maschera antigas. In quei manifesti c’è tutta l’impotenza culturale di questi della paura. Giocare sulla pelle dei bambini è una operazione indecente, folle, terribile».
Credi che riusciremo ad uscire da questa vertenza così lacerante?
«La vertenza si risolverà, nonostante la minoranza urlante, la borghesia inutile, l’inesistente classe dirigente della città. Io mi auguro che alla fine si possa davvero arrivare all’ambientalizzazione dello stabilimento e alla bonifica del territorio. Ma se la vertenza si risolverà sarà sempre per un intervento esterno, non per ciò che la città è in grado di produrre».
Vuoi dire che Taranto da sola non riuscirà mai a farcela?
«Taranto è una città di proprietà dello Stato. Senza lo Stato resterebbe solo la borghesia inutile e parassitaria. E lo dico con dolore. Pensiamo che in oltre mezzo secolo di siderurgia non è mai nata una impresa di trasformazione dell’acciaio. Taranto andrebbe commissariata, non è in grado di governarsi, è vissuta sempre grazie all’intervento esterno e quando lo Stato ha cominciato a ritirarsi sono arrivati i dolori».
Però un risveglio esiste e qualche segnale incoraggiante arriva dalla valorizzazione di alcuni simboli della nostra cultura, come il Castello Aragonese e il Museo, non credi?
«Il Castello è stato rilanciato dall’ammiraglio Ricci, che non è di Taranto, e il museo ha ripreso a brillare con la nuova direttrice, che non è di Taranto. L’unica realtà tarantina che ha saputo emergere a livello nazionale è la Ionian Dolphin di Carmelo Fanizza».
Ora però arriveranno tanti soldi che, se spesi bene, potrebbero dare una luce diversa alla città.
«Mi auguro che questi fondi vengano gestiti da chi sa gestirli».
E’ costata 16 miliardi all’ Italia la crisi dell’Ilva, scrive il 7 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Nella stima inedita della SVIMEZ emerge, come il CORRIERE DEL GIORNO ha più volte scritto e denunciato (unico organo di informazione a farlo!), un vero e proprio conflitto fra i poteri dello Stato: una magistratura desiderosa più di visibilità e palcoscenico nazionale che di giustizia e la politica, con la prima prevalente grazie al potere giudiziario esercitato, rispetto alla seconda. Per arrivare al ricorso di Emiliano e Melucci contro il Governo! La crisi dell’Ilva è costata all’economia nazionale italiana per essere precisi, 15 miliardi e 800 milioni. Tanto. Questo l’impatto sul nostro PIL (prodotto interno lordo) causato dalla minore produzione dell’impianto di Taranto secondo i calcoli dello Svimez, che, su richiesta del Sole 24 Ore, ha inserito nel suo modello econometrico i dati sull’andamento manifatturiero reale forniti dall’impresa. Il deterioramento dell’ “output” è risultato significativo. In cinque anni, fra il 2013 e il 2017 sono andati in fumo quasi 16 miliardi di euro di Pil, cioè l’equivalente di una manovra finanziaria sui conti pubblici in tempo di recessione. Il primo elemento che colpisce, come evidenzia lo SVIMEZ è la costanza dell’effetto negativo. Tutto ha origine con l’arresto di Emilio Riva e dal sequestro degli impianti disposti dalla Procura di Taranto, avvenuti il 26 luglio 2012, a seguito della quale sono accadute molte cose. Il 26 novembre 2012 vengono sequestrate 900mila tonnellate di semilavorati e di prodotti finiti per il valore di un miliardo di euro. Il 24 maggio 2013, vengono “bloccati” ai Rivabeni per 8 miliardi di euro, la cifra da loro risparmiata – secondo l’opinione ed i calcoli dei custodi giudiziari – per il mancato ammodernamento degli impianti. Il 4 giugno 2013, il Governo Letta procede al commissariamento dell’ILVA. Il 5 gennaio 2016, viene reso pubblico il bando per la vendita. Il 30 novembre 2016, il Governo Renzi raggiunge un accordo extra-giudiziale con la famiglia Riva per il rientro degli 1,3 miliardi di euro custoditi fra la Svizzera e il paradiso fiscale delle isole Jersey e scoperti dalla Guardia di Finanza a seguito di una dichiarazione non veritiera di “scudo” fiscale introdotto dal ministro Giulio Tremonti durante il Governo Berlusconi. AmInvestco Italia, la società a maggioranza Arcelor Mittal (85%) ed a minoranza Gruppo Marcegaglia (15%), si aggiudica l’ILVA il 6 giugno 2017. Arrivando ai nostri giorni, si consumano gli scontri fra il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, e il sindaco del Comune di Taranto, Rinaldo Melucci, propugnatori di un minaccioso (ed inutile, secondo noi) ricorso al Tar di Lecce contro il decreto sul piano ambientale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ed il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Un percorso accidentato in questi cinque anni avente sullo sfondo, il vano tentativo di trovare una conciliazione fra salute d occupazione, una piaga che non è stata ancora guarita a Taranto e che soltanto un cieco o un folle non vedrebbe.
Come il CORRIERE DEL GIORNO ha più volte scritto e denunciato (unico organo di informazione a farlo!) abbiamo assistito ad un vero e proprio conflitto fra i poteri dello Stato: una magistratura desiderosa più di visibilità e palcoscenico nazionale che di giustizia e la politica, con la prima prevalente grazie al potere giudiziario esercitato, rispetto alla seconda. Nella stima inedita della Svimez emerge la linearità della perdita di ricchezza nazionale: 3,22 miliardi di euro di Pil in meno nel 2013, 3,23 miliardi in meno nel 2014, 3,42 miliardi in meno nel 2015, 2,5 miliardi in meno nel 2016 e 3,47 miliardi in meno nel 2017. Un bel risultato non c’è che dire…per il quale nessun magistrato, consulente della procura, commissario straordinario pagherà mai un solo centesimo di euro! La freddezza dei numeri appare evidente, non può chiaramente tener presente gli sforzi o i ritardi nella annosa risoluzione del problema ambientale che rimane il “cuore” della questione Ilva, e fa risaltare quanto l’impatto economico sia profondo per la fisiologia del Paese. Basti sapere che, a causa gli effetti diretti e indiretti della minore produzione della acciaieria di Taranto, l’export nazionale è stato “decapitato” fra il 2013 e il 2017, sulla base calcoli effettuati da Stefano Prezioso economista della Svimez – di 7,4 miliardi di euro. Un dato che dimostra quanto l’incapacità dei precedenti proprietari (Gruppo Riva) e della politica, della magistratura e dei sindacati di raggiungere una mediazione, un accordo e soprattutto un reale e stabile punto di equilibrio in questa vicenda abbia danneggiato non poco la natura manifatturiera e orientata all’export di un Paese delle fabbriche, che ha avuto fin dagli anni Cinquanta una delle sue componenti principali e più importanti nella siderurgia. Contestualmente i calcoli e le analisi della Svimez fanno chiarezza su uno dei principali quesiti di una vicenda che, qualsiasi sia il giudizio o l’opinione su di essa, è senza dubbio di “interesse nazionale”: il maggiore import estero conseguenziale alla crisi dell’Ilva. Per dirla in soldi ed essere chiari, i vantaggi acquisiti dai gruppi stranieri concorrenti all’ ILVA di poter conquistare delle quote di mercato e nel appropriarsi delle parti più ricche della filiera del valore nelle forniture di acciaio alla manifattura italiana. Secondo la Svimez, questo altro capitolo di ricchezza svanita e persa strada facendo costituisce in cinque anni ad un valore economico pari a 2,9 miliardi di euro. In questa vicenda, applicando un criterio di valutazione economica, vi è anche un altro aspetto che, è stato trascurato: il tema degli investimenti fissi lordi nazionali andati perduti in maniera diretta e indiretta trasformando l’ ILVA in un “gigante” limitato dalla magistratura, che ha visto scendere la produzione dalle nove milioni di tonnellate toccate sotto la gestione del Gruppo Riva agli attuali cinque milioni di tonnellate (quasi il 50% in meno) e con una minore capacità produttiva di generare ricavi e valore. Va anche detto che l’impianto di Taranto non ha mai realizzato una eccelsa produzione specializzata ed innovativa. Al contrario, si è sempre collocata su un segmento medio basso, con la “spremitura” dell’impianto e con l’“efficienza organizzativa” dei Riva a garantire una buona produttività (e buoni bilanci). Ma è altresì vero che la scelta obbligata, da parte dei commissari, di non fare implodere i conti mantenendo a livelli accettabili i ricavi, ha portato ad una diminuzione del ciclo interno ed a politiche di acquisti più espansive. A causa della gracilità generale dell’impianto e per l’irradiamento di questa sua debolezza, ecco che gli investimenti fissi lordi persi a causa della riduzione della produzione sono stati pari fra il 2013 e il 2017 a 3,7 miliardi di euro.
Per non parlare di un indotto “paralizzato” ed indebitato a causa dei pagamenti non pagati da parte dell’ ILVA in amministrazione straordinaria, che diceva ai suoi fornitori “continua a lavorare a fornirci, altrimenti non lavori più per noi” senza pagare i debiti maturati che hanno raggiunto i 180 milioni di euro alla data odierna, con le oltre 300 aziende dell’indotto ed in appalto, che rischiano di fallire e non hanno più credito dalle banche, come ha ricordato ed evidenziato nei giorni scorsi in una conferenza stampa Vincenzo Cesareo il presidente di Confindustria Taranto . In realtà, questo problema, è strategicamente maggiore rispetto alla semplice quantificazione del “danno” per usare un linguaggio tecnico-giuridico, in una storia piena di troppi magistrati ed altrettanti avvocati. In un Paese come l’Italia, che come evidenzia lo Svimez ha un problema strutturale con la dimensione di impresa per via della ritirata dei grandi gruppi privati e post-pubblici, il danno economico di fatto non è rappresentato soltanto dai 3,7 miliardi di euro di investimenti in meno. Il danno infatti è prevalentemente costituito anche da quello che non si vede: la diminuzione di quello che gli economisti chiamano “spillover”, cioè la diffusione informale di innovazione verso i clienti e i fornitori, che sono per lo più piccoli e medi imprenditori. Concludendo vi un tema “sociale” che appare complementare alla “questione ambientale”: i consumi persi dalle famiglie in quanto i redditi di chi è in Cassa Integrazione sono chiaramente inferiori alla normalità. Consumi andati persi perché quando lavori in una azienda dell’indotto locale tarantino o in una società della filiera della fornitura nazionale il tuo posto di lavoro è sempre costantemente “a rischio”. In questo caso, il calcolo finale elaborato dagli economisti della Svimez consiste in 2,5 miliardi di euro. Cioè mezzo miliardo di euro all’anno in meno, dal 2013 ad oggi. Questi sono i “reali” numeri di Taranto e per l’Italia. Ed i numeri parlano. Molto meglio delle carte giudiziarie e tantomeno dei ricorsi dei “masanielli” di turno.
La sinistra è morta all’Ilva di Taranto. Quella dell’impianto siderurgico pugliese è una vicenda enorme, che coinvolge decine di migliaia di lavoratori e il diritto alla salute di una comunità. In tutto questo, le due sinistre italiane - né Renzi, né Grasso - hanno una posizione chiara. Avanti così, verso l'irrilevanza, scrive Francesco Cancellato il 4 Dicembre 2017 su "L'Inkiesta". Sulla vicenda Ilva sappiamo tante cose. Sappiamo che è complessa, innanzitutto. Perché se un’azienda decide di mettere 2,4 miliardi in investimenti industriali e progetti ambientali nell’acciaieria più grande d’Europa, col corollario di 10mila nuovi posti di lavoro, è indubbiamente un’ottima notizia. Allo stesso modo, però, l’allungamento dei tempi del piano di recupero ambientale è una brutta notizia – certificata dall’Arpa e sottoscritta da un profondo conoscitore della vicenda Ilva come l’ex ministro dell’ambiente Corrado Clini - soprattutto per gli abitanti del quartiere Tamburi, a poche centinaia di metri dal campo minerario, le cui scuole non aprono ogni volta che tira vento, per evitare che i bambini respirino veleno. Nel frattempo, mentre tutto questo accade, si sente dire che serve la sinistra. Che serve per combattere le onde nere, i fascismi di ritorno, i populisti, le destre vere e quelle mascherate. Perfetto: ma come la mettiamo con l’Ilva? Che opinione avete in proposito? Vanno bene 10mila nuovi posti di lavoro e 2,4 miliardi di investimenti o ha ragione Emiliano a ricorrere al Tar contro il decreto ministeriale per difendere, qui e ora, la salute dei tarantini? Va bene tornare a produrre acciaio, a costo di inquinare – meno ma comunque un bel po’ – l’aria, oppure è meglio importarlo dalla Cina, dall’India e da ovunque vi siano governi che non si pongono certe remore? Di fronte a questa domanda, la sinistra non sa, o comunque non risponde. Non sa Renzi, che evidentemente ritiene molto più importante – bontà sua – occuparsi di fake news e bufale online. E se non lo sa il suo segretario, figurarsi se lo sa la base: così, mentre il sottosegretario Teresa Bellanova sta con il ministro Calenda e contro Emiliano, i consiglieri regionali pugliesi sono usciti dall’aula o si sono astenuti quando un loro collega ha promosso un ordine del giorno che prevedeva, tra le altre cose, il ritiro del ricorso al Tar promosso dalla Regione contro il decreto del Governo. Di fronte a questa domanda, la sinistra non sa, e comunque non risponde. Non sa Renzi, che evidentemente ritiene molto più importante – bontà sua – occuparsi di fake news e bufale online. E anche dalle parti di “Liberi e Uguali”, nel giorno della fondazione del nuovo soggetto politico a sinistra del Pd, tutto tace sulla vicenda Ilva.
Nemmeno a sinistra del Pd il quadro è chiaro. Nel giorno della nascita del nuovo soggetto politico “Liberi e Uguali” tutto tace sulla vicenda Ilva. Il neo leader Piero Grasso parla di dignità del lavoro, di diritti e di doveri, di Falcone e Borsellino - e di Renzi, ovviamente - ma non risulta abbia rilasciato memorabili dichiarazioni programmatiche sul sito tarantino, così come del resto i suoi compagni di viaggio. La stessa Cgil ha le idee un po’ confuse, se è vero che Susanna Camusso ha definito il ricorso di Emiliano «un gioco da bambini», sebbene la Fiom di Maurizio Landini sarà l’unica sigla sindacale che non parteciperà al presidio sotto la sede della Regione Puglia per convincere Emiliano e compagni a ritirare il ricorso al Tar. Motivo? «Non è utile per raggiungere l’obiettivo», disse l’uomo che meno di un mese fa ha occupato l’Ilva di Genova, perché «lo Stato ci costringe a fare i matti». Mistero. Di certo c’è che su vicende come questa una linea ce la dovete avere, care sinistre in cerca d’autore. E se non ce l’avete, se pensate che siano più importanti le fake news o la distanza dal Pd del destino di 35mila lavoratori – sommando addetti, indotto e nuove assunzioni previste -, o che un feticcio giuslavorista come l’articolo 18 sia più meritevole d’attenzione delle politiche industriali non è che non siete di sinistra. Semplicemente, non siete. E qualunque colore va bene, alla gente, persino il nero pece, se l’alternativa è trasparente.
Ilva, duello Calenda-Emiliano. Il ministro: «Fa ricorsi su tutto e perde. Così fuggono investitori». Il capo del dicastero dello Sviluppo economico «Serve una legge conto i populismi locali». E avverte il Governatore: si assumerà la responsabilità di 20mila posti di lavoro, scrive il 3 Dicembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «La prossima legislatura si deve porre il problema di una clausola di supremazia, una legge per superare i veti degli enti locali di fronte ad interessi strategici nazionali, come in Germania». A dirlo è il ministro Sviluppo Carlo Calenda, intervistato dal Corriere della Sera, in apertura, partendo dal caso Ilva. Torna a scagliarsi ancora contro il governatore della Puglia: "Emiliano ha fatto ricorso su tutto: dai vaccini al Tap, all’Ilva stessa. Per fortuna li ha persi. Oggi però il rischio è che Mittal ritenga impossibile gestire l’acciaieria più grande della Ue con Comune e Regione che vogliono cacciarlo», «viene da pensare che non abbia consapevolezza di quello che fa, quello che stiamo vedendo è inaccettabile": «Se l’Ilva chiude andiamo a comprare l’acciaio in Germania e perdiamo un punto di Pil. Con il Tap diversifichiamo rispetto al gas russo. Di fronte a tutto questo Emiliano dice che la questione riguarda solo la Puglia». Il silenzio del Pd le pesa? «Il silenzio - risponde - non è solo del Pd, ma della classe dirigente italiana. Anche negli altri partiti non populisti e nella società civile. Ed è sconcertante». Ieri, il governatore pugliese aveva definito il governo in un "cul de sac" e che ora deve far vedere le carte in attesa del pronunciamento dei giudici. Per Emiliano il ricorso serve «a conoscere moltissimi atti che sono ancora segreti, per esempio il piano industriale che nessuno conosce ancora». Tesi smentita dal ministro secondo il quale «Il piano industriale ed il piano ambientale sono stati presentati al Governatore della Puglia ed a quello della Liguria insieme a molti sindaci, non a quello di Taranto che non si è presentato all’ultimo minuto pur avendo richiesto l'incontro, da Mittal nell’ambito del tavolo istituzionale». «Nello stesso tavolo - ha proseguito Calenda - si era deciso di convocare due incontri separati per Taranto e per Genova per approfondire le tematiche ambientali e industriali. All’uscita dalla riunione Emiliano dichiarava alla stampa la sua soddisfazione per la convocazione del tavolo Taranto salvo qualche giorno dopo presentare ricorso al Tar contro il Dpcm ambientale. Da quel momento Emiliano ha dichiarato tutto e il contrario di tutto: che il ricorso era uno come un altro, che in caso di accoglimento della sospensiva l’Ilva non rischia la chiusura, che il ricorso serve a conoscere carte segrete quali il piano industriale. Si tratta di affermazioni non rispondenti al vero». Poi il ministro ribadisce il timore «che l’investitore, constatata l’ostilità delle Istituzioni locali, scappi, a prescindere dall’esito del ricorso lasciando sulle spalle del Governo, e non certo di Emiliano, che sino ad ora nulla di concreto ha fatto a questo proposito, il destino di 20000 persone e i costi delle bonifiche».
MONS. SANTORO: FARE IL BENE DELLA GENTE - Sulla questione Ilva «non sta a me entrare nella disputa tra Governo ed enti locali ma desidero ribadire, circa la vertenza che si è aperta in questi giorni nella città di Taranto, che il mio unico interesse è il bene della gente e la rinascita del nostro territorio, spesso lasciato nell’incertezza circa il suo presente ed il futuro». Lo afferma l’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro, nel suo intervento al meeting «Emigrazione, accoglienza, integrazione, cittadinanza», che si sta svolgendo nella Basilica San Martino di Martina Franca e a cui partecipa il ministro dell’Interno Marco Minniti. «Il primo problema - aggiunge mons. Santoro - è porre fine alla devastazione ambientale e che sia seriamente preso in considerazione da parte del Governo e del nuovo acquirente il danno sanitario. In secondo luogo, che sia rispettato e garantito il lavoro dei dipendenti dell’azienda e delle ditte che lavorano nell’indotto». Inoltre, l’arcivescovo di Taranto auspica «che, come segno di concreto di una risposta forte all’impatto inquinante, si dia inizio a partire dai primi di gennaio 2018 alla copertura dei parchi minerali. Gli allarmi Wind days sono indegni di un paese civile, inaccettabili, non possiamo tollerarli oltre». Che «tutte le parti in causa - ammonisce il presule - si siedano intorno a un tavolo lasciandosi alle spalle orgoglio e strategie e lavorino nell’interesse esclusivo della città, degli operai, dei residenti tutti. Ci sono già stati 12 decreti; non farebbe male un intervento governativo questa volta condiviso dalla popolazione. Io - conclude mons Santoro - continuo ad avere fiducia perché le persone di buona volontà, possano ritrovarsi, unirsi, per essere costruttori di bene e di bello».
SINDACO MELUCCI: RICORRONO CONFERMA FABBRICA - «Il ricorso del Comune di Taranto al Tar di Lecce non sospende l’aggiudicazione dell’Ilva a AM Investco Italy e non c'è rischio alcuno di fermo o chiusura della fabbrica». Lo scrive il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, in una lettera aperta al ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Dieci punti per ricordare «quello - sottolinea Melucci - che il ministro non dice». Il ricorso, secondo il primo cittadino, «non blocca né ritarda la copertura dei parchi minerali, che in realtà potevano essere coperti già da anni. Chiunque dichiari il contrario, contribuendo a creare agitazione tra lavoratori e cittadini, dimostra un grave deficit di competenze». L’unico «vero rischio - sostiene ancora il sindaco di Taranto - deriva proprio dall’azione del Governo che consente lo slittamento al 2023 di diversi interventi urgenti e improcrastinabili per la tutela della salute. Lo dice l’Unione Europea». Al Comune di Taranto «non è stato notificato - si fa presente - ancora alcun atto formale a garanzia dell’avvio dei lavori di bonifica e messa in sicurezza dei parchi. Non ci si può accontentare di promesse e annunci, sotto la pressione del ricatto occupazionale». E il ministro Calenda «non vuole - attacca Melucci - l’istituzione di un tavolo esclusivo per Taranto e non è in grado di rispondere nel merito alle proposte della città di Taranto: la comunità non cederà al ricatto (immorale e forse illecito) del ritiro preventivo del ricorso». Il primo cittadino fa rilevare che "il Comune di Taranto ha fatto precise proposte sulla rimodulazione di tempi e tecnologie per mettere in sicurezza lo stabilimento: i ministri Calenda e Galletti non hanno mai preso in considerazione le osservazioni degli enti locali. Il ministro Calenda, oltre che sulla valutazione del rischio sanitario, è muto rispetto alla definizione delle pendenze dell’indotto locale. Evidentemente è più sensibile alle esigenze di lobby e multinazionali che a quelle delle imprese pugliesi». Per il sindaco «il ministro Calenda sorvola sul fatto che il Comune di Taranto chiede l’avvio immediato delle bonifiche e l'aggiornamento dei protocolli di ristoro ambientale» e «difende i commissari che non hanno costruito alcun utile rapporto con la città; il Comune di Taranto, per lo stesso motivo, chiede avvicendamento immediato». Infine, il ministro Calenda «a tutt'oggi - insiste il sindaco - non è in grado di fornire agli enti locali la documentazione di dettaglio relativa al piano industriale, fattispecie ampiamente prevista dalla procedura di legge. Il Comune di Taranto non rinuncia al dialogo costruttivo, per il quale resta disponibilità piena e immediata. Un dialogo che coinvolga finanche le procedure giudiziali avviate». Ma «nessuno - conclude Melucci - può pretendere che l'amministrazione chiuda gli occhi e tradisca i cittadini sulla madre delle questioni, la loro salute, la loro qualità della vita. Dopo una dozzina di decreti salva Ilva, ora il Governo fornisca garanzie serie su un decreto salva Taranto e tarantini».
Ecco chi cerca di distruggere l’economia di Taranto: Emiliano & Melucci, scrive "Il Corriere del Giorno" il 30 novembre 2017. Ilva: Calenda, stop negoziato attesa Tar “se il Tar accoglierà la sospensiva richiesta, gli amministratori straordinari dovranno iniziare lo spegnimento dell’Ilva, poi faremo ricorso al Consiglio di Stato, ma al Governo non può essere chiesto l’impossibile”. “Ho deciso che congeleremo il negoziato sull’Ilva aspettando la decisione del Tar di Lecce sull’impugnativa di Michele Emiliano governatore della Regione Puglia, e del Comune di Taranto”. Lo ha annunciato il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, durante l’assemblea della Cgil sull’acciaio. “Sono inutili i tavoli finché non è chiara la situazione. Se il Tar di Lecce accoglie l’impugnativa, l’amministrazione straordinaria dovrà procedere allo spegnimento dell’Ilva”. Il giudizio del ministro Calenda è tranchant: “Dagli Enti locali c’è una gestione schizofrenica. Ma si sappia, se Regione e Comune usano tutti i mezzi necessari per far saltare l’Ilva, l’Ilva salta”. “Allora però Emiliano lo dica in modo chiaro, non attraverso i ricorsi ma assumendosene la responsabilità” Secondo Calenda, quella del presidente della Regione Puglia è “una battaglia ideologica […] fatta sulle spalle dei lavoratori e dell’ambiente”. Emiliano – ha aggiunto il ministro – “sta costruendo una campagna elettorale dicendo cose che non esistono”. E ancora: “dobbiamo evitare il pericolo più grande che è la fuga dalla realtà e dalla responsabilità. Dire che l‘Ilva può essere del tutto decarbonizzata è una fesseria, non dovete dare sponda a chi dice queste cose che non esistono. Non esistono stabilimenti al mondo. In ballo – avverte Calenda – ci sono 5 miliardi di euro. Vorrei sapere qual è stato l’ultimo investimento di questa portata al sud”. Infine il ministro dello Sviluppo economico, ha annunciato che, “se il Tar accoglierà la sospensiva richiesta, gli amministratori straordinari dovranno iniziare lo spegnimento dell’Ilva, poi faremo ricorso al Consiglio di Stato, ma al Governo non può essere chiesto l’impossibile”. Per il segretario confederale della Cgil Maurizio Landini, quella di Emiliano “è una scelta sbagliata”. “Questo non è il momento dei tribunali, c’è una trattativa in corso, è il momento della responsabilità”. “Oggi – ha proseguito Landini – è opportuno far ripartire gli investimenti e la copertura dei parchi minerari. È importante – ha proseguito – portare ArcelorMittal a utilizzare tutte le tecnologie migliori e le soluzioni possibili” per ambientalizzare l’Ilva. “La lotta dei lavoratori – ha proseguito Landini – ha prodotto l’avvio di una trattativa vera. Sono stati aperti tavoli istituzionali che adesso devono partire in sede locale. Non è questo – ha concluso Landini – il momento dei tribunali e dei magistrati”. Anche per Francesca Re David, segretaria generale della Fiom, il ricorso della Regione “non è un fatto positivo in una fase così delicata della trattativa”. Intervistata a margine di un convegno sulla siderurgia in Cgil, la leader della Fiom ha fatto presente che per gli interventi ambientali dell’Ilva c’è uno stanziamento di 2,7 miliardi: “Non era mai avvenuto”. “Siamo alle soglie dell’apertura di tavoli locali e bisogna lavorare insieme per raggiungere il miglior risultato possibile. Tanto per le questioni industriali quanto per quelle ambientali ci deve essere l’impegno congiunto di tutti”. Qualcuno adesso spieghi a Emiliano e Melucci che Roma non è Bari, Bari non è Taranto, e tantomeno Taranto è Crispiano o una banchina portuale, ambiente dove sicuramente l’attuale sindaco pro-tempore del capoluogo jonico, si trova sicuramente a suo più agio… e dove ha dimostrato con i bilanci della sua società di non essere neanche un valido imprenditore dati i risultati negativi di bilancio sinora conseguiti della sua società di servizi portuali. E di novelli “masanielli” Taranto è stanca da molto tempo e non ha certamente più bisogno !
Ed Emiliano, lo Zapata delle Puglie, si attaccò al Tar, scrive Domenica 03 dicembre 2017 Aldo Grasso su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Cul-de-sac. L’Emiliano Zapata delle Puglie non recede. Umiliato alle primarie del Pd, cerca sempre una rivincita, soffia sul fuoco dell’ostilità popolare a infrastrutture e impianti, sacrifica il senso di responsabilità «in preda a un delirio d’infantilismo» (così si è espressa una parte del sindacato). I fatti sono noti: il governatore Michele Emiliano, appoggiato dal sindaco di Taranto, ha fatto ricorso al Tar contro il nuovo piano ambientale per l’Ilva. Fermare tutto con le carte bollate, con il fondato rischio che il futuro gestore dell’acciaieria se la svigni, insalutato ospite! L’ha spiegato molto bene Goffredo Buccini: «La fabbrica uccide coi suoi fumi ma senza fabbrica si muore di fame». Il Sud non può mandare all’aria cinque miliardi d’investimenti e 20 mila posti di lavoro tra diretti e indiretti. Da quei soldi dipende anche il risanamento del territorio, altrimenti Taranto resterà sola con i suoi veleni, un dramma ambientale e sanitario che nessuno vuole sottovalutare e che è di tutti. Come lo è ora, quando il vento spira da nord-ovest. La politica è confronto continuo, il governatore-magistrato, invece, ricorre su tutto, oltre ogni buon senso. Come ha dichiarato sabato: «Il governo è praticamente in un cul-de-sac. E adesso deve attendere il giudizio dei giudici e soprattutto deve far vedere le carte». Si potrebbe dire che Emiliano è il diretto irresponsabile delle sue scelte.
Calenda: “Siamo ormai abituati ai ricorsi di Emiliano su Vaccini, Buona scuola, Tap e anche precedenti su Ilva per fortuna tutti regolarmente perduti”, scrive il 3 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". “In questo caso però il rischio è che l’investitore Arcelor Mittal, constatata l’ostilità delle Istituzioni locali, revochi il proprio investimento e scappi”. In gioco il destino di oltre 20mila persone e di una città intera. I retroscena sull’incarico ad un avvocato barese-politico per il ricorso al Tar. “Rinnovo l’offerta di riaprire immediatamente il tavolo di Taranto per avviare un dialogo costruttivo ritirando contestualmente il ricorso contro il Dpcm ambientale”. Il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda replica al Governatore Michele Emiliano affermando come costui abbia “dichiarato tutto e il contrario di tutto”. “In questo caso però – conclude il ministro – il rischio è che l’investitore, constatata l’ostilità delle Istituzioni locali, scappi a prescindere dall’esito del ricorso lasciando sulle spalle del Governo, e non certo di Emiliano, il destino di 20.000 persone e i costi delle bonifiche”. “Il piano industriale ed il piano ambientale dell’Ilva – spiega Calenda nella nota – sono stati presentati al Governatore della Puglia ed a quello della Liguria insieme a molti sindaci – ma non a quello di Taranto che non si è presentato all’ultimo minuto pur avendo richiesto l’incontro – da Mittal nell’ambito del tavolo istituzionale tenutosi al Ministero dello Sviluppo Economico lo scorso 16 novembre”. “Nello stesso tavolo – prosegue il ministro dello Sviluppo Economico – si era deciso di convocare due incontri separati per Taranto e per Genova per approfondire le tematiche ambientali e industriali. All’uscita dalla riunione Emiliano dichiarava alla stampa la sua soddisfazione per la convocazione del tavolo Taranto salvo qualche giorno dopo presentare ricorso al Tar contro il Dpcm ambientale. Da quel momento Emiliano ha dichiarato tutto e il contrario di tutto: che il ricorso era uno come un altro, che in caso di accoglimento della sospensiva l’Ilva non rischia la chiusura, che il ricorso serve a conoscere carte segrete quali il piano industriale. Si tratta di affermazioni non rispondenti al vero.” “Oggi però il rischio è che Arcelor Mittal ritenga impossibile gestire l’acciaieria più grande della Ue con Comune e Regione che vogliono cacciarlo. Viene da pensare che Emiliano non abbia consapevolezza di quello che fa, quello che stiamo vedendo è inaccettabile” aggiungendo “Se l’Ilva chiude andiamo a comprare l’acciaio in Germania e perdiamo un punto di Pil. Con il Tap diversifichiamo rispetto al gas russo. Di fronte a tutto questo Emiliano dice che la questione riguarda solo la Puglia”. Commentando l’equivoco silenzio del Pd sulla vicenda Calenda dice: “Il silenzio non è solo del Pd, ma della classe dirigente italiana. Anche negli altri partiti non populisti e nella società civile. Ed è sconcertante”. Il Pd infatti non può parlare. Emiliano e Melucc isono stati eletti nelle loro liste… “Siamo ormai abituati ai ricorsi di Emiliano – conclude il ministro Calenda – su Vaccini, Buona scuola, Tap e anche precedenti su Ilva per fortuna tutti regolarmente perduti. In questo caso però il rischio è che l’investitore, constatata l’ostilità delle Istituzioni locali, scappi”. Quello che sfugge a molti, è che questa è la prima volta che i sindacati in maniera unitaria sono dalla parte del Governo e dell’industria (Ilva) e contro il protagonismo dei politicanti di provincia (leggasi Emiliano e Melucci) che si atteggiano a “masanielli” di turno. Nell’imbarazzante dialogo fra il governatore Emiliano ed il sindaco Melucci (attraverso i loro ventriloqui-staffisti) con Calenda, è intervenuto persino il cosiddetto “Museo spartano di Taranto” che ha ricordato al sindaco di Taranto e al presidente della Puglia la famosa “pisciata d’orgoglio”: quella del capostipite Filonide che urinò sull’ambasciatore romano (o ministro?) Lucio Postumio. Ma anche il Museo Spartano ha qualche lacuna storica e non ricorda come andò a finire la storia con Roma e quanto costò la “pisciata” alla città (e al suo orgoglio). Glielo ricordiamo noi: fu assediata, sottomessa, e conquistata. Più o meno quello che Emiliano da tempo sta cercando di fare. Ma c’è anche un imbarazzante filo conduttore dell’invasione “barese” nella vicenda ILVA, contestata dall’ Ordine degli Avvocati di Taranto, e cioè l’incarico affidato dal Comune di Taranto all’ Avv. Marcello Vernola, ex Presidente della Provincia di Bari con una giunta di centrodestra, candidatosi anche alla Regione, ed il cui nome compare nella vicenda degli appalti “facili” delle Ferrovie Sud Est , in cui l’avv. Vernola risulta aver ricevuto molte delle consulenze d” oro” come ad esempio gli incarichi legali spezzettati, ben dodici consulenze legali, tutte con affidamento diretto, e ben sei delle quali arrivate in uno stesso giorno; incarichi che gli fruttarono quasi 295 mila euro, proprio mentre l’azienda di trasporti pugliese risultava indebitata per centinaia di milioni di euro. Incarichi affidati a Vernola dall’ex-amministratore unico, il tarantino Luigi Fiorillo suo vecchio amico e militante, nel Movimento Giovanile Democristiano (i giovani della DC – n.d.r.), che è plurindagato.
Calenda “spiazza” Emiliano ed incontra il sindaco Melucci a Taranto, scrive il 5 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Il ministro Calenda ha telefonato questa mattina al Sindaco di Taranto parlandosi per qualche minuto, ed a un certo punto della conversazione avrebbe detto a Melucci: “ok, sto venendo da te”. Dopo alcuni minuti Calenda è arrivato a Palazzo di Città dove ha incontrato il Sindaco di Taranto. Il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, sta incontrando a Taranto in queste ore il sindaco Rinaldo Melucci, il quale insieme al governatore della Puglia Michele Emiliano avevano avviato un braccio di ferro sulla questione Ilva presentando un ricorso al Tar di Lecce. La visita, a sorpresa, è stata anticipata dal ministro con una telefonata e l’incontro si sta svolgendo a Palazzo di Città. Proprio ieri il ministro Calenda aveva invitato Emiliano a ritirare il ricorso al Tar e ad aprire un tavolo di confronto. Questa mattina il ministro Calenda ha telefonato al sindaco di Taranto parlandosi per qualche minuto, ed a un certo punto della conversazione avrebbe detto a Melucci: “ok, sto venendo da te”. Dopo alcuni minuti Calenda è arrivato a Palazzo di Città dove ha incontrato il Sindaco di Taranto. Al termine dell’incontro, è stato diffuso un comunicato stampa concordato con cui è si è resa nota la convocazione di un Tavolo negoziale dedicato a Taranto con all’ordine del giorno quanto già richiesto con apposita lettera dal Sindaco al Ministro prima dell’incontro istituzionale del 16 novembre scorso al Mise. Il Sindaco di Taranto ed il Ministero dello Sviluppo Economico con un comunicato congiunto hanno confermato che “al ricevimento della formale convocazione con l’ordine del giorno condiviso sarà disponibile al ritiro del ricorso al Tar, previa consultazione sulla questione anche con il Governatore Emiliano”. L’ordine del giorno dovrebbe comprendere: analisi del piano ambientale del DPCM e verifica dei possibili miglioramenti; condivisione del cronoprogramma della copertura anticipata dei parchi primari; gestione e valutazione del danno sanitario; gestione dell’attività del fondo sociale di Taranto; provvedimenti per l’indotto; condivisione del piano bonifiche di competenza dell’amministrazione straordinaria; istituzione di un centro di Ricerca e Sviluppo sull’acciaio e tecnologie carbon free. “All’ordine del giorno del Tavolo per Taranto ci sarà anche la valutazione del danno sanitario, oltre all’analisi del Dpcm, e dei suoi eventuali miglioramenti e il cronoprogramma per la copertura dei parchi minerali. Sapete che ho dato disposizione all’amministrazione straordinaria dell’Ilva di partire comunque, prima ancora che si completi il processo di trasferimento degli asset”, ha dichiarato il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda dopo aver incontrato a Taranto il sindaco Rinaldo Melucci. “Si parlerà – ha specificato – dello sviluppo del fondo sociale per Taranto, che prevede 30 milioni di euro a sostegno in particolare dei giovani; del Centro di ricerca che Mittal vuole sviluppare qui, investendo per farlo diventare centro di eccellenza anche per le tecnologie di carbon free; del miliardo e 80 milioni di euro di bonifiche che l’amministrazione straordinaria impiegherà, oltre al miliardo e duecento che investirà Mittal sulla parte ambientale e dei provvedimenti a favore dell’indotto“. Parallelamente “può ripartire – ha concluso il ministro – la vertenza sindacale. Per la convocazione del Tavolo per Taranto sentirò il sindaco e il governatore e poi indicheremo la data”.
Ilva Taranto: Comune, Regione, Governo… pace (s)fatta, scrive il 6 dicembre 2017 Michele Tursi su La Ringhiera. In teoria ora ci sarebbe solo da attendere la data della ripresa del confronto sull’Ilva che dovrebbe vedere seduti al tavolo del ministero dello Sviluppo economico anche il Comune di Taranto e la Regione Puglia. Usiamo il condizionale perchè nero su bianco, al momento, non c’è niente (a parte la nota congiunta diffusa ieri) e perchè troppo spesso abbiamo assistito a repentini cambiamenti. Come dicevano i latini “rebus sic stantibus”, stando così le cose, conoscere la data del nuovo incontro sarebbe la logica prosecuzione della convulsa giornata vissuta ieri. Ma la politica è fatta di sfumature. E probabilmente a Michele Emiliano non è molto piaciuto il blitz del ministro Calenda a Taranto, senza nemmeno una telefonata di cortesia al presidente della Regione. “Ma non ci formalizziamo sul protocollo – ha detto in conferenza stampa a Palazzo di città, al fianco del sindaco Rinaldo Melucci – abbiamo ottenuto un risultato storico”. Nella nota congiunta di Palazzo di città e del Mise, infatti, vengono accolte tutte le richieste avanzate dal primo cittadino di Taranto con la lettera del 16 novembre scorso in occasione dell’incontro istituzionale cui Melucci non partecipò. Il tema che ancora fa discutere è il ritiro dei ricorsi al Tar, avverso il dpcm del 29 settembre 2017, avanzati da Comune e Regione. “Il Sindaco ha confermato – si legge nella nota congiunta – che al ricevimento della formale convocazione con l’ordine del giorno condiviso sarà disponibile al ritiro del ricorso al Tar, previa consultazione sulla questione anche con il Governatore Emiliano”. La consultazione con il governatore c’è stata e sul punto Emiliano ha frenato. “Non c’è alcun ritiro – ha detto ai giornalisti riuniti nell’aula consiliare – se nella trattativa verranno affrontati e risolti positivamente gli elementi costitutivi dei ricorsi, è ovvio che l’azione legale non avrà più motivo di sussistere e decadrà”.
Dietro le quinte dei “ricatti” alle istituzioni di Michele Emiliano, politico-magistrato sotto inchiesta del CSM, scrive Antonello de Gennaro il 6 dicembre 2017 su "Il Corriere del Giorno". Michele Emiliano è bene ricordarlo ancora una volta, è un magistrato (non in servizio per fortuna!) sotto inchiesta dalla 1a Commissione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura per aver violato la norma che impedisce ai magistrati di “fare politica”, che è cosa ben diversa dall’ essere un rappresentante eletto dai cittadini nelle istituzioni. Devo innanzitutto confessare che sin dal mio primo incontro con Michele Emiliano in una conferenza stampa a Taranto durante la campagna elettorale per le elezioni regionali, non ho avuto particolare sintonia e simpatia per l’attuale governatore della Regione Puglia, ed ancora una volta la mia prima impressione, il mio intuito hanno avuto ragione. Nella mia lunga vita professionale, sono oltre 30 anni che faccio il giornalista in lungo e largo per l’Italia non avevo mai incontrato un politico così ambiguo. Hanno ragione dei politici baresi di lungo corso a definirlo uno “sfalsino” (cioè una persona a due facce). Michele Emiliano è bene ricordarlo ancora una volta, è un magistrato(non in servizio per fortuna !) sotto inchiesta dalla 1a Commissione disciplinare del CSM (il Consiglio Superiore della Magistratura n. d.a.) per aver violato la norma che impedisce ai magistrati di “fare politica”, che è cosa ben diversa dal essere un rappresentante eletto dai cittadini nelle istituzioni, e quindi dovrebbe avere il buon gusto di tacere prima di “emettere” sentenze e pareri giuridici su questioni di cui dimostra una palese ed evidente ignoranza. Dopo essere stato fatto fuori dalla politica cittadina barese con l’avvento del “renziano” Dicaro. Emiliano ha cercato di ampliare la propria “corrente” sostenendo la sfortuna candidatura a sindaco di Brindisi di Nando Marino, dove lo stesso Partito Democratico brindisino al ballottaggio ha preferito votare il candidato (eletto) della lista civica centrista, pur di non farsi calpestare dall’arroganza barese di Emiliano. Dopo il fallimento brindisino, Emiliano ha “cavalcato” la candidatura last-minute di Rinaldo Melucci, un “profano” della politica, con la complicità di un Pd tarantino frantumato ed incapace di trovare al proprio interno un candidato alla poltrona di primo cittadino. Qualche “pazzo” aveva offerto la candidatura a sindaco di Taranto un anno prima delle elezioni al sottoscritto, ottenendo un garbato netto rifiuto. Dopodichè qualcuno ha provato a convincere il prefetto Francesco Tagliente (ex questore di Roma e Firenze) che vantava un solido rapporto di amicizia con Matteo Renzie Luca Lotti, e già indicato come assessore alla sicurezza nella capitale dall’ on. Roberto Giacchetti (vicepresidente della Camera) candidato del Pd al Comune di Roma contro la “grillina” Virginia Raggi. Anche in questo caso è arrivato dal prefetto Tagliente un garbato rifiuto istituzionale. Alla fine i democratici” (si fa per dire…) tarantini ci hanno provato anche con il mio amico e collega Walter Baldacconi direttore dell’emittente televisiva pugliese Studio 100, il quale dopo aver tentennato per qualche secondo, è stato ben consigliato, ed ha rifiutato anch’egli. Nel frattempo si consumavano le guerriglie interne al Pd tarantino dove volevano candidarsi in tre : Gianni Azzaro, Piero Bitetti e Lucio Lonoce, rispettivamente un semplice finanziere in aspettativa, un ex-macellaio, ed un ex-operaio dell’ ILVA, e quindi per evitare di consegnare la poltrona di primo cittadino al centrodestra o allo sfumato “pericolo” grillino, qualcuno ha (mal)pensato di candidare Rinaldo Melucci, noto in città, negli ultimi anni, solo per essere il presidente dello Ionian Shipping Consortium un consorzio di operatori portuali, le cui limitate capacità sono raccontate e testimoniate dai bilanci in perdita della sua società e dei lamenti e critiche sul suo operato da parte degli stessi soci del consorzio marittimo. Emiliano ha ben pensato di sottomettere sotto la sua ala “protettiva“ (o distruttiva ?) il sindaco di Taranto Melucci, usandolo come “cavallo di Troja”, contro il Governo Renzi, nella spinosa questione dell’ ILVA, ma fonti bene informate interne al Pd di terra jonica, raccontano dei lamenti di Emiliano con i referenti tarantini del Pd nei confronti del Sindaco Melucci che, esaltato dalla sua “staffista-portavoce-tuttofare“, ha letteralmente perso il proprio controllo ed equilibrio e pensa di poter dettare condizioni a tutti, senza in realtà contare nulla soprattutto nei reali equilibri e “pesi” della politica che conta. Il Governatore della Regione Puglia che non ha alcun potere istituzionale e tantomeno decisionale sulle scelte e posizioni del Comune di Taranto, appresa la notizia della presenza del ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda a Taranto, non ha gradito il blitz del ministro definendo l’iniziativa di Calenda una “scorrettezza” istituzionale. Resta da capire qualcosa: quale sarebbe questa scorrettezza? Un ministro della repubblica, infatti, è assolutamente libero di incontrare quando e dove vuole un Sindaco, senza necessariamente dover chiedere il permesso ad Emiliano, che sta invadendo un pò troppo la politica di Taranto. Non a caso al contrario di Emiliano i sindacati (Fim Cisl, Fiom, Uil e Cgil) ed altri rappresentanti istituzionali più seri e capaci del governatore pugliese, come ad esempio il Presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, (centrodestra) hanno espresso il proprio consenso e soddisfazione per la “buona notizia della riapertura del dialogo”. Ma il governatore pugliese timoroso di perdere l’amato “palcoscenico” si è messo subito in auto con il suo fido autista-segretario destinazione Taranto, dove a sua volta ha incontrato e “sgridato” il sindaco Melucci il quale ha dimostrato ancora una volta di essere un “burattino” (politicamente parlando s’intende) nella mani del “burattinaio” barese. Emiliano infatti ha subito cercato di frenare le aspettative sostenendo in una conferenza stampa congiunta con Melucci, ritornato all’ordine… che “il ricorso sarà ritirato solo se l’esito del tavolo sarà positivo”. Affermazione che nella vita (non politica, evidentemente) costituirebbe un ricatto, un estorsione, aggiungendo “Il ministro Calenda ha cambiato idea sul coinvolgimento degli enti locali e registriamo una sopravvenuta saggezza che è un fatto sicuramente positivo ma il ricorso contro il Dpcm sarà ritirato solo se l’esito del tavolo per Taranto sarà positivo, se cioè saranno prese in considerazione le nostre richieste, che pure sono state inserite all’ordine del giorno e questo ci fa ben sperare“. In realtà non è stato Calenda ad avere cambiato idea, ma bensì sono il sindaco Melucci ed il governatore Emiliano che hanno accettato di sedersi al tavolo ministeriale, dove si erano rifiutati di partecipare. La realtà è questa. Speriamo solo che non facciano ulteriori danni. Anche perchè Emiliano tutte le sue battaglie contro il Governo dinnanzi al Tar, Consiglio di Stato, Consulta, le ha perse tutte. Tanto il conto agli avvocati lo pagano i poveri “contribuenti” pugliesi. Che sono le vere vittime di questo burattinaio della politica levantina.
L’ambiente e Taranto. Lettera di Claudio Riva, Presidente Riva Forni Elettrici al direttore del Corriere della Sera, pubblicata il 4 dicembre 2017. "Caro Direttore, l’articolo “La miopia più forte dell’acciaio” (2 dicembre) merita alcune riflessioni. Il Gruppo Riva ha investito nell’ Ilva oltre 6 milioni di euro (emerge dai bilanci) – quasi il triplo di quanto vuole investire il futuro proprietario – tanto che Taranto è citata più volte come “modello” nella normativa Ue del 2012 (a cui bisognava adeguarsi nei 4 anni successivi). Nel 2013 l’Ilva veniva commissariata e i 4 anni per gli ulteriori investimenti sono passati: gli “omessi risanamenti” non possono quindi essere addebitati alla gestione Riva. Se non fosse stata commissariata, anche i restanti investimenti sarebbero stati fatti dal Gruppo Riva: cosa ancora oggi non avvenuta. C’è stata invece l’incredibile distruzione di un patrimonio netto pari a 3 miliardi (a inizio commissariamento) e la perdita di enormi quote di mercato. La “gestione privata” è finita in Tribunale, ma è vero che ben prima che il processo iniziasse – l’Ilva è stata illegittimamente espropriata ai titolari, peraltro senza alcun indennizzo. Anche questo farà riflettere, come scrive l’articolo all’estero, chi “all’estero decidesse di investire in Italia”. A oltre 5 anni dal sequestro degli impianti, il processo vede sgretolarsi importanti capisaldi dell’accusa e i periti del Tribunale ammettono che la gestione Riva ha rispettato tutti i limiti previsti dalle normative nazionali ed europee. Al governatore Emiliano è dunque difficile dar torto: l’Ilva è stata tolta al legittimo proprietario (italiano) sul presupposto errato che non rispettasse il cronoprogramma degli investimenti ambientali previsti dall’ ultima Aia: passati cinque anni tale programma non è stato attuato e viene ora addirittura modificato a favore del nuovo acquirente indiano. Riguardo alla “corruzione di interi pezzi della società pugliese”, i verdetti giunti finora dicono l’opposto, essendo stati assolti con formula piena dal reato di favoreggiamento l’ex-segretario del vescovo di Taranto don Marco Gerardo e Lorenzo Nicastro, ex assessore all’ambiente della Regione Puglia. Claudio Riva, Presidente Riva Forni Elettrici"
Quando la miopia è più forte dell’acciaio. L’Ilva, mal gestita per decenni, inquinante e tuttavia strategica per l’industria italiana, è ora al centro di uno scontro tra governo e Regione Puglia in cui è davvero difficile tenersi neutrali, scrive Goffredo Buccini l'1 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Il vasto repertorio dell’autolesionismo nazionale si sta arricchendo in queste ore di un nuovo, sconcertante capitolo sull’Ilva. La grande acciaieria, mal gestita per decenni, inquinante e tuttavia strategica per l’industria italiana, è ora al centro di uno scontro tra governo e Regione Puglia in cui è davvero difficile tenersi neutrali. Vale la pena di riassumere: tutto nasce dal ricorso del presidente pugliese Michele Emiliano (appoggiato dal sindaco di Taranto) contro il decreto con cui Roma fissava modi e termini nella produzione e nel risanamento ambientale della fabbrica in procinto di passare sotto il controllo della multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal; a fronte di tale ricorso che, davanti al Tar di Lecce, accusa il governo di procrastinare troppo i tempi di bonifica ignorando le raccomandazioni degli enti locali e di fatto colloca in un ennesimo limbo giudiziario il futuro dell’Ilva, il ministro Carlo Calenda ha preso un’iniziativa non meno clamorosa: bollando gli enti locali di «gestione schizofrenica», ha congelato il negoziato con Arcelor Mittal (su investimenti e posti di lavoro) «fino alla decisione del Tar» e ha specificato che, ove l’impugnativa pugliese fosse accolta, i commissari straordinari, cui tutt’oggi tocca gestire l’azienda, dovrebbero «procedere allo spegnimento degli impianti». Certificando, in sostanza, la fine dell’Ilva e, forse, di molto altro. Qui le letture possibili sono due e in qualche modo si incrociano. La prima riguarda appunto il futuro dei tarantini, ma anche di un grosso pezzo di Meridione e, in fondo, della nostra stessa posizione di grande Paese manifatturiero. La seconda, persino più inquietante, attiene al messaggio che da questa vicenda trasmettiamo a chiunque, all’estero, decidesse di investire in Italia. In questo senso (ma, a nostro avviso, solo in questo senso) il ministro per lo Sviluppo Economico ha torto, perché definisce il caso «senza precedenti»: si tratta invece di un caso grave ma tipico, purtroppo, in un Paese immobile, ancora malato di veti e «ricorsismo», che consegna a un localismo bellicoso e velleitario opzioni di interesse nazionale, in modo che qualsiasi decisione non diventi mai definitiva e che l’ultima parola spetti sempre, anziché alla politica, a una magistratura chiamata a compiti palingenetici (sia detto col massimo rispetto: ci sarà sempre un giudice a Lecce...). Tuttavia la vicenda di Taranto non si può liquidare come fosse frutto di una qualsiasi sindrome Nimby (non nel mio cortile) che paralizza un po’ ovunque opere e progetti. È, invece, un dramma collettivo con morti e malati veri, con acqua piovana rossa di veleni e scuole chiuse nei giorni di vento, e nasce da errori vecchi di mezzo secolo, da una gestione privata finita in tribunale, dalla corruzione di interi pezzi di società pugliese, cominciando da politici, sindacalisti e giornalisti che hanno sempre finto di non vedere omessi risanamenti e danari distratti. Taranto non è mai riuscita a superare la dicotomia salute-lavoro: la fabbrica uccide coi suoi fumi ma senza fabbrica si muore di fame. Dunque? Dunque si doveva voltare pagina. Innanzitutto Taranto non è solo Taranto, è la ragione per la quale siamo una potenza siderurgica in Europa: l’acciaieria si dovrà trasformare ma non si può spegnere (quanto alla riuscita di certe de-industrializzazioni e di certe bonifiche qualcuno vada a farsi un giretto a Crotone o a Bagnoli). Taranto e i tarantini hanno perciò ottimi argomenti da far pesare. Quelli di Arcelor Mittal non sono filantropi e nessuno pretende che lo siano, ma sono leader di settore e sono l’ultima chance: la produzione verrà tagliata (anche per inquinare meno), l’occupazione lo sarà di conseguenza, il risanamento ambientale imporrà costi che i franco-indiani recalcitreranno ad accettare, l’antitrust europeo dovrà dire la sua; e tuttavia su ciascuna di queste voci e di questi problemi la partita è aperta, il confronto possibile. O, almeno, lo era, fino al ruggito di Emiliano. Il presidente della Puglia è uomo di istituzioni. E sta assai stretto nei panni di politico guevarista dentro cui ha deciso di infilarsi da qualche tempo (più o meno dall’infelice referendum sulle trivelle). Nemmeno i sindacati hanno capito la sua mossa, gravata secondo alcuni dal sospetto di una faida interna al Pd; molti lo invitano a ritirare il ricorso e a sedersi di nuovo al tavolo delle trattative: un tavolo ancora scosso dal pugno picchiato da Calenda, incredulo all’idea che il Sud possa mandare all’aria cinque miliardi di investimenti e ventimila posti di lavoro tra diretti e indiretti (di questo si discuteva). Poco incline alle diplomazie, il ministro ha in questa storia soprattutto un merito: la chiarezza. Ha urlato che il re è nudo, che così non si può più andare avanti. C’è da augurarsi che qualcuno lo senta, prima che l’ultimo treno si sia allontanato da Taranto, Italia.
Il ministro Calenda: «Ilva, emergenza nazionale. L’Italia bloccata dai veti incrociati». Il ministro dello Sviluppo Economico: «La fabbrica rischia di chiudere. C’è un silenzio assordante della classe dirigente, non soltanto del Pd», scrive Marco Galluzzo il 2 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Il dato della realtà è questo: oggi Comune di Taranto e Regione Puglia presentano un ricorso contro un piano ambientale che prevede 1,2 miliardi di investimenti a carico dell’investitore, la copertura dei parchi minerari che inizierà a gennaio, e una produzione limitata a 6 milioni di tonnellate sino a che non si completano tutte le misure. Un piano approvato da una commissione di esperti indipendenti del ministero dell’Ambiente, che porta l’Ilva ad essere una della acciaierie più avanzate al mondo. Se il Tar concederà la sospensiva al piano, come chiesto da Emiliano, si dovrà iniziare il processo di spegnimento mentre si ricorre al Consiglio di Stato».
Lei ha parlato di irresponsabilità della classe dirigente regionale, perché?
«Emiliano ha fatto ricorso su tutto: dai vaccini al Tap, all’Ilva stessa. Per fortuna li ha sempre persi. Oggi però la situazione è diversa, perché il rischio è che Mittal ritenga impossibile gestire l’acciaieria più grande della Ue con il sindaco della città e il presidente della Regione che vogliono cacciarlo. È stupefacente quello che ha dichiarato Emiliano, sorprendendosi dello scandalo che ha suscitato, dicendo che è solo uno dei ricorsi, come tanti altri. Viene da pensare che non abbia consapevolezza di quello fa e che per lui ricorrere sia normale attività di governo. Per queste ragioni invece di ignorare i ricorsi e le polemiche che Emiliano cerca con ogni mezzo ritengo sia importante dire con chiarezza e senza mezzi termini che quello che stiamo vedendo in Puglia è inaccettabile».
Questo lo deciderà il Tar, o no?
«Certo ma il problema non è solo giuridico. C’è una Regione che ha due infrastrutture strategiche per l’intero Paese, l’Ilva e il Tap, contro le quali il Governatore ha mosso una guerra. Dice che vuole Ilva a gas, cosa che non sta in piedi, perché in nessun paese, neanche quelli che pieni di gas, c’è un’acciaieria delle dimensioni di Ilva che va a gas. Ma poi comunque fa ricorsi contro un tubo, quello del Tap, che porta in Europa, attraverso l’Italia, il gas azero. Ci sono 3 mali che hanno condizionato tutta la seconda Repubblica: la politica dei ricorsi al Tar; la fuga della realtà, quando si promettono cose che non si possono fare; l’irresponsabilità nei confronti delle conseguenze degli atti che si pongono in essere. Lo vedremo quando poi Emiliano dirà che è responsabilità del governo prendersi cura delle 20 mila persone che perderebbero il lavoro se Ilva chiude».
Perché accosta il Tap all’Ilva?
«Ilva è il caso più eclatante degli ultimi anni, si tratta di oltre 5 miliardi, il più grande investimento industriale nel Meridione da decenni. Ma quello del Tap è un caso altrettanto significativo: per un piccolo tubo di 1,5 metri di diametro, che passa 16 metri sotto la costa e a cui siamo arrivati dopo la valutazione di 13 percorsi alternativi, siamo in grande ritardo, rischiamo una figuraccia internazionale. La Regione è persino arrivata a certificare che gli ulivi sono alberi ad alto fusto per bloccare l’opera mostrando livelli di creatività mai visti prima».
Perché sono opere strategiche per il Paese?
«Se Ilva chiude andiamo a comprare l’acciaio in Germania e perdiamo un punto di Pil. Con il Tap diversifichiamo rispetto al gas russo. Di fronte a tutto questo Emiliano dice che la questione riguarda solo la Puglia. E il Sindaco minaccia battaglie in quanto discendente degli Spartani. Il governo intanto ha tenuto in piedi l’Ilva con quasi 500 milioni di euro prestati all’amministrazione straordinaria. Soldi degli italiani, di tutti i contribuenti che rientrerebbero se l’acquisto andasse a buon fine».
È una storia già vista con Alitalia.
«Certo, è l’idea che tutto è gratis e dovuto. Il gas deve essere ad un prezzo basso ma senza gasdotti. Si vogliono posti di lavoro ma quando ci sono investitori non vanno bene, e quando non ce ne sono è colpa del Governo. C’è un populismo istituzionale che ormai è quasi un virus. Si è già visto anche con Alitalia, che probabilmente non otterrà condizioni migliori al prossimo compratore rispetto a quelle che offriva Ethiad, condizioni che a loro volta erano peggiori di quelle che garantiva Air France anni fa. Un processo che è una continua fuga dalla realtà. Se Mittal rinuncia all’acquisto Emiliano non si farà carico delle bonifiche e dei lavoratori, e sarà il primo a protestare per il prezzo del gas dopo aver boicottato il Tap. Su Alitalia già si riparla di nazionalizzare dopo aver speso miliardi di euro dei contribuenti. Perché alla fine il conto di tutta questa cialtroneria lo pagano sempre i tanti italiani che lavorano, producono e tengono in piedi il paese».
Pensa anche ai sindacati? La protesta contro Emiliano sono lacrime di coccodrillo?
«Non si può generalizzare. Per Alitalia sì, Annamaria Furlan ha definito giustamente quel caso un esempio di populismo sindacale. Per l’Ilva è diverso i sindacati metalmeccanici hanno ben altro spessore e consapevolezza del rischio che si corre. Insieme abbiamo vinto una battaglia giusta con l’investitore perché riconoscesse i livelli salariali precedenti».
Si può fare politica industriale in questo Paese?
«La si fa. Con Industria 4.0., con il piano Made in Italy, con la Strategia energetica nazionale. Gli investimenti degli imprenditori sono cresciuti più del 10% l’export è il doppio di quello francese. Ma certo senza un sistema amministrativo che funziona e una politica ancorata alla realtà diventa difficile in particolare occuparsi dei casi più complessi di quei settori, dall’acciaio ai call center, più colpiti dalla crisi. E in questo modo aumentano i divari».
Negli stabilimenti Ilva si sono circa 200 ispezioni ambientali l’anno, con 500 risorse che lavorano per gestirle.
«Ecco, l’unico modo per risolvere il problema è investire il miliardo e duecento milioni del piano ambientale e il miliardo confiscato ai Riva per le bonifiche».
Il silenzio del Pd le pesa?
«Il silenzio non è solo del Pd, che vede peraltro Bellanova e De Vincenti insieme a Galletti impegnati tanto quanto me, ma il silenzio della classe dirigente italiana anche negli altri partiti non populisti e nella società civile. Ed è sconcertante. Non c’è una strategia di sviluppo senza una presa di coscienza del fatto che la fuga dalla realtà è la malattia che nutre il populismo. Noi abbiamo stabilito: dal 2025 niente carbone nelle centrali elettriche. Bene, tutti d’accordo, oggi tutti vogliono decarbonizzare, ma se poi provi a fare le necessarie infrastrutture nessuna Regione o comune si astiene dal fare ricorsi. Così non si va lontano».
Si aspetta una parola da Gentiloni?
«Ogni giorno mi coordino con Gentiloni, il quale peraltro mi sta supportando molto in Europa che è un altro fronte aperto e difficile di questa vicenda Ilva».
Ci vogliono norme diverse?
«Fallito purtroppo il referendum, la prossima legislatura si deve porre il problema di una clausola supremazia in grado di superare i veti locali di fronte ad interessi strategici nazionali, come in Germania».
Il Tap rischia di fallire come l’Ilva?
«L’Ilva in realtà è già in amministrazione straordinaria, e rischia di chiudere. Il Tap lo faremo con enormi difficoltà, e con l’umiliazione internazionale di essere l’unico Paese che non rispetta i tempi, mentre tutti gli altri hanno già finito o stanno completando i loro tratti, dall’Albania alla Grecia alla Turchia».
Oggi Grasso viene incoronato leader Mdp, che ne pensa?
«Penso che bisogna trovare il modo di fare un’alleanza ampia nel centrosinistra, ma che parta dai contenuti e che non sacrifichi la coerenza alle logiche di appartenenza di questa legge elettorale. Grasso è una persona di grande livello, porterà un contributo, ma ci vogliono programmi sui punti nodali del Paese. Qui ci occupiamo solo di polemiche sulle banche e della cronaca del giorno, mentre rischia di chiudere l’Ilva e il silenzio è assordante. La campagna elettorale è iniziata all’insegna delle promesse che non si manterranno e si tiene alla larga dalla realtà dove le soluzioni sono più complesse e le spiegazioni semplicistiche non reggono. Se questo Paese non fa un bagno di realismo rischiamo lo squagliamento disordinato della Seconda Repubblica».
Esiste un partito, o metodo, Gentiloni?
«Io credo che Gentiloni ha portato un metodo di lavoro nuovo nel governo, proseguendo le riforme iniziate da Renzi ma rassicurando il Paese e rendendo il lavoro più fluido. Credo che sia la strada giusta, ma senza voler togliere meriti ai risultati del Governo Renzi. Il paradosso attuale è che i provvedimenti di Renzi sono stati i più riformisti da molti anni, ma hanno comunicato ad una parte ampia del Paese non un senso di svolta, ma di insicurezza. Usare il coraggio riformista di Renzi e la forza tranquilla di Gentiloni secondo me è un mix che porterebbe il Pd lontano».
Ma il programma?
«Appunto manca la costruzione di un programma solido che porti avanti le riforme, e al momento è un pericolo mortale. La campagna elettorale oggi si occupa di realtà virtuale innestata in un Truman show giornaliero incomprensibile per i cittadini e pieno di rancori e sospetti persino all’interno del Pd. È una situazione che non paga, sicuramente non con gli elettori di centrosinistra. E non è in linea con quanto fatto dagli ultimi due governi, che hanno affrontato anche nodi molto complessi e difficili in modo serio rimettendo in moto il Paese».
ESCLUSIVA. La citazione per danni dei Riva ai giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno, che non la raccontano tutta…! Scrive Antonello de Gennaro l'1 dicembre 2017 su "Il Corriere del Giorno". L’atto di citazione della famiglia Riva (e società) contro la Gazzetta del Mezzogiorno, il suo direttore De Tomaso ed il cronista Mimmo Mazza. Un documento “esclusivo” per capire la verità dietro le quinte del processo senza interpretazioni pittoresche… o fiancheggiamenti a favore dei magistrati che hanno imbastito il processo Ambiente Svenduto. Secondo quanto riportato dall’annuale rapporto di Reporters sans Frontieres, il nostro Paese ha migliorato e di molto la propria condizione relativa alla libertà di informazione, balzando dal 77° al 52° posto nella classifica mondiale. Nonostante questo, l’Italia ancora oggi si colloca agli ultimi posti nell’Unione Europea. Il primato, invece, continua ad appartenere alla Finlandia, paese in cui le condizioni di lavoro per i giornalisti sono le migliori al mondo. Sarebbe davvero interessante, poi, stilare una classifica di quali siano i paesi al mondo che continuano, forti della convinzione che la libertà di espressione sia un diritto di tutti, a fare dell’informazione un esercizio di “giornalismo disinformata”. Proprio così, perché il rischio che all’Italia venga assegnato il primato della disinformazione non è poi così lontano. Quando nei giorni scorsi abbiamo ricevuto per posta in una busta l’atto di citazione della famiglia Riva alla Gazzetta del Mezzogiorno, al suo direttore Giuseppe De Tomaso, ed al vice-capo servizio della redazione tarantina Cosimo (detto Mimmo) Mazza, ed effettuato le opportune verifiche a seguito delle quali abbiamo appurato che si trattava di un documento reale ed integrale, relativo ad una delle varie cause civili intraprese dai legali della famiglia Riva, abbiamo deciso di pubblicarla in esclusiva, ritenendo che i lettori abbiano il diritto di conoscere ogni ragione di parte, soprattutto in una vicenda processuale così complessa come il processo Ambiente Svenduto, di rilievo nazionale attualmente in corso a Taranto. Il nostro intento sia ben chiaro non è quello di difendere le tesi accusatorie dei Riva, nè tantomeno salire sul carro di quei giornalisti e sindacalisti che si stracciano le vesti atteggiandosi a vittime di una censura inesistente, ma bensì quello di fare il nostro lavoro di giornalisti ed offrire ai lettori delle notizie nella loro completezza, e come sempre documentandole “integralmente”. La causa è relativa ad un articolo pubblicato dalla Gazzetta del Mezzogiorno lo scorso 17 gennaio 2017nel quale secondo gli avvocati della famiglia Riva, a cui il codice penale e civile sembrerebbero dare ragione (dal punto di vista della diffamazione subita dai loro assistiti) in conseguenza dell’utilizzazione giornalistica manipolata del concetto del “patteggiamento” al fine di far credere al lettore, facilmente suggestionabile per il tecnicismo delle questioni, che con tale forma di definizione del procedimento la società dei Riva ed i componenti della importante famiglia di industriali lombardi abbia confessato a tutti gli effetti il compimento dei reati. Cosa che non ha ancora fatto. Secondo il legale dei Riva e delle loro società il “contenuto diffamatorio” dell’articolo pubblicato e firmato da Mimmo Mazza coinvolge certamente gli esponenti della famiglia Riva rinviati a giudizio nonché la Riva Forni Elettrici s.p.a. (parte exd.lgs 231/01) e “coinvolge altresì il medesimo Claudio Riva in proprio il quale, benché non rinviato a giudizio, avrebbe secondo la Gazzetta del Mezzogiorno, ammesso il proprio coinvolgimento nella vicenda. Peraltro il contenuto diffamatorio a carico del sig. Claudio Riva attiene alla circostanza che allo stesso viene attribuita la paternità di una dichiarazione a contenuto potenzialmente calunnioso nei confronti degli imputati del processo” (Ambiente Svenduto in corso a Taranto – n.d.a.).
Il cronista Mazza, si legge nell’atto legale dei Riva, avrebbe utilizzato la capacità di generare confusione della fattispecie, “attribuendo al legale rappresentante della società che ha avanzato la richiesta di applicazione di sanzione ex art 63 d.lgs 231/01 una dichiarazione sostanzialmente coincidente con i capi di imputazione utilizzando l’errato postulato secondo cui il patteggiamento ( quello previsto dal cit. art. 63 assume la medesima natura dell’ istituto di cui all’ art444 c.p.p. ) equivarrebbe ad un accertamento con sentenza o addirittura aduna piena confessione di colpevolezza”. Così continua l’atto: ” Nel caso di specie la fattispecie complessiva costituita dall’ utilizzo distorto dei titoli e sottotitoli nei quali le dichiarazioni vengono rappresentate fuori dal contesto dell’ istanza di patteggiamento ex art 63 d.lgs 231/01 e portate all’immediata attenzione del lettore come una piena confessione di colpevolezza e di fondatezza totale del teorema accusatorio per evocare una sorta di colpo di scena processuale, e poi il contenuto dell’· articolo con i capi di imputazione riportati come dichiarazioni del legale rappresentante di Riva Forni Elettrici s.p.a., portano a doversi ritenere consumata la fattispecie di cui all’ art 595 comma 3 c.p” (cioè il reato di diffamazione aggravata prevista dal Codice Penale n.d.a.). Il rispetto del requisito della verità avrebbe quindi imposto al cronista secondo il legale della famiglia Riva e della loro società “di dare precisa e completa spiegazione della fattispecie precisando la natura del procedimento ex art 63 d.lgs 231/01 e ciò proprio al fine di evitare di ingenerare nella platea dei lettori quella confusione che ha invece voluto alimentare alterando la verità con l’espressa e colorita attribuzione del contenuto dei capi di imputazione alle dichiarazioni del legale rappresentante della Riva Forni Elettrici s.p.a.” invece della ricerca spasmodica del sensazionalismo fine a stesso che segue logiche poco chiare e sicuramente strumentali fondate sulla spettacolarizzazione della notizia che punta al gossip più basso senza in realtà, di fatto, informare il lettore. La comunicazione in senso generale e con essa l’informazione, giornalistica o televisiva che sia, è portatrice di un preoccupante potere che apporta una pesante responsabilità altrettanto grande. Questa responsabilità è nelle mani degli operatori, siano essi giornalisti, broadcaster o opinion leader, i quali, allorquando veicolano un messaggio verso un pubblico di fruitori più o meno vasto, più o meno capace di verificarne la fondatezza, hanno il dovere della completezza, dell’obiettività e dell’imparzialità. Anche quando il messaggio stesso è contestualizzato dall’opinione, legittima, di chi comunica. Ed è per questo che non abbiamo mai voluto fare gli “opinionisti”, preferendo lasciare a tutti voi lettori le debite considerazioni dopo la lettura dell’atto. Impantanati nel “giornalismo fai da te”, che fuoriesce nel labirinto delle fake news da social network, molti sono convinti che, in quanto giornalisti, si possa esprimere qualunque opinione, credendo di aver acquisito anche il diritto di raccontare ciò che si voglia, dimenticando troppo spesso che le notizie dovrebbero essere prima verificate e poi pubblicate. Oggi tutti pensano di essere giornalisti. Qualcuno serio che si attiene alle regole deontologiche per fortuna esiste ancora, ma il vero dramma è che giovani blogger, o giornalisti privi di alcuna esperienza reale, hanno la presunzione di atteggiarsi a giornalisti “esperti” nei vari settori facendo delle proprie convinzioni dei dati di fatto, per poi far cadere nella trappola migliaia e migliaia di lettori. Questo genere di informazione falsata diventa “pura disinformazione” ed è ormai all’ordine del giorno: dalle fake news alla manipolazione delle notizie, spesso alcuni mezzi di comunicazione non ci raccontano la verità. E la cosa peggiore è quando a fare queste campagne di disinformazione sono dei giornalisti. Assistiamo costantemente ad un uso strumentale del messaggio: ossia si cerca, a volte, di “colorare” una notizia o di metterla maggiormente in risalto perché funzionale, rispetto ad altre, a perseguire fini di consenso politico, sociale o di semplice popolarità di una “casta” o di un gruppo d’influenza o di potere. In alcuni casi, emerge una certa superficialità di chi fa informazione, ad esempio nella verifica delle fonti e/o dei fatti, una delle regole più importanti del giornalismo. Quest’atteggiamento alimenta la totale disinformazione e la nascita delle cosiddette bufale, che si trovano ad essere legittimate dall’autorevolezza del mezzo comunicativo (quotidiano, tv o web) che le veste di veridicità e come tale le diffonde. Si pensi ad esempio a tutte le notizie gravitate intorno alla vicenda dei migranti negli ultimi tempi. Ogni giornalista dovrebbe seguire le norme previste dalla Legge e dal codice deontologico professionale, ma soprattutto scrivere e raccontare la verità per il dovuto rispetto nei lettori e delle persone di cui si parla e scrive, altrimenti troveremo sempre più millantatori che si atteggiano a esperti di tuttologia di cui la rete, la tv, i quotidiani ormai ne sono colmi. Oggi la disinformazione miete le sue vittime ovunque e spesso ci racconta un mondo diverso da quello in cui viviamo, per cui diventa complesso e difficile interagire. Il mondo dell’informazione invece deve garantire trasparenza e certezza della notizia, evitando così di perdere anche quel poco di credibilità e di lettori che gli è rimasta. E non sarà sicuramente l’alzata di scudi del sindacato dei giornalisti a favore di un proprio rappresentante a cambiare il corso della giustizia. Nei tribunali viene ricordato in ogni aula la regola che “la legge è uguale per tutti”. E deve continuare ad esserla. Per tutti.
Vincenzo Di Maggio: «L’Ilva di Riva? Miniera d’oro che scontentava molti». «Con Riva molti potentati dell’era pubblica rimasero a secco e proprio allora, sarà stato un caso, si è sviluppata una coscienza ambientalista per problemi che erano noti da anni», scrive lunedì 04 dicembre 2017 Enzo Ferrari, Direttore Responsabile Taranto Buona Sera. Vincenzo Di Maggio, il presidente dell’Ordine degli Avvocati: i suoi rapporti con Riva, la Taranto degli anni ‘70 e il sogno della serie A. Tutto in una intervista.
Avvocato, lei è stato per circa undici anni il consulente del Gruppo Riva, per gli aspetti civilistici. Come le fu affidato l’incarico?
«Mi telefonò lo Studio Colombo di Milano. Chiesero a me e ad altri avvocati tarantini il curriculum per valutare a chi rivolgersi qui su Taranto in caso di necessità. Il giorno dopo mi chiamarono per farmi occupare di una grana che avevano avuto per gli accessi al porto.
Dopo aver lavorato così a lungo per Riva, che idea si è fatto di questa famiglia?
«Una famiglia dedita al lavoro. Con una dimensione aziendale molto semplice. Riva sapeva poco di evergetismo, di gesti di benevolenza fatti alla comunità. A lui interessava solo produrre acciaio.
Cosa le ha insegnato quella sua esperienza?
«Ho capito quello che era lo stabilimento nella gestione pubblica e ho compreso che Taranto non ha mai avuto una vocazione industriale. Storicamente gli unici veri imprenditori che abbiamo avuto sono stati i tintori ebrei che avevano gli opifici nell’attuale Via Roma. Taranto è sempre stata legata alla mammella dello Stato.
Sta dicendo che l’insediamento dell’Italsider non è servito a creare una classe imprenditoriale.
«Infatti. Abbiamo vissuto solo di appalti e subappalti. L’indotto importante era costituito dalle imprese del nord. E ci siamo accontentati di quanto veniva offerto attraverso il mondo politico e sindacale.
Dicevamo che Riva era interessato solo alla produzione.
«Sì. Non a caso i suoi primi atti furono la cessione del circolo Italsider e il trasferimento dell’ufficio contratti a Milano.
Cosa ha significato il trasferimento di quell’ufficio?
«Semplice: si passò dalla voragine di debiti della gestione pubblica alla trasformazione della fabbrica in una miniera d’oro. Cambiarono le modalità di gestione e molti dei potentati dell’era pubblica rimasero a secco e scontenti. Sarà stato un caso, ma proprio in quel momento si è sviluppata una coscienza ambientalista per problemi che, come TarantoBuonasera ha già avuto modo di mettere in evidenza nelle scorse settimane, erano noti da molti anni. E non è che Riva inquinasse più dell’Ilva pubblica, anzi.
Gli effetti sull’indotto di quel cambio di marcia quali furono?
«Con la privatizzazione molte imprese hanno pagato la mancanza di una vera e propria identità imprenditoriale. Taranto per la prima volta si era imbattuta in un imprenditore.
Un imprenditore a cui la situazione è però sfuggita di mano, soprattutto per la questione ambientale.
«Io ho avuto la famiglia sterminata dai tumori. Mia madre è morta a 46 anni e quindi non posso distribuire assoluzioni. Ma a mio avviso va condannato l’establishment che ha governato non il singolo imprenditore che è l’ultimo anello di una catena che non ha funzionato.
Da “Ambiente svenduto” sono emerse relazioni piuttosto torbide tra i Riva e alcune personalità del territorio…
«Se fossero state fatte indagini negli anni dell’Ilva pubblica oggi avremmo potuto scrivere dei trattati su certi tipi di relazioni…
Oggi siamo di fronte all’ennesimo scontro istituzionale. Crede che si riuscirà a trovare una soluzione?
«Sinceramente sono disorientato. Abbiamo voluto dare la colpa di tutti i nostri mali ad una persona mentre credo che questo sia il momento di cercare soluzioni più che responsabilità di quanto accaduto.
La riconversione è possibile?
«Sono scettico. Taranto ha tre risorse: agricoltura, cultura, pesca. Ma possiamo utilizzarle solo a patto di bonificare l’ambiente che abbiamo svenduto.
E il turismo?
«Nel resto d’Italia oggi Taranto è conosciuta per le tre “d”: dissesto, disorganizzazione, diossina. Purtroppo noi stessi stiamo esportando un’immagine devastante della città. Abbiamo avuto colleghi arrivati a Taranto da tutta Italia per partecipare a iniziative dell’Ordine degli Avvocati: avevano persino paura di mangiare al ristorante. Così che turismo vogliamo fare?
Quindi non crede alla riconversione?
«Alla riconversione deve contribuire in modo determinante lo Stato che ha creato questa situazione. Il vice sindaco ha parlato di modello Essen: ben venga la realizzazione di un disegno del genere. È chiaro che lo stabilimento dovrà essere ridimensionato e gli esuberi ben potrebbero essere ricollocati in nuove industrie, perché no, tese a risanare l’ambiente, da creare sul territorio.
Passiamo a migliori ricordi: gli anni ‘60 ’70 e suo padre, Michele Di Maggio, presidente del Taranto.
«Era un’altra Taranto. Elegante. Era la Milano del Sud. C’era educazione e senso di appartenenza, orgoglio di essere Tarantini. Oggi la nostra è una città litigiosa, che si piange addosso: altro che identità spartana! Allora, invece, c’era speranza nel futuro.
E nel calcio si sperava nella serie A…
«Arrivammo quinti in serie B con Invernizzi in panchina. Mio padre nutriva l’ambizione della promozione in serie A. De Palo, presidente del Bari, avrebbe fatto carte false per Beretti e Paina. Lui disse di no, voleva la massima serie.
Che non arrivò. Anzi, qualche anno dopo suo padre lasciò…
«Aveva un caratteraccio e si ritrovò quasi tutta la stampa contro. Poi arrivarono persino le minacce. Per un anno fui costretto ad essere accompagnato dalla scorta…non era vita!
Ora lei è presidente dell’Ordine degli Avvocati. E proprio l’altra settimana è nata la polemica per l’affidamento ad un avvocato barese dell’incarico per il ricorso del Comune contro l’Aia Ilva. Non l’avete presa bene.
«A Taranto ci sono 3.875 avvocati. Non credo che non ve ne fosse uno in grado di fare quel ricorso. Comunque, subito dopo, ci siamo incontrati con il vicesindaco De Franchi e gli abbiamo proposto di formulare una nuova short list dove poter attingere le nostre migliori professionalità a seconda del tipo di causa da affrontare. Speriamo così di poter costruire migliori relazioni per il futuro ed offrire un valido contributo alle scelte operative dell’Ente civico.
Ilva, "Ambiente Svenduto": presidente e giudice Corte d’Assise si astengono. In aula il 20 settembre, scrive il 12 luglio 2017 "Il Corriere di Taranto". Ora ogni spetterà valutazione al presidente del tribunale Franco Lucafò che dovrà decidere se rinnovare loro la fiducia o assegnare il procedimento ad un altro collegio. Sull’istanza di ricusazione dei due giudice si esprimerà comunque la Corte d’Appello. Ancora un colpo di scena nel processo ‘Ambiente Svenduto’ sul presunto disastro ambientale prodotto dall’Ilva. Il neopresidente della Corte d’ Assise del processo Stefania D’Errico, e il giudice a latere Fulvia Misserini, pur avendo respinto nel merito, durante l’udienza odierna, le eccezioni della difesa degli imputati in merito alla serenità e libertà di giudizio, hanno dichiarato di astenersi dal portare avanti il dibattimento e quindi di rimettere ogni valutazione al presidente del tribunale Franco Lucafò. Sarà dunque quest’ultimo a decidere se rinnovare loro la fiducia o assegnare il procedimento ad un altro collegio. I difensori di alcuni imputanti, come riportato questa mattina, hanno presentato anche istanza di ricusazione dei due giudici, sulla quale comunque si esprimerà la Corte d’Appello. Le ragioni sono sempre le stesse: le eccezioni legate all’insediamento del giudice Stefania D’Errico al posto del giudice Michele Petrangelo prima che questi vada in pensione per raggiunti limiti d’età (il prossimo 2 agosto), il fatto che il giudice sia residente in uno dei quartieri considerati più inquinati e risulterebbe quindi potenzialmente parte offesa; inoltre è stata evidenziata la partecipazione del giudice D’Errico ad una iniziativa ambientalista organizzata da una scuola di Taranto e l’adesione del marito della giudice ad un gruppo Facebook, risalente al 2012, chiamato ‘Profumo di Ilva’, di chiara ispirazione e matrice ambientalista. Al giudice a latere Misserini invece, i difensori hanno chiesto di astenersi per la sua frequentazione sporadica con un teste del processo indicato dal pubblico ministero. La presidente D’Errico, al termine di una lunga camera di consiglio, ha letto due ordinanze separate con cui ha respinto le eccezioni della difesa, ritenendo che non comportino la necessità dell’astensione obbligatoria, e sottolineando di essere stata indicata quale giudice togato aggiunto nel 2016 e che il giudice Petrangelo non avrebbe potuto, a causa di un impedimento, presiedere l’udienza odierna. In merito al gruppo Facebook a cui ha aderito il marito e alle altre contestazioni, il giudice ha invece precisato che si tratta di fatti datati nel tempo e che non ci sono casi di ‘inimicizie gravi’ con gli imputati. Il processo è stato così aggiornato al 20 settembre prossimo e l’udienza si terrà non più nell’aula di Corte d’Assise di Taranto ma nell’aula bulker dell’ex Corte d’Appello, al quartiere Paolo VI.
Processo «Ambiente svenduto». Rinnovata fiducia ai due giudici. «Non c'è alcuna incompatibilità», scrive il 21 luglio 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno. Restano al loro posto i due giudici togati della Corte d’Assise di Taranto impegnati nel processo per il presunto disastro ambientale causato dall’Ilva. Lo ha deciso il presidente del Tribunale di Taranto Franco Lucafò che ha depositato oggi il provvedimento con cui non ravvisa incompatibilità nei confronti del neopresidente della Corte d’Assise, Stefania D’Errico, e del giudice a latere Fulvia Misserini. Erano stati alcuni difensori nell’udienza del 12 luglio scorso a mettere in dubbio la serenità e la libertà di giudizio dei due giudizi che avevano deciso di astenersi dal portare avanti il dibattimento e di rimettere ogni valutazione nelle mani del presidente del Tribunale. I difensori, sempre nella scorsa udienza, avevano presentato anche istanza di ricusazione dei due giudici, sulla quale si esprimerà la Corte d’Appello, eccependo questioni legate all’insediamento del giudice Stefania D’Errico al posto del giudice Michele Petrangelo prima che questi vada in pensione per raggiunti limiti d’età (2 agosto); al fatto che il giudice D’Errico sia residente in uno dei quartieri considerati più inquinati e risulterebbe, per questo, potenzialmente parte offesa, e alla partecipazione del giudice D’Errico a una iniziativa ambientalista organizzata dalla scuola e all’adesione del marito della giudice a un gruppo Facebook, risalente al 2012, chiamato 'Profumo di Ilvà. Al giudice a latere Misserini i difensori chiedevano invece di astenersi per la sua frequentazione sporadica con un teste d’accusa del processo. Il processo è stato aggiornato al 20 settembre prossimo nell’aula bulker dell’ex Corte d’Appello, al quartiere Paolo VI.
Ilva: “inammissibile” la ricusazione giudice, scrive martedì 17 maggio 2016 la Redazione di "Taranto Buona Sera”. La sezione distaccata di Taranto della Corte d'Appello di Lecce ha dichiarato inammissibile, per carenza di documentazione, l'istanza di ricusazione presentata dall'ex assessore provinciale all'Ambiente Michele Conserva (Pd), uno dei 47 imputati del processo per il presunto disastro ambientale causato dall'Ilva, nei confronti del presidente della Corte d'Assise, Michele Petrangelo. L'ordinanza è stata notificata agli avvocati Michele Rossetti e Laura Palomba, difensori di Conserva, che oggi - secondo quanto apprende l'Ansa - riproporranno la richiesta di ricusazione presentando la documentazione mancante in occasione della prima udienza del processo. Prevista in aula la presenza del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. L'ente è tra le circa mille parti civili del processo. L'ex assessore Conserva è accusato di concussione tentata e consumata a carico di due dirigenti della Provincia impegnati con il rilascio di autorizzazioni a favore del gruppo Riva. I suoi legali motivano la ricusazione con il ruolo di presidente svolto dal giudice Petrangelo nel collegio del tribunale del Riesame che nel dicembre del 2012 confermò gli arresti domiciliari a carico di Conserva, arrestato dai finanzieri il 26 novembre dello stesso anno in una inchiesta parallela.
Corrado Clini: "L'Ilva è stata svenduta: nel 2012 valeva quasi 9 miliardi". L'ex ministro: "La colpa è di chi voleva la nazionalizzazione", scrive Anna Maria Greco, Giovedì 01/06/2017, su "Il Giornale". Corrado Clini ha gestito da ministro dell'Ambiente del governo Monti la grande questione dell'Ilva e oggi, che si è arrivati alla vendita, legge i fatti alla luce della gestione del problema negli ultimi 5 anni.
Professore, due cordate si fronteggiano anche se quella Arcelor-Mittal sembra favorita rispetto ad AcciaItalia, ma si temono 6mila esuberi, i lavoratori sono in sciopero e il confronto tra governo e sindacati è durissimo: prevedeva questo epilogo?
«C'era da aspettarselo. È il risultato della catastrofica perdita di posizione sul mercato di quella che era la più grande acciaieria d'Europa. Nel 2012, quando feci accettare alla famiglia Riva il piano di risanamento e ammodernamento degli impianti con un investimento, il valore dell'asset era attorno a 8-9 miliardi, ora le offerte sono di 1 miliardo e 800 milioni di AcciaItalia e di 2.300 milioni di Arcelor-Mittal. Un quinto del valore del 2012, la riduzione dell'occupazione è connessa alla progressiva perdita di quote di mercato con il conseguente calo di produzione. Ovviamente tutto questo si ripercuote sull'indotto. Se fosse stato attuato il piano, che doveva essere completato entro il 2015, oggi l'Ilva sarebbe l'acciaieria più moderna e competitiva d'Europa».
Si paga la scelta del governo Letta di aver interrotto quel percorso e di aver scelto il commissariamento?
«Non c'è stato il coraggio politico e istituzionale di proseguire la strada indicata da governo e parlamento nel 2012. Ha prevalso una campagna mediatica senza precedenti che ha attribuito allo stabilimento tutti i rischi per la salute generati nella città da molti altri fattori, sostenuta da provvedimenti giudiziari incomprensibili e da forze (nella maggioranza di allora e nella Fiom di Landini) che spingevano per la nazionalizzazione, come negli anni '70, delle Partecipazioni statali. Nessuno ha voluto prendere in considerazione tranne l'allora vicepresidente della Commissione Ue Antonio Tajani, il mio allarme sulla connessione tra l'attacco all'Ilva e l'interesse dei competitor europei e internazionali per la riduzione della presenza dell'Ilva sul mercato dell'acciaio. I commissari si sono trovati a gestire il declino dell'acciaieria».
Lei è convinto che si potesse salvare la posizione sul mercato e l'occupazione senza rischi per la salute dei cittadini?
«Gli interventi urgenti a difesa dell'ambiente e della salute del piano erano la garanzia per la continuità della produzione e la salvaguardia dell'occupazione. Invece, questi interventi sono stati rinviati nel tempo e diluiti nella sostanza, il termine del 2015 è stato prorogato al 2018».
Anche la magistratura...
«Nel 2012 uno dei 3 miliardi che i Riva destinavano al risanamento era disponibile sotto forma dei prodotti pronti alla vendita. Ma il gip di Taranto li sequestrò come corpo del reato. Superammo il blocco con una legge, ma la Consulta riconobbe la legittimità. Eravamo nel 2013 e il governo successivo decise il commissariamento. Tutte le scadenze sono saltate e ci troviamo a questo punto».
Paradosso Taranto: tra gli aspiranti sindaco l’Ilva rimane un tabù. Finalmente un articolo "vero" sulle elezioni amministrative di Taranto. Ed infatti non a caso lo ha scritto un giornalista del quotidiano LA STAMPA che non vive a Taranto! Mentre i 10 candidati svicolano, tra slogan e proposte irrealizzabili, nel silenzio complice dei soliti “pennivendoli” da quattro soldi….
Di Paolo Baroni, 1 giugno 2017. L’Ilva è grande una volta e mezzo la città di Taranto. È naturale che la sovrasti in tutto, che la fagociti. Il paradosso è che mentre la città rischia di affondare trascinata dalla crisi del suo siderurgico il tema in città è quasi tabù. Solo l’annuncio di una nuova ondata di esuberi fuori misura legati all’imminente passaggio di proprietà, 5-6 mila licenziati di qui al prossimo anno, ha smosso le acque. Si è fatto sentire il sindaco uscente, Ippazio “Ezio” Stéfano, che ha rivendicato il coinvolgimento della città nella trattativa per la cessione – un vero paradosso se si considera che tutti lo indicano come il campione dell’immobilità – e ha preso posizione qualcuno dei candidati che puntano a subentrargli alla guida di Palazzo di Città. Da anni e oggi ancora di più, con l’economia in caduta libera, centinaia di negozi e case sfitte o in vendita a prezzi da saldo e appena 3 persone su 10 che lavorano (mentre le altre vivono di sussidi pubblici ed espedienti), l’Ilva a Taranto è «La Questione». Eppure sino a ieri nei comizi elettorali come nelle interviste tv, pochi ne parlavano esplicitamente. «Molti si nascondono», spiega il candidato del centrosinistra Rinaldo Melucci. Troppo facile cavalcare una questione ambientale ma anche troppo rischioso immaginare di attaccare in qualche modo gli operai che comunque rappresentano pur sempre un bel pacchetto di voti. Anche il M5S un poco svicola. Il problema ambientale, complice l’alleanza col movimento “Liberi e pensanti” di derivazione Fiom, è solo il decimo punto del programma del loro candidato, Francesco Nevoli, avvocato di professione e figlio dell’assessore al Bilancio che nel 2006 portò il Comune al dissesto. Che oltre ad evocare l’esigenza di un accordo di programma per far pesare la città nelle scelte future, e a proporre un irrealizzabile grande piano di «riconversione economica» del territorio, non va. Il Pd? Ha sposato la linea Emiliano della de-carbonizzazione, altro progetto lunare stante l’attuale indisponibilità di gas, ma lo affiancano a proposte più concrete nel campo del turismo e dell’agroindustria. Il centrodestra? Non pervenuto. La sua candidata Stefania Baldassari, direttrice in aspettativa del carcere cittadino, il più delle volte si sottrae al confronto come è capitato l’altro giorno con Confindustria. Spiega il presidente degli imprenditori tarantini Vincenzo Cesareo: «Purtroppo c’è molto pressappochismo: c’è tanta gente che parla per sentito dire e c’è poca conoscenza dei problemi. Anche se siamo in campagna elettorale questa vicenda non si può liquidare con una battuta dicendo solo “chiudiamo le fonti inquinanti”, oppure “mettiamo gli operai a fare le bonifiche”». «Se siamo arrivati a questo punto – denuncia a sua volta il segretario della Fim Cisl Valerio D’Alò – è soprattutto a causa dell’assenza della politica locale». A pochi giorni dal voto il quadro politico (e sociale) di Taranto si presenta frantumato come non mai: 10 aspiranti sindaci, 37 liste, oltre 1400 candidati. A contendersi il voto di protesta saranno i 5 Stelle e la Lega d’azione dell’ex sindaco Cito, che da pluri-condannato ricandida il figlio Mario. Il centrosinistra sulla carta potrebbe contare un ampio consenso ma si presenta diviso in ben quattro schieramenti. Il candidato di Pd, Psi e Alternativa popolare è Rinaldo Melucci, giovane presidente di un consorzio portuale. Emiliano, suo grande sponsor lo ha indicato come futuro «sindaco sarto», chiamato insomma a «unire e a invertire il processo di confusione e di scomposizione che si è sviluppato in questi anni». Di certo Melucci non avrà vita facile perché se la dovrà vedere innanzitutto col presidente uscente del consiglio comunale, Pietro Bitetti (ex Pd ora Progetto Taranto), appoggiato dietro le quinte dal vecchio dominus cittadino Claudio Signorile e dal suo quotidiano Taranto BuonaSera. Quindi col prediletto del sindaco uscente, il giudice di sorveglianza Massimo Brandimarte (Sviluppo Democrazia Solidarietà), volto noto di “Forum”, con l’ex procuratore Franco Sebastio (lista civica MutaVento) e con l’allevatore Vincenzo Fornaro candidato di Verdi, Civati e De Magistris. Possibile esito del voto dell’11 giugno? I sondaggi disegnano una gara a quattro, con Nevoli e Cito destinati a rubarsi i voti a vicenda, ma col candidato del M5S accreditato di un 18-20% davanti a Baldassari, e a Melucci e Bitetti. Quest’ultima competizione rischia di favorire per il ballottaggio la candidata del centro-destra che, assieme a Sebastio e Brandimarte, compone una singolare «filiera della giustizia». Melucci è convinto che i 5stelle siano sopravvalutati e che alla fine la partita tra centrosinistra e centrodestra. In realtà tutti dovranno fare i conti con un terzo incomodo, l’astensionismo, che a Taranto viaggia ben oltre il 40 per cento.
Elezioni Taranto 2017. La grande “monnezza”: la stampa. Scrive il 10 aprile 2017 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". La “Grande Monnezza” è quella variegata, variopinta, composta da un mix di giornalisti, pennivendoli e scribacchini, pronti a passare da uno “sponsor” ad un’altra in cambio di soldi o di qualche promessa. Una “Grande Monnezza” al cui interno sguazzano non pochi “pennivendoli” (chiamarli giornalisti sarebbe offensivo per quei pochi seri) i quali fanno questo mestiere calpestando tutte le norme deontologiche, lavorando sotto mentite spoglie per candidati, politici, aspiranti tali, vendendo il loro tesserino per qualche centinaia di euro in più. Questo giornale come i nostri lettori hanno avuto ben modo di verificare è sinora stato silente osservatore su quanto accade in vista delle prossime elezioni amministrative. Lo abbiamo fatto perchè al contrario di finti moralisti dell’ultima ora non abbiamo alcun interesse personale e diretto con alcuna candidatura anche se a questa competizione (si fa per dire…) elettorale partecipa una mia lontana parente che porta il mio stesso cognome, e con la quale sono in aperto contrasto ideologico e caratteriale. Ma di quest’ ultimo particolare a molti non importerà nulla, mentre qualche frustrato adesso potrà mettersi il cuore in pace.
La “Grande Monnezza” è variegata, variopinta, composta da un mix di giornalisti, pennivendoli e scribacchini, pronti a passare da una lista ad un’altra in cambio di soldi o di qualche promessa. Una “Grande Monnezza” al cui interno sguazzano non pochi “pennivendoli” (chiamarli giornalisti sarebbe offensivo per quei pochi seri) che fanno questo mestiere calpestando tutte le norme deontologiche, lavorando sotto mentite spoglie per candidati, politici, aspiranti tali, vendendo il loro tesserino per qualche centinaia di euro in più. Nella mia breve permanenza tarantina, durante la quale la solita mano vigliacca mi ha incendiato la macchina (inutilmente), ho fatto il mio lavoro: osservato, parlato con candidati, partecipato a conferenze stampa, ed ho avuto notizia di giornalisti “profughi” di un giornaletto fallito da tre anni che si propongono a questo o quel candidato per qualche migliaio di euro, addirittura in accoppiata con il/la rispettiva consorte.
Giornalisti in cassa integrazione (e quindi retribuiti dallo Stato) come Pierpaolo d’ Auria che manda in giro comunicati autodefinendosi “addetto stampa del consigliere regionale Liviano”. Giornalisti che nelle conferenze stampa si stracciano le vesti della professionalità illudendosi che non sappiamo che quella stessa persona viene indicata da un parlamentare della provincia come “mio addetto stampa”.
Ho letto la scorsa settimana un editoriale di un collega, e cioè Enzo Ferrari direttore del quotidiano(Taranto) Buona Sera, il cui reale editore come a tutti ben noto è la famiglia Signorile (Claudio ex ministro socialista) lamentarsi del modo di comunicare di una candidata sindaco, che preferisce comunicare via web (come fanno peraltro una marea di politici a partire dall’ ex-premier Matteo Renzi, dal leader dl M5S Beppe Grillo e dal Sindaco di Roma Capitale Virginia Raggi, tanto per fare qualche nome…) che viene così testualmente accusata: “scavalco i giornali e faccio da me. Sembrano affermazioni di un candidato grillino, di quella parte della politica – meglio, antipolitica – che ha nel suo codice genetico la delegittimazione del ruolo della stampa e l’uso della pseudo democrazia diretta attraverso la giungla dei socialnetwork, dove in verità il più delle volte si sviluppano discussioni che non sono proprio un esempio di civiltà e confronto”. Caro collega Ferrari, la scelta della Baldassari non è delegittimazione, ma secondo me comunicare direttamente ai cittadini, agli elettori attraverso i social network soprattutto in una città come Taranto dove sono molti, troppi, i giornalisti che stanno sul libro paga di qualcuno che non è il suo lettore o editore, è stato una legittima scelta che condivido ed apprezzo. Così facendo ha oltrepassato la solita “mediazione” giornalistica di un tanto al chilo…e costretto i giornali e siti a dover raccontare il suo pensiero senza travisarlo o interpretarlo difformemente dalla realtà.
Leggerlo poi su un quotidiano il cui ex-direttore (Michele Mascellaro) compare ancora oggi nella gerenza come “redazione di Bari” mentre nello stesso tempo è ufficialmente retribuito ed alle dipendenze del Gruppo PD al Consiglio Regionale della Puglia onestamente fa solo ridere, se non piangere per come viene calpestata la nostra deontologia professionale. Legittimo chiedersi se il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti di Disciplina in Puglia esiste? “Accogliendo l’invito dell’Associazione della Stampa di Puglia, i nominativi per l’ufficio stampa sono stati selezionati tra i giornalisti iscritti all’Ordine”, dichiarava a suo tempo con un comunicato (privo di firma) il PD pugliese.
Quello stesso Michele Mascellaro che da anni sfugge alle sue responsabilità (intercettazioni processo Ambiente Svenduto) grazie al silente menfreghismo dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia e del sindacato pugliese che lo “protegge”. Ma in cambio di cosa? Il silenzio forse? E su cosa…?
Vedere apparire un sito online come La Ringhiera edito non da un editore, da una casa editrice, ma bensì da un’A.P.S. cioè un’Associazione di Promozione Sociale, che per legge non può avere profitti. Mentre in realtà vende magliette ed incassa pubblicità attraverso la società compiacente Capera srl (che li ospita non a caso in ufficio), e che vanta due direttori (Angelo Di Leoe Michele Tursi) su soli due giornalisti dichiarati che vi scrivono, i quali peraltro vengono pagati ogni mese da oltre due anni dalla cassa integrazione, degli articoli inneggianti all’Assostampa pugliese, ed alle calpestate (da loro stessi) norme deontologiche , fatemelo dire, va venire a dir poco il voltastomaco. Uno dei due, e cioè Angelo Di Leo come tutti ben sanno a Taranto, ha lavorato nello “staff” (parola che a qualche sindacalista da quattro lire non piace molto) di Rosanna Di Bello di Forza Italia quando era il Sindaco del Comune di Taranto, per poi successivamente armi e bagagli in occasione delle ultime regionali a Taranto, a fare il capo dello staff elettorale del consigliere regionale uscente Annarita Lemma, capolista nel PD, la quale è uscita sonoramente “trombata” cioè non rieletta dai suoi elettori, e vedere sulla testata dell’ associazione di promozione sociale La Ringhiera “sparata” (o meglio “spacciata”) come notizia il comunicato dell’ Assostampa che attacca chi usa “staff di comunicazione” fa sicuramente sbellicare dalle risate. Parlano proprio loro che non hanno mai fatto nulla per garantire ai disoccupati pugliesi il diritto al lavoro negli uffici stampa degli enti pubblici ai sensi della Legge 150.
O vogliamo parlare del cosiddetto IlGiornalediTaranto, testata online di proprietà di un’associazione no-proft (di cui ci siamo occupati in passato – leggi QUI) presieduta dall’ex-assessore regionale Fabrizio Nardoni (ex-Sel-Vendola) diretto dal pubblicista Angelo Lorusso, marito della giornalista Luisa Campetelli (a sinistra nella foto) alla guida nel crack giornalistico-editoriale-fallimentare del CdG di Puglia e Lucania? Lorusso ha un’associazione che effettua corsi di formazione professionale (con i soldi “pubblici” della Regione Puglia) , ma dopo le due esperienze fallimentari a capo dello staff elettorale-trombato di Fabrizio Nardoni, si prodiga da settimane per trovare una nuova collocazione, offrendosi come “spin-doctor” a chiunque gli capiti a tiro pur di raccattare qualche migliaio di euro, alternando i suoi rapporti con il Sen. Dario Stefàno a Tonino Caramia, per finire al consigliere regionale barese Alfonso Pisicchio.
Dov’era l’Assostampa di Puglia…. allorquando Michele Tursi ancora in forza, cioè socio-dipendente alla Cooperativa 19 luglio (editore del CdG di Puglia e Lucania successivamente fallito con una massa fallimentare di oltre 5 milioni di euro) lavorava quotidianamente alla Camera di Commercio di Taranto, con un contratto di 1.000 euro netti al mese oltre contributi INPGI , senza che sia stata fatta alcuna selezione e/o bando pubblico, ed in un aperto contrasto deontologico che questo giornale ha pubblicamente denunciato e raccontato DOCUMENTALMENTE senza che l’ Ordine dei Giornalisti di Puglia abbia mosso un solo dito. Ma esiste un Consiglio di Disciplina in questo Ordine? E’ la domanda che nei prossimi giorni faremo ufficialmente e legalmente al Presidente del Tribunale di Bari che nomina il Consiglio su Disciplina su indicazione di una rosa di nomi ricevuta dall’ Ordine dei Giornalisti. Informando per competenza la Direzione Generale Affari Civili del Ministero di Giustizia che vigila sugli ordini professionali territoriali.
Possibile che nessuno dei rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia e del loro “caro” sindacato si accorga di quanti conflitti d’interesse vi siano nel giornalismo tarantino? Nessuno alla Gazzetta del Mezzogiorno a Taranto (redazione dove ci sono più sindacalisti che giornalisti), riceve i comunicati stampa per un candidato sindaco del centrosinistra inviati e firmati dalla giornalista Maristella Baggiolini, ex-collaboratrice dell’ex-assessore Fabrizio Nardoni alla Regione Puglia, che nello stesso tempo è direttore responsabile del giornale online TVMED, dove all’improvviso è scomparso il suo nome! Tutto normale questo per la Procura di Taranto che ha indagato tanto sul sottoscritto spendendo inutilmente tanti soldi del contribuente ??
L’ Ordine dei giornalisti di Puglia e l’Associazione della Stampa di Puglia (i nuovi Cicì & Cocòdella pseudo informazione pugliese), denunciano come “il fenomeno costituirebbe sicuramente una buona notizia, soprattutto in una fase di forte contrazione del mercato del lavoro giornalistico, se l’incontro fra domanda e offerta di prestazioni professionali avvenisse nel rispetto della dignità delle persone, prima ancora che del diritto a un’equa retribuzione sancito dalla Costituzione”. Ma lo sanno che il più vecchio quotidiano pugliese e cioè la Gazzetta del Mezzogiorno dove lavora il sindacalista-presidente Bepi Martellotta ed il suo vice-sindacalista Mimmo Mazza, pagano ai loro collaboratori l’importo di circa 5 euro netti ad articolo? E questo sarebbe l’equo compenso? Probabilmente è più equo il compenso delle donne delle pulizie che a Taranto percepiscono 8 euro l’ora!
Come non ridere (o meglio avere pena) delle dichiarazioni del sindacato pugliese dei giornalisti, di quello che voleva costituirsi parte civile nei miei confronti per una denuncia strumentale di “stalking”, frutto della malsana fantasia e farneticazione del suo sodale ed iscritto Mimmo Mazza presentata nei miei confronti, che è stata annientata dal Gip di Taranto, dal Tribunale del Riesame e persino dalla Corte di Cassazione. Scrive l’Assostampa sul suo sito: ““Pervengono al sindacato dei giornalisti – proseguono – segnalazioni, sulle quali sono in corso verifiche, di offerte di lavoro a condizioni economiche risibili. Forze politiche e candidati, che hanno già investito o si preparano a investire decine di migliaia di euro in campagne pubblicitarie, gadget, cene elettorali e altro, diventano parsimoniosi quando si tratta di stipulare un contratto con i propri addetti stampa. “Questa situazione – continua il ridicolo comunicato dell’ASSOSTAMPA di Puglia – talvolta favorita da comportamenti scorretti di sedicenti giornalisti che si offrono gratis al politico di turno nella speranza di ricavarne utilità e gratificazioni future, si va addirittura allargando all’affidamento della comunicazione a non meglio identificati “staff,” dai quali pervengono comunicati non firmati in barba alle principali regole della professione. Note, per di più, ricche di contestazioni nei confronti di quei giornalisti che si sono azzardati a svolgere regolarmente il loro lavoro esercitando il diritto di cronaca nei resoconti delle candidature e delle liste” e conclude “è inaccettabile oltre che offensiva della dignità e del decoro dell’intera categoria. E’ bene ricordare ai segretari dei partiti politici e ai singoli candidati, qualora lo avessero dimenticato, che quella giornalistica è un’attività professionale che ha regole, parametri retributivi e obblighi contributivi anche in Puglia e che non si può umiliare la dignità degli iscritti all’Albo. Tanto più è illegittimo affidare lo svolgimento di questa professione a chi la esercita abusivamente, in contrasto con le prescrizioni che l’attesa riforma dell’editoria ha finalmente sancito”.
E quale sarebbe la Legge che obbliga ad un candidato di comunicare ed inviare delle proprie dichiarazioni esclusivamente con un iscritto all’ Ordine? E cosa vieterebbe eventualmente a tutti i laureati in Scienze della Comunicazione di fare ciò legittimamente? O forse in vista dei prossimi congressi per il rinnovo delle cariche del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia qualcuno vuole far vedere che si occupa dei colleghi pugliesi? La Cassazione ha stabilito anni fa che è legittimo criticare (con continenza) l’operato della magistratura e persino del capo dello Stato, Quindi cosa e chi vieterebbe a qualcuno di poter esercitare il proprio legittimo diritto di critica nei confronti di una stampa tarantina nella stragrande maggioranza dei casi asservita e corrotta? O forse qualcuno a Taranto non si è accorto di un ente pubblico come la Camera di Commercio di Taranto che da qualche mesi dichiara come addetto stampa un avvocato-pubblicista, che da qualche mese firma i suoi comunicati stampa, il quale in realtà si è sempre e solo occupato di conciliazioni, ed peraltro cugino di un “noto” magistrato tarantino?
Dov’erano l’Assostampa e l’Ordine dei Giornalisti di Puglia quando il Comune di Taranto negli ultimi 10 anni ha avuto ed usato come addetto stampa una gentile “vigilessa” (non iscritta all’ Ordine)? E dov’erano queste “verginelli” della professione, quando la Provincia di Taranto a partire dalla Presidenza Gianni Florido ad oggi ha avuto ed utilizzato a tutt’oggi come addetto stampa una persona che in realtà è una segretaria dipendente dell’ente provinciale, ed anch’essa non risulta iscritta all’ Ordine dei Giornalisti? O quando per anni l’ASL Taranto ha avuto un addetto stampa che non era iscritto all’ Ordine al quale si è iscritto soltanto recentemente dopo le nostre denunce?
Ma siamo proprio sicuri che a Taranto esiste una magistratura indipendente che applica a fa rispettare le norme di Legge? I recenti accadimenti sulle vicende per il processo Ambiente Svenduto dicono purtroppo il contrario. Secondo fonti abbastanza attendibili sembrerebbe addirittura che una giornalista-sindacalista tarantina la cui firma appare molto spesso sull’edizione di Taranto della Gazzetta del Mezzogiorno svolga incarichi di comunicazione per il Commissario delle Bonifiche (in rigoroso silenzio ed anonimato…)! E come mai nessuno si meraviglia e lamenta del fatto che l’Autorità Portuale di Taranto organizza conferenze stampa, interviste, invii comunicati stampa senza che risulti assunto un giornalista idoneo a tale compito secondo la Legge 150? Forse qualcuno non si è tolto del tutto il cappuccio dalla testa per non riuscire a vedere tutto ciò….
Dov’erano questi “censori” e paladini di una finta deontologia, degni dei frequentatori di un bar…citato in un’ormai celebre affermazione del prof. Umberto Eco, allorquando giornalisti e collaboratori della redazione tarantina della Gazzetta del Mezzogiorno venivano lautamente ricompensati da un ente pubblico per le loro collaborazioni ad associazioni di categoria ed enti pubblici?
Appunto cari lettori, questa è la stampa “monnezza”. Ecco perchè l’informazione a Taranto muore lentamente di giorno in giorno. E prima del sottoscritto lo ha detto pubblicamente un certo Marco Travaglio ….in occasione dell’ultimo concerto del 1 maggio. E nessuno ha fiatato e protestato.
Il giornalista Luigi Abbate ha perso la causa contro BluStar TV. Scrive “Il Corriere del Giorno” il 27 giugno 2017. “Le sentenze non si commentano, si rispettano” dice una vecchia massima. Ma ora chi gli pagherà le “spese di giustizia compensate”? I partiti che lo corteggiavano mesi fa cosa diranno adesso? E Travaglio? “Il licenziamento del giornalista Luigi Abbate, è soltanto l’ultimo atto illegittimo adottato dall’editore dell’emittente televisiva tarantinaBlustar‘‘. Così tuonava esattamente un anno fa Raffaele Lorusso presidente dell’Assostampa, il sindacato dei giornalisti pugliesi, recentemente “promosso” alla guida della FNSI, parlando del giornalista di Taranto divenuto famoso non per le sue inchieste, ma solo per una domanda scomoda, e il microfono che gli venne allontanato in una conferenza stampa da Girolamo Archinà, responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva, mentre il giornalista cercava di intervistare lo scomparso presidente Emilio Riva. Lorusso non contento dichiarò anche: “Già un anno fa, nell’assordante silenzio delle istituzioni e delle forze politiche di Taranto, Blustar Tv licenziò quattro giornalisti adducendo quale motivazione il venir meno dei centomila euro annualmente garantiti dall’Ilva”. Ma nessuno si chiese come mai le domande “scomode” Luigi Abbate non le faceva quando la sua emittente televisiva ospitava (come le altre tv locali) la pubblicità dell’Ilva? Dov’era finita l’indipendenza, la professionalità? Per il Tribunale del Lavoro di Taranto invece non è andata esattamente come Abbate ed i sindacalisti raccontavano (e non è la prima volta…!). Il Corriere del Giorno è in grado di pubblicare la sentenza, facendo parlare i documenti, di cui stranamente l’Assostampa pugliese ed il suo rappresentante tarantino Mimmo Mazza non parlano. Nessun comunicato. Nessun commento dell’Assostampa pugliese. I giornalisti-sindacalisti, è ben noto cercano solo le telecamere per manifestazioni e convegni dove sentirsi “vivi” e farsi conoscere. Avete mai visto un “vero” giornalista fare carriera grazie al sindacato? Noi non lo ricordiamo. Bene che gli vada, i giornalisti-sindacalisti notoriamente vanno a sedersi sulle poltrone lautamente profumate dell’INPGI (l’ente previdenziale dei giornalisti) o della CASAGIT (la cassa di assistenza dei giornalisti). E poi vediamo come succede. Leggete da soli. Ecco la sentenza, che non commentiamo. Ma ricordiamo a quei politici che si stracciavano le vesti di dosso, che corteggiavano Abbate, che accusavano l’on. Michele Pelillo di aver contribuito al licenziamento, che adesso dovrebbero avere il coraggio e la dignità di chiedere scusa per le accuse infondate, e se accettano un consiglio, tacere. Farebbero miglior figura! La sentenza parla di licenziamento legittimo per esubero del personale. Decreto rigetto n. cronol. 20195/2015 24 giugno 2015. Procedimento n. 448/2015 RG Tribunale di Taranto Giudice del Lavoro.
Ilva Taranto, nel cuore dell'acciaio italiano. "Vogliamo ripartire senza uccidere più". Il mega stabilimento si trova di fronte al dilemma tra lavoro e difesa dell'ambiente, scrive Marco Patucchi il 19 dicembre 2016 su "La Repubblica". La stella cometa in cima ai cento metri dell'Altoforno 5 è spenta. Il gigante è fermo da due anni. Dorme. "Mi piange il cuore a vederlo così... meglio andare a guardare i tre altoforni più piccoli, quelli che sono in funzione". Benedetto Valli, che lavora qui da quindici anni ed è responsabile di un laminatoio, non nasconde rabbia e orgoglio mentre indica lo skyline sterminato dello stabilimento Ilva di Taranto. Quell'orgoglio che da qualche anno bisogna dissimulare girando in città, fuori dalla fabbrica. Perché oggi lavorare all'Ilva è come appartenere ad un'altra patria, un'enclave abitata da undicimila lavoratori. Cinquanta chilometri di strade, duecento di ferrovie e di nastri trasportatori, un porto, un'intera flotta di navi: quindici chilometri quadrati di territorio che, un tempo, erano cuore e anima della città. Ora vergogna e maledizione. "I compagni di scuola ai nostri figli ogni tanto chiedono se è vero che i loro papà uccidono i bambini...", ci racconta un operaio davanti alla mensa. E chissà se è solo una battuta amara la sua o se, davvero, si è arrivati a questo punto. Certo, le colonne di fumo che, improvvise, si impennano altissime nel cielo qualcosa significheranno. Come le barriere di tela, color vela antica, che separano lo stabilimento e le sua polveri dal quartiere Tamburi. Segnano un confine che ormai è frontiera tra due eserciti in guerra. Di qua le migliaia di caschi gialli, bianchi o blu, di là una città tradita da quella che per decenni, a partire dagli anni Sessanta dell'Italsider e del gigantismo delle partecipazioni statali, passando poi attraverso la stagione privata della famiglia Riva che ha lacerato l'osmosi con il territorio, era stata la sfida, il sogno di un riscatto sociale ed economico. Ed anche l'anima dell'intera manifattura italiana, perché non c'è oggetto, utensile, automobile, macchinario, aeroplano prodotto nel nostro Paese, che non sia nato da qui. Dove "entra pietra e esce acciaio", come ci dice uno degli addetti della sala di controllo dell'Altoforno 4. Siderurgia paradigma della grande industria, dimenticata nell'era del capitalismo immateriale. Ma sempre viva e insostituibile, pur con le sue emergenze e arretratezze. Statistiche drammatiche sui tassi di mortalità da inquinamento, inchieste giudiziarie, arresti, sequestri degli impianti, referendum, lotte politiche e sindacali, esuberi, morti sul lavoro. Un'intera comunità disgregata. "Negli anni passati gli errori sono stati fatti, è inutile negarlo. Le norme europee esistevano dal 2005, ma fino al 2011 si è provveduto poco - prova a spiegare Antonio Bufalini, direttore operativo dello stabilimento di Taranto e dell'intero gruppo Ilva, oggi in amministrazione straordinaria - Però finalmente stiamo recuperando sia sul fronte produttivo che nella riduzione dell'impatto ambientale. Lo dimostrano i dati e i dissequestri degli impianti decisi dalla magistratura". I manager ti snocciolano tutti gli interventi di bonifica - dai filtri per l'emissione dei fumi alla discarica che gli operai hanno soprannominato, fieri, "il Colosseo" - rivendicando i risultati raggiunti senza interrompere la produzione che oggi viaggia intorno ai 6 milioni di tonnellate annue. Solo la metà di quanto sfornava l'Ilva dell'epoca d'oro, comunque un accenno di ripresa. Ecco, la scommessa che potrà salvare il cuore dell'acciaio italiano è tutta nel raggiungimento di un equilibrio perfetto tra livelli produttivi, impatto ambientale e perimetro occupazionale. Un miracolo, forse, considerando che il grosso delle bonifiche è ancora solo scritto sulla carta dell'Autorizzazione integrata ambientale: il rifacimento dell'Altoforno 5, la copertura dei parchi minerari e gli interventi sulle cokerie. Basta aggirarsi tra quei cumuli alti quindici metri di carbone, minerale di ferro, loppa e agglomerato, un paesaggio lunare a tinte nere, rosse e grigie, per intuire le dimensioni del progetto di copertura contro la dispersione delle polveri: un'arcata di almeno ottanta metri che fino ad oggi non è stata costruita in nessuna acciaieria al mondo (almeno così assicura il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, che si è preso la briga di andarle a controllare tutte attraverso Google Maps). La costruzione toccherà ad una delle due cordate in corsa per rilevare l'Ilva - una guidata dalla Arvedi e dagli indiani della Jindal (con Cdp e Del Vecchio), l'altra targata ArcelorMittal e Marcegaglia - Chiunque vinca, avrà a disposizione per le misure ambientali oltre un miliardo di euro, eredità della gestione Riva sbloccata dalla magistratura. Chissà se saranno sufficienti. "Ma bisogna fare presto - dice Giuseppe Romano, segretario della Fiom di Taranto - la carenza di risorse finanziarie sta ricreando problemi di sicurezza sul lavoro per operai già esposti al doppio fronte dei rischi ambientali: all'interno quando sono al lavoro, e all'esterno quando vivono in città. Insomma, il drammatico dilemma tra morire di fame o di malattia... Perché è evidente che se anche con il nuovo padrone il livello di produzione sarà l'attuale, allora ci saranno migliaia di esuberi". La domanda di acciaio italiano dopo un 2015 di crisi, nel 2016 ha mostrato segnali di timida ripresa sostenuta dagli ordinativi del settore auto e, naturalmente, questa è una buona notizia soprattutto per l'Ilva. C'è da combattere la concorrenza dell'acciaio cinese e indiano, però girando nelle strade infinite dello stabilimento tarantino, tra impianti e automezzi che ricordano Star Wars (le colate degli altoforni, i "carri siluro" che trasportano ghisa, le bramme incandescenti, la mastodontica nave Gemma, 300mila tonnellate e 45 uomini d'equipaggio, che ogni due mesi va e viene dal Brasile carica di minerali, le banchine del porto, i coils argentati in partenza per mezzo mondo) l'impressione è che il gigante possa ancora farcela. Ma le autobotti che cospargono continuamente di acqua l'asfalto sconnesso per abbattere le polveri, così come le decine di cartelli gialli che segnalano le emergenze ambientali, sono lì a misurare l'enormità di una scommessa esiziale. Un monito a chi pensa che la questione sanitaria sia soltanto strumentalizzazione politica. "La siderurgia si può fare senza uccidere la gente", dice ancora Giuseppe Romano. La grande scommessa, appunto. Sembrano crederci davvero gli operai che davanti al mare grigio di un pomeriggio invernale, seguono le operazioni di scarico dei minerali dalla stiva di una nave cinese. Stasera, tornati a casa nel quartiere Tamburi o nella borgata Paolo VI, si chiederanno per l'ennesima volta se tutto questo ha ancora un senso, se è ancora giusto.
"Taranto non è più inquinata di Roma", il ministero della Salute smorza l'allarme sull'Ilva. Indagine presentata a Roma: i risultati dei test confermano la presenza di sostanze con potenziale pro-infiammatorio ma non evidenziano una specificità per la città pugliese dove si registra un picco di tumori, scrive "La Repubblica" il 7 dicembre 2016. L'aria di Taranto è inquinata quanto quella di Roma, sia dal punto di vista della quantità di polveri sottili che della loro composizione e dell'effetto sulla salute. Lo afferma uno studio dell'istituto Superiore di Sanità e dell'Arpa pugliese pubblicato sul sito dell'Istituto. Lo studio è stato effettuato monitorando la qualità dell'aria in due punti della città, Statte e via Machiavelli, e confrontando i valori con quelli di una centralina di Roma e una in una zona rurale. Allo stesso tempo è stato analizzato un gruppo di mamme, per verificare una eventuale correlazione dell'inquinamento con l'endometriosi, e uno di bambini alla ricerca di eventuali problemi di sviluppo e neurologici. I dati del ministero della Salute smorzano l'allarme lanciato dopo il dossier sull'aumento dei tumori nell'area del siderurgico. Tutti i test, hanno concluso gli esperti, hanno dato risultati simili tra Taranto e Roma. "Questo è uno studio importante basato non su indagini statistiche ma su dati sperimentali, ottenuti su una matrice biologica - afferma Walter Ricciardi, presidente dell'Iss -, e dimostra che negli ultimi due anni, quelli che abbiamo preso in considerazione, l'esposizione all'inquinamento non è diversa da quella di una qualsiasi grande città fortemente urbanizzata". Nello studio di biomonitoraggio e tossicità degli inquinanti presenti nel territorio di Taranto condotto dall'Istituto superiore della Sanità si rileva che "è comunque opportuno sottolineare che i risultati ottenuti nel corso di questa indagine, e le relative implicazioni sui livelli di contaminazione atmosferica nei siti studiati, sono specificamente riferibili ai periodi in cui sono stati effettuati i campionamenti, e possono non essere rappresentativi per periodi precedenti, in cui varie attività antropiche possono avere avuto un impatto diverso". "Considerando i limiti intriseci dello studio in vitro, la bassa numerosità campionaria analizzata e il limite temporale dei rilevamenti ambientali, i risultati dello studio - viene sottolineato - non possono ritenersi conclusivi e sono solo rappresentativi dei periodi in cui sono stati effettuati i campionamenti". Con riferimento all'impatto degli inquinanti ambientali sulla salute riproduttiva femminile, le concentrazioni di PCDD, PCDF (diossine) e PCB nel siero - è scritto nello studio - "sono in linea con i valori osservati in un recente studio su gruppi di donne della popolazione generale italiana con caratteristiche confrontabili a quelle del presente studio".
Ilva, i dati su malattie e inquinamento «Taranto non supera Roma». Il confronto fatto tra le aree più esposte all'Ilva di Taranto e altri contesti con aree non impattate dalle emissioni del siderurgico, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 7 dicembre 2016. «Gli inquinanti genotossici aerodispersi analizzati» presentano per Taranto «un carico non superiore a quello di Roma, almeno relativamente alle aree coperte dalle stazioni di campionamento». E’ il punto fermo dello studio (238 pagine) presentato a Roma dal ministero della Salute e dall’Istituto superiore di sanità in collaborazione con l’Asl di Taranto, l’Arpa Puglia, l’Ares Puglia, la Regione Emilia Romagna e l’Azienda provinciale per i servizi sanitari della Provincia autonoma di Trento. Scopo del progetto, strutturato con quattro obiettivi, la «valutazione dell’esposizione di gruppi di popolazione residente in aree della città di Taranto prossime allo stabilimento Ilva a confronto con aree non impattate dalle emissioni dell’Ilva stessa». Questo per valutare il «possibile impatto sulla salute riproduttiva femminile e su funzioni cognitive in popolazioni pediatrice in considerazione della molteplicità di inquinanti rilevati a Taranto». Il campionamento ha riguardato da un lato 60-80 donne con diagnosi certa di endometriosi e altre 60-80 che si sono sottoposte a laparoscopia per altri motivi sanitari e 299 bambini, in età scolare, dai 6 agli 11 anni, «suddivisi equamente fra maschi e femmine e residenti in aree a distanza incrementale dalla zona di emissione industriale, con la zona Tamburi, più vicina alle sorgente emissive, Statte-Paolo-VI-Taranto, e l’area di Talsano più lontana». Fatta poi una comparazione tra Taranto e Roma attraverso quattro siti di indagine: Roma, viale Regina Elena; Viterbo, area rurale; Taranto, via Machiavelli nel rione Tamburi a Taranto; Statte. Il comune di Statte e i Tamburi sono in prossimità dello stabilimento Ilva. Per quanto riguarda l’esposizione a metalli con proprietà neurotossiche in fluidi e tessuti di soggetti in età evolutiva (6-11 anni), lo studio dell’Iss di biomonitoraggio e tossicità degli inquinanti presenti a Taranto "ha permesso di rilevare una situazione di potenziale presenza di disturbi clinici e preclinici del neurosviluppo nell’area di Taranto, non riconosciuti e non adeguatamente sottoposti ad interventi preventivi, terapeutici e riabilitativi». «Il 15% di potenziali diagnosi cliniche osservato nel campione esaminato, basato per definizione su soggetti supposti sani, indica l’opportunità di ulteriori approfondimenti diagnostici ed epidemiologici. Si tratta comunque - conclude lo studio - di un risultato in linea con i dati epidemiologici mondiali sulle patologie del neurosviluppo comprendenti autismo, ADHD, disturbi dell’apprendimento e del comportamento, che interessano il 10-15% delle nascite. I disturbi osservati sono maggiormente evidenti nelle aree in prossimità delle emissioni industriali considerate ed in funzione inversa rispetto alla distanza dalle sorgenti, calcolata in riferimento ai camini di emissione dell’ILVA, nelle cui adiacenze insistono anche una raffineria ed un cementificio». «In collaborazione con la Asl di Taranto si è dimostrato che i metalli pesanti inducono un ritardo dello sviluppo mentale dei bambini di Taranto e questo è un fatto gravissimo. E’ una notizia di una gravità senza precedenti. Ovviamente lo studio registra, anche in corrispondenza con quanto accertato dai magistrati e dalla Regione Puglia in collaborazione con la Regione Lazio, che quando la fabbrica abbassa i livelli di produzione, come è stato nel 2015 e nel 2016, i dati sull'inquinamento sono ovviamente inesistenti o molto bassi». Lo afferma il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha partecipato al convegno dell’Istituto Superiore di Sanità a Roma su «Studi di biomonitoraggio e tossicità degli inquinanti presenti nel territorio di Taranto». «Si tratta dunque di uno studio molto importante e molto interessante - spiega Emiliano - che conferma tutta la nostra preoccupazione su quello che sta succedendo in città. Ribadiamo la nostra richiesta che la sanità tarantina venga particolarmente sostenuta con un intervento speciale di natura economica, ma anche normativa, che ci consenta di fronteggiare con maggiori disponibilità di forze una mitragliatrice che spara sulla folla. Ecco, questo è stata l’Ilva in questi anni». «Siamo particolarmente indignati da quanto è accaduto - ha continuato Emiliano - perché i 50 milioni destinati al rafforzamento della sanità tarantina si sarebbero potuti ripristinare nel corso dell’esame al Senato, così come affermato da Renzi e De Vincenti, se non fosse stata messa la fiducia poche ore fa e quindi quell'emendamento che avevano promesso non è più possibile».
Lo sciame populista che pervade Taranto. Intervista ad Angelo Mellone: scrittore e dirigente Rai. "I dati elaborati dall'Istituto Superiore della Sanità, assieme ad Arpa Puglia e Asl, non sono catastrofici. Nel capoluogo jonico non esistono agenti patogeni e livelli d'inquinamento diversi da quelli riscontrati a Roma. E' ora di farla finita con gli ambientalqualunquisti e i capipopolo decarbonizzati: esegeti della demogogia della paura", scrive Vincenzo Carriero l'11 dicembre 2016 su "Cosmopolismedia"
Diretto. Adrenalinico. Circostanziato. Angelo Mellone ama la sintesi argomentativa e non si ritrae dinanzi ai pensieri “scomodi”. Più che le mode, è persuaso dal principio di realtà. Dalla ricerca non adulterata – e stereotipata - della verità. “Cosa dicono gli ambientalqualunquisti di Taranto dopo il rapporto redatto dall’Istituto Superiore della Sanità? Non si appaga il proprio ego, non si sceglie di far carriera aprendo le porte di casa al vento gelido della paura…”.
La vicenda ambientale di Taranto, le sue aporie socio-produttive, presentano un livello di originalità non derubricabile nelle categorie, semplicistiche e un po’ farlocche, dei blocchi contrapposti. Le logiche manichee confliggono con una corretta interpretazione della complessità, non crede?
“Non vi è dubbio! L’indagine dell’Istituto Superiore della Sanità, condotta assieme ad Arpa Puglia e Asl di Taranto, offre però spunti interessanti. Nel capoluogo jonico non esistono agenti patogeni, livelli d’inquinamento diversi da quelli, per esempio, riscontrati a Roma. Nei giorni scorsi, poi, l’Università ‘La Sapienza’ ha stilato una classifica sul numero di patologie tumorali riferibile ai capoluoghi di provincia italiani. Taranto si piazza in una posizione intermedia e risulta essere messa meglio di tante altre realtà del Paese. Sulla scorta di questi dati elaborati da istituzione dalla comprovata professionalità e serietà scientifica, e non da fantomatiche associazioni localistiche che giocano a fare i medici e gli epidemiologi della domenica, chiedo agli ultras 2.0, agli agit-prop del disfattismo piagnone e antisviluppista di ripulire il proprio lessico da termini come genocidio ed olocausto…”.
L’indagine condotta dall’Istituto Superiore della Sanità fa riferimento soltanto agli ultimi due anni e, nel biennio 2013-15, la produzione Ilva si è assottigliata parecchio non raggiungendo gli standard del passato.
“E’ vero, ma siamo comunque in presenza di dati incoraggianti, che lasciano ben sperare per il futuro. E’ indubbio che la vecchia Italsider, con gli impianti a pieno regime negli anni ’70 e ’80, abbia inquinato in maniera oscena questo territorio. Oggi, però, le cose sono cambiate. Una fabbrica adeguatamente messa a norma, ecocompatibile, può continuare a produrre. Le lobby degli imprenditori siderurgici del Nord Europa fanno un gran tifo perché l’Ilva chiuda. Ragionano, seppur mossi da interessi diversi, come molti esponenti dell’ambientalqualunquismo tarantino”.
Con le sue tesi non teme di passare per un negazionista?
“I negazionisti negano, per l’appunto, un dato acclarato; obnubilano la realtà. Io mi limito, invece, a rappresentare i fatti per quello che sono, senza indulgere nel populismo della paura. C’è la verità, faticosa da raggiungere, impopolare, molto spesso poco appariscente, e poi ci sono le campagne elettorali compiute dai non tarantini sulla pelle dei tarantini. Detesto queste modalità politiciste, sostanzialmente ipocrite nel ricercare il consenso, così come detesto i capipopolo decarbonizzati in grande rispolvero negli ultimi tempi”.
Capipopolo decarbonizzati alla Michele Emiliano?
“Questo lo dice lei (ride, ndr). Vorrei però tornare sull’ambientalqualunquismo tarantino”.
Prego.
“Si tratta di un mostro con tre teste. La prima di queste è rappresentata da gran parte del giornalismo locale, dalla ricerca ossessiva di visibilità di quelli che io chiamo fotocopie di giornalisti. Barattano la veridicità della notizia con la paura da distillare presso l’opinione politica per mero calcolo personale. Poi ci sono gli imprenditori politici del terrore, coloro che pur di conquistare un minimo spazio di consenso si producono in campagne elettorali estenuanti, infinite, sulla pelle dei tarantini. Infine c’è lo sciame populista di chi vive perennemente sui social: un paio di migliaia in tutto. Onniscienti di non si sa che, disfattisti e truci estensori di un avvenire senza futuro”.
Buona parte della stampa tarantina è la stessa che prendeva ordini da Archinà su quello che poteva essere scritto e ciò che, invece, andava debitamente insabbiato. Questa è la città che, con l’Ilva al massimo della sua influenza politica ed economica, ha registrato un numero di testate giornalistiche spropositato rispetto alla media giornaliera di lettori.
“E’ vero, tutto ha avuto inizio da lì. Tutto si tiene assieme con fare compiuto, senza alcuna soluzione di continuità. D’altronde cosa si vuole pretendere da chi ha campato per anni sui dispacci passati dalla Procura. Una cosa è fare il giornalista, altro è prendere le mance da addetto stampa”.
Le bonifiche, converrà, non investono il solo dato ambientale. Attengono anche ad un dibattito pubblico sfilacciato, deprimente, sprovvisto di passione e grandi idee-guida.
“Aggiungerei a tutto questo il fatto che Taranto è una città senza memoria. Smemorata. Va difeso l’onore della nostra storia industriale, vanno rispettate le tante morti bianche consumatesi in fabbrica. Com’è possibile che il nostro lungomare non venga dedicato ad un eroe dell’acciaio? Come si possono riannodare i fili di un’identità smarrita senza indicare un solo monumento cittadino alle vite andate perdute nel siderurgico? Di tutto questo gli ambientalqualunquisti non parlano, però…”.
Nell’offerta sanitaria complessivamente presente nel tarantino, non figurano la Pediatria oncologica e la Chirurgia toracica. Non si riesce neanche ad acquistare il terzo Acceleratore lineare per la cura dei tumori solidi. Tutto questo non le sembra quantomeno paradossale?
“Taranto merita una sanità improntata ai livelli dell’eccellenza. Nei mesi scorsi accettai l’invito di CosmoPolis e firmai una petizione online perché venisse istituito il reparto di Pediatria oncologica. Sono assolutamente a favore d’iniziative come questa. Concrete e fattive, mosse da un autentico amore per questa terra e non da strumentalità politiche o, peggio, professionali e accompagnate da un carrierismo indecente”.
Il nuovo presidente austriaco è un’ambientalista. Il partito dei Verdi è forza di tutto rispetto, elettoralmente considerevole, in Germania e Francia. Perché in Italia una realtà autenticamente ecologista non riesce ad affermarsi in maniera compiuta?
“L’ambientalismo italiano coltiva nella radice del suo stesso nome il problema: il suffisso ‘ismo’ agganciato al resto della parola. Troppo ideologizzato, da sempre una costola del centrosinistra, i Verdi non sono stati mai in grado di dotarsi di una piattaforma politica inclusiva e partecipata. Sembrano confinati in una sorta di limbo indefinito, dove la pratica più ricercata è il solipsismo culturale. Tutto questo rappresenta un limite per la risoluzione di alcune urgenze di cui soffre il Paese. Lo dico da ambientalista convinto: la democrazia italiana trarrebbe vantaggio dalla presenza sulla scena politica di una forza ecologista moderna e non settaria”.
Ennesima sconfitta della Procura di Taranto sulla vicenda ILVA. Il magistrato Nicastro assolto definitivamente, scrive “Il Corriere del Giorno” l’8 settembre 2016. In occasione delle sue dichiarazioni spontanee dinnanzi al tribunale di Taranto, Nicastro si girò e rivolgendo l’indice puntato nei confronti del banco dell’accusa rappresentata dai magistrati della Procura di Taranto disse loro “con voi ci vedremo in un’altra sede”. Era il 23 luglio del 2015 quando il magistrato Lorenzo Nicastro ex assessore all’Ambiente della Regione Puglia (Giunta Vendola), non trattenne le lacrime alla lettura della sentenza di assoluzione. “Ho difficoltà a tenere disgiunta la vicenda personale che non interessa a nessuno e riguarda me e la mia famiglia – disse Nicastro – E’ una sentenza di primo grado, ma mi restituisce una dignità e una serenità che mi è stata tolta per un anno e mezzo”. Parole sentite, sofferte quelle di Nicastro, quando venne assolto dal gup di Taranto Vilma Gilli dall’accusa di favoreggiamento nei confronti del presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, nell’ambito dell’inchiesta sul disastro ambientale dell’Ilva. In quell’occasione nel giudizio abbreviato, i pubblici ministeri avevano chiesto ma non ottenuto la sua condanna a 10 anni. “Ho aspettato – ha spiegato Nicastro – questo dispositivo del giudizio abbreviato, quattro mesi e più e insieme a me lo hanno aspettato persone che erano sicuramente innocenti, anche prima di questa sentenza, e sono i miei familiari e mia madre”. In occasione delle sue dichiarazioni spontanee dinnanzi al tribunale di Taranto, Nicastro si girò e rivolgendo l’indice puntato nei confronti del banco dell’accusa rappresentata dai magistrati della Procura di Taranto disse loro “con voi ci vedremo in un’altra sede”. La giustizia ha fatto il suo corso e proprio ieri il dr. Nicastro è stato definitivamente ritenuto innocente anche dalla Suprema Corte di Cassazione, come lo stesso magistrato, ora in servizio presso la Procura della repubblica di Matera, ha reso noto sulla sua pagina Facebook: “Oggi è diventata definitiva la mia sentenza di assoluzione nel processo ILVA. Si è chiusa una piccola storia che piccolissimi uomini avevano costruito con la medesima approssimazione progettuale con la quale un circolo dopolavoristico organizza tornei di calcetto. Meglio, di tennis”. Le accuse “pubbliche” rivolte da Nicastro ai magistrati di Taranto sono a dir poco pesanti. Così continua nel suo post: “Da oggi i nanetti ammantati di nero e fregiati di oro e argento, cercheranno un’altra Biancaneve alla quale far credere di essere giganti. Grazie ai miei avvocati Michele Laforgia e Giovanni Orfino, lucidi, sereni e strepitosi. Ma grazie ai tantissimi avvocati dai quali mi sono sentito adottato in questi tre anni. Non li ricordo tutti ma grazie a tutti, grazie ad Emanuela Sborgia, Beppe Modesti, Francesco Marzullo, Luigi Covella, Alessandro Amato, Vittorio Triggiani, insomma grazie a tantissimi”. A Taranto esistono però dei giudici “seri”. Chiaramente i giornalisti che si vantano di scrivere (o fotocopiare?) di cronaca giudiziaria dei quotidiani locali di Taranto, sono molto bravi a raccontare dei rinvii a giudizio, o delle sentenze di condanna che tanto fanno piacere alla Procura della Repubblica. Un pò più allergici, e quindi lontani dalla verità, quando invece la giustizia trionfa e gli imputati vengono assolti a darne notizia come in questo caso. Ma ci pensiamo noi a restituire l’onore e la dignità “pubblica” al dr. Nicastro, a cui più di qualcuno a Taranto dovrebbe chiedere scusa. Ma per farlo bisogna avere gli “attributi”. Come abbiamo già scritto in passato, per fortuna anche a Taranto esistono dei giudici “seri”, come la gip dr.ssa Gilli che assolse il dr. Nicastro, che non si fanno condizionare dai pubblici ministeri, e le cui decisioni molto spesso vengono confermate dalla Cassazione. Questa si chiama “giustizia”. Questo è rispetto per la toga che indossano i giudici. La domanda che molti si fanno in queste ore è: ma l’altra sede è solo la Cassazione, o come qualcuno mormora, dinnanzi al Csm? Fonti bene informate sui movimenti negli uffici giudiziari sostiene che “qualcuno” che aspira a diventare il procuratore capo di Matera, potrebbe trovare sul suo cammino un altro “impedimento”. Uno dei tanti. Per averne conferma bastano circa 100 giorni. Che saranno molto lunghi per “qualcuno”. Alla fine, come si suol dire, è proprio vero: tutte le strade portano a Roma…
ILVA, PARLA LA VEDOVA DI EMILIO RIVA: MIO MARITO CONDANNATO SENZA PROCESSO. Giovanna Riva du Lac si rivolge a Fino a prova contraria il 29 giugno 2016. Dopo aver dato alle stampe "Emilio Riva, l’ultimo uomo d’acciaio" (Mondadori, pp. 177, 2015), la vedova ripercorre l’odissea giudiziaria che ha travolto il colosso siderurgico e la vita dell’uomo al quale è stata legata per oltre quarant’anni. «Credo che non sia più il momento di tacere. Io ho assistito a una violenza di stato senza eguali. Mio marito, Emilio Riva, ha subito lo choc di un arresto a 88 anni, è stato privato dei suoi beni, accusato e mai sentito dai suoi accusatori, vilipeso da una stampa fanatizzata, descritto come un mostro. E’ morto solo, e senza giustizia. Perché tutte le misure che hanno travolto la sua vita privata e pubblica sono state adottate in via "preventiva", senza neppure uno straccio di condanna di primo grado. Come li chiamate questi se non omicidi legalizzati? Nulla e nessuno potranno restituirmi mio marito, ma io sento il dovere di restituire alla memoria collettiva il ricordo autentico di Emilio, un uomo partito come venditore di rottami di ferro nel dopoguerra e poi diventato il quarto produttore di acciaio europeo. Lui diffidava dei giornalisti, sua nonna gli aveva insegnato questo: "stai alla larga da giornalisti, preti e avvocati. I primi scrivono quello che vogliono, i preti arrivano quando stai per morire e gli avvocati vogliono solo i tuoi soldi". Seppure a malincuore, io devo parlare, devo far conoscere la sua storia, quella vera. Nella vicenda Ilva non c’è nulla di ovvio, solo un mare di violenza che adesso tiene sotto schiaffo il figlio di Emilio, Fabio Riva, che si è ammalato a seguito di questa vicenda. Spero che non faranno con lui quello che hanno fatto con mio marito. Spero che gli daranno la possibilità concreta di difendersi. Spero che lo risparmieranno, se esiste ancora una parvenza di giustizia in Italia».
Sulla vicenda ripubblichiamo questo pezzo, uscito all’indomani della morte di Emilio Riva. E’ il ricordo di Stefano Lorenzetto su una vicenda che al di là dei giudizi di colpevolezza o innocenza mette in evidenza un fatto inequivocabile: un uomo ha subito una condanna preventiva, giudiziaria e mediatica, in assenza di un processo.
Così i veleni dei tribunali hanno ucciso Riva di Stefano Lorenzetto per Il Giornale. Di Emilio Riva, morto nella notte di ieri in una clinica che da un paio di mesi poteva somministrargli solo cure palliative, si dirà che era giunta la sua ora: il 22 giugno avrebbe compiuto 88 anni. In realtà il magnate dell’acciaio era morto il 26 luglio 2012, quando un’ordinanza del giudice per le indagini preliminari di Taranto lo aveva confinato agli arresti domiciliari nella sua villa di Malnate (Varese). A parte due ricoveri di pochi giorni nel centro cardiologico Monzino di Milano, resi urgenti dal cuore malandato, poté uscirne solo dopo un anno, per scadenza dei termini di custodia cautelare. Ma non da uomo libero: lo stesso Gip gli impose l’obbligo di dimora. Il suo male incurabile è stato il sequestro dell’Ilva di Taranto, che Riva aveva salvato dal fallimento e trasformato nella più importante acciaieria del continente, sostituendosi allo Stato in seguito alla liquidazione dell’Italsider. Il tumore osseo che ha consumato l’imprenditore milanese si era manifestato all’avvio dell’inchiesta per disastro ambientale dalla quale sarebbe uscito senza condanne epperò cadavere. La caduta delle difese immunitarie sopravviene quando il dolore diventa troppo pesante per essere sopportato anche da chi abbia spalle larghe come le sue. Sono gli effetti della privazione di ciò che per un essere umano conta di più: la libertà personale. Poiché si deve presumere che nella vicenda giudiziaria di Riva tutto si sia svolto secondo i crismi di legge, e tenuto conto del fatto che l’ultimo scorcio della sua vita è stato dominato per intero dai magistrati, si può ben concludere che egli sia morto per un eccesso di giustizia. Un po’ come accadde ad Alessandro Magno, del quale fu detto che perì grazie all’aiuto di troppi medici. Il paragone storico non sembri inappropriato. Al di là dell’infame vulgata che ha tramutato l’ex rottamaio in un assassino d’inermi cittadini per sete di guadagno, l’ex «ragiunatt» con laurea ad honorem in ingegneria meccanica era davvero l’ultimo condottiero della siderurgia italiana. Il più grande: 38 stabilimenti nel mondo, 30.000 dipendenti, 10 miliardi di euro di fatturato. Facendo onore al proprio carattere, forgiato con lo stesso materiale che gli diede fama, ricchezza e tormento, ha resistito qualche mese più dei colleghi Luigi Lucchini e Steno Marcegaglia, usciti di scena tra effluvi d’incenso. L’anno scorso, ormai prigioniero da dieci mesi in casa propria, Riva si rese conto che niente avrebbe più potuto riportare in parità la bilancia della giustizia e restituirgli l’onore perduto. Non i suoi avvocati, pur abilissimi. Non i giornali, abituati a trattarlo con la simpatia che circondava i monatti di manzoniana memoria. Né tantomeno, figurarsi, le toghe. Poiché avvertiva che il suo tempo stava per compiersi, penò a un j’accuse zeppo di fatti e di dati, che potesse riabilitarlo nella memoria degli eredi. Un libro. Si ricordò allora di un giornalista che lo aveva intervistato 11 anni prima sul Giornale. Il 21 maggio volle che incontrassi la moglie, Giuliana Du Lac Capet, nella sua casa milanese di via Verri. Allenata dal consorte ad andare subito al nocciolo delle questioni, la signora mi chiese: «È impegnato domenica prossima? La accompagnerei a Malnate da mio marito, così potrebbe cominciare subito a raccogliere la sua verità. Non c’è tempo da perdere». Fui costretto a obiettarle che, avvicinando un estraneo senza l’autorizzazione del magistrato, egli si sarebbe reso responsabile di evasione. Non solo: io avrei potuto essere inquisito per concorso nel medesimo reato. Si trattava di un rischio che ero disposto a correre. Ma il suo legale temeva che Riva finisse ristretto a San Vittore. L’anziano recluso dovette perciò accantonare il progetto editoriale a lungo accarezzato e che aveva già trovato un editore. Anche l’ultima possibilità di autodifesa gli veniva negata. Dunque è così che è morto Riva: senza voce. Sarebbe stato invece interessante, oltreché giusto, fargli commentare il rapporto di Legambiente, nemica giurata dell’Ilva, dal quale nel 2012, in piena bufera giudiziaria, risultava che, su 55 capoluoghi di provincia presi in esame, Taranto figurava al 46˚ posto nella classifica nazionale dell’inquinamento da polveri sottili, preceduta da Torino, Milano, Verona, Alessandria, Monza e altre 40 città. Oppure farlo parlare di quel procuratore capo della Repubblica di Taranto che aveva scritto con largo anticipo come sarebbe andata a finire questa brutta storia: «Con la vittoria del bene sul male». Dove il bene erano i giudici e il male Riva. Una sentenza contenuta nella prefazione di un libro per bambini, nel quale si raccontava che nella città pugliese, per colpa dell’Ilva, «il cielo era sempre scuro e la gente si ammalava», ma poi arrivava un dio che tuonava: «Adesso basta!». E giurava: «Col mio soffio spegnerò le ciminiere, porterò via i fumi e manderò a casa gli uomini d’acciaio!». Promessa mantenuta: prima a casa e da lì direttamente al cimitero. A Emilio Riva non hanno portato bene né l’avversione per il comunismo, che tuttavia non gl’impedì di acquisire e far ripartire due cadenti acciaierie dell’ex Ddr dove al suo arrivo trovò un presidio di militari dell’Armata rossa, né il munifico obolo di San Pietro che per anni, in gran segreto, versò direttamente nelle mani di Papa Wojtyla per consentirgli di pagarsi i suoi viaggi apostolici nei cinque continenti. Chissà che il custode delle chiavi decussate non gli abbia adesso dischiuso, dopo tanta prigionia domestica, almeno le porte di quel paradiso nel quale ha sempre sperato. Un risarcimento postumo che l’industriale siderurgico non poteva aspettarsi dalla giustizia umana, ma solo da un santo fresco di canonizzazione.
Tutta la verità e le intercettazioni sui giornalisti a “libro paga” dell’ILVA. Scrive “Il Corriere del Giorno” il 4 ottobre 2014. E nel frattempo da 2 anni l’inchiesta interna all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, sui giornalisti coinvolti nelle intercettazioni dorme sonni profondi. Sino a quando? Un folto pubblico di giornalisti, era presente nella biblioteca civica “Acclavio” a Taranto dove si è svolta due una conferenza sul tema: “La deontologia dei giornalisti nei massimari della giurisprudenza dell’Ordine”. Un’ occasione solo per raccogliere ulteriori crediti (in questo caso 5) per assolvere all’ obbligo formativo richiesto a tutti gli iscritti all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, o forse per alcuni la voglia di pulire la propria coscienza? Presenti fra i relatori il vice presidente del Consiglio di Disciplina Nazionale Elio Donno, il consigliere dell’Ordine pugliese Piero Ricci e il presidente del Consiglio di Disciplina pugliese Paolo Aquaro. La presenza del collega Aquaro, che sta seguendo insieme agli altri componenti del Consiglio di Disciplina un procedimento disciplinare sui comportamenti vergognosi di alcuni giornalisti tarantini coinvolti a pieno titolo, e per loro fortuna allo stato attuale senza responsabilità penale, nell’inchiesta “Ambiente Svenduto” avviata dalla Procura della Repubblica di Taranto e conclusasi con un recente richiesta di rinvia a giudizio per 49 imputati e 3 società, . Un’indagine interna, quella dell’Ordine dei Giornalisti della quale si attendono da oltre due anni gli esiti. Lo scorso 30 novembre del 2012, il Consiglio dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, si riunì in seduta straordinaria con all’ordine del giorno l’ esame della squallida vicenda che coinvolgeva dei giornalisti tarantini, emettendo uno scarno comunicato di poche righe per dire semplicemente quanto segue: “Il Consiglio ha deciso di procedere ad approfondimenti ascoltando in fase preliminare i giornalisti coinvolti che saranno convocati nei prossimi giorni, perché possano fornire la loro versione dei fatti”. Sono passati due anni da quel giorno ed un’imbarazzante silenzio è calato su questi approfondimenti. Pressochè impossibile, ricevere qualssi tipo di aggiornamento, notizia, neanche la più piccola indiscrezione sullo stato dell’inchiesta interna all’ Ordine dei Giornalisti pugliese. L’unica certezza è che vi sono state le audizioni di alcuni giornalisti che negli anni scorsi avevano fatto da scendiletto ai dirigenti dell’ILVA ed in particolare all’addetto alle pubbliche relazioni Girolamo Archinà, successivamente licenziato dai Riva. Di concreto, come immaginabile, nulla. Il silenzio più totale. Alcuni dei giornalisti coinvolti, paradossalmente ricoprano incarichi direttivi in giornali e telegiornali tarantini. Resta da capire con quale credibilità per loro e le varie testate. Durante la solita “lezioncina” sul corretto svolgimento della professione giornalistica, è arrivata la coraggiosa domanda che ha creato non poco imbarazzo ai giornalisti presenti: “scusate, a che punto è il procedimento disciplinare per i giornalisti intercettati nell’inchiesta Ambiente Svenduto?” A farla coraggiosamente, ma soprattutto giustamente è stato il collega Cataldo Zappulla, un coraggioso freelance, rivolgendosi a Paolo Aquaro. La risposta-reazione del giornalista che è presidente del Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia, è stata però succinta, per non dire fredda: “E’ in corso”. Chiaramente, come prevedibile nessuno dei presenti si è minimamente soffermato sulla vicenda chiarendo il numero esatto dei giornalisti coinvolti. Il consigliere dell’ordine dei giornalisti Paolo Aquaro, avvicinato da una frrelance a fine conferenza, le ha detto che “non si può sbilanciare ed ha ammesso che l’inchiesta è resa meno spedita per la mancanza di documentazione. Insomma, mancherebbero gli atti della Procura, nonostante le richieste avanzat”. Sara vero? Noi ne dubitiamo fortemente in quanio, il Consiglio dell’ordine ha dei poteri di “persona giuridica di diritto pubblico (art. 1, ultimo comma, della legge n. 69/1963) ed ente pubblico non economico (art. 1, comma 2, del Dlgs 29/1993, oggi Dlgs n. 165/2001)” Non a caso infatti, l’Ordine dei Giornalisti è sottoposto alla vigilanza della Direzione Affari Civili del Ministero della Giustizia (art. 24 della legge 69/1963). “Sono assoggettati al controllo della Corte dei conti gli ordini e collegi professionali – nella qualità di enti pubblici non economici nazionali, di cui è menzione nell’art. 1 comma 2 d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 – in quanto ricompresi tra gli enti di diritto pubblico, a loro volta assumibili tra le amministrazioni pubbliche di cui al comma 4 dell’art. 3 l. 14 gennaio 1994 n. 20” (C. Conti, Sez.contr. enti, 20/07/1995, n.43; – FONTE Riv. Corte Conti, 1995, fasc. 5, 48; ). Ne consegue che l’Ordine dei Giornalisti di Puglia, ha il diritto e dovere di acquisire gli atti in mano alla Procura della Repubblica di Taranto, invece di limitare la sua sinora sterile azione alla semplice lettura di articoli di giornali o di ascoltare altre informazioni raccolte in giro verbalmente quà e là. L’unico a dire qualcosa di più ma veramente ben poco, è stato il consigliere dell’Ordine, il collega Piero Ricci: «Non posso dirvi il numero esatto dei giornalisti coinvolti. La situazione è abbastanza delicata, ma secondo me il numero è ancora incompleto perché non abbiamo avuto ancora tutti i nomi e tutte le carte. Finché non li abbiamo non possiamo fornire un numero definitivo. Sicuramente chiederemo alla Procura e al presidente del Tribunale di poter accedere a tutto l’incartamento, perché ciò che abbiamo è insufficiente per aprire altri procedimenti disciplinari. Sono convinto che bisognerà aprirne altri. Questo, adesso, possiamo dire all’opinione pubblica. Speriamo di avere la necessaria collaborazione per delineare un quadro completo della situazione». E dopo due anni stiamo ancora al “Sicuramente chiederemo alla Procura e al presidente del Tribunale di poter accedere a tutto l’incartamento” ??? Come non dare ragione poi a Beppe Grillo ed a quanti propongono la chiusura dell’Ordine dei Giornalisti !?! Di fatto, Ricci ha avvalorato le voci di corridoio che circolano da tempo fra i giornalisti di Taranto. Infatti nelle carte e nel materiale della Procura non figurerebbero solo i nomi già pubblicati di alcuni giornalisti. La rete dei “pennivendoli” complici di Archinà e sul libro paga dell’ILVA in realtà è di fatto più estesa ed ancora attiva. Sarebbe il caso che il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia invece di organizzare corsi e conferenze inutili, che senza i crediti professionali, andrebbero deserti, si dessero fare e svolgessero il loro dovere istituzionale ed il loro compito professionale e morale. Le omissioni nell’applicazioni delle norme di legge, infatti, sono perseguibili penalmente. I “pennivendoli,”, i giornalisti “marchettari” vanno sanzionati ed in modo evidente ed esemplare. Lo impone il necessario rispetto nella Legge, ma sopratutto il dovuto massimo rispetto nei confronti dei dei lettori e telespettatori che hanno diritto a ricevere un’informazione corretta su quanto è accaduto ed accade intorno all’ ILVA. «Anche nel mese di ottobre 2010 – si legge nell’ordinanza del gip Patrizia Todisco – si registravano eventi di rilievo sul fronte dei rapporti tra Archinà e Assennato, il direttore generale di Arpa Puglia e su quello dei rapporti che Archinà intratteneva con la carta stampata e che gli consentivano di manipolare letteralmente la maggior parte dell’informazione locale che, con sistematicità, risultava accondiscendente, alle indicazioni e ai suggerimenti di Archinà”. Nelle pagine del provvedimento del GIP si legge un rapporto diretto e colluso con i giornalisti di due testate giornalistiche di Taranto. Vengono riportati i nomi sia di Michele Mascellaro il direttore di Taranto Sera (quotidiano che ha cessato le pubblicazioni riapparendo successivamente ed ancor oggi in edicola sotto il nome di Taranto “Buona Sera” ) , che del giornalista Pierangelo Putzolu che all’epoca dei fatti era caposervizio per la redazione di Taranto del Nuovo Quotidiano di Puglia attuale il direttore editoriale a Taranto “Buona Sera” . In particolare fu Putzolu, il 24 agosto del 2010, a consentire la pubblicazione, sul Quotidiano all’interno della rubrica “Punto di Vista”, un articolo dal titolo “L’allarme berillio e i fondi pubblici per la bonifica”, firmato da un fantomatico Angelo Battista, spacciato come “esperto ambientale”, ma che secondo quanto accertato e scritto dal gip Patrizia Todisco non esisterebbe, ed in realtà sarebbe stata scritta e firmata con un nome di fantasia da Girolamo Archinà. Di seguito vi proponiamo i passaggi più interessanti e significativi della “macchina del fango” giornalistico, messa in piedi dai Riva ed Archinà con il portafoglio sempre aperto.
Come volevano “bruciare” gli ambientalisti. Nico Russo, coordinatore di Taranto Futura, non piaceva all’ ILVA ed
Archinà. Era quindi necessario trovare un modo per bruciarlo. Archinà al telefono con l’avvocato Perli trova la soluzione ideale: segnalarlo a Michele Mascellaro. L’uomo, alla guida del quotidiano locale Taranto Sera (ora Taranto “Buona Sera”) , è abituato a riportare le notizie con i “toni che vogliamo noi” diceva la “longa manu” della famiglia Riva.
Archinà (ILVA): “Avvocato se io per bruciare questo Russo, se io la facessi chiamare dal direttore di Taranto Sera, che è poi quello che trascina le notizie per il giorno dopo”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Eh”.
Archinà (ILVA): “Ritiene opportuno che gli spiega lei, magari senza interviste glielo spiega“.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Si, ma io non farei interviste eh!”.
Archinà (ILVA): “Non interviste. No! No! Gli dà notizie…in modo che lo scrive lui”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Come si chiama questo?”.
Archinà (ILVA): “Michele Mascellaro. La faccio chiamare io”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Ma è…c’è da fidarsi?”.
Archinà (ILVA): “E’ nostro! E’ nostro! E’ nostro! Si….”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Mhhhh”.
Archinà (ILVA): “E’ nostro per intero!”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Ok”.
Archinà (ILVA): “E’ quello…è quello che ha fatto scoppiare la questione Berillio!”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Ah…Ok. Va bene”.
Archinà (ILVA): “Le do il suo numero perchè così lui riporta la notizia, così con il tono che vogliamo noi.…”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Certo”.
Archinà (ILVA): “In modo che Russo domani se vuole tenere la conferenza stampa deve stare attento”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Mhhh… va bene”.
Archinà (ILVA): “Va bene? quindi provvedo”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Mi…Mi…Mi interessa molto quell’accesso agli atti”.
Archinà (ILVA): “Si, si, si certo. Certo va bene.”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Grazie arrivederci…ci sentiamo buongiorno….”
(Intercettazione del 21 aprile 2010 – 11:36)
Le intercettazioni tra Mascellaro (direttore di Taranto Sera) e Girolamo Archinà (pubbliche relazioni ILVA) svelano i sistemi usati dalle aziende per gestire i rapporti con la stampa locale:
Archinà (ILVA): “comunque è andato… mò ti faccio una confidenza, non ti far trapelare niente quando lo vedi. E’ andato ieri in maniera improvvida e senza avermi avvisato, Cattaneo (ufficio stampa ILVA – n.d.r) da Walter Baldacconi (direttore responsabile STUDIO 100 – n.d.r). Vabbè ma voleva fare i soliti incontri giornalistici. Come li ha fatti con te e con gli altri, no? In maniera…alla milanese maniera"!
Mascellaro (Taranto Sera): "Si".
Archinà (ILVA): “E si Baldacconi l’ha portato da Cardamone…”
Mascellaro (Taranto Sera): “Ah…quanto gli hanno chiesto?”
Archinà (ILVA): “Appena è arrivato, dice “sa noi dall’ ENI abbiamo ricevuto una promessa di un milione di euro, poi Roma l’ha bloccata, per questo noi li stiamo attaccando”.
Mascellaro (Taranto Sera): "Ah".
Archinà (ILVA): “Ehhhh va buò. Dice che ne è tornato scandalizzato".
Mascellaro (Taranto Sera): "AhAhAhAhAhAh Ah AhAhAh (risata)".
Archinà (ILVA): “ Va buò !”
Mascellaro (Taranto Sera): "Ma non ti ha detto quanto gli hanno chiesto a lui?"
Archinà (ILVA): “No vabè ma mica lo fa così lui (Cardamone). So che sono tre o quattro volte che mi chiama oggi. e non gli rispondo a Cardamone."
Mascellaro (Taranto Sera): "Ah. ho capito".
Archinà (ILVA): “Va buò va! Ci sentiamo domani”.
Mascellaro (Taranto Sera): “Beato a chi gli è amico”.
Archinà (ILVA): “Ciao! Un abbraccio”.
Mascellaro (Taranto Sera) : “Ciao Girolamo ciao”.
Il 31 agosto dello stesso anno anche “Taranto Sera” pubblicava la seguente notizia: “Esclusiva: documento top secret dell’Arpa smentisce tutto. Un affare di milioni dietro la finta emergenza berillio”. In un dialogo intercettato Michele Mascellaro, all’epoca dei fatti direttore di Taranto Sera, e Girolamo Archinà si parlavano così al telefono:
Archinà (ILVA): "Mai hai visto? Tutti i giornali ti hanno seguito eh!"
Mascellaro (Taranto Sera): "Che mi tieni a fare a me?"
Archinà (ILVA): "Hai fatto uno scoop hai fatto…"
Mascellaro (Taranto Sera): "L’ho scritto anche: “Nostra esclusiva”".
Ma non è finita qui. In un altro passaggio dell’ordinanza, inoltre, si parlava l’emittente televisiva “Studio 100” di Taranto citata da un’annotazione della polizia giudiziaria “Si ritiene che il contratto pubblicitario rappresenti solo un escamotage per mascherare la dazione di denaro da parte dell’ILVA al gruppo di Cardamone per ottenere una linea editoriale favorevole”. Sempre scorrendo gli atti, secondo la polizia giudiziaria “dalle attività tecniche emerge che l’ILVA ha commissionato ad un’agenzia pubblicitaria degli spot (al costo di 120.000 euro) che verranno trasmessi dal network facente capo ai Cardamone. Appare chiaro che il pressing di Gaspare Cardamone abbia sortito gli effetti desiderati in quanto evidentemente ha ricevuto una sostanziosa commessa pubblicitaria da parte dell’ ILVA la quale, a sua volta, come ritorno potrà essere tranquilla che non riceverà attacchi mediatici ed anzi potrà sfruttare i predetti media a proprio favore anche mediante una campagna di comunicazione tesa a ridimensionarne la figura [in senso favorevole ad essa Ilva] agli occhi dell’opinione pubblica, al fine di non apparire sempre e solo come causa principale dell’inquinamento ma anche come uno stabilimento proteso all’incremento dello sviluppo eco-sostenibile dei propri impianti”.
(Intercettazione del 21 aprile 2010 – 11:36)
Una conferenza telefonica tre, da una parte della cornetta c’è Girolamo Archinà, dall’altra lo scomparso Emilio Riva, patron dell’ILVA ed Alberto Cattaneo, dirigente della comunicazione in azienda. Oggetto della discussione gli spot su una televisione locale.
Emilio Riva (patron ILVA): “Archinà!”
Archinà (pubbliche relazioni ILVA): “Si dottore l’ho chiamata poco anzi, mi hanno detto che era impegnato”.
Emilio Riva (ILVA): “Sono qua con Cattaneo ” (responsabile comunicazione ILVA).
Archinà (ILVA): “Ti saluto”.
Cattaneo (ILVA): “Con questi cavolo di spot che vogliamo fare su Studio 100?”
Archinà (ILVA): “Siii”
Cattaneo (ILVA): “Ma ce li mandano in onda o no?”
Archinà (ILVA): “Ma allora io, me lo chiesi. Contrattualmente li devono mandare per forza in onda, io non vedo nessun problema di questo tipo. Era l’unica cosa quando me lo chiese il ragioniere, era di vedere un pò, se mandare gli spot, poi non aumentano gli appetiti degli altri esclusi, Questo era l’unico problema. Ma per Studio 100, non è un problema, lo devono mandare, punto e basta. Perchè è previsto dal contratto”.
Cattaneo (ILVA): “Girolamo. Ehi, quello che non ho colto da Cardamone è proprio questa volontà, però se tu ci assicuri noi siamo a posto. Siccome stiamo spendendo dei soldi per gli spot televisivi. Il nostro problema se spenderli o no, se questi non li mandano. Capisci?”
Archinà (ILVA): “Il problema, c’è un contratto firmato per questo, no, c’è un contratto, punto. Per me il contratto firmato va onorato da entrambe le parti”.
Cattaneo (ILVA): “Perfetto”.
Archinà (ILVA): “Punto. E’ un problema che non mi pongo, mi segui?”.
Cattaneo (ILVA): “Si. Sono felice di quello che mi stai dicendo”.
Archinà (ILVA): “Quando la settimana scorsa il ragioniere mi fece cenno di questo, io gli dissi, l’unico momento di riflessione deve essere un momento che, se attraverso questi spot, gli altri esclusi, Telerama, TBM, At6, cioè quelle televisioni escluse non…”
Cattaneo (ILVA): “Eh, ma qualcosa faremo anche con loro eh”.
Archinà (ILVA): “Ecco quindi ….”
Cattaneo (ILVA): “non mi preoccuperei di questo”.
Archinà (ILVA): “Infatti, solo di questo avevo detto. Punto e basta. Perchè gli altri, se vogliono i soldi, devono darci gli spazi, che invece di fare i redazionali, come mandiamo noi, cioè, quindi che cacchio vogliono?”
Cattaneo (ILVA): “Si ma il fatto è che siccome questi spot costano, poi dobbiamo mandarli in onda eh!”.
Archinà (ILVA): “Si, dottore lo so…”
Cattaneo (ILVA): “Costano 120.000 euro andiamo a spendere, perchè sono fatti bene, sono fatti con una logica …”
Archinà (ILVA): “No, no, dottore, il discorso che dico io, contrattualmente ci spettano degli spazi. Contrattualmente. Parlo di Studio100. Per cui su questo, se vogliamo, se vuole, io la prossima settimana oppure anche, perchè oggi e domani non ci sta lui che stà a Milano, a ritirare un premio, non so, gliene parlo, gli vado a parlare. Cosa…?”
Rumori di sottofondo (è la voce di Emilio Riva che parla)
Archinà (ILVA): “Si, esatto. Glielo vado a dire in maniera spiccicata”.
Cattaneo (ILVA): “Diciamoglielo, guardi caro signore, che noi stiamo andando, non stiamo facendo per finta . ILVA sta spendendo dei soldi per fare gli spot, non è uno scherzo!”
Archinà (ILVA): “Lunedì, vado e glielo dico in maniera spiccicata. Ripeto l’unico motivo di riflessione dottore che aveva fatto con suo padre era questo: attenzione siccome in quel budget erano escluse altre televisioni Telerama, TBM, e così non svegliamo gli appetiti di questi esclusi. Punto”..
Cattaneo (ILVA): “Va bene”.
Nell’ordinanza viene alla luce anche quanto non pochi sospettavano e denunciavano da tempo, rimanendo chissà perchè inascoltati…. «Il complesso delle attività tecniche svolte fa emergere uno spaccato nel quale si vede come l’ ILVA utilizzando lo strumento delle “sponsorizzazioni pubblicitarie”, veicoli in maniera più o meno “lecita” delle somme agli organi d’informazione, sia stampa che radio-televisivi, al fine di non essere continuamente avversata in conseguenza dei numerosi e costanti comunicati stampa e delle frequenti manifestazioni che le associazioni ambientaliste del territorio (Altamarea, Peacelink, etc) promuovono contro l’ ILVA considerata la principale fonte inquinante del territorio».
Ecco cari amici come andavano (e chissà se non continuano ancora) i rapporti giornalistici a Taranto della stampa corrotta e collusa con i poteri economici. Se persino il quotidiano LA REPUBBLICA ha messo online i file audio delle intercettazioni, cosa aspetta l’Ordine dei Giornalisti di Puglia a svegliarsi dal consueto silente torpore? Se poi qualcuno si rivolgesse alla Direzione Affari Civili del Ministero di giustizia ed alle Procure della repubblica di Bari e Taranto, allora qualche giornalista potrebbe iniziare a preoccuparsi anche penalmente. E’ proprio il caso di dire, Taranto inquinata, grazie anche a (certa) stampa infetta!
“Ambiente svenduto” & giornalismo corrotto, scrive Antonello De Gennaro il 2 dicembre 2014 su "Il Corriere del Giorno". "Solo chi non fa nulla non sbaglia mai. Sbaglia soltanto a nascere (1982)" Indro Montanelli intervistato da Enzo Biagi nel suo programma televisivo “Il Fatto”, poco prima della sua scomparsa, dipinse in maniera emblematica (alla sua maniera!) il rapporto tra un giornalista, il suo editore ed il pubblico, e disse: “Oggi non esiste più un solo giornalista che sappia dialogare con il suo editore, tutti hanno paura. Ma sono gli editori che dovrebbero temere i propri giornalisti: dovrebbero temerli perchè essi sono i primi difensori della trasparenza dei giornali e garanti della lealtà verso il pubblico”. In questa città sono nato oltre 50 anni fa ed ho avuto la fortuna di avere un padre come Franco de Gennaro, che insieme ai suoi soci e co-fondatori fondò il Corriere del Giorno, cioè il quotidiano, che oggi state leggendo nella sua edizione online. Ho avuto la fortuna di avere oltre a mio padre, dei grandi e veri “maestri” di giornalismo come Mario Gismondi, Oronzo Valentini, Giorgio Tosatti, Antonio Ghirelli ecc. Ho avuto la fortuna di riuscire a diventare giornalista professionista a soli 23 anni (e mio padre era già morto da 3 anni), record che ancora oggi mi risulta imbattuto. Perchè ve lo racconto? Non certo per ricevere facile consenso, l’ammirazione o applausi dai lettori che stanno leggendo quello che scrivo, nè tantomeno per atteggiarmi a “guru” del giornalismo. Ve lo racconto con grande umiltà, per sfatare delle leggende metropolitane messe in giro recentemente da giornalisti tarantini (e della provincia “complessata”) disoccupati, frustrati, incapaci, come le loro carriere confermano, per mettervi a conoscenza della verità e cioè che in 30 anni (fra un mese) di giornalismo professionistico, non ho mai ricevuto un qualsiasi tipo di richiamo deontologico dagli Ordini dei Giornalisti a cui sono stato iscritto (Bari, Milano, Roma). Qualcuno vi dirà: ma quello, de Gennaro è stato condannato per diffamazione (non giornalistica!) . Come ho già detto in passato, sono fiero di aver preso una condanna (“processo Svanity Fair“) peraltro coperta da indulto, e che in appello è stata dimezzata, anche perchè quelle diffamazioni (di oltre 10 anni fa) successivamente alla luce nelle inchieste “Vallettopoli” e “Berlusconi Ruby-gate” e “Berlusconi Ruby-gateBis”, sono diventate a posteriori delle “verità” raccontate dal sottoscritto in anticipo su tutti, da “solitario” e senza avere a disposizione i potenti mezzi informatici e di intercettazioni delle forze dell’ordine. Utilizzati dai pubblici ministeri Woodcock e Boccasini nello loro indagini. In queste settimane abbiamo pubblicate le intercettazioni che comprovavano le connivenze fra la delinquenza mafiosa tarantina ed alcuni esponenti della politica locale e del suo squallido sottobosco. Qualcuno ci ha accusato: “perchè non parlate anche dei giornalisti corrotti?” Premesso che già lo avevamo fatto, abbiamo deciso di pubblicare le intercettazioni “INTEGRALI” agli atti dell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Taranto, su richiesta della Procura della repubblica, meglio nota come “inchiesta Ambiente Svenduto”. I giornalisti coinvolti Pierangelo Putzolu e Walter Baldacconi li conosco molto bene da anni, ad eccezione di Michele Mascellaro, anche se ora questi “signori della disinformazione” quando mi incontrano fanno finta di non vedermi. E fanno bene, perchè sono loro che devono abbassare il capo e guardare per terra dalla vergogna. Io sto facendo solo e soltanto il mio lavoro: informare il lettore. Senza “se” e senza “ma”, e soprattutto senza fare sconti a nessuno. Giornalisti compresi. Partiamo dalle intercettazioni che riguardano il quotidiano Taranto Sera, successivamente chiuso per mancanza di lettori… oberato dai debiti e rifondato sotto mentite spoglie, ribattezzato in (Taranto) Buona Sera con direttore lo stesso giornalista: Michele Mascellaro. “Ad ogni buon conto, la stampa, in quel caso il quotidiano “Taranto Sera”, diffondeva la notizia che si era di fronte ad “una finta emergenza berillio”, insinuando il dubbio che dietro tale emergenza, di fatto, si celassero ben altri interessi [v. articolo apparso sul quotidiano “Taranto Sera” del 31.08/01.09.2010, dal titolo: “Un affare di milioni dietro la fìnta emergenza berillio. NOSTRA ESCLUSIVA. Il documento top secret dell‘Arpa smentisce tutto”, allegato 57 all’informativa 21.09.2012, tratto dalla rassegna stampa interna dell’ILVA, decreto 356/10 R.I.T., prog. 2802]. All’indomani della pubblicazione di detto articolo di stampa, l’ARCHINÀ si intratteneva al telefono con il dott. MASCELLARO, direttore di “Taranto Sera”, e commentava con soddisfazione l’articolo che questi, su sua sollecitazione, aveva pubblicato; lo esortava, altresì, a continuare nella stessa direzione, con un nuovo articolo “pepato” in relazione alla conferenza stampa che il sindaco STEFÀNO aveva convocato a seguito della diffusione di dette notizie (conv. dell’01.09.2010, progr. 8013, ore 10.50, allegato 58 all’informativa 21.09.2012).
E gli articoli su “commissione di Archinà ai giornalisti al suo “servizio” non sono finiti……
Scrive ancora “Il Corriere del Giorno” il 5 dicembre 2014. Eccovi quindi il seguito delle intercettazioni agli atti dell’inchiesta giudiziaria “Ambiente Svenduto” che coinvolgono Pierangelo Putzolu ex responsabile della redazione tarantina del Quotidiano, ed attuale direttore editoriale del quotidiano (Taranto) “Buona Sera” edito da una cooperativa con sede a Grottaglie (TA), nato sulle ceneri di “Taranto Sera” la cui società editrice ha cessato la propria attività. Nelle intercettazioni, Putzolu dimostra di essere asservito agli interessi di Girolamo Archinà, all’epoca dei fatti responsabile delle relazioni esterne dell’ILVA (Gruppo RIVA) a Taranto. Come sempre tutto riportato testualmente ed integralmente. “Proseguono I pubblici ministeri nella richiesta di misura cautelare (pag 38 e segg.) Sulla scorta di quanto innanzi evidenziato non possono esservi dubbi sulla metodica utilizzata per raggiungere gli obiettivi perseguiti dall’ ILVA. E’ evidente che con il ruolo che rivestiva e con le mansioni che gli erano state demandate, ARCHINA‘ travalicava sovente, gli argini della liceità, come nel caso che si va a descrivere sempre finalizzato a screditare sia il direttore dell’ARPA Puglia ASSENNATO sia il sindaco di Taranto STEFANO visti come i principali nemici dell’ILVA. In tale opera ARCHINA‘ veniva poi valentemente supportato da due direttori di quotidiani locali, il dott. Pierangelo PUTZOLU, direttore della sede tarantina del “Nuovo Quotidiano di Puglia” (Gruppo CALTAGIRONE Editore – n.d.r.) , ed il dott. Michele Mascellaro, direttore di “Taranto Sera“. ….omissis…… In tale disegno, ARCHINA‘ veniva supportato dai direttori dei quotidiani locali. Infatti con l’aiuto del dott. Pierangelo PUTZOLU, direttore dell’edizione tarantina del “Nuovo Quotidiano di Puglia” pubblicava in una nota nell’ambito della rubrica “Punto di Vista” del suddetto quotidiano a firma di un fantomatico BATTISTA Angelo, esperto ambientale, nella quale portata alla luce la questione, venivano sostanzialmente smentite ARPA Taranto ed ARPA Puglia. L’articolo di stampa in questione veniva intercettato nella rassegna stampa dell’ILVA, grazie al monitoraggio della posta elettronica di ARCHINA‘. Si riporta di seguito, la nota pubblicata il 24.08.2010 sulle pagine del “Nuovo Quotidiano di Puglia”, edizione di Taranto (allegato 50 all’informativa 21.09.2012).
Taranto, la città degli ambientalisti (finti) a caccia di protagonismo, scrive Antonello de Gennaro su “Il Corriere del Giorno" del 27 dicembre 2015. Come i nostri lettori ben sanno seguendoci anche sui socialnetwork questo giornale non ha una grande simpatia e soprattutto nessuna stima per alcuni ambienti finto-ecologisti tarantini dove molti che si spacciano per “esperti” andrebbero denunciati alla Procura della Repubblica per procurato allarme. Non li citeremo solo per non dare loro alcuna gratuita pubblicità ingannevole di cui vivono da alcuni anni, anche perchè come ben noto a tutti il loro reale scopo è il “protagonismo”, unito ad ambizioni politico-eletorali, e per qualcuno anche di sopravvivenza. Questa mattina, il quotidiano La Repubblica, ha pubblicato un articolo sull’inquinamento nazionale. Scrivendo: “Continua l’allarme smog in tutta Italia, ma la situazione più critica resta quella di Milano: nel capoluogo lombardo le polveri sottili sono risultate sopra i limiti anche nel giorno di Natale. La media giornaliera registrata dall’Arpa Lombardia nella centralina del ‘Verziere’ nel centro cittadino, il Pm 10 ha segnato valori di 57 microgrammi per metro cubo contro il limite di 50. Ancora superiore la concentrazione a Città Studi, zona semi centrale con 67 e 63 a Limito di Pioltello, nell’hinterland. Per quanto riguarda i comuni della cintura milanese, a far registrare l’inquinamento maggiore è stata la stazione di Meda (85). La media nell’agglomerato di Milano si è attestata a 62 microgrammi per metro cubo, di poco superiore a quella di Bergamo (55) e Brescia (53). Valori oltre i limiti anche a Pavia (59). Resta quindi confermato nel capoluogo lombardo il blocco del traffico dal 28 al 30 dicembre dalle ore 10 alle 16. A Roma, dopo “approfondita valutazione tecnico-scientifica dei dati sull’inquinamento”, il Campidoglio ha deciso di ripristinare le targhe alterne nei giorni 28 e 29 dicembre. Intanto sui social è divampata la protesta dei cittadini per la chiusura della metropolitana nel giorno di Natale a partire delle 13. Per oggi l’azienda dei trasporti cittadini promette mezzi pubblici con orari festi regolari, con solo “qualche lieve riduzione dei mezzi in circolazione”. Situazione critica anche a Torino, dove per scongiurare l’ipotesi di un blocco del traffico il comune ha varato il biglietto unico giornaliero (1.5o euro) per viaggiare sulle linee di trasporto pubblico urbano e suburbano. L’iniziativa andrà avanti fino al 29 dicembre”. A Taranto, nonostante l’ILVA, non accade nulla di tutto questo. E badate bene, non è una nostra opinione. Lo rilevano gli accertamenti scientifici-sanitari dell’ARPA Puglia, e non quelli dei soliti “noti” prossimi candidati alle elezioni amministrative del 2017 per il rinnovo del Consiglio Comunale di Taranto, che ormai vivono mietendo allarme e preoccupazioni fra gli abitanti del capoluogo jonico, in particolare quelli più ignoranti ed incompetenti in materia di ambiente e legge. Gente inutile che non ha mai lavorato un giorno nella sua vita. Chiaramente tutto questo i soliti “pennivendoli” che scrivono altrove, e non certamente su queste pagine, non ve lo raccontano. E sapete perchè? Semplice, certi “pennivendoli” prediligono andare a moderare dibattiti di basso livello organizzati dai “finti” ambientalisti, farsi dare targhe (dal valore reale “nullo”) e sentirsi importanti. In realtà, non si accorgono poverini che sono solo inutili. Ecco cari lettori, i dati “ufficiali” dell’ARPA Puglia. I dati medico-scientifici che gli altri organi di informazione fanno finta di ignorare, salvo poi lamentarsi che le redazioni di giornali e televisioni chiudono una dopo l’altra per mancanza di lettori… !
Giornalismo? No, è solo disinformazione a ruota libera, continua a scrivere Antonello de Gennaro su “Il Corriere del Giorno" del 28 dicembre 2015. Ancora una volta siamo costretti ad occuparci del giornalismo schierato, fazioso, disinformato molto diffuso a Taranto, spesso al servizio di sindacalisti, politicanti ed associazioni pseudo-ambientali. Sarà questa la colpa della chiusura di ben due quotidiani ed una televisione negli ultimi due anni? Probabilmente si. Cerchiamo di capirci qualcosa. Cercando di fare del giornalismo chiaro, trasparente, indipendente, e sopratutto documentato, basato sui fatti, e non sulle opinioni personali qualsiasi esse siano. E’ quello che si aspettano i lettori quando leggono un giornale, ed è quello che quotidianamente stiamo cercando di fare. Il giornalista Francesco Casula è un collaboratore esterno della redazione tarantina del quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno, (retribuito con 5 euro netti ad articolo), che come suo diritto si dichiara pubblicamente “comunista”, collabora saltuariamente da Taranto con Il Fatto Quotidiano. Ed è stato proprio sul quotidiano romano diretto da Marco Travaglio, che nei giorni scorsi il giornalista tarantino ha manifestato la propria incompetenza in materia di economia e politica industriale. Casula parlando dell’ILVA di Taranto, ha scritto ieri che “L’AZIENDA INDIANA ACQUISTA SOLO CON L’IMPUNITÀ TOTALE”, sostenendo in realtà delle teorie esclusivamente personali e peraltro sulla base di notizie prive di qualsiasi fondamento ed alcun riscontro (come confermatoci da fonti ministeriali e dei vertici ILVA), facendosi ridere dietro da una platea molto ampia di top managers e rappresentanti istituzionali a livello ministeriale e governativo. Ecco cosa ha scritto il giornalista Francesco Casula su Il Fatto Quotidiano: “Due condizioni per valutare l’acquisto dell’Ilva di Taranto. Dettagli non trascurabili che dipingono in modo emblematico la visione futura dello stabilimento siderurgico ionico. Almeno nelle intenzioni di alcuni acquirenti. Non acquirenti qualunque, ma quelli teoricamente in pole position come ArcelorMittal, leader mondiale nella produzione d’acciaio, che insieme a imprenditori italiani capeggiati dal Gruppo Marcegaglia sarebbero interessati a sedersi al tavolo per discutere le condizioni di acquisto della fabbrica dei Riva. In una lettera al governo, infatti, la società indiana ha provato a mettere le cose in chiaro. Secondo indiscrezioni trapelate dopo il “no” ricevuto dal Governo nell’ottobre 2014, Mittal è tornata alla carica esattamente 12 mesi più tardi. Un ritorno reso ancor più legittimo dopo bocciatura dell’Unione europea che ha bollato come “aiuti di Stato” i prestiti garantiti elargiti dall’Italia per la sopravvivenza dell’ILVA. Come in una partita di poker, però, i giocatori indiani hanno provato a rilanciare: per valutare (solo valutare, non acquistare) il futuro dell’acciaieria ionica, infatti, gli indiani hanno chiesto che lo stato italiano realizzi due condizioni. La prima inquietante richiesta è una immunità totale per i nuovi acquirenti e per il management. Non il “semplice” salvacondotto che il governo italiano ha già garantito agli attuali amministratori, ma una licenza di impunità. Chi gestisce oggi l’ILVA, infatti, gode dell’immunità solo in relazione alla realizzazione delle prescrizioni imposte dal piano ambientale. Mittal, invece, pretende una sorta di “assicurazione casco” su tutti gli aspetti: una sorta di lasciapassare che garantirebbe la non punibilità dei nuovi proprietari e dello staff dirigenziale, ad esempio, anche per responsabilità sulla violazione delle norme di sicurezza”. Casula straparla quando sostiene di una presunta “bocciatura dell’Unione europea” che avrebbe a suo dire, e sopratutto dei suoi amichetti pseudo-ambientalisti “bollato come “aiuti di Stato” i prestiti garantiti elargiti dall’Italia per la sopravvivenza dell’ILVA”. Peccato per il lettori del Fatto Quotidiano che tutto ciò non sia vero, in quanto l’Unione Europa alla data odierna non ha sanzionato il Governo Italiano, ma ha bensì soltanto effettuato soltanto una normale apertura della (eventuale) procedura di infrazione che a Bruxelles aprono a centinaia (!!!) a seguito della valanga di esposti ricevuti dai soliti “quattro” pseudo-ambientalisti tarantini, ognuno ben noto per la ricerca spasmodica quotidiana di protagonismo mediatico con velleità elettorali politiche. Uno stipendio pubblico, si sa, è molto ambito a Taranto….In realtà come scrive correttamente il collega Claudio Tito del quotidiano La Repubblica (che almeno sa di cosa scrive) la procedura di infrazione, nella fattispecie, non è stata ancora completata. Il collega Tito spiega molto bene che “Sul caso Ilva, infatti, il governo insiste nel richiamare l’attenzione sulla circostanza che non si tratta di un semplice “salvataggio” ma anche di un’operazione finalizzata al risanamento ambientale. E secondo l’esecutivo italiano, proprio la disciplina europea prevede l’intervento pubblico in questi casi e in modo particolare in riferimento all’intervento siderurgico”. Aprire una procedura di infrazione, è cosa ben differente. Il collega Casula dovrebbe avere il buon gusto e la necessaria professionalità di documentarsi un pò di più e cercare di capire meglio la differenza, magari facendosela spiegare da un avvocato esperto di diritto internazionale, specializzazione che in quel di Taranto a dir poco “latita”, e dopodichè forse avrà la possibilità (e la fondatezza) di poter spiegare la realtà dei fatti, a quelle decine di lettori che acquistano il Fatto Quotidiano in edicola a Taranto. Sarebbe interessante conoscere come e da chi Casula abbia appreso e raccontato virgolettando, cioè attribuendo a terzi delle frasi mai dichiarate ufficialmente da nessuno (!!!) che la multinazionale franco indiana Arcelor Mittal, “pretende una sorta di “assicurazione casco” su tutti gli aspetti”. Un vecchio vizietto giornalistico, che spesso nei Tribunale si conclude con sentenze per diffamazione per chi si inventa fonti inesistenti. Non contento, il giornalista-comunista invece di fare informazione per i lettori, scende nella polemica “politica”, scrivendo: Il governo deve decidere se proseguire con la trattativa, ma la Puglia dice no. “Il motivo è legato alla seconda richiesta presentata al governo: il dissequestro dell’area a caldo, cioè di quei sei reparti bloccati il 26 luglio 2012 dal gip Patrizia Todisco perchè fonte di emissioni che causavano “malattia e morte nella popolazione”. In sostanza, come anticipato da Repubblica, gli indiani vorrebbero aumentare il livello di produzione a 9 milioni di tonnellate all’anno (oggi fermo al limite di poco più di 8 milioni imposto dall’autorizzazione integrata ambientale), ma senza passare a nuove forme energetiche, anzi. Mentre l’ipotesi del gas, auspicata anche dal governatore della Puglia Michele Emiliano prende piede, gli indiani vorrebbero continuare a produrre acciaio più o meno con la stessa modalità che ha avvelenato operai e cittadini del quartiere Tamburi, infatti proprio Emiliano sul Fatto di ieri invocava Eni o Enel come acquirenti ideali per l’Ilva. Invece, con gli indiani ancora una volta salute e lavoro nel capoluogo ionico non troverebbero un equilibrio: perché produrre acciaio partendo da carbone e minerale di ferro stoccate nei parchi minerali (ancora) a cielo aperto significherebbe lasciare che tonnellate di polveri vengano trasportate dal vento e finiscano nelle case e nelle vite degli abitanti del vicino quartiere Tamburi. Ora, naturalmente, la prossima mossa spetta al premier Matteo Renzi”. Anche in questo caso Casula continua in un giornalismo “schierato”. Peraltro disinformato, utilizzando delle dichiarazioni “politiche” e non tecniche espresse dal governatore Emiliano (che è bene ricordare ai lettori, è solo un magistrato in aspettativa e non ha mai fatto l’industriale o il manager!). Come giustamente fa osservare un nostro lettore che di industria ci capisce qualcosa, “Il Governatore della Puglia scambia un altoforno per un barbecue e ne chiede l’alimentazione a gas piuttosto che a carbone. Peccato che siano già alimentati a gas e che il carbonio del carbon coke sia necessario, in fusione, per produrre l’acciaio che, altrimenti, resterebbe ferro”. Resta da capire da chi e con quali competenze tecniche specializzate Casula abbia stabilito e scritto che “produrre acciaio partendo da carbone e minerale di ferro stoccate nei parchi minerali (ancora) a cielo aperto significherebbe lasciare che tonnellate di polveri vengano trasportate dal vento e finiscano nelle case e nelle vite degli abitanti del vicino quartiere Tamburi”. Casula inoltre non dice come è finito il sequestro giudiziario di cui parla, operato dal Gip Todisco. Con una prima istanza, in data 4 gennaio 2013, i p.m. tarantini chiedevano disporsi – sulla base dello ius superveniens rappresentato dall’art. 3 d.l. 207/2012, nel frattempo convertito in legge – la modifica del provvedimento di sequestro preventivo delle aree e degli impianti dello stabilimento ILVA (disposto appunto dal giudice Todisco sin dal 25 luglio 2012 ), restituendo alla proprietà la facoltà di uso degli impianti e revocando i custodi-amministratori già nominati dal G.i.p.; in alternativa, chiedevano che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale del decreto legge. Casula non racconta le motivazioni per cui la Corte costituzionale, lo scorso 9 aprile 2014, ha rigettato il ricorso del gip di Taranto Patrizia Todisco, e del Tribunale del Riesame, contro la legge definita “Salva Ilva”. Secondo la magistratura tarantina il decreto e la legge sarebbero stati incostituzionali perché, agendo anche in maniera retroattiva, annullavano di fatto i provvedimenti emessi contro l’acciaieria, come il sequestro dell’area a caldo o quello dell’acciaio già prodotto e sulle banchine del porto, in attesa di essere venduto. L’ILVA si era sempre opposta a questi due decreti di sequestro, presentando ricorsi con la motivazione che la vendita della merce (un milione e ottocento mila tonnellate rimaste sulle banchine dal 26 novembre 2012, per un valore commerciale di 1 miliardo di euro) avrebbero permesso i lavori di bonifica ambientale. Proprio il 3 maggio 2013, malgrado la Consulta fosse già intervenuta, il Gip Todisco aveva respinto l’ennesima istanza di restituzione di gran parte della merce, presentata dall’ILVA, dichiarandola inammissibile perché non erano state ancora depositate le motivazioni della Corte costituzionale. Qualche giorno prima, infatti, era il 26 aprile 2013 la Procura aveva disposto il dissequestro la restituzione di una minima parte: l’acquirente delle merci è la compagnia di Stato irachena Oil Projects Company, e l’ILVA (ancora a gestione “privata” ) aveva annunciato che la data ultima per la spedizione era il successivo 5 maggio 2013; altrimenti l’acciaieria privata avrebbe chiesto un risarcimento danni allo Stato di 27 milioni di euro. Bene. Adesso leggete cosa stabilì la Corte Costituzionale sul sequestro dell’impianto disposto dal Gip Patrizia Todisco. La Consulta ritenne che bisognava interrompere il clima di “sfiducia preventiva” verso l’ILVA, perché “l’aggravamento dei reati già commessi o la commissione di nuovi reati è preventivabile solo a parità delle condizioni di fatto e di diritto antecedenti all’adozione del provvedimento cautelare. Mutato il quadro normativo (a seguito dell’introduzione degli interventi di bonifica ambientale come condizione per la produzione, ndr.) le condizioni di liceità della produzione sono cambiate e gli eventuali nuovi illeciti penali andranno valutati alla luce delle condizioni attuali e non di quelle precedenti”. La Consulta, spiegando le ragioni per le quali respinse la tesi presentata dal GipTodisco e dal Tribunale del Riesame, aggiunse che “si può rilevare con certezza che nessuna delle norme censurate (nella legge Salva Ilva, ndr.) può incidere, direttamente o indirettamente, sull’accertamento della responsabilità e che spetta naturalmente all’autorità giudiziaria, all’esito di un giusto processo, l’eventuale applicazione delle sanzioni previste dalla legge”. Non ci sarebbe quindi alcun “Salva-Ilva”, secondo la Consulta in quanto “le disposizioni non cancellano alcuna fattispecie incriminatrice, né attenuano le pene, né contengono norme interpretative e/o retroattive in grado di influire in qualsiasi modo sull’esito del procedimento in corso, come invece si è verificato nella maggior parte dei casi di cui si sono dovuti occupare la Corte costituzionale italiana e la Corte di Strasburgo”. Il novello editorialista dei due ponti…cioè Casula, così conclude il suo articolo: “Il capo dell’esecutivo non potrà fare altro che scoprire le carte: rimandare al mittente le proposte e cercare nel frattempo di mantenere le tante promesse fatte finora a parole oppure svelare il bluff dei proclami degli ultimi anni e accettare la proposta di Mittal. Perchè al di là di dichiarazioni e decreti, a Taranto, a distanza di oltre tre anni del sequestro degli impianti non è cambiato molto. Lo Stato vanta la realizzazione dell’80 percento delle prescrizioni, ma resta da fare ancora molto: dalla copertura dei parchi minerali all’individuazione di un nuovo asset aziendale nella speranza che il futuro degli operai ionici non passi nelle mani di un nuovo padrone interessato esclusivamente al profitto”. Leggere frasi dell’articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano, come ad esempio “il futuro degli operai ionici non passi nelle mani di un nuovo padrone interessato esclusivamente al profitto” chiarisce senza alcun dubbio il “credo” politico di Casula. Qualcuno dovrebbe spiegare al giornalista Casulaed agli ambientalisti “last minute” a lui molto cari, che un’azienda che produce acciaio non è una congrega di boyscout, o una sezione del partito comunista, e sopratutto che il fine di qualsiasi attività imprenditoriale o commerciale che sia, è l’utile, cioè il guadagno. Senza questa parola magica non si pagano stipendi e fornitori, non si mandano avanti le aziende. Verrebbe voglia di chiedere a Casula chi dovrebbe individuare “un nuovo asset aziendale”. Forse qualche suo amico-ambientalista che non capisce una “mazza” di impresa? O qualche suo collega esperto di questioni sindacali giornalistiche tarantine puntualmente irrisolte? Di quale “bluff dei proclami degli ultimi anni” parla il collaboratore tarantino del Fatto (o stra-fatto?) Quotidiano? La campagna mediatica giornalistica-ambientalista tarantina accanitasi negli ultimi tre anni contro il risanamento ambientale e la ristrutturazione industriale dell’ ILVA di Taranto, sulla quale bene farebbero nel nuovo anno a svolgere qualche accertamento ed indagare la Guardia di Finanza e la Procura della Repubblica (quando si risveglierà dal precedente torpore…) su chi finanzia, come vanno avanti queste pseudo associazioni-ambientali, come vivono e si mantengono questi pseudo ambientalisti “last minute”. Verrebbero fuori anche viaggi e biglietti aerei offerti da qualche imprenditore del settore a giornalisti ed ambientalisti. E state pur certi che se ne vedrebbero e leggerebbero delle belle. Di “balle” infatti ne abbiamo viste e lette sin troppo sinora.
LE BUFALE DI PEACELINK. Le “bufale” di Peacelink sulla trasparenza, su cui molti giornalisti tarantini scivolano…scrive "Il Corriere del Giorno" l'8 dicembre 2014. Questa è veramente bella! L’Associazione PeaceLink ha reso noto oggi di essersi iscritta nel “pubblico” Registro Europeo per la Trasparenza istituito e gestito dal Parlamento europeo e dalla Commissione europea per consentire “una interazione tra le istituzioni europee e le associazioni dei cittadini, le ONG, le imprese, le associazioni commerciali e di categoria, i sindacati, i centri di studi” . Per i soliti rappresentanti dell’associazione invece «È una forma di cittadinanza attiva europea che vogliamo espandere. Vogliamo, con la nostra iscrizione al Registro Europeo per la Trasparenza, promuovere la democrazia partecipativa transnazionale in modo da permettere alle istituzioni stesse di realizzare politiche adeguate che rispondano alle esigenze dei cittadini europei”. Peccato però che sull’ Associazione PeaceLink vi sia poca trasparenza. Anzi, nessuna! Infatti, visitando il loro sito nulla è dato sapere su sia ubicata realmente la propria sede sociale che nell’atto costitutivo risulta essere collocata presso l’abitazione di uno dei due soci fondatori (Giovanni Pugliese) e cioè in via Galuppi 15 a Statte (Taranto). Sul sito dell’associazione peraltro non compare nessun atto dell’assemblea dei soci che abbia modificato l’atto costitutivo dove uno dei soci fondatori (Alessandro Marescotti) che la qualifica ed il titolo di “insegnante di scuola media superiore”, risulta solo portavoce, mentre oggi lo stesso si auto-qualifica come “Presidente” come potete verificare di seguito con i vostri occhi. Anche consultando lo statuto dell’Associazione, si può verificare con i propri occhi come l’ambiente fosse un interesse molto limitato delle loro attività di “volontariato”. Ma il comunicato dell’Associazione in questione riserva delle altre sorprese. Recita (in tutti i sensi…) ” È un grande onore per Peacelink diventare un’associazione accreditata presso la Commissione Europea e il Parlamento Europeo. – proseguono - Vogliamo continuare il nostro lavoro presso le Istituzioni Europee inaugurando anche un’azione di macro-progettazione europea che possa confluire nella Strategia Europa 2020. Mentre in Italia vengono fatte leggi per rendere legale ciò che non è legale (incorrendo in infrazioni europee), e mentre si diffonde un preoccupante intreccio fra mafia e politica, confermato dalle indagini di Roma, riteniamo che l’Europa sia un riferimento di legalità imprescindibile per fermare questa riscrittura malata della legislazione nazionale. Taranto e la nostra nazione – conclude Peacelink - non possono e non devono sprofondare definitivamente nel malaffare e nella malapolitica. Vogliamo portare permanentemente il caso Taranto in Europa». Non sono pochi i giornalisti tarantini che sono caduti nella rete di Peacelink, Spaziano dalla redazione tarantina del quotidiano regionale (sempre più in crisi di vendite) La Gazzetta del Mezzogiorno, al quotidiano “Taranto Oggi” venduto più ai semafori che nelle edicole, passando per qualche collaboratore dell’edizione barese del quotidiano La Repubblica, che ha così scritto testualmente “Intanto l’associazione ambientalista Peacelink Taranto ha ricevuto una lettera dal presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, nella quale il presidente si dice “costantemente informato sulla evoluzione della situazione a Taranto”, rispondendo ad una missiva di Peacelink del 5 settembre scorso. Lo rendono noto Alessandro Marescotti, Antonia Battaglia e Luciano Manna per conto della stessa associazione”. Qualcuno può spiegare a questi giornalisti che ricevere una lettera formale di risposta ad una propria lettera/istanza/esposto. Non equivale a ricevere una lettera di Stato o impegnativa da parte dell’Europa? Resta da capire di quale “onore” trattasi, essendo l’iscrizione al Registro Europeo per la Trasparenza aperta praticamente a chiunque voglia. E quindi non si capisce bene di quale “onore” si stia parlando ?!? Che l’attività “ambientalista” sia di fatto qualcosa di anomalo per l’associazione lo si deduce da uno stesso articolo del 29 ottobre 2011 presente sul loro sito (appena tre anni fa) a firma di Marescotti. Ebbene in quell’articolo che riepilogava i loro 20 anni di attività, è singolare, ed impossibile non farci caso, non si parla mai di ambiente! Come se l’Associazione di volontariato Peacelink, (e quindi non di tutela dei cittadini e/o consumatori) non sapesse nulla dell’inquinamento dell’ ILVA che non è stato creato o causato certamente negli ultimi mesi. Un “interesse “ambientalista… dell’ultima ora, che quindi genera di conseguenza non pochi dubbi sul reale scopo della richiesta costituzione di parte civile presentata dall’associazione al Gip del Tribunale di Taranto nel processo “Ambiente Svenduto” attualmente in corso. Ironia della sorte, quell’articolo a firma Marescotti venne pubblicato nel 2011 proprio dal defunto quotidiano cartaceo “Corriere del Giorno di Puglia e Lucania” che come è ben noto a tutti i tarantini ed i nostri lettori, è miseramente fallito in liquidazione coatta con la cessazione definita delle sue pubblicazioni lo scorso 30 marzo 12014. Parliamo quindi del clone, cioè della brutta e mal riuscita copia dell’ “originale” Corriere del Giorno fondato nel 1947 , quello creato dai giornalisti Franco de Gennaro, Egidio Stagno, Franco Ferraiolo e Giovanni Acquaviva (accanto ai quali successivamente si affiancarono gli imprenditori Angelo Galantino eNicola Resta ), e di cui questo quotidiano online che state leggendo è il naturale “erede” e le legittima prosecuzione della missione di dotare la città di Taranto di una sua “voce” indipendente. Così come resta da capire come viva (o sopravviva) quest’ Associazione PeaceLink , chi siano i suoi finanziatori, in quanto di tutto ciò non vi è traccia, così come non vi è traccia di alcun bilancio pubblicato sul loro sito. Esiste solo una pagina, con cui l’Associazione chiede ai propri ignoti sostenitori di contribuire con un finanziamento. Ma anche in questo caso la “trasparenza” latita in quanto non vi è neanche un elenco pubblico dei sostenitori. Un comportamento questo, un pò in antitesi con il vero significato della parola “trasparenza”! I “volontari” di PeaceLink sono invece molto bravi ad usare i paroloni ad effetto tipo “Vogliamo continuare il nostro lavoro presso le Istituzioni Europee inaugurando anche un’azione di macro-progettazione europea che possa confluire nella Strategia Europa 2020″, pubblicizzando la solita letterina di cortesia politica ricevuta da un esponente del Parlamento Europeo dopo appena 3 mesiin risposta alla loro solita “lettera”. Di quale “lavoro” parlino poi è ignoto saperlo. Probabilmente si riferiscono alla valanga di esposti, documentazioni, richieste che sono state inviate dappertutto da PeaceLink (soprattutto ai giornalisti “fiancheggiatori”) e che non hanno mai sortito alcun concreto effetto ambientalista. E’ anche inutile ricordare i vari tentativi dei rappresentanti di quest’ Associazione di entrare nelle istituzioni partecipando a varie campagne elettorali, che si sono sempre rivelate vane: infatti non hanno mai eletto nessun loro rappresentante. Alle ultime elezioni amministrative del 2012 per il Comune di Taranto, hanno presentato una lista denominata “ARIA PULITA PER TARANTO” che ha raccolto appena l’1,99% dei voti e Marescotti ricevuto appena 507 preferenze. Considerati i circa 200mila cittadini residenti e votanti a Taranto, un risultato alquanto eloquente e deludente. Ci sarà un perchè a tutto questo? Secondo noi, una volta tanto i tarantini non si sono fatti prendere in giro…! “Non potremo mai dire la verità senza non dover dare un dispiacere a qualcuno”. Questa cari lettori, amici e nemici, è la regola del “nostro” giornalismo. Che può anche non piacere a “qualcuno”, ma appunto costituisce solo e soltanto l’opinione di “qualcuno”, e chiunque esso sia questo “qualcuno”, la sostanza dei fatti non cambia di una sola virgola! P.S. Abbiamo trovato anche tracce giudiziarie di un noto esponente di Peacelink (sempre in prima fila accanto a Marescotti), che vanta alle spalle un’imbarazzante vicenda giudiziaria di sfratti reiterati, di case occupate abusivamente a Taranto e Roma. Ed ora costui parla di “legalità”….
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero, ma non per tutti…Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, scrive Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”.. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e “salvarli”. Intercettazioni che ti segnalo, solo il quotidiano che dirigo ha pubblicato “integralmente”. Hai detto qualche inesattezza. Forse qualcuna di troppo. Innanzitutto il giornalista dell’emittente Blustar TV, che hai citato e fatto passare come un “eroe-vittima”, in realtà non ha mai fatto un’inchiesta giornalistica sullo stabilimento siderurgico, bensì ha solo rivolto una domanda scomoda ad Emilio Riva al termine di un convegno, a confronto della quale, credimi, le domande fatte ai malcapitati dagli inviati di Striscia la Notizia e Le Iene nei loro servizi, potrebbero tranquillamente concorrere ed aspirare a vincere il “Premio Pulitzer“ E poi, caro Travaglio, quella televisione cioèBlustar TV, che sta per chiudere, la pubblicità dall’ ILVA la incassava anche lei! Le domande “scomode” di quel giornalista a Riva sono arrivate solo, guarda caso…quando i rubinetti si erano chiusi da tempo! Hai paragonato ingiustamente ed erroneamente l’attuale Sindaco di Taranto Ippazio Stefàno ai suoi predecessori Giancarlo Cito e Rossana Di Bello, senza sapere che a differenza dei degli altri due, l’attuale primo cittadino di Taranto, al suo secondo mandato consecutivo, è stato eletto con i voti di una sua lista civica, senza della quale il centrosinistra non avrebbe mai governato la città di Taranto, sindaco che gestisce ed amministra la città in “dissesto economico” finanziario da circa 8 anni, dopo quanto ha ricevuto in “eredità”…dal precedente sindaco di Forza Italia Di Bello. Hai ha detto erroneamente che il dissesto di Taranto ammontava a 900mila euro, dimenticando qualche “zero”…Magari fossero stati solo così pochi! In realtà il “buco” era di 900 milioni di euro! Se ti avessero informato e documentato meglio, caro Travaglio, invece di ironizzare sulla pistola alla cinta del Sindaco, avresti appreso delle pesanti minacce ricevute dal primo cittadino di Taranto, persino nel suo studio a Palazzo di Città, ad opera di appartenenti alla criminalità organizzata, la quale grazie a dei consiglieri comunali collusi silenziosamente si era infiltrata anche all’interno dell’amministrazione comunale (mi riferisco all’ “operazione Alias” della DDA di Lecce). Paragonandolo al tuo amico ed ex pm Ingroia che se ne andava girando in lungo e largo per l’Italia con la “scorta” di Stato, almeno il sindaco di Taranto non è costato nulla al contribuente, e la sua pistola è rimasta sempre al suo posto. Caro Travaglio ti anticipo subito un possibile dubbio. Non sono un elettore, simpatizzante o apostolo, nè tantomeno amico o parente dell’attuale Sindaco di Taranto, ma sull’ onestà di Ippazio Stefàno non sono il solo a sostenerla. Ti informo che oltre al sottoscritto c’è “qualcuno” come il Procuratore capo della repubblica di Torino, Armando Spataro (tarantino) che dovresti ben conoscere, il quale essendo persona seria, coerente ed attendibile, sono sicuro sarà pronto a ripetere quello che disse al sottoscritto: “Sull’onestà di Ippazio Stefàno sono pronto a mettere la mano sul fuoco”. Non ti ho sentito dire neanche una sola parola sui tuoi “amici” “grillini”, che difendi spesso e volentieri in televisione e nei tuoi articoli. Se ti fossi informato bene, avresti scoperto che i due “cittadini” eletti in Parlamento a Taranto del M5S, sono stati i primi dopo qualche mese dalla loro elezione ad abbandonare il movimento di Grillo e Casaleggio. Rinunciare allo stipendio “pieno” da parlamentare è cosa dura ed ardua. Sopratutto per uno come Alessandro Furnari (ex disoccupato) ed una come l’ex-cittadina-pentastellata-deputata Vincenza Labriola la quale, due anni prima si era candidata alle elezioni comunali per il M5S, ricevendo dal “popolo grillino” e dai cittadini di Taranto un grande…consenso: la bellezza di 1 voto. Forse il suo! Per avere traccia della loro attività parlamentare, e conoscere il loro impegno per Taranto, credo che sia consigliabile alla nostra brava collega Federica Sciarelli conduttrice di “Chi l’ha visto”. Chissà se ci riesce …Hai raccontato di intercettazioni, avvenute realmente, fra gli uomini dell’ILVA e la stessa famiglia Riva, che si intrattenevano telefonicamente con non pochi politici pugliesi, da destra a sinistra, compreso il neo (ma già ex) deputato Ludovico Vico. Hai accusato il Pd di averlo fatto rientrare in Parlamento. Peccato che (purtroppo) gli spettasse di diritto in quanto primo dei non eletti nel collegio jonico-salentino alle ultime elezioni politiche. O forse bisognava fare una “legge ad personam” per impedirglielo? Tutta roba vecchia, riciclata, caro Travaglio, non hai rivelato nulla di nuovo rispetto a quanto già pubblicato (con audio) dai colleghi del quotidiano La Repubblica, e che noi umili cronisti di provincia del Corriere del Giorno, abbiamo approfondito con l’ulteriore pubblicazione integrale online delle intercettazioni più salienti. Eppure tutto questo, il vostro giovane collaboratore locale Francesco Casula poteva raccontartelo….ma forse era troppo impegnato nelle sue conversazioni nell’ufficio dove lavora a Taranto, e cioè un centro di formazione professionale riconosciuto dalla Regione Puglia (dove viene retribuito quindi con soldi pubblici) in cui il giovane collega lavora insieme alla figlia dell’ex-presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido (PD – area CISL) un politico arrestato a suo tempo anch’egli per l’inchiesta” Ambiente Svenduto“… Chissà !!! ??? Hai citato il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio ed i suoi magistrati, come se fossero stato loro gli artefici con una propria azione “autonoma” a far decollare l’inchiesta giudiziaria sull’ILVA. Ed anche in questo caso… in realtà non è andata proprio così perchè l’inchiesta “Ambiente Svenduto” è nata grazie a degli esposti e denunce di associazioni ambientaliste tarantine, e proprio del sindaco Ippazio Stefàno, esposti e denunce che non potevano essere dimenticate nei cassetti, come invece accade tuttora per molti altri casi. Hai dimenticato caro Travaglio di ricordare che a Taranto un pubblico ministero è stato arrestato e condannato a 15 anni….e ti è sfuggito che un giudice del Tribunale civile di Taranto è stato arrestato anch’egli mentre intascava una “mazzetta”. Se vuoi gli atti, te li mando tutti. Completi. Hai dimenticato anche qualcos’altro.e cioè qualcosa che non poteva e non doveva sfuggire alla tua nota competenza in materia giudiziaria. Anche perchè il quotidiano che ora dirigi ne aveva parlato. La Procura di Taranto aveva realizzato (solo sulla carta) uno dei sequestri più grossi della storia giudiziaria italiana, nei confronti della famiglia Riva, sotto indagine per disastro ambientale nell’ambito dell’inchiesta ILVA. Un decreto di sequestro per equivalente, firmato nel maggio scorso dal gip Patrizia Todisco su richiesta appunto della procura tarantina, che imponeva di mettere i sigilli a beni per 8,1 miliardi di euro senza peraltro mai trovarli ed identificarli! Quindi un sequestro “fittizio”, rimasto solo sulla carta. E guarda caso, proprio in merito a questo “strombazzato” grande sequestro…la Corte di Cassazione ha stabilito che i beni posti sotto sequestro della holding Riva Fire, società proprietaria di ILVA spa, su richiesta del pool di inquirenti composto dal procuratore capo Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile e Remo Epifani, non andavano confiscati motivo per cui ha annullato senza rinvio il decreto di sequestro, che era stato confermato nel giugno 2014 anche dal Tribunale del riesame di Taranto. Il che vuol dire come puoi ben capire da solo, che sui Riva a Palazzo di Giustizia di Taranto, avevano “toppato” tutti! In ordine: la Procura della repubblica, l’ufficio del GIP, ed il Tribunale del Riesame. Altro che complimenti…! Per fortuna ci ha pensato la Procura di Milano (procedendo per reati di natura fiscale), grazie alla preziosa cooperazione che intercorre sui reati finanziari fra la Banca d’ Italia, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza che hanno scovato un rientro fittizio (cioè mai effettuato) dall’estero in Italia di capitali della famiglia Riva, operazione camuffata come “scudata” del valore di 1miliardo e 200 milioni di euro a cui stanno per aggiungersene altri 3-400 come ha annunciato in audizione al Senato il procuratore aggiunto milanese Francesco Greco, che sono in pratica i soldi che la gestione commissariale dell’ ILVA in amministrazione straordinaria ha richiesto ed ottenuto (ma non ancora sui conti bancari) in utilizzo dal Gip del tribunale di Milano, previa tutta una serie di garanzie legali a posteriori, in quanto il contenzioso giudiziario fra Adriano Riva (il fratello e “patron” del Gruppo, Emilio è deceduto diversi mesi fa) e lo Stato non si ancora concluso, neanche in primo grado. In compenso, sei stato molto bravo a spiegare con chiarezza gli effetti reali e vergognosi (mi trovi d’accordo con te al 100%) dei vari “decreti Salva Ilva”. Permettimi di provocarti: a quando una bella inchiesta del Fatto Quotidiano su quello che accade dietro le quinte di Taranto, possibilmente coordinata dall’ottimo Marco Lillo per evitare cattive figure? Ci farebbe piacere non dover restare i soli dover scoperchiare i “tombini” di questa città, che per tua conoscenza è ILVA-dipendente a 360°. Concludendo caro Travaglio, pur riconoscendoti delle innate capacità giornalistiche e narrative, e stimandoti personalmente, questa volta te lo confesso mi hai deluso. Hai dimenticato di farti qualche domanda molto importante come questa: “Come mai al “referendum sull’ inquinamento ambientale” a Taranto hanno aderito e votato solo 20 mila tarantini” oppure come questa: “Ma gli altri 180mila tarantini che non sono andati a votare al referendum, dov’erano ?”. Eppure sarebbe stato facile chiederglielo. Ieri sera li avevi più o meno tutti di fronte al tuo palco …. Domande serie, caro collega Travaglio, non le fotocopie di “seconda mano” che ti hanno passato.
La Procura di Taranto, i “portavoce”, i Carabinieri e l’ILVA, scrive Antonello de Gennaro su “Il Corriere del Giorno”. In passato ci siamo già occupati di una coppia di giornalisti e cioè Francesco Casula e Mimmo Mazza che a Taranto tutti chiamano “Cicì” e “Cocò” per la loro vicinanza. In realtà il giornalista è uno solo, cioè Mazza, in quanto abbiamo scoperto che il Casula non risulta iscritto all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, e quindi esercitando di fatto illegalmente (???) la professione giornalistica, che costituisce il suo secondo lavoro, viene retribuito secondo le nostre fonti presso la Gazzetta del Mezzogiorno a Bari, per la modica cifra di circa 5 euro ad articolo! I due in realtà, più che per i lettori, scrivono e vivono per apparire, convinti di essere il Travaglio e Peter Gomez di Taranto, come ci ha raccontato divertito un nostro caro amico e noto collega, da sempre molto vicino a Michele Santoro ed a Marco Travaglio. Mazza si spaccia per “ambientalista” di sinistra, ma invece come racconta pubblicamente in giro un suo parente, in realtà avrebbe simpatie per la destra. L’altro, cioè Casula è spudoratamente (e legittimamente) di sinistra come si evince dalla semplice visualizzazione del suo diario sulla sua pagina Internet. Teoricamente i due farebbero i cronisti di nera e giudiziaria, ma in realtà tutti a Palazzo di Giustizia ben sanno che i due vivono di fotocopie ricevute sottobanco da qualche magistrato desideroso di vedere il proprio nome apparire sui giornali, o da quegli avvocati i quali pensano che facendo uscire il proprio nome sulla stampa arrivano i clienti…A memoria d’uomo nessuno ricorda un’inchiesta giornalistica firmata da uno dei due, ma solo tanti articoletti-“dettati”, con tanti nomi dei giudici o avvocati e le loro fotografie in primo piano. Come abbiamo già scritto e rivelato in passato, i due di giurisprudenza e del codice di procedura penale sanno poco e nulla, come dimostrano i loro articoli in cui in uno hanno confuso il reato di calunnia con quello di diffamazione. O forse quell’errore venne fatto volontariamente per accontentare il socio di una famiglia di gestori di supermercati della provincia imparentati con Mazza? Incredibilmente, Cocò-Mazza (il più anziano dei due) più che fare il giornalista passa il suo tempo ad occuparsi di sindacato, lavorando alla Gazzetta del Mezzogiorno che da oltre un anno gli passa lo stipendio grazie ai contratti di solidarietà applicati dalla società editrice da cui dipende, salvo poi auspicare in suo “articoletto” la chiusura dell’ ILVA, senza chiedersi che fine farebbero i 18mila dipendenti dell’ ILVA compresi gli appalti, se qualche suo “amichetto/a” della Procura della Repubblica di Taranto dovesse (ipotesi del 3° tipo, cioè dell’ “irrealtà“) riuscire a chiudere lo stabilimento siderurgico a colpi di sequestri, puntualmente annullati, per volere della Cassazione o del Governo. Il novello “giornalista-ambientalista-sindacalista” Cocò-Mazza, ipotizza (ma in realtà lo sostiene!) che lo stabilimento siderurgico sia pericoloso per chi vi lavora, e che tutti gli altri impianti dell’area a caldo siano nocivi per operai e cittadini. Non contento, dall’alto della sua superbia, che in realtà è inconsistente, scrive e pone delle domande “alle quali non si risponde né per decreto, né per ordinanza, ma mettendo a disposizione, ora e subito, tutti i soldi necessari a salvare quella che anche nei fatti deve essere ritenuta una azienda strategica. Altrimenti è meglio spegnere tutto, senza bisogno di ricorrere ai codici”. Quello che Mazza non capisce è che in questo momento il Governo Renzi sta facendo tutto il possibile per salvare l’azienda, risanarla ambientalmente e venderla nel giro di 2-3 anni al migliore offerente sul mercato internazionale. Operazione questa, seguita dal consulente economico di Palazzo Chigi, Andrea Guerra, che di management ed industria ci capisce leggermente molto di più del Mazza, il quale in vita sua ha gestito solo e soltanto, e forse…, lo stipendio che porta a casa! Qualcuno dovrebbe spiegare a Cocò (o a Cicì?) che ad agosto l’ILVA in amministrazione straordinaria, riaccenderà l’altoforno AFO 1 ristrutturato e risanato con i soldi del Governo, in attesa che arrivino i soldi sequestrati e confiscati ai Riva dalla Procura della Repubblica di Milano, e non dalla Procura di Taranto, che come confermano i fatti, in realtà non è stata mai capace di sottrarre un solo euro al Gruppo Riva. Nel gennaio 2014, infatti gli “ermellini” , cioè i giudici della Suprema Corte di Cassazione, nelle nove pagine delle motivazioni sulla decisione presa di annullare senza rinvio l’estensione del maxi sequestro da 8,1 miliardi di euro firmato due anni fa (17 luglio 2013) dal gip tarantino Patrizia Todisco, hanno sostenuto e “cassato” che non è possibile, “sulla base di una relazione di controllo o di collegamento societario solo genericamente prospettato, e nell’assenza di un preciso coinvolgimento delle società partecipate nella consumazione dei reati-presupposto, o, quanto meno, nelle condotte che hanno determinato l’acquisizione di un illecito profitto, ricavare l’esistenza di alcun nesso logico-giuridico tra quest’ultimo ed il conseguimento di eventuali illeciti benefici da parte delle controllate”. Il provvedimento con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato, nell’ambito dell’inchiesta sull’inquinamento dell’ Ilva, a partire da maggio 2013 e messo sotto sequestro 8,1 miliardi di euro, in beni e conti (ma solo sulla carta!) del gruppo Riva partendo da Riva Fire ed estendendosi alle società collegate tra cui Riva Energia, Riva Acciaio e Muzzana Trasporti secondo la Cassazione presenta “aspetti di abnormità strutturale che lo pongono fuori dall’ordinamento con l’esigenza della sua conseguente rimozione”. La Suprema Corte mise in luce a suo tempo, come il provvedimento del gip Patrizia Todisco sia stato emesso senza la necessaria richiesta del pm, ma esclusivamente sulla base della relazione formulata dal custode giudiziario Mario Tagarelli. “Spetta, dunque, al pubblico ministero – scriveva non caso la Cassazione nell’ordinanza – il potere esclusivo di promuovere, attraverso la richiesta, il procedimento applicativo delle misure” aggiungendo che nel fatto in questione “è pacifico che il provvedimento impugnato è stato emesso dal gip non in relazione ad una richiesta cautelare proveniente dal pm, ma ad una richiesta di precisazione della portata applicativa di un precedente provvedimento” presentata dal custode giudiziario. Quindi, il provvedimento della Todisco, firmato dietro richiesta del custode giudiziario, ha “autorizzato, in difetto, di una correlativa richiesta da parte del pubblico ministero, una estensione del sequestra preventivo in relazione ad oggetti (azioni, quote sociali, cespiti aziendali, ecc.) e a destinatari (le società ricorrenti, neanche sottoposte ad indagine riguardo ai fatti di reato oggetto di contestazione) del tutto diversi rispetto a quelli indicati nell’originario decreto”. Secondo la Cassazione, il provvedimento a carico delle società Riva Acciaio e Riva Energia “non espone le ragioni giustificative delle precisazioni fornite alle richieste in tal senso avanzate dal custode richieste il cui contenuto” venne completamente condiviso dal gip Todisco, senza che la stessa legittimasse i motivi dell’estensione del sequestro. Per i giudici della Suprema Corte “Non vengono illustrate, infatti, le ragioni per cui i beni costituenti oggetto del sequestro debbano considerarsi profitto del reato, e dunque aggredibili con una misura cautelare reale”. Ma tutto questo, Cicì e Cocò lo hanno dimenticato. I magistrati di Taranto, no. Ed ecco spiegata la guerra allo “Stato”-gestore dell’ ILVA in amministrazione straordinaria ! Quello che non si spiega, che è incredibile è come sia possibile che il Comando Provinciale dei Carabinieri di Taranto alle 22 di sera, si metta a distribuire via mail un comunicato stampa scritto su carta bianca, privo di firma, in nome e per conto della Procura della Repubblica di Taranto. Credetemi, cari lettori, in 30 anni di giornalismo professionistico svolto in tutt’ Italia, non avevo mai visto nulla di simile! Ma per l’“amico” Sebastio (procuratore capo di Taranto n.d.a.) il colonnello Sirimarco (comandante provinciale CC Taranto) fa questo ed altro… Peccato o per fortuna, a secondo dei punti di vista, soltanto sino al 1 settembre!
La Procura di Taranto non si rassegna. Dopo il Governo…ora è il “turno” degli operai ILVA, scrive “Il Corriere del Giorno”. La Prefettura in serata del 17 luglio 2015 di fatto “censura” l’operato della Procura e degli incolpevoli Carabinieri che hanno solo eseguito un ordine della Magistratura tarantina, che secondo noi farebbe bene a rasserenarsi. Sedici dipendenti dell’ILVA e tre della ditta d’appalto Semat in servizio al primo turno sono stati identificati e denunciati dai Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto per violazione di sigilli a conclusione dei controlli effettuati oggi dai militari nell’ara dell’Afo2 l’altoforno sottoposto a sequestro senza facoltà d’uso dalla Procura, ma il cui utilizzo è di fatto legittimato ad operare grazie a un decreto del Governo. A disporre il “blitz” odierno dei Carabinieri di Taranto, disposto dal pm Antonella De Luca e dal procuratore aggiunto Pietro Argentino, ma stranamente non sono stati contatti i competenti Carabinieri del NOE (distaccato a Lecce) che sinora hanno sempre operato all’interno ed esterno dello stabilimento siderurgico, per loro competenze in materia ambientale. Soltanto alle 22:00 di venerdì 17 sera i Carabinieri di Taranto hanno diffuso via mail alla stampa un comunicato redatto su carta bianca, anonima, privo di firma, contenenti queste testuali parole: “Con riferimento ad alcune attività ispettive svolte in data odierna, su delega di questa Procura della Repubblica, dagli organi di Polizia Giudiziaria all’interno dello Stabilimento ILVA, si precisa che sono stati effettuati solo accertamenti di carattere assolutamente preliminare in vista di eventuali successive attività di indagine. Tanto è stato precisato nel corso di un incontro tenuto nel pomeriggio in Prefettura, cui sono intervenuti anche i Sindacati, dal comandante Provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Taranto”. Che però… stranamente non usa la carta intestata, nè firma il comunicato. Incredibile, ma vero, di fatto a Taranto ormai l’ILVA, i sindacati, i lavoratori, e le aziende forti anche del pieno sostegno del Governo, sono compatti ed uniti nell’intento di comune di non fermare la produzione e rischiare di spegnere lo Stabilimento. Ma “qualcuno” evidentemente alla Procura della Repubblica di Taranto, sembra non darsi pace. Sarà voglia di protagonismo? O qualcuno forse si sente già in campagna elettorale per le prossime elezioni amministrative per diventare Sindaco…? O invece qualcun’altro ambisce alla poltrona di procuratore capo a seguito dell’imminente pensionamento dell’attuale capo della procura Franco Sebastio? Scegliete voi la risposta. Credeteci, difficilmente sbaglierete…
Renzi riapre l'Ilva, i Pm mandano i carabinieri, scrive “Magazine Donna”. Neppure il decreto del governo scritto in fretta e furia lo scorso 4 luglio 2015 per evitare il blocco degli altoforni dell’Ilva (il n° 2) e dei cantieri Fincantieri di Monfalcone sembra smuovere i magistrati pugliesi dalla convinzione che qualcosa di losco si stia facendo nell’acciaieria più grande d’Europa. Tanto che in mattinata del 16 luglio i carabinieri del Comando provinciale di Taranto hanno notificato a 19 operai del primo turno dell’Afo 2 Ilva (16 dell’Ilva e 3 della ditta d’appalto Semat) una denuncia a piede libero «per violazione dei sigilli giudiziari». Lo scorso 29 giugno i magistrati tarantini avevano posto sotto sequestro l’impianto numero 2 (sono in tutto 5 i forni ma ben 3 sono fermi), dopo che l’8 giugno un getto di ghisa fusa aveva colpito e ustionato un addetto (Alessandro Morricella). L’operaio dell’Ilva era morto quattro giorni dopo a seguito delle ustioni riportate sul 90% del corpo. E i magistrati avevano quindi chiesto il sequestro dell’impianto perché «non è sicuro e mette a rischio la vita degli operai». Poi il governo aveva emanato il decreto salva Ilva (e salva Fincantieri, incappata anch’essa in un sequestro nei giorni successivi), evitando il blocco dell’attività a Taranto come a Monfalcone. Ma il decreto del 4 luglio stando ai magistrati tarantini – sarebbe zeppo di errori. Violerebbe ben 6 articoli della Costituzione e da qui il ricorso alla Corte Costituzionale. La Procura – su mandato del pubblico ministero Antonella De Luca – è tornata all’attacco, visto che nei giorni scorsi il gip Martino Rosati aveva sospeso il giudizio sulla richiesta di dissequestro avanzata dall’azienda e inviato gli atti alla Corte Costituzionale. Il gip infatti afferma che il decreto 92 (il salva Ilva del 4 luglio) è in contrasto con diversi articoli della Costituzione e consente all’Ilva, solo perché azienda di «interesse strategico nazionale», di proseguire la sua attività industriale, e quindi «anche di proseguire il reato che le viene contestato». L’Ilva aveva chiesto alla Procura la «facoltà d’uso» e il rinvio di dieci giorni dello stop dell’impianto (previsto per il 6 luglio), garantendo di aver «già attuato le prescrizioni di sicurezza ordinate dallo Spesal dell’Asl» ed essersi impegnata a presentare un ulteriore piano migliorativo. Il decreto del governo – nella sostanza – è un’opera (evidentemente mal scritta) di acrobazia normativa. Infatti non annulla il sequestro ma stabilisce «che l’Ilva può comunque continuare la sua attività». Un’attività consentita nei 12 mesi successivi al sequestro ed entro 30 giorni dal sequestro l’Ilva deve presentare un piano con ulteriori misure di sicurezza da presentare all’autorità giudiziaria e sottoporre alla vigilanza di Vigili del Fuoco, Inal ed Asl. Il decreto, ora all’esame del Parlamento, ha consentito all’Ilva di non spegnere, a Fincantieri di non chiudere i cancelli. Ora però il provvedimento dei magistrati tarantini rischia di creare un baratro tra magistrati e governo.
Nel braccio di ferro tra governo e magistrati sul caso Ilva, a rimetterci questa volta sono gli operai, scrive "Il Corriere della Sera”. Sedici dipendenti diretti dell’Ilva e tre della ditta d’appalto Semat, in servizio nel primo turno, questa mattina sono stati identificati e denunciati dai carabinieri della Polizia giudiziaria per violazione di sigilli, essendo stati trovati al lavoro nell’area dell’Altoforno 2, sottoposto a sequestro senza facoltà d’uso dalla Procura. Ma l’impianto, dove l’8 giugno scorso rimase gravemente ferito il 35enne operaio Alessandro Morricella, morto quattro giorni dopo per le ustioni riportate sul 90 per cento del corpo, è ancora in marcia grazie a un decreto del governo, l’ottavo che riguarda il Siderurgico per sospendere gli effetti degli interventi dei magistrati nell’ambito dell’inchiesta per disastro ambientale. Proprio lunedì prossimo 20 luglio è prevista la conclusione dell’udienza preliminare con la decisione del gup Vilma Gilli sui rinvii a giudizio e i riti abbreviati. Sono 52 gli imputati (49 persone fisiche e tre società) tra gli ex vertici dell’azienda, dirigenti, funzionari ministeriali e di enti, politici e imprenditori. Il blitz dei carabinieri, su delega della magistratura, agita dunque la vigilia del processo denominato «Ambiente svenduto». Non sono ancora chiare le motivazioni che hanno spinto i militari a procedere alla contestazione della violazione di sigilli. Nei giorni scorsi il gip Martino Rosati ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione al decreto governativo che ha congelato il sequestro dell’Afo 2, rinviando gli atti alla Consulta. Contestualmente è stata respinta la facoltà d’uso dell’impianto, ma il giudizio dovrebbe essere comunque sospeso fino alla pronuncia della Corte costituzionale. Dopo i controlli e le denunce dei carabinieri, i sindacati hanno subito incontrato l’azienda per chiedere informazioni su quanto accaduto, sostenendo come nella vicenda «i lavoratori siano privi di qualsiasi responsabilità diretta e per quanto tali, non debbano essere coinvolti da provvedimento alcuno anche e soprattutto in termini di sicurezza e salvaguardia impiantistica». Il primo a dare notizia del blitz dei carabinieri è stato, con un messaggio su Twitter, il segretario nazionale della Fim, Marco Bentivogli, sottolineando che «la sicurezza dei lavoratori è sempre più a rischio in Ilva di Taranto. Nei diversi contenziosi — ha ammonito — vogliamo garanzie, altrimenti la fermiamo noi la fabbrica». La posizione dei sindacati è contenuta anche in un verbale di incontro inviato al prefetto di Taranto, Umberto Guidato. «Non è possibile stare in questa situazione — spiega lo stesso Bentivogli — e non è possibile stare in una situazione di massima confusione e incertezza. Su mandato della Procura, oggi i carabinieri sono andati all’Ilva, hanno identificato tutti i lavoratori presenti sull’impianto e contestato loro il mancato rispetto dell’ordine della Procura, ovvero il sequestro dell’altoforno 2 senza facoltà d’uso. Ma non spetta ai lavoratori garantire l’attuazione delle prescrizioni o degli ordini dell’autorità giudiziaria. Non è possibile, anzi è allucinante che i lavoratori siano identificati come responsabili. È l’Ilva che deve farlo e allora o l’Ilva ci dice che gli impianti sono sicuri, oppure — conclude Bentivogli — siamo noi a fermare il siderurgico. In questo caos gestionale non si può più stare». Dopo l’irruzione dei carabinieri non si è fatta attendere la reazione dell’azienda. In una nota l’Ilva ha ribadito «di aver operato nel pieno rispetto della legalità in ottemperanza alle previsioni del decreto legge 92/15. I dipendenti identificati hanno eseguito le previsioni di un decreto Legge normato su presupposti di urgenza. Al momento resta garantita la continuità produttiva». Allo stesso tempo, l’Ilva annuncia che «garantirà la tutela legale dei propri dipendenti fornendo loro la più ampia assistenza». «Dopo il nostro incontro di oggi a seguito dell’arrivo dei Carabinieri all’altoforno 2 dell’Ilva — ha spiegato al proposito il segretario della Uilm di Taranto, Antonio Talò, in una pausa dell’incontro con l’Ilva — l’azienda sta per andare dal prefetto di Taranto per farsi autorizzare al funzionamento degli impianti e garantire la sicurezza dei lavoratori». «Vogliamo che i lavoratori siano garantiti sia per la sicurezza ed anche sotto il profilo giuridico. I lavoratori non possono essere destinatari di avvisi di garanzia perché, secondo la Procura, hanno disatteso un ordine dell’autorità giudiziaria. L’azienda deve assolutamente chiarire come stanno le cose. Se queste garanzie non ci saranno date, allora saremo noi a dire ai lavoratori di non andare più sugli impianti e la fabbrica, a quel punto, si fermerà». Alla luce di quanto accaduto nello stabilimento i sindacati sono stati convocati al tavolo che si è tenuto alla prefettura di Taranto da cui sarebbero arrivate rassicurazioni come evidenziato da un comunicato di Fim, Fiom e Uilm: «Il prefetto ha formulato rassicurazioni circa l’estraneità dei lavoratori ai fatti contestati e che simili azioni non avranno a ripetersi. Ampie rassicurazioni sono state fornite in merito all’accesso su Afo 2 di tutti i lavoratori interessati alle pertinenti lavorazioni».
Ilva, torna la paura. La Procura di Taranto: "Fra quattro giorni spegnete l'altoforno 2". Slitta a giovedì la decisione del gup sul processo 'Ambiente svenduto'. Assennato (Arpa): "Non ho mai tradito i pugliesi". E gli avvocati di Vendola chiedono di derubricare l'ipotesi di reato per l'ex governatore, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica” del 21 luglio 2015. In quell’enorme gioco dell’oca che sembra Taranto – tiri un dado e ritorni sempre al punto di partenza – la Procura ha notificato un nuovo provvedimento di spegnimento dell’Altoforno 2 dello stabilimento siderurgico, l’unico al momento ancora in funzione. In sostanza significa far chiudere l’impianto. Questa volta, come si legge nelle due pagine consegnate all’Ilva dal custode giudiziario dell’impianto, l’ingegner Barbara Valenzano, c’è però una data: “Entro il 24 luglio dovremo essere informati del cronoprogramma per lo spegnimento dell’impianto”. Siamo allo scontro totale, l’ennesimo tra procura e Governo. Che può essere così sintetizzato: dopo la morte dell’operaio Alessandro Morricella, la procura di Taranto sequestra l’Altoforno 2 perché considerato troppo pericoloso per i lavoratori. Qualche giorno dopo il gip Martino Rosati ne conferma il sequestro. Il Governo, davanti alla prospettiva di una chiusura della fabbrica, firma un decreto legge straordinario (l’ottavo nel giro di due anni “ad Ilvam”) che dispone il dissequestro dell’impianto e consente la ripresa dell’attività. L’Ilva riapre lo stabilimento e chiede il dissequestro al gip Martino Rosati sulla base della nuova legge. Ma Rosati solleva la questione di costituzionalità sulla nuova norma. Nel frattempo l’Ilva continua il lavoro, tra le polemiche dell’Anm (che considera illegittimo il provvedimento legge) e la spinta del ministro Guidi che considera irresponsabile la posizione dei magistrati. Vengono mandati i carabinieri in azienda per identificare gli operai che lavoravano, il Prefetto assicura che non accadrà mai più, il presidente della Regione, Michele Emiliano, dice per la prima volta che “l’apertura dell’Ilva non è un dogma”. Poi, il nuovo colpo di scena. “Il custode – si legge nel provvedimento – chiede alla società di voler procedere, nell’immediato, all’attuazione del programma di interventi per lo spegnimento in sicurezza dell’Altoforno 2, così come previsto dal decreto di sequestro preventivo. Contestualmente il custode chiede di essere informato, entro la data del 24 luglio, in merito alla realizzazione delle opere da realizzarsi per procedere alle attività di spegnimento”. E l’Ilva? Per il momento domani i lavoratori lavoreranno come al solito. “Si prende atto dell’accesso effettuato in data odierna dal custode – mette a verbale il legale dell’Ilva, Angelo Loreto – Attesa la procedura seguita dall’Autorità giudiziaria, e in vigenza del decreto legge che legittima l’esercizio di attività di impresa negli stabilimenti strategici di interesse nazionale come il sito Ilva, ci si riserva ogni valutazione e iniziativa volta a chiarire il perimetro e i contenuti dell’eventuale provvedimento giudiziario di esecuzione che giustificherebbe l’iniziativa odierna”. Tradotto: per il momento rimane com’è, ma presto chiederemo l’intervento di un nuovo giudice. Tutto si muove, dunque, ma tutto rimane fermo, quindi. Un po’ com’è accaduto nei 40 gradi e più della palestra dei Vigili del fuoco dove si svolge l’udienza preliminare del maxi processo "Ambiente svenduto". Il gup Wilma Gilli avrebbe dovuto esprimersi ma le lunghissime controrepliche dei difensori degli imputati l’hanno spinta a rimandare tutto a giovedì quando però, per alcune situazioni, potrebbe anche chiedere un supplemento di indagini. Tra gli altri, hanno voluto parlare personalmente il direttore generale dell’Arpa, Giorgio Assennato, e l’ex assessore all’Ambiente, Lorenzo Nicastro, che visibilmente emozionato, ha chiesto che gli venga restituita la “dignità da magistrato”. "Mi si accusa di aver venduto la salute dei cittadini di Taranto", passando "da eroe a traditore. Io nego che ci sia stato qualsiasi tipo di arrendevolezza nei confronti dell'Ilva", ha sostenuto Assennato.
Secondo quanto è stato possibile ricostruire da Siderweb, sulla base di alcuni documenti allegati agli atti, prenderebbe sempre più corpo l’ipotesi che l’incidente dello scorso 8 giugno in cui perse la vita l’operaio 35enne Alessandro Morricella, sia dovuto più all’applicazione di una pratica scorretta piuttosto che ad un problema strutturale dell’impianto. Ipotesi, questa, che però non convincerebbe il Gip ed il suo staff. Secondo quanto ricostruito, infatti, a fungere come innesco della deflagrazione che ha investito il lavoratore sarebbe stato il distacco dal foro di colata di parte del materiale protettivo a base di resina che ne circonda il bordo, che, al contatto con la ghisa incandescente, si sarebbe incendiato, dando origine della fiammata fatale. All’origine del distacco di refrattario, però, ci potrebbe essere il tentativo sconsigliato dalle pratiche aziendali di allargare manualmente il foro di colata per implementarne la portata, intaccando probabilmente il materiale protettivo. Un’ ipotesi contestata in parte sia dall’ingegner Barbara Valenzano, custode giudiziario dell’impianto, sia dal Gip Martino Rosati i quali ritengono insufficienti i provvedimenti in materia di sicurezza proposti da Ilva fatti da barriere in acciaio rivestite da refrattario, videosorveglianza sul rispetto delle procedure, rilevazione automatizzata delle temperature e, soprattutto, tramite la formazione e il rispetto delle corrette procedure. Ilva ha presentato uno studio del possibile danno che potrebbe derivare dal completo spegnimento degli impianti o dal funzionamento solo con Afo 4. Un’ipotesi che incrementerebbe in maniera massiccia le emissioni inquinanti per la mancata ottimizzazione nella combustione delle materie prime e, se vi fosse uno spegnimento completo, la necessità di investire tra i 200 e i 260 milioni di euro per il rifacimento delle cockerie che, in caso di fermata, vedrebbero irrimediabilmente compromessi i propri refrattari il cui rifacimento comporterebbe lo stop completo dell’azienda per almeno 24 mesi.
"Se venisse spento anche uno solo dei due altoforni in attività a Taranto, non solo sarebbe antieconomico tenere aperto l’impianto ma anche organizzativamente non si riuscirebbe più ad alimentare il flusso della produzione". Il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, in un’intervista al Corriere della Sera, torna così sul caso Ilva, invitando la magistratura a valutare il peso delle scelte sull'azienda siderurgica: "alla magistratura chiediamo di fare il proprio lavoro avendo chiaro l’impatto delle decisioni che prende. E nel caso Fincantieri avrei preferito che si fossero tenuti presenti i danni che si potevano procurare con la sola chiusura del cantiere, solo a causa dell’interpretazione di una normativa europea non perfettamente recepita nel nostro ordinamento". "Finora – continua il ministro – non è stato notificato alcun provvedimento che metta in discussione l’operatività degli altoforni. Sono dunque ottimista e ricordo che è in corso un’operazione di risanamento ambientale che ha richiesto ingenti finanziamenti e la chiusura temporanea di due altoforni". "Spegnere altri altoforni vorrebbe dire rinunciare a uno dei siti siderurgici più efficienti d’Europa e togliere lavoro a 14-15 mila persone nel Sud d’Italia. Non c' è nessun motivo, visto che il risanamento è in corso, così come c' è il massimo impegno per impedire incidenti sul lavoro, perchè anche un solo ferito è troppo".
Caro procuratore Sebastio le scrivo….di Antonello de Gennaro direttore de "Il Corriere del Giorno". Egregio Procuratore della Repubblica di Taranto, per mia fortuna non ho frequentazioni con i suoi uffici, ed anche se la conosco da circa 30 anni, non ho mai avuto occasione di frequentarla come invece fanno assiduamente alcuni giornalisti di Taranto, i quali vengono definiti dagli avvocati del Foro “i ventriloqui della Procura tarantina”. E sono lieto quindi di essere ampiamente equidistante nel rispetto dei reciproci ruoli e funzioni che ricopriamo. Le scrivo quindi questa lettera “aperta” con riferimento alle sue parole da lei pubblicamente espresse venerdì scorso nel cortile della caserma “De Carolis” sede del Comando Provinciale dei Carabinieri di Taranto, in occasione della ricorrenza annuale della Festa dell’Arma dei Carabinieri. Istituzione da me notoriamente amata e rispettata e con la quale a livello centrale presso il Comando Generale da oltre 30 anni intrattengo rapporti idilliaci di collaborazione ed amicizia, senza aver bisogno di indossare il “Cappellone” dell’ Arma, o di ricevere la tessera “onoraria” dell’ Associazione Carabinieri in congedo da lei ricevuti su iniziativa personale del suo “caro amico” Col. Daniele Sirimarco, attuale comandante provinciale a Taranto per i prossimi due mesi e mezzo, in quanto a settembre come ben noto a tutti ormai lascerà l’incarico per avvenuta compiuta decorrenza del periodo di comando previsto normalmente di prassi. Ero presente anche io venerdì scorso in caserma ad ascoltarla, ed a scanso di equivoci, ho registrato tutta la manifestazione, compreso quindi il suo intervento, dove lei ha parlato della stampa, di “alcuni” che poi in realtà è uno solo: il sottoscritto. Quindi avrebbe avuto maggior stile invece di applicare il plurale “maiestatis”, di coniugare meglio la lingua italiana e parlare al singolare. Ho avuto qualche dubbio, ed ho quindi fatto passare qualche giorno proprio per fare le opportune verifiche, ed essere certo, come lo sono, che sono stato solo io a scrivere e parlare di lei. Lei ha detto (testualmente) che ha conosciuto “nei 40 anni di servizio,tanti comandanti, tanti ufficiali, tanti Carabinieri ed ho sempre nei loro confronti un rapporto di simpatia ed affetto“. Ed in questo mi ha battuto di qualche anno…, avendo avuto dal 1983 ad oggi anche il sottoscritto uno splendido rapporto con semplici e eccezionali carabinieri, sottufficiali, ufficiali, comandanti, colonnelli, generali, comandi provinciali, di brigata, legione, e comandanti generali dell’ Arma, nelle mie frequentazioni istituzionali allorquando lavoravo (notoriamente) nello staff del Presidente del Consiglio, poi due ministri Guardasigilli, un Ministro delle Partecipazioni Statali, un ministro al Commercio con l’ Estero, ed un sottosegretario al Ministero dell’ Interno con delega alla Polizia di Stato, ecc. in qualità di “portavoce”, cioè di giornalista-ufficio stampa. Ho avuto anche io come lei, tante frequentazioni di “militari”, anche superiori al ruolo e funzioni di un Comandante provinciale dell’Arma. Molti dei Carabinieri che ho conosciuto e frequentato, creando anche rapporti di amicizia, hanno fatto una brillante carriera istituzionale nell’Arma e nei “Servizi”. Ma io non ho mai “creato una coppia”, e non ho mai visto una rapporto così stretto fra un Procuratore Capo ed un ufficiale dei Carabinieri, come lei ha detto riferendosi al suo rapporto molto “stretto” che intrattiene con il colonnello Sirimarco. Scelte e stili di vita differenti. In mio articolo dal titolo “Svanito il porto delle nebbie della Procura di Roma, a Taranto la “Procura della diossina”. Su cui bisogna fare chiarezza” dello scorso 2 aprile ricordavo quante cose “strane” ed illegali accadono a Taranto e provincia sotto gli occhi “distratti” della Procura di Taranto da lei guidata, che molto spesso non ha fatto rispettare ed applicato le Leggi ed i decreti legislativi vigenti, dimenticando anche le norme emanate dal CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura, e la cui lettura sarebbe necessaria… a qualche suo collega della procura tarantina. Ebbene sappia che pubblicamente ed alla presenza di terzi non pochi rappresentanti delle istituzioni locali, della politica, numerosi avvocati tarantini, persino più di qualche “servitore dello Stato” fra cui appartenenti alle Forze dell’Ordine mi hanno fatto i complimenti per aver avuto il coraggio (io direi, in realtà, il dovere) di scrivere quello che ho scritto nel mio precedente editoriale a lei sicuramente noto. Nel frattempo ho scoperto anche che alcuni investigatori tarantini nel corso delle loro indagini spesso e volentieri identificano l’associazione mafiosa preferendo trasmettere gli atti alla Procura della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Sarebbe interessante chiedere a loro il perchè…Non è un offesa annunciare l’imminente pensionamento di un magistrato. Succede a tutti. E’ successo all’(ex) presidente del Tribunale di Taranto dr. Antonio Morelli, e succederà anche a lei. Nessuno le ha augurato la pensione, anche se in realtà è un augurio vero. “Andare in pensione” significa porre fine alla propria attività lavorativa e finalmente ad una certa età, riposarsi. Lei nel suo discorso di saluto e ringraziamento per il “cappellone” ha detto che “Ho sempre avuto con i Carabinieri un rapporto di simpatia e di affetto. Qualcuno ha notato questa vicinanza, ne ha anche scritto. In effetti è così. Un Magistrato che sente amico i rappresentanti delle forze dell’ordine per quanto riguarda il rapporto di servizio, io penso che costituisca un fatto positivo, io dico un privilegio. Qualcuno dice “quando se ne và?” Si è scritto “se ne va a fine giugno”, qualcun’altro “se ne va a fine anno”. Ma al di là di quelle che possono essere le partenze, gli arrivi, i ricambi, rimane sempre questo rapporto”. Ebbene caro Procuratore Sebastio, mi spiace confutarla e contestare alcune sue affermazioni come quella “qualcuno ha fatto già i nomi dei miei eventuali sostituti” sarebbe stato più corretto fare nomi e cognomi, in maniera tale che ognuno nel suo ruolo e compito si assuma le sue responsabilità. Noi giornalisti siamo costretti per Legge a farlo, i magistrati hanno sempre detto e fatto quello che volevano, anche se adesso finalmente grazie alla riforma pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 4 marzo 2015, n. 52, vi è la nuova Legge 27 febbraio 2015, n. 18 sulla disciplina della responsabilità civile dei magistrati. La “festa” è finita. Nessun cittadino italiano è un “unto dal Signore”, e come è giusto che sia, chi sbaglia, ed a qualsiasi titolo e ruolo, deve risponderne! Ebbene non esiste nè “qualcuno”, nè “qualcun altro”, ma solo un solo giornalista e cioè il sottoscritto che ha avuto il coraggio di scrivere quello che non solo pensa, ma quello che ha scoperto “documentalmente”, e che metterà a disposizione dell’Autorità competente preposta, che non è sicuramente la Procura della Repubblica di Taranto. Concludendo, le ricordo anche una “stranezza” o meglio una “leggerezza”. Quella di andare a trovare in redazione “per solidarietà” l’anno scorso un gruppo di giornalisti soci di una Cooperativa editrice fallita (come lei sa, la liquidazione coatta è una procedura del diritto fallimentare) mettendo in dubbio la dovuta equidistanza della Procura della Repubblica nei confronti di qualcuno che potrebbe rischiare la denuncia penale e bancarotta fraudolenta, se il curatore attenendosi ai suoi doveri d’ufficio, e soprattutto se la Guardia di Finanza che come ha sempre fatto nella stragrande maggioranza dei casi , dovessero fare qualche ulteriore controllo e ravvedere delle responsabilità penali…Infine le confesso che mi piacerebbe video-intervistarla e farle tante domande. Anche scomode. Ma ho forti dubbi che lei accetterà. In ogni caso l’invito è pubblico, aspetto una sua risposta. Cordialmente.
FOTOVOLTAICO VS FOSSILE: QUALE ENERGIA PER IL FUTURO?
Fotovoltaico, è davvero più sostenibile del gas? La richiesta di energia elettrica aumenta sempre di più nel mondo. Ogni paese si trova ad affrontare un quesito: costerà di più generare corrente con centrali a gas o con centrali solari fotovoltaiche? Report ha cercato di fare un raffronto tra le due tecnologie, analizzando tutti i costi sia dal punto economico che quello di ricaduta ambientale, dalla sabbia alla cella, dal giacimento alla centrale, fino allo smaltimento e trattamento per il riutilizzo. L’anticipazione dell’inchiesta di Report in onda domenica alle 21.45 su Rai3 - di Roberto Pozzan /Corriere TV. La conferenza sul clima di Parigi vuole arrivare a un risultato semplice, cioè diminuire le emissioni di gas serra. Il problema è che l’obiettivo deve essere raggiunto in un mondo in cui cresce esponenzialmente il consumo di energia, e in cui chi tradizionalmente ne ha il monopolio fa di tutto per non perdere quote di mercato. La “guerra” tra fossili e rinnovabili è una realtà, ambigua nel suo manifestarsi con istanze di ordine estetico, burocratico ma anche scientifico. I detrattori delle rinnovabili da sempre sostengono che per costruire centrali solari fotovoltaiche, e quindi per costruire i pannelli, sia necessario un consumo di energia fossile tale da renderle antieconomiche e addirittura più impattanti di quelle tradizionali. Questo punto di vista che aveva un fondamento fino a qualche decennio fa ha ancora senso? L’inchiesta di Report paragona la generazione elettrica da gas con quella da fotovoltaico, per arrivare a conclusioni che fanno ben sperare per il futuro del clima. La realtà tecnologica e scientifica risulta evidente e sta dunque alla politica decidere i tempi della transizione.
PUNTATA DEL 13/12/2015: A TUTTO SOLE? Di Roberto Pozzan. La richiesta di energia elettrica aumenta sempre di più nel mondo. Ogni paese si trova ad affrontare un quesito: costerà di più generare corrente con centrali a gas o con centrali solari fotovoltaiche? Report ha cercato di fare un raffronto tra le due tecnologie, analizzando tutti i costi sia dal punto economico che quello di ricaduta ambientale, dalla sabbia alla cella, dal giacimento alla centrale, fino allo smaltimento e trattamento per il riutilizzo.
“A TUTTO SOLE?” Di Roberto Pozzan.
MILENA GABANELLI IN STUDIO Guardiamo al futuro, a Parigi per 10 giorni i grandi della terra hanno discusso su come ridurre il drammatico riscaldamento globale, dovuto all’inquinamento causa il consumo di combustibile fossile, l’alternativa elettricità prodotta da fonte rinnovabile, ora per esempio noi siamo così sicuri che un pannello fotovoltaico impatta di meno, solo perché è una lastra su un tetto.
STEFANO PEDONE - ENERGEKO Questa city car percorre circa 130 chilometri con una carica.
ROBERTO POZZAN In quanto tempo si ricarica?
STEFANO PEDONE - ENERGEKO Si ricarica in 5 ore, cinque ore e mezzo al massimo.
ROBERTO POZZAN Posso caricarla a casa?
STEFANO PEDONE - ENERGEKO La possiamo caricare ovunque.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO È facile! Come caricare un telefonino.
ROBERTO POZZAN Quanti kw/h ci vogliono per caricare completamente le batterie?
STEFANO PEDONE - ENERGEKO Ci vogliono circa, per una city car come questa, 10 kw/h.
ROBERTO POZZAN E quindi quanto mi costa?
STEFANO PEDONE - ENERGEKO Costa tra un euro e cinquanta e 2 euro. Questo è quanto. Andiamo a spendere per avere i nostri 130-140 chilometri.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Se pagassimo sotto forma di benzina, dovremmo spendere almeno 14 euro.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Nel dipartimento di scienza e meccanica della Brooks University di Oxford si fa ricerca per la Formula Uno, ma anche su tanti altri aspetti legati alla transizione energetica.
ROBERTO POZZAN L’energia del futuro quale sarà?
MARCO RAUGEI - OXFORD BROOKS UNIVERSITY È l’elettricità. Perché l’elettricità è un vettore energetico molto versatile, ci si può fare di tutto, è molto pulita al momento in cui la si usa e si presta agli usi più disparati.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Questa elettricità bisognerà produrla. Capire quale fonte tra gas e fotovoltaico avrà un minore impatto economico e ambientale è il tema. I ricercatori usano un parametro che si chiama “Eroi”.
NICOLA ARMAROLI - CNR Che rappresenta il rapporto tra l’energia che io effettivamente ottengo netta dalla mia sorgente rispetto a quella che ho speso per ottenerla. Più questo rapporto è alto, più questa fonte energetica ha valore.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO In questo calcolo è cruciale considerare il tempo di vita di un pannello. Se producesse per un solo giorno, sarebbe solo un danno ambientale. Per questo all’Enea testano la durata e la resa dei pannelli commerciali. ROBERTO POZZAN L’efficienza massima a cui si arriva adesso, qual è?
FRANCESCO DE LIA - ENEA Il modo più efficiente presente sul mercato è una efficienza circa del 22%, 21-22%.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Se moltiplichiamo la produzione elettrica per gli anni di vita del pannello, sapremmo quanto c’ha reso rispetto a quanto si è inquinato per costruirlo.
MARIO TUCCI - ENEA Questa, ad esempio, è una cella fotovoltaica in silicio monocristallino ad efficienza del 20%. ROBERTO POZZAN Mammamia. E questa nasce da questo...?
MARIO TUCCI - ENEA Esattamente, nasce da questo materiale, che è appunto un buffer di silicio, che parte da un oggetto del genere che poi viene affettato e appunto per realizzare degli oggetti estremamente sottili. Ed è chiaro poi che il costo definisce anche la tecnologia. Se io ho molti soldi a disposizione, riesco ad arrivare anche a efficienze del 25%.
ROBERTO POZZAN Cioè, in Italia, il costo di un megawattora prodotto con il gas o prodotto con il fotovoltaico, sono comparabili?
GIAMPIERO CELATA - DIRETTORE TECNOLOGIE ENERGETICHE ENEA Il costo del fotovoltaico oramai possiamo dire che siamo sull’ordine dello 15 centesimi, 0,15 euro per kilowattora.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Con il gas invece, oggi c’è chi riesce a produrre anche a 6 centesimi di euro a kilowattora. Ma rivoluzionando il sistema produttivo, anche il prezzo del fotovoltaico si può abbassare di molto. Lo ha già fatto questa ditta italiana.
FRANCO TRAVERSO - MEGACELL Questo è il pannello solare fotovoltaico finito, bifacciale, quindi costituito da due lastre di vetro e dalla cella interna che è bifacciale. Questa ne fa sul fronte 280 e poi sul retro ne fa altri 70. Quindi produce molta più energia, okay, con lo stesso materiale, con gli stessi componenti. Viene a costare oggi sui 35 euro a megawattora e arriverà nel giro di pochi anni, quindi al 2018, sotto i 20, 25 euro a megawattora.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Che rapportato al kilowattora, vuol dire 2 centesimi e mezzo.
FRANCO TRAVERSO - MEGACELL Con questa tecnologia stiamo montando, ad esempio in Cile, la prima centrale al mondo bifacciale, da 2,5 megawatt, la più grande in assoluto. È una svolta epocale.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Dal punto di vista ambientale, anche il fotovoltaico ha il suo impatto. Produrre pannelli a sua volta richiede molta energia. Cominciamo con la materia prima. Il silicio. L’impatto è basso perché dopo l’ossigeno, è l’elemento più abbondante sulla crosta terrestre. È l’elemento base della sabbia, che per diventare silicio commerciale dovrà essere scaldato in una fornace tra elettrodi di carbonio. Il processo richiede temperature superiori ai 1900 gradi e quindi inquina. Si ottengono blocchi che poi dovranno essere purificati per diventare celle fotovoltaiche. Poi, sono necessari altri passaggi chimico-fisici che hanno bisogno di altra energia. Alla fine si otterrà il cosiddetto lingotto, che va affettato e squadrato.
FRANCO TRAVERSO - MEGACELL A questo punto la fetta di silicio è pronta per essere processata e la facciamo diventare cella fotovoltaica.
ROBERTO POZZAN Quante celle producete qui?
FRANCO TRAVERSO - MEGACELL Noi produciamo 1,5 milioni di fette di silicio al mese. Dal punto di vista tecnologico, siamo i primi al mondo a fare questa produzione di serie perché dalla stessa fetta di silicio che io le ho mostrato, lei riesce a ottenere il 25% o più di energia solo per il fatto sul retro di questa fetta di silicio si genereranno cariche elettriche come sul fronte.
ROBERTO POZZAN Il costo di un pannello dell’80, ’81...
FRANCO TRAVERSO - MEGACELL Faccia conto rispetto ad adesso almeno sette volte tanto.
ROBERTO POZZAN E quanto produceva?
FRANCO TRAVERSO - MEGACELL Direi meno della metà. Il fotovoltaico oggi non lo ferma più nessuno, a prescindere dal prezzo del petrolio.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Ma l’energia necessaria a costruire questi pannelli in media in quanto tempo verrà restituita dagli stessi pannelli?
MARCO RAUGEI - OXFORD BROOKS UNIVERSITY L’energia necessaria consumata dai processi di produzione viene restituita nell’arco di un paio di anni. I successivi venti o trenta anni di produzione di energia elettrica sono diciamo un rendimento netto positivo.
ROBERTO POZZAN Da un punto di vista ambientale...
MARCO RAUGEI - OXFORD BROOKS UNIVERSITY Nel caso di un impianto fotovoltaico le emissioni di Co2 sono almeno un ordine di grandezza ovvero sia almeno dieci volte più basse rispetto a quelle di un impianto a gas naturale, ad esempio.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Teniamo presente che molte strutture del gas, già le abbiamo costruite, con i danni ambientali connessi. E sarebbe uno spreco non sfruttarle. Vediamo ora il famoso “Eroi”, cioè il rapporto tra energia prodotta rispetto a quello che ho speso per ottenerla, per i nuovi giacimenti, che oramai vengono trovati solo nelle profondità marine. Sono necessari immagini satellitari, che diano le coordinate a navi che poi effettueranno una lunga serie di test geologici e riscontri sismici, fatti con i tristemente noti “airgun”. Servono apparecchiature, macchinari, navi, costruite e fatte lavorare ovviamente consumando energia, per produrre la quale verrà immessa in atmosfera anidride carbonica oltre ai gravi squilibri ambientali causati dagli stessi test. Il danno alla vita marina dei riscontri sismici può essere molto alto, come dimostrano, secondo alcuni biologi, gli spiaggiamenti dei capodogli sulle spiagge del Gargano. Accertata la presenza degli idrocarburi si passa alle trivellazioni. Raggiunto il giacimento, si dovrà costruire una piattaforma per estrarlo e questo metano dovrà subire processi di deumidificazione e desolforazione senza contare il fatto che essendo un gas serra almeno 21 volte più potente della anidride carbonica ed essendo provato che statisticamente nell’atmosfera finirà tra il 2% e il 7% della produzione, il contributo al riscaldamento globale sarà drammatico! Poi ci sarà bisogno di stoccaggio e costruzione di metanodotti con centrali di compressione che lo spingano verso i luoghi di consumo attraverso percorsi che possono essere lunghi migliaia di chilometri.
NICOLA BATTILANA - DIRETTORE TECNICO SNAM RETE GAS I principali gasdotti di rete nazionale, poi tutti i gasdotti della rete regionale, e sommati arrivano a superare abbondantemente i 32mila chilometri.
ROBERTO POZZAN Quanto costa un chilometro di metanodotto?
NICOLA BATTILANA - DIRETTORE TECNICO SNAM RETE GAS I costi variano da, non so, 300mila euro per i diametri più piccoli a chilometro fino a quasi 3 milioni per quelli che sono i diametri più grandi, quindi abbiamo una variabilità molto elevata.
ROBERTO POZZAN C’è un’idea di quanto incida questo sul prezzo del gas?
NICOLA BATTILANA - DIRETTORE TECNICO SNAM RETE GAS Trasporto più stoccaggio circa il 5% e lì dentro c’è tutto.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Solo un 5%, che però anno dopo anno peserà sull’intero ciclo di vita del metanodotto.
MARCO RAUGEI - OXFORD BROOKS UNIVERSITY Se noi volgiamo elettricità come dicevamo prima, l’unico metodo possibile è bruciare questo gas in una caldaia, sostanzialmente; due terzi dell’energia compresa in questo combustibile fossile, come il gas naturale all’inizio, viene dispersa nell’ambiente come calore e solo un terzo viene alla fine recuperato come energia elettrica che poi viene immessa in rete e utilizzata.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO C’è da dire che le centrali a ciclo combinato sono le meno impattanti perché l’elettricità viene prodotta da turbine che girano bruciando il gas come nei jet degli aerei e producono enormi quantità di vapore, che mette in moto un’altra turbina che a sua volta genera elettricità, arrivando a efficienze che superano il 50%. L’impatto ambientale è basso anche perché il consumo d’acqua è minimo.
MASSIMILIANO TORO - DIRETTORE CENTRALE SORGENIA Con l’acqua piovana c’andiamo avanti quasi tutto l’anno e io una volta che ho visto questa centrale mi chiedo perché non impongano a tutti di fare una cosa del genere che è un vantaggio ambientale, ma un vantaggio anche economico.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Perché l’acqua che raffredda le turbine a gas e alimenta quella a vapore, non viene sprecata, ma riutilizzata.
MASSIMILIANO TORO - DIRETTORE CENTRALE SORGENIA Questa tubazione che parte con un diametro di 8 metri e si sviluppa per più di 100 metri raccogliamo nuovamente l’acqua e l’acqua viene con delle pompe rilanciata nei generatori di vapore. ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO A Enea ci hanno detto che in media megawattora fotovoltaico oggi costa 150 euro, ma con i pannelli di ultima generazione si può scendere anche a 40 euro.
ROBERTO POZZAN E quanto costa un megawattora prodotto da voi?
MASSIMILIANO TORO - DIRETTORE CENTRALE SORGENIA In questo momento il prezzo del gas è più basso chiaramente il costo di produzione è più contenuto diciamo all’incirca sui 60 euro megawattora.
ROBERTO POZZAN 60 euro megawattora.
MASSIMILIANO TORO - DIRETTORE CENTRALE SORGENIA 55/60 euro megawattora, però è volatile in funzione del prezzo del gas. ROBERTO POZZAN Cioè se il prezzo del gas raddoppiasse quanto aumenterebbe?
MASSIMILIANO TORO - DIRETTORE CENTRALE SORGENIA Quasi del doppio.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Gli 800 Megawatt di potenza di questa centrale corrispondono teoricamente a più di 5 chilometri quadrati di pannelli fotovoltaici. Un’estensione difficile da reperire in Italia. C’è da aggiungere che con il sistema elettrico attuale, sostituire centrali come questa con il fotovoltaico, porterebbe a squilibri per ora non gestibili dalla rete. Si potrebbe causare un blackout.
MARCO RAUGEI - OXFORD BROOKS UNIVERSITY Specialmente, non so ad esempio d’inverno la sera quando gli utenti accendono tutti i loro elettrodomestici in casa, le luci ecc. Nel caso delle centrali convenzionali posso, entro certi limiti, mandare la centrale a pieno regime. Nel caso delle fonti rinnovabili questo non è direttamente possibile.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO Quindi ad oggi, il prezzo del megawattora fra rinnovabili e gas è simile. Ma questo prezzo spesso non comprende le emissioni di Co2 che per il gas sono quasi 10 volte superiori a quelle del fotovoltaico a parità di energia prodotta. Né i danni causati dall’uso di una fonte inquinante. Spese sanitarie per malattie, spese causate da disastri climatici e, addirittura, spese per mantenere l’apparato militare impiegato a difesa dei siti e dei percorsi sensibili dell’energia. I Marò prigionieri in India, per esempio, stavano lì per proteggere le rotte del petrolio. Ma il costo della vicenda lo paga lo stato italiano e non le grandi compagnie petrolifere. Se fossero loro a pagare probabilmente riverserebbero i costi nel prezzo del combustibile. Magari fino a renderlo anti economico. E poi, finito il ciclo di produzione, quanto impatta riciclare i manufatti del gas rispetto ai pannelli?
NICOLA ARMAROLI - CNR Per quanto riguarda i gas, tipicamente i gasdotti di solito, quando non si utilizzano più vengono lasciati lì, d’altra parte si tratta di manufatti in acciaio che insomma si sbriciolano.
ROBERTO POZZAN Quanto costa riciclare un pannello?
GIUSEPPE ZILIANI - SEA ECOSERVIZI Tra gli 80 ai 120 euro a tonnellata. Consideriamo che una tonnellata stanno tra i 50 e i 55 pannelli.
ROBERTO POZZAN E quanta energia consumate in questo processo?
GIUSEPPE ZILIANI - SEA ECOSERVIZI Circa 1,1 kilowatt per ogni pannello.
ROBERTO POZZAN FUORI CAMPO La cornice d’alluminio e le connessioni in rame si recuperano facilmente. Il vetro viene levigato e recuperato. Quello che resta, passando in un mulino torna a essere silicio, polimeri plastici e metalli pronti a essere venduti come materie prime.
ROBERTO POZZAN Ma secondo lei c’è il rischio che questi pannelli finiscano in discarica?
GIUSEPPE ZILIANI - SEA ECOSERVIZI A mio modo di vedere, è difficile perché i materiali di cui sono composti sono tutti materiali che hanno un consistente valore.
MILENA GABANELLI IN STUDIO Allora un altro paio di cifre così ci forniscono il quadro completo. Secondo gli studi internazionalmente riconosciuti nel 2013 i combustibili fossili hanno goduto di stanziamento pubblico per 550 miliardi di dollari, contro i 128 stanziati per le rinnovabili. Non è una differenza da poco, poi non decolla uno si chiede. Guardiamo invece l’occupazione: allora per il settore del gas ogni gigawattora di gas produce 0.2 posti di lavoro, mentre da rinnovabili ed efficienza energetica 1 posto di lavoro per gigawattora, cioè cinque volte tanto. E’ chiaro a tutti che la direzione sarà quella lì, quella della conversione all’elettricità fonte rinnovabile però per la transizione ci vuole l’intervento politico, cioè servono prestiti agevolati e poi regole chiare e credibili che durino nel tempo perché se cambiano ogni volta che c’è un rimpasto, ogni volta che cambia un ministro nessuno investe più.
In questa inchiesta, però, non si dice che con il fotovoltaico l’impatto ambientale dal punto di vista estetico deturpa l’ambiente con una distesa di specchi. Oltretutto, quella distesa di silicio distrugge la silvicoltura e l’agricoltura.
LA BUFALA DELL’INQUINAMENTO.
Smascherate le balle dei verdi Lo smog ha smesso di crescere. I dati smentiscono gli allarmisti: da 3 anni il livello di gas serra nell’atmosfera è stabile. Non esiste alcun rischio imminente legato all’inquinamento, scrive il 7 luglio 2017 Francesco Rigatelli su "Libero Quotidiano". Tra gli ospiti più autorevoli del convegno "L’agenda per il clima e l’energia negli scenari globali in cambiamento", organizzato ieri all’Università degli Studi di Milano da Francesco Rutelli in qualità di presidente del Centro per un futuro sostenibile, reminescenza del suo impegno verde, c’è il direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia, l’organismo con sede a Parigi che cerca di armonizzare le politiche sul tema dei vari Paesi. Quando Fatih Birol prende la parola smentisce una serie di luoghi comuni con tabelle alla mano. Una è quella che riproduciamo qui a fianco, secondo cui negli ultimi tre anni le emissioni globali di anidride carbonica si sarebbero stabilizzate. Un’altra è che «contrariamente a quanto generalmente si pensi, gli Stati Uniti e la Cina sono i Paesi che negli ultimi anni hanno più diminuito l’inquinamento». Nessun rischio imminente, dunque, anche se «bisogna continuare la riduzione della Co2, tra i gas serra responsabili del surriscaldamento climatico, e qualsiasi altra ricetta rispetto alla diminuzione di 2 gradi della temperatura globale è pericolosa», chiarisce Birol. Già, ma come? «Le auto elettriche sono specchietti per le allodole, il vero problema sono i riscaldamenti delle case, le industrie e i camion che trasportano merci». Dunque, via libera alle classiche auto. Accanto alla crescita d’importanza del gas naturale rispetto al petrolio vanno incoraggiate poi le energie rinnovabili, «ma bisogna migliorarne l’immagazzinamento e la rete per trasmetterle, altrimenti se ne rischia la dissipazione». Tra i tanti interventi autorevoli, Giampiero Massolo, presidente di Fincantieri, porta il caso della sua azienda che ha firmato con General Electric un accordo per rispettare le nuove pratiche ambientali. L’ex ambasciatore e ora pure presidente dell’Ispi esprime anche preoccupazione per il disimpegno di Trump dagli accordi di Parigi sul clima, dimostrandosi al contempo fiducioso che la Storia faccia lo stesso il suo corso. Li Ruiyu, ambasciatore cinese a Roma, in dialogo con Simona Bonafè, parlamentare europea del Pd specializzata sul tema, spiega in proposito la posizione della Repubblica Popolare: «Viviamo un rapporto diplomatico con gli Stati Uniti che tende a complicarsi, ma l’atteggiamento della Cina vuole essere pragmatico senza interesse per i cambiamenti di linea degli altri Paesi. Così continuiamo a onorare gli accordi di Parigi, ricordiamo che gli Stati Uniti hanno contribuito per il 29% all’inquinamento attuale e la Cina per l’8%, ma stiamo attenti a non compiere in futuro gli errori fatti dall’Occidente». E se il politologo Alberto Martinelli contestualizza il tema nel multipolarismo, soprattutto nella confusione globale, e nel tempo dei «nazionalpopulismi», Antonio Navarra, presidente del Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici esprime «la necessità di dati credibili per costruire scenari attendibili. Servono investimenti responsabili in tal senso». Proprio l’Università degli Studi di Milano ha appena lanciato un nuovo dipartimento interdisciplinare, caso unico in Italia, per studiare il tema. Contrariamente a quanto generalmente si pensi, gli Stati Uniti e la Cina sono i Paesi che negli ultimi anni hanno più diminuito le emissioni di anidride carbonica.
Filippo Facci, tanto allarme per l'inquinamento che però è calato, scrive il 22 Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano". La polizia brancola nello smog: siamo già alla "nube tossica", come scriveva ieri LaPresse (tra altri) e come se fossimo a una post-Chernobil, o più banalmente a Pechino. Ma non si tratta, ora, di scrivere il solito articolo genere "e che sarà mai" solo perché pure quest' anno è arrivato ottobre con la nebbia e lo smog, si tratta solo, ogni tanto, di guardare anche a un bicchiere che è mezzo vuoto: della nebbia e dello smog che non ci sono più. Negli ultimi anni, infatti, sono calati incredibilmente: un buon motivo per abbassare la guardia? Ma neanche per idea: un motivo, però, per non incedere in sparate e allarmismi da morte imminente o da sterile caccia al colpevole. In questi giorni siamo tutti a strascico della "foto choc dallo spazio" pubblicata dall' astronauta Paolo Nespoli, dove si vede la Pianura Padana coperta da una coltre bianca che tutti hanno titolato come smog ("dal Piemonte al Friuli") anche se poi, nei resoconti più onesti, scopri essere nebbia con una percentuale di smog che resta un'incognita. Ma se queste sono cazzatelle, gli allarmi da film horror lanciati dalla giunta grillina di Torino («non aprite porte e finestre») hanno frastornato molti cittadini e sancito che tra i comuni italiani regna l'anarchia più assoluta, tanto che persino un torinese come Sergio Chiamparino, ieri, l'ha presa sul ridere: «Io apro le finestre, vado in bici e vado a correre». Ma il ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti, sempre ieri, già rideva meno: «Nel protocollo scientifico che abbiamo sottoscritto col Piemonte, la misura di chiudere porte e finestre non esiste». Che cosa esiste, dunque? I dati.
Tanti dati. Nella storica Lombardia, per esempio, siamo passati dai 300 ug/m3 di pm 10 degli anni Settanta ai meno di 100 attuali (dati Arpa, unico ente titolato alle rilevazioni) e in sostanza, a Milano come a Torino, cinquant' anni fa l'inquinamento dell'aria era tre o quattro volte maggiore di oggi, tempo in cui lo smog è comunque migliorato soprattutto perché è progressivamente sparita l'anidride solforosa, quella che dava una tonalità rosacea all' aria e che provocava le piogge acide. Un' auto euro5, oggi, emette venti volte meno inquinanti di una vecchia euro0. I riscaldamenti a carbone sono scomparsi, quelli a gasolio sono stati perlopiù sostituiti dal metano (o gpl) e le fabbriche si sono spostate fuori dalle città o, purtroppo, all' estero. Infatti il vero problema dello smog di una volta, oggi, ce l'hanno i cinesi, che non vanno neanche più in bicicletta. Per il resto - e sono cose risapute, o meglio che dovrebbero esserlo - a produrre polveri sottili non c' è solo il traffico o il riscaldamento, ma i cantieri edili, cose come il sale antighiaccio, moltissimo l'agricoltura (le arature, i fertilizzanti azotati, i letami, i liquami) e persino i mezzi elettrici, che producono pm10 per il rotolamento delle gomme o delle ruote d' acciaio sulle rotaie. E c' è soprattutto la natura, visto che certe zone di pianura - come la Padana, ma anche la Valdarno fiorentina - hanno la particolarità di concentrare e non lasciar dissipare gli inquinanti. Pioggia e vento, come scriveva l'esperto Jacopo Giliberto sul Sole24 Ore, sono toccasana che la Pianura Padana non ha. Però, ecco, la Pianura Padana ha il vento di scirocco che porta le sabbie sahariane: quando arriva quello, i livelli delle polveri salgono da paura. Ecco perché, mentre a Torino gli inesperti grillini fanno chiudere porte e finestre (forse per la micro-criminalità imperante) gli amministratori più collaudati, ormai, si sono arresi anche all' inutilità dei blocchi del traffico, che, soprattutto in un giorno o due, non influenzano in alcun modo i livelli delle polveri. Insomma, moltissimo è stato fatto, moltissimo si potrebbe fare e moltissimo si deve fare: anche senza gli assurdi limiti imposti dalla Comunità Europea che continua a distribuire sanzioni a tutti. L' Italia ha comunque emissioni inferiori a molti altri paesi: la concentrazione di polveri è sì aumentata dal 2005 al 2009, ma poi ha ripreso costantemente a calare nonostante il grosso delle emissioni venga dal riscaldamento: quello che molti, al Nord, non hanno ancora acceso. Il traffico, in rapporto, inquina molto meno: ma l'uso dell'auto è in calo, e i ridicoli limiti di velocità chiesti per motivi (anche) ambientali farebbero solo inquinare di più; le rilevazioni hanno evidenziato che un limite di 30 all' ora in città - chiesto per esempio da molti ciclisti - farebbe aumentare le emissioni perché costringerebbe a usare marce più basse e a consumare più carburante. Il successo del bike sharing (quello serio, non quello gratuito) e dei mezzi pubblici efficienti, tra altre cose, è ciò che a Milano ha scoraggiato l'uso dell'auto. Ogni giorno, nella "capitale morale", la sola Linea 2 della metropolitana trasporta circa 550mila persone, quando l'intero Molise ha 314mila abitanti. E Milano, di linee, ne ha quattro. Filippo Facci
La bufala del grande inquinamento. Negli ultimi 14 anni l'aria a Milano è stata molto meno pulita di oggi. Il blocco è servito solo a peggiorarla, scrive Chiara Campo Sabato 02/01/2016 su “Il Giornale”. Contrordine, l'aria di Milano non è più da bollino rosso. Dopo una settimana di allarmi e polemiche, nell'ultimo giorno del 2015 i livelli delle polveri sottili sono tornati tra i 32 e 36 microgrammi al metro cubo (la soglia di allarme è fissata a 50). Il Comune ha provveduto a diramare una nota per sostenere che «anche i tre giorni di blocco del traffico» hanno contribuito al risultato: «Per la prima volta dopo 35 giorni il Pm10 è sceso sotto i limiti di legge». Un tentativo maldestro di giustificare lo stop ai motori: dopo il primo giorno l'aria in città era persino peggiorata, un flop. E il bollettino sulla qualità dell'aria di Arpa Lombardia certifica che nella città governata dalla giunta ambientalista di Giuliano Pisapia il Pm10 nel 2015 è stato «fuorilegge» per 101 giorni, quasi uno su tre. E tre volte tanto quei 35 giorni che la normativa europea fissa come tetto massimo degli sforamenti in un anno intero. Il 2014 (particolarmente piovoso) le polveri sono state off limits per 68 giorni, l'anno prima 81. Ma andando indietro nel tempo, quello che oggi i Verdi definiscono «un annus horribilis» è stato persino tra i migliori dal 2002 ad oggi. I giorni da bollino rosso, a parte l'eccezione del 2010 (con 84) sono stati sempre stati più numerosi. Tredici anni fa si arrivò al picco di 163, nel 2004 scesero a 134 poi di nuovo su a 148 nel 2006 e due anni dopo già a 110. A conferma, come ha ribadito più volte nelle ultime settimane il presidente della Regione Lombardia, che «i provvedimenti estemporanei non servono nulla», siano blocchi auto, domeniche a piedi o targhe alterne. Il termometro dello smog dal 2002 ad oggi dimostra che le «performance» sono legate alla situazione meteo e alle condizioni geografiche e climatiche sfavorevoli in cui si trova la Pianura Padana. Servono piuttosto dei provvedimenti strutturali, come il rinnovo dei mezzi pubblici più inquinanti. «Tutto quello che potevo fare come sindaco l'ho fatto - ha sostenuto ieri Pisapia -, e ben prima che intervenisse il governo» con il piano antismog presentato dal ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti prima di capodanno a governatori e sindaci dell'Anci. In quattro anni è mezzo, è invece la lettura dell'ex vicesindaco di Milano Riccardo De Corato, esponente di Fratelli d'Italia, «la giunta Pisapia non ha adottato alcun provvedimento veramente efficace. Area C (il ticket d'ingresso da 5 euro per entrare in centro con l'auto) serve solo a fare cassa». Paradossalmente, le polveri sottili registrate dalle centraline dell'Arpa collocate in Area C hanno sempre valori superiori rispetto alle altre zone della città. E «il calo delle polveri di queste ore è dovuto solo al cambio del meteo, non certo di un blocco del traffico che ha causato solo danni e disagi a cittadini e commercianti».
Blocco auto dannoso «Prima dello stop l'aria era più pulita». I dati dell'agenzia per l'ambiente Maroni attacca: «Misura inutile» Il Comune: «Aspettiamo domani», scrive Maria sorbi Mercoledì 30/12/2015 su “Il Giornale”. Mettiamola così: i pranzi no stop di Natale e Santo Stefano hanno avuto più effetti sullo smog del blocco del traffico. La pigrizia post panettone ha fermato più auto. Dal 25 al 27 dicembre si sono registrate meno polveri sottili rispetto a lunedì, primo giorno delle limitazioni anti polveri sottili. A confermare i dati sono i tecnici dell'Arpa: «Il blocco del traffico non è stato sufficiente - spiega Silvia Bellinzona, direttore del settore monitoraggi ambientali - I dati migliori sono stati registrati nei giorni precedenti. Tra l'altro nel primo giorno di blocco abbiamo registrato un andamento delle polveri differente nei vari Comuni. E non sempre i livelli migliori sono stati misurati nelle città che hanno effettuato il blocco auto». Milano compresa. Ma il sindaco Giuliano Pisapia non perde la speranza e cerca di mettere una pezza sull'evidente fallimento del provvedimento. «Valutazioni più puntuali andranno ovviamente fatte a conclusione delle tre giornate di limitazione del traffico stabilite dall'ordinanza - si legge in una nota del Comune, diffusa per prendere tempo - La misura è stata già utile a contenere i livelli di inquinanti nell'aria in una fase di alta pressione». «Milano senz'auto, ma le polveri aumentano» twitta il presidente lombardo Roberto Maroni dopo aver letto i dati delle centraline anti smog: «È la conferma che i blocchi estemporanei non servono». Lo stesso commento arriva da più parti politiche. Il coordinatore regionale di Forza Italia Mariastella Gelmini rileva: «Il blocco non è servito a nulla. Anche Renzi è costretto ad ammettere che non sono le automobili il nemico da combattere». «Le politiche di riduzione dell'inquinamento - commenta Nicolò Mardegan, lista civica Noixmilano - sono da costruire con cura, prevenendo situazioni di emergenza». Non risparmia parole forti contro il sindaco il leader leghista Matteo Salvini: «La trovata di quell'ignorante di Pisapia è servita solo a rovinare la giornata a migliaia di persone che lavorano. Perché il Pm10 a Milano, dopo una giornata senza circolazione delle auto, è persino aumentato al contrario di quanto accaduto a Monza che non ha adottato misure del genere e dove comunque il Pm10 è diminuito». A fargli eco sono gli esponenti leghisti in Regione Lombardia: «Per combattere l'emergenza occorrono interventi strutturali - spiega il capogruppo Massimiliano Romeo - non certamente quelli messi in campo dalla sinistra, che sulla questione sta facendo solo un'operazione di propaganda mediatica». Oggi la Regione Lombardia, durante l'incontro a Roma con il ministro all'Ambiente Gianluca Galletti, chiederà contributi di 2 miliardi di euro in cinque anni per attuare politiche ambientali più incisive: a cominciare da un'azione comune a tutte le Regioni della pianura padana.
Ecco la verità sullo smog, scrive Nicola Porro su "Il Giornale" del 29 dicembre 2015. La mini polemica tra il sindaco Pisapia e Beppe Grillo su smog e alberi tagliati a Milano, conforta la tesi dello storico Robert Conquest: «Tutti sono di destra nelle cose di cui si intendono». Pisapia sembra un pericoloso conservatore quando ricorda al leader dei Cinque stelle che sì, a Milano, sono stati tagliati circa cinquecento alberi, ma per far posto ad una verde metropolitana. Entrambi, vittime dell’integralismo ambientale, sbagliano però il bersaglio. Non è certo che questo inquinamento sia così mortale come lo dipingono (tra poco lo vedremo) ma è sicuro che nulla ha a che vedere con il mito della deforestazione. In Italia si realizza, i sorrisi si evitino please, un censimento pubblico degli alberi. Ebbene non è mai esistita una stagione (in migliaia di anni dicono gli esperti) con un maggior numero di foreste. Vi sembra grossa? Anche a chi scrive, ma è così: abbiamo 210 alberi pro capite. Negli ultimi dieci anni, mentre ci raccontavano del consumo del suolo e piripi piripa, in Italia abbiamo piantumato quasi fossimo dei maniaci di Hay Day. Ecco i numeri totali: nel 2005 avevamo 10,4 milioni ettari di bosco (circa un terzo della nostra superficie); dieci anni dopo l’estensione è salita ad 11 milioni. Il che vuol dire 600mila ettari di boschi in più. Nella sola Lombardia si sono sviluppati 26mila ettari di boschi e foreste aggiuntivi. Tra un po’ gli alberi diventeranno come i cinghiali in Maremma: un discreto fastidio per gli abitanti del luogo. La relazione tra deforestazione ed inquinamento non funziona più. Anzi, a voler essere polemici essa si sarebbe invertita: più alberi uguale più inquinamento. Tocca inventarne un’altra. E la tendenza riguarda l’intero continente. L’Europa (la fonte questa volta è Forest.org) dal 1990 al 2015 ha piantumato come una pazza. La superficie boschiva è cresciuta di 17,5 milioni di ettari, per intendersi è come dire che in Europa nell’ultimo quarto di secolo è nato un bosco grande come tutto il Friuli Venezia Giulia ogni anno. Piogge acide (ve le ricordate?) permettendo. Come la mettiamo allora con i 68mila morti in più dell’Italia che si registreranno nel 2015? E di cui i politici illuminati si fanno un gran cruccio. Per Grillo rischiano di essere legati proprio all’inquinamento. Anche l’Oms parla di record di «morti premature», causa smog. Partiamo da una piccola considerazione: quella dei morti è l’unica statistica che si riesce a fare con precisione prima della fine del periodo di osservazione. Ma prendiamoli pure per buoni. Nel 2015 ci potrebbero essere più morti (lo ricordava anche Silvio Garattini) grazie alla chimica. Ma non quella inquinante: quella buona. Grazie alla quale siamo tra le popolazioni più longeve del mondo. Si arriva ad un punto in cui però tocca morire: non più a 70 anni, ma in media per le donne in Italia a 84 anni. Questa media si è spostata in avanti e ciò corrisponde ad un effetto statistico semplice: bassa mortalità ieri, recupero oggi. Garattini addirittura ci ricorda come la folle campagna antivaccini (tra cui quelli influenzali soprattutto per i più anziani) stia determinando una piccola, ma pericolosa, epidemia nelle fasce di popolazione più a rischio. Riguardo all’Oms e ai suoi morti non bisogna aggiungere molto a quanto scritto da Umberto Veronesi: «Morti premature è un termine ambiguo su cui sono scettici molti scienziati. Tumori al polmone e malattie cardiovascolari riconducibili in qualche modo all’aria che respiriamo sono in diminuzione». Avanti con la prossima frottola ambientalista. Ps. Per favore considerate la vostra responsabilità ambientale prima di non stampare questo articolo. Se potete, stampatelo su un bel foglio di carta A4, alimenterete così l’industria cartaia, di cui l’Italia era un’eccellenza, contribuirete a generare posti di lavoro e al taglio degli alberi in eccesso.
Clima, Zichichi su Parigi: “previsioni inattendibili a 15 giorni, figuriamoci a 10 anni. Le vere emergenze sono altre”. Clima, anche Antonino Zichichi tra gli scettici sui cambiamenti climatici: in un’intervista al Giornale un punto di vista molto interessante, scrive il 5 dicembre 2015 12:51 Peppe Caridi su "Meteo web". Antonio Zichichi, Presidente della World federation of scientist (federazione degli scienziati mondiali), parla della Conferenza sul Clima in atto a Parigi e lo fa ai microfoni di Nicola Porro che intitola l’intervista su “Il Giornale” in edicola oggi “La bufala ambientale”. Le parole dello scienziato affermato in tutto il mondo sono molto forti ed evidenziano tutte le contraddizioni del mondo scientifico e politico sul clima e sui cambiamenti climatici. “Per descrivere in modo matematicamente rigoroso l’evoluzione del clima – spiega Zichichi – sono necessarie tre equazioni differenziali non lineari fortemente accoppiate. Differenziali vuol dire che è necessario descrivere l’evoluzione istante per istante nello spazio e nel tempo (nel dove e nel quando). Non lineari vuol dire che l’evoluzione dipende anche da se stessa. Esempio: il mio futuro dipende anche da me stesso. Fortemente accoppiate vuol dire che l’evoluzione descritta da ciascuna equazione ha enormi effetti anche sulle altre. Questo sistema di tre equazioni non ha soluzione analitica; il che vuol dire nessuno riuscirà mai a scrivere l’equazione dell’evoluzione del clima. L’unica strada è costruire modelli ad hoc. Un modello matematico non è la verità scientifica, ma l’equivalente del dire che “E’ così perchè l’ho detto io”; non a parole, ma scrivendo formule che obbediscono a ciò che io penso sia la soluzione”. Rispondendo alle domande del noto giornalista e conduttore TV, Zichichi chiarisce: “Le sto dicendo che le previsioni hanno senso solo a breve termine. Quelle sul tempo di domattina hanno margini di errori bassissimi, quelle tra 15 giorni sono inattendibili. Si figuri una previsione sul clima a 10 anni. Quello che funziona bene è il cosiddetto now casting; lo abbiamo scoperto noi con un progetto pilota della Wfs in Cina studiando il fiume Giallo che causava migliaia di morti per le previsioni alungo termine che davano troppo spesso falsi allarmismi. La gente ignorava gli allarmi restando a casa. Fino a quando noi abbiamo introdotto le previsioni a breve termine: “now casting”. Ecco perchè il presidente Den Ziao Ping mi ricevette a Pechino come fossi un capo di Stato e mi disse che avrebbe sostenuto l’istituzione di un laboratorio mondiale per la scienza senza segreti e senza frontiere come facciamo al Cern e a Erice nel Centro di Cultura Scientifica che porta il nome dei pupillo di Fermi, Ettore Majorana. Io mi limito a dire che ci sono 72 emergenze planetarie che a differenza di quelle climatiche sono verificabili, certe, scientificamente provabili. Una di queste ad esempio, e sbugiarda l’oggi, è l’acqua. Servirebbero molte risorse per renderla disponibile e pulita per milioni di persone come ha ricordato Papa Francesco”. In conclusione, Zichichi afferma: “Si facciano leggi che puniscano severamente l’inquinamento senza confondere i veleni con le problematiche climatologiche, come sono CO2 ed effetto serra. Bisogna demonizzare i veleni che vengono impunemente versati nell’atmosfera. L’anidride carbonica (CO2) è cibo per le piante. Se nell’atmosfera non ci fosse stata CO2 non sarebbe nata la vita vegetale. E siccome la vita animale viene dopo quella vegetale, noi non saremmo qui. L’effetto serra non è un nostro nemico. Se non ci fosse l’effetto serra la temperatura di questo satellite del sole sarebbe 18°C sottozero. L’effetto serra ci regala 33°C“.
Il guru Zichichi smonta le eco-balle: clima e smog, cosa sta succedendo, scrive il 29 dicembre 2015 “Libero Quotidiano”. "Proibiamo di immettere veleni nell'aria con leggi draconiane" ma ricordiamoci che "l'effetto serra è un altro paio di maniche, e noi umani c'entriamo poco. Sfido i climatologi a dimostrarmi che tra cento anni la Terrà sarà surriscaldata. La storia del climate change è un'opinione, un modello matematico che pretende di dimostrare l'indimostrabile". Antonio Zichichi, 85 anni, in una intervista a Il Mattino avverte: "Noi studiosi possiamo dire a stento che tempo farà tra quindici giorni, figuriamoci tra cento anni". E poi si chiede Zichichi: "In nome di quale ragione si pretende di descrivere i futuri scenari della Terra e le terapie per salvarla, se ancora i meccanismi che sorreggono il motore climatico sono inconoscibili? Divinazioni". Lo scienziato spiega che "per dire che tempo farà tra molti anni, dovremmo potere descrivere l'evoluzione del tempo istante per istante sia nello spazio che nel tempo. Ma questa evoluzione si nutre anche di cambiamenti prodotti dall'evoluzione stessa. È un sistema a tre equazioni che non ha soluzione analitica". Quindi perché molti scienziati concordano sul riscaldamento globale? "Perché hanno costruito modelli matematici buoni alla bisogna. Ricorrono a troppi parametri liberi, arbitrari. Alterano i calcoli con delle supposizioni per fare in modo che i risultati diano loro ragione. Ma il metodo scientifico è un'altra cosa". E "occorre distinguere nettamente tra cambio climatico e inquinamento. L'inquinamento esiste, è dannoso, e chiama in causa l'operato dell'uomo. Ma attribuire alla responsabilità umana il surriscaldamento globale è un'enormità senza alcun fondamento: puro inquinamento culturale. L'azione dell'uomo incide sul clima per non più del dieci per cento. Al novanta per cento, il cambiamento climatico è governato da fenomeni naturali dei quali a oggi gli scienziati, come dicevo, non conoscono e non possono conoscere le possibili evoluzioni future. Ma io sono ottimista".
RISCALDAMENTO GLOBALE PER MANO DELL’UOMO? LA PIU’ GRANDE MENZOGNA.
Mi sono chiesto quali interessi ci fossero, oltre l’evidente fanatismo ideologico, dietro questa (per molti) potente menzogna. Oggi iniziamo a dare qualche piccola risposta.
Speculazioni sul clima, ora anche le assicurazioni ci marciano. Per ora sono state le compagnie americane ad aver preso al balzo il martellante allarmismo nei confronti degli eventi atmosferici. Il clima cambia? Ebbene anche le polizze aumentano, scrive Luca Angelini il 28 Dicembre 2009.L'equazione clima più caldo, uragani più violenti non fa una grinza, almeno per le compagnie assicurative americane. Ma c'è da giurarci che anche quelle nostrane tra non molto, vista anche la recente ricorrenza di nubifragi, troveranno il modo per ritoccare al rialzo le polizze riguardanti le calamità naturali (spesso in verità escluse dagli indennizzi). Tutto è partito dalla messa a punto di un particolare modello matematico che elabora dati e variabili riferite anche ai cambiamenti climatici e che stila previsioni a medio termine della possibile incidenza degli eventi catastrofici quali uragani, inondazioni o tornado. Il modello ha individuato le aree più a rischio e stilato una lista delle località nere, per la maggior parte situate lungo la costa orientale degli Stati Uniti. In queste zone i premi assicurativi relativi a beni mobili e immobili sono dunque più che raddoppiati. Naturalmente le compagnie assicurative hanno colto la palla al balzo e in molti casi sono stati messi in atto veri e propri abusi ai danni di famiglie che, già subissate dal grave problema del caro-mutui, non è più in grado di sostenere le cifre richieste. Morale, i settori indicati quali zone a rischio, si stanno velocemente spopolando. Caso eclatante riportato sul Wall Street Journal quello di una infermiera di Cape Cod, località sita nel Massachusset e classificata zona ad alto rischio. Nonostante dal lontano 1991 non si siano più verificati uragani, le polizze hanno subìto un'impennata insostenibile costringendo la malcapitata a vendere forzatamente la propria casa. Sul suo triste esempio anche numerosi abitanti della zona sono stati costretti a porre in atto l'estremo rimedio. Una frenata al grande sistema arriva proprio da colei che ha messo a punto tale modello, ossia tale Karen Clark. L'economista americana afferma che gli esiti dei modelli vanno utilizzati solo quando offrono risposte certe e inequivocabili e non qualora si basino solo su dati aleatori o statistici, ivi compreso il dubbio impatto dei cambiamenti climatici, tutt'altro che verificato, provato e dimostrato.
Allarmisti o negazionisti, questo è il dilemma, scrive Anna Benedetti su “La Repubblica" il 27 gennaio 2010. Dal libro di Stefano Caserini A qualcuno piace caldo. Errori e leggende sul clima che cambia, che, come quello di Visconti, offre una necessaria e razionale discussione su quello che realmente sta accadendo sul nostro pianeta, e sulle sue cause ho scelto le seguenti righe. Pag. 11 - pag. 279 «Questo libro non è un trattato sulla climatologia del pianeta, scritto per spiegare lo stato della conoscenza scientifica sui cambiamenti climatici o sulle azioni intraprese a livello internazionale per contrastarli. Non vuole esserlo. Non è neppure un libro sulle azioni piccole e grandi da intraprendere per dare il proprio contributo quotidiano per limitare le emissioni di gas climalteranti. Il libro vuole provare a spiegare il problema dei cambiamenti climatici a partire da chi sostiene che il problema non ci sia, cercando di capire se le affermazioni a volte clamorose dei negazionisti climatici reggono il confronto con l'approfondimento scientifico. (...) Come hanno trattato il tema dei cambiamenti climatici i mezzi di comunicazione italiani? Sono stati allarmisti? Sono stati negazionisti? A guardare i titoli dei giornali e delle trasmissioni televisive negli ultimi anni si direbbe entrambe le cose. Da una parte i sensazionalismi per gli sconvolgimenti del clima, da fare sembrare imminente la fine del mondo. Dall' altra i titoli sulla bufala dell'effetto serra, sulla favola della terra più calda, e così via».
Siracusa, 22 aprile 2009. (Adnkronos) - "Non voglio entrare nella polemica, ma tra il negazionismo e le posizioni allarmistiche di chi dice che tra dieci anni il Polo Nord si scioglierà, ci sono posizioni più equilibrate. Ecco perchè il ruolo dell'informazione nella lotta ai cambiamenti climatici è strategico". Lo ha detto il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, nel corso della conferenza stampa al termine dell'incontro con le Ong prima dell'apertura del G8 di Siracusa.
Clima, Margherita Hack: allarmismo eccessivo, scrive il 22 agosto 2009 Peppe Caridi su "L'Ansa". Sui cambiamenti climatici, Margherita Hack è convinta che “ci sia un allarmismo eccessivo”. Parlando alla platea di Cortina incontra, l’astrofisica ha sottolineato che “è certo, però, che è per via dei gas serra che la temperatura aumenta. Un po’ come quello che succede in una macchina lasciata al sole”. Sui provvedimenti da prendere per frenare il surriscaldamento del pianeta, Hack ha sostenuto l’incremento dell’uso delle energie alternative: “ora che si aggiunge il contributo di Cina e India, noi non possiamo pretendere di essere gli unici a vivere bene e lasciar gli altri a morir di fame – ha rilevato -. Bisogna usare di più solare ed eolico, e iniziare a pensare che il nucleare oggi è molto più sicuro”. “Rimane da risolvere il problema delle scorie – ha concluso – ma si stanno facendo passi avanti”.
Che tempo farà. Falsi allarmismi e menzogne sul clima il libro di Cascioli Riccardo; Gaspari Antonio anno 2008. Mentre da più parti si levano prepotenti le voci dei nuovi "profeti di sventura" della climatologia, una breve storia di tale disciplina - recente e passata - mette in luce le mille domande sul clima che ancora attendono risposta. Secondo gli autori, le pretese di verità accampate dai movimenti ambientalisti, che nel nome della salvezza del pianeta prefigurano scenari apocalittici, altro non sono che tecniche di marketing per favorire gli interessi speculativi di grandi gruppi economici. Le testimonianze, i documenti e gli studi statistici qui raccolti mostrano che le previsioni di surriscaldamento della terra sono inattendibili. Fondate sulle manipolazioni dei pochi dati scientifici certi, queste false teorie fanno del mutamento del clima un "mito" creato a tavolino, con l'unico scopo di spargere timori infondati e di sostenere, di riflesso, il business dell'energia rinnovabile. Un'inchiesta approfondita che racconta i casi, sfata i pregiudizi e denuncia i falsi allarmismi.
Clima e allarmismi: a qualcuno piace caldo. Dati preoccupanti e minacce di catastrofismi. Cosa si nasconde dietro il nuovo rapporto sulla Co2, pubblicato a pochi giorni da un nuovo summit sul clima? Ne parliamo con il meteorologo Guido Guidi. Intervista di Maria Acqua Simi su “Il Giornale del Popolo” del 16.09.2014. La scorsa settimana, un rapporto dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) ha lanciato un nuovo allarme: i gas a effetto serra avrebbero raggiunto concentrazioni record nel 2013, con conseguenze importanti sull’atmosfera e gli oceani. Come commentare questi dati? Lo abbiamo chiesto a Guido Guidi, meteorologo e blogger (climatemonitor.it). «Cominciamo con l’osservare una cosa semplice: il report è stato pubblicato a pochi giorni dall’inizio dell’ennesima riunione dei Paesi che fanno parte dell’IPCC (il panel intergovernativo dell’ONU sui cambiamenti climatici), che si troveranno da settimana prossima a New York per cercare di trovare un accordo sulla riduzione delle emissioni. Essendo l’OMM una delle braccia dell’IPCC, esso ha tutto l’interesse a far alzare il livello di attenzione su questi argomenti in prossimità di questo incontro. Incontro che, tra l’altro, non nasce sotto buoni auspici, perché sembra che alcuni leader delle Nazioni più importanti non saranno presenti e manderanno invece degli sherpa».
Il rapporto dell’OMM sulla concentrazione di Co2 è però piuttosto allarmante: sarebbe la prima volta in assoluto, infatti, che si assiste a un aumento così forte nell’arco di un anno.
«A dire il vero questo report non dice nulla di nuovo. È palese che la concentrazione di anidride carbonica continua ad aumentare malgrado tutto. Malgrado gli sforzi più o meno proattivi di alcune Nazioni per ridurre le emissioni; malgrado siano stati presi accordi (che molti Stati non hanno mai implementato); malgrado il fatto che la crisi finanziaria prima e economica poi è stata l’unica ragione vera per cui tra il 2008 e il 2009 si è visto un rallentamento delle emissioni. Altri rallentamenti dovuti a sforzi di de-carbonizzazione non se ne sono visti. E dunque la concentrazione continua ad aumentare con un rateo costante. Leggendo il report, sono però rimasto perplesso dal fatto che si sia data molta enfasi all’alto livello di concentrazione (che è certo importante) tacendo però completamente un altro dato decisamente importante: da oltre 15 anni – e nonostante le emissioni di Co2 continuino ad aumentare – la temperatura media superficiale del pianeta non cresce più. Ormai siamo a un rateo assente. E questo è ormai evidente a tutti e provato da numerose ricerche recenti. Un’ampia fetta del mondo della ricerca si sta interrogando sul perché di questo fatto, ma ovviamente nel report dell’OMM non se ne trova traccia. La Co2 aumenta, la temperatura no. Siamo di fronte a una variabile naturale? Presumibile. È qualche cosa che indica che il sistema ambientale è meno sensibile all’aumento della Co2 di quanto si immaginasse? È un’ipotesi. Il calore piuttosto che essere disperso nell’atmosfera viene assorbito dagli Oceani? Altra ipotesi. Sono tutte domande a cui al momento non siamo in grado di rispondere. E di questa incertezza dovremmo tener conto».
Quindi la temperatura non sta più aumentando? Ma non doveva essere questa la madre di tutte le tragedie prospettate nell’arco degli ultimi anni?
«Intendiamoci: è fuor di dubbio che nelle ultime tre decadi del secolo scorso la temperatura media del pianeta è aumentata. Ed è aumentata un bel po’. Oggi però non è più così. E allora ci si deve chiedere il perché. La comunità scientifica deve indagare nuovi elementi nel sistema. I modelli di simulazione che abbiamo adottato finora – modelli che ipotizzavano diversi livelli di aumento della Co2 – proiettavano aumenti della temperatura. Ma la realtà li ha sconfessati: in barba alle simulazioni, negli ultimi 15 anni l’aumento non c’è stato. Questo significa che nel sistema ci deve essere qualcosa che ci sfugge, di non banale, per cui il sistema ambientale non risponde come noi ci aspettavamo».
In pratica, abbiamo sbagliato i calcoli...
«Esatto. E questo perché c’è ancora tantissimo da scoprire. Qual è la fonte unica e primaria di energia di tutto il sistema? Una sola: il sole. E noi delle dinamiche solari sappiamo pochissimo. Certo è, però, che c’è una componente importante della comunità scientifica che pensa – sulla base delle simulazioni – che la continua emissione di Co2 in atmosfera possa portare il sistema ad agire in modo diverso da come ha sempre agito. Ma è davvero così? Oggi si parla di cambiamenti climatici ma il clima è sempre cambiato. Il punto è se l’evoluzione futura del clima possa dipendere da cause diverse da quelle che hanno sempre generato cambiamenti climatici».
Quindi in poche parole, i dati del report sono giusti, gli allarmismi invece no.
«Quel report non fa una piega: le emissioni e la concentrazione aumentano. Ma emissioni e concentrazione sono legati da dinamiche molto complesse che noi ancora non conosciamo bene. Costruire scenari, quindi, è un compito non solo difficile ma forse anche sbagliato. In tutto ciò, la posizione delle istituzioni sovranazionali che si occupano di queste cose è chiara: il clima sta cambiando per effetto delle attività umane, tra queste le emissioni e quindi bisogna ridurle. Viene sostenuta una posizione acquisita. Ma questo non significa che sia scientificamente provata. E c’è anche un’altra cosa da tenere in considerazione: tutto il movimento – anche scientifico – ha beneficiato in modo enorme di tutta l’attenzione che si sta dando a questa problematica. E per attenzione si intende fondi per la ricerca, posizioni, rendite di posizione. A pensar male si fa peccato.»
Cambiamento climatico, in Italia è già realtà. Il riscaldamento della Terra non è un’opinione: è un fatto accertato. Le cui conseguenze sono sotto i nostri occhi, anche nel nostro Paese. Da nord a sud, siamo andati a vedere che cosa sta succedendo. Mentre a Parigi si è aperto il summit COP21 sul futuro del pianeta, scrive Fabrizio Gatti il 30 novembre 2015 su “L’Espresso”. C'era una volta l'autunno. Sulle Alpi i ghiacciai erano bianchi di freddo. La nebbia nascondeva alla vista i fiumi e le prime brinate indurivano la pianura. C’era una volta, sì. Un mondo al passato. Perché anche il 2015 conferma che quell’autunno non esiste più. I ghiacciai sono colate nere a rischio d’estinzione. La campagna è un prato verde colorato di fiori appena sbocciati. Germogliano i noccioli a un mese da Natale. E in cima al Muro di Sormano, la faticosa salita del Giro d’Italia che fu, il sole riscalda i visitatori con una temperatura da maniche corte: 22 gradi a oltre millecento metri di quota, ma è il 18 novembre. Perfino Gastone, focoso maschio di anatra muschiata, non sembra badare più al calendario. La stagione dell’accoppiamento è finita da mesi. Lui e la femmina immobilizzata sotto il suo becco, però, se la spassano con vigore sull’aia della Cascina Sguazzarina, deliziosa fattoria che ospita scolaresche e famiglie a Castel Goffredo, in provincia di Mantova. Se potesse parlare alla XXI Conferenza sul cambiamento climatico, convocata dalle Nazioni unite domenica 29 novembre a Parigi per obbligare gli Stati a provvedimenti concreti, il baldanzoso papero direbbe sicuramente che per lui il riscaldamento globale va bene così com’è. Eppure se ci fermiamo a guardarlo da vicino, in Italia il paesaggio è già inesorabilmente cambiato. Solo trent’anni fa, il bisnonno di Gastone avrebbe aspettato aprile. Allora non si andava in “calore” con l’inverno alle porte. Era una contraddizione: sia per le regole di madre natura sia per i centigradi del termometro. Eccoci in viaggio nelle follie di questo ennesimo autunno in corsa per essere tra i più caldi della storia. Più del record 2014, secondo un andamento che dal 1992 registra temperature annuali sempre al di sopra della media del trentennio 1961-1990, scelto come periodo di riferimento. Floriano Lenatti, 55 anni, è tra le guide alpine più famose in Valmalenco, in Lombardia. Per diciannove anni ha gestito il rifugio “Marco e Rosa” a 3.609 metri nel massiccio del Bernina. E si ricorda bene quando il caldo ha cominciato a inseguire la neve sui monti: «Nel 1987, gli stessi giorni di luglio durante l’alluvione in Valtellina, abbiamo visto per la prima volta piovere a 3.600 metri. Prima dell’87, quando cambiava il tempo d’estate, non era mai piovuto sul rifugio “Marco e Rosa”. Magari tempestava e poi subito cadeva la neve. Da allora lo zero termico va sempre più in alto, sopra i quattromila. E piove. Quest’anno è piovuto parecchio. È stata un’estate molto calda anche in quota, come quella record del 2003». L’alluvione in Valtellina e in Valmalenco del 1987 è il primo di una serie di eventi estremi che in Italia annunciano il nuovo corso climatico: lo zero termico per giorni a più di quattromila metri, piogge torrenziali dai ghiacciai giù fino in valle, 53 morti, migliaia di sfollati. Da allora i ghiacciai non sono più guariti. Dopo un decennio di progressiva espansione, riprende proprio in quell’anno la loro rapida ritirata. Anche lo Scerscen inferiore ai piedi del Bernina, dove trent’anni fa si ritrovavano le squadre di sci ad allenarsi in agosto, ha lasciato spazio a sentieri di pietre e roccia. Non lo si vede da quaggiù, nel ripido fondovalle. Lo nasconde una parete oltre i tremila metri completamente senza neve. Saliamo la mattina presto con il fotografo Simone Donati. La meta è un altro ghiacciaio: il Ventina, sul versante opposto, ai piedi del monte Disgrazia. I ghiacciai sono il termometro che dimostra il riscaldamento climatico. Fabrizio Gatti è salito in quota sui ghiacciai della Brenva e del Miage sul Monte Bianco e sul ghiacciaio Ventina in Lombardia. In questo video racconta la letterale evaporazione di queste importanti riserve d'acqua, ma anche la riconquista della vegetazione e la presenza di insetti e farfalle a novembre inoltrato là dove un tempo cadeva la neve. La sua espansione massima l’ha raggiunta diciottomila anni fa. Di quel periodo glaciale, il Ventina e gli altri ghiacciai del Disgrazia hanno lasciato un souvenir a pochi chilometri da Monza, il Sasso di Guidino, gigantesco masso erratico che si può ancora ammirare a Besana Brianza. Nel frattempo, il ghiaccio si è ritirato di oltre centotrenta chilometri. Oggi si arriva comodi in auto a Chiareggio, l’ultimo paese della Valmalenco, dove da autunno a primavera il sole resta basso dietro le montagne. Nonostante l’ombra permanente, l’ora del mattino e i 1.600 metri di quota, il 16 novembre la giornata comincia con 6 gradi. Non c’è un solo cristallo di brina sull’erba. L’acqua scorre abbondante nei torrenti. Il Ventina ci attende a due ore e mezzo di cammino. Ma il cartello è forse precedente al 2014, perché dopo la netta ritirata degli ultimi due anni, serve un’altra mezz’ora tra i massi instabili della morena per mettere i piedi sul ghiaccio. Il riscaldamento globale e la sua recente accelerazione li si potrebbero misurare in passi. Dal 1910 fino al 1941 sarebbe bastata poco più di un’ora per toccare il ghiacciaio. E chi si è arrampicato fin qui nel 1980 ricorda che trentacinque anni fa ci volevano due ore a piedi, non di più. Una parete bianca e azzurra, spezzata dai seracchi, si affacciava su questa splendida valle che il “Servizio glaciologico lombardo” ha trasformato, con segnali e cartelli, in museo a cielo aperto. Adesso dall’Alpe Ventina, a circa 1.500 metri, la fronte avanzata del ghiacciaio non si vede più. Si è ritirata dietro un avvallamento. Tra l’erba secca del pianoro spuntano invece le primule. Una rana va a ripararsi sotto un sasso. Controluce sull’acqua del ruscello volano sciami di moscerini, mosche e piccole farfalle. Potrebbe essere primavera. Non c’è in giro nessuno nel raggio di chilometri. E quassù. a quota 2.500, il Ventina è evaporato. Si è sgonfiato e in trentacinque anni è arretrato di centinaia di metri. Ma più che l’arretramento, colpiscono la perdita di volume su tutta la sua lunghezza e il colore nero della superficie, sotto il millimetrico strato di neve. All’inizio del pomeriggio, nonostante il sole non abbia mai illuminato il versante precario del sentiero, la temperatura è di molto sopra lo zero. Il termometro appoggiato su un sasso oscilla tra gli 8 e i 9 gradi e dalla pancia sotto il ghiaccio risale il fragore dell’acqua che, pur con l’inverno meteorologico alle porte, continua a scorrere abbondante. Al tramonto torniamo ai 13 gradi del fondovalle. Ora Floriano Lenatti gestisce d’estate il rifugio “Gerli Porro” ai piedi del ghiacciaio e di questo lento addio è un silenzioso testimone: «Dai rilievi del Servizio glaciologico lombardo, nell’ultimo anno il Ventina si è ritirato di altri 55 metri e abbassato di 5. Un record senza precedenti. Il fatto che ora il ghiacciaio sia nero, significa che è andata via tutta la copertura nevosa. E ogni metro di ghiaccio richiede almeno dieci metri di neve fresca per riformarsi». Lasciamo la Valmalenco e il Monte Bianco ci accoglie con i 16 gradi di una mattina piena di sole a Courmayeur, 1.224 metri, martedì 17 novembre. Stessa temperatura alla base del ghiacciaio della Brenva. È l’immensa colata candida immortalata in tutte le fotografie della vetta più alta. Anche se candida non è più. Sotto i 3.800 il ghiaccio senza neve è grigio. Più giù, è completamente nero. I ghiacciai adesso sono due. Dieci anni fa il ripido collegamento con il bacino di alimentazione si è interrotto. E la lingua a fondovalle ai piedi del santuario di Notre-Dame de Guérison è diventata un ghiacciaio fossile. Se le temperature non caleranno, nel giro di qualche decennio scomparirà. Intanto arretra estate dopo estate. Così come si sgonfia, anno dopo anno, il Miage, il più grande ghiacciaio nero del Bianco e di tutte le Alpi. Dal bordo della morena, che segna il suo spessore massimo, il salto verticale ormai è di una trentina di metri. Ma il ghiaccio non si vede. Guardando su, fino in quota, è sepolto da metri di pietre e massi. L’acqua di fusione se ne va verso l’Adriatico. Le rocce restano. Arretra lo zero termico, avanza la vegetazione. Anche ai bordi dei ghiacciai i larici, un tempo umili piante alte non più di quaranta centimetri, diventano alberi. È la riscossa del bosco. Come a Pian del Tivano, provincia di Como, mille metri di quota oltre l’arrampicata ciclistica del Muro di Sormano, dove da diversi giorni a metà novembre il termometro supera i 20 gradi. Noccioli e betulle hanno occupato le piste da sci. Gli impianti di risalita fermi da venticinque anni sono reperti archeologici del clima che fu. Tra le capre di un recinto accanto alla biglietteria dello skilift, una gallina ha appena concluso la cova e ora porta a spasso una manciata di pulcini. Diego Monti, 48 anni, proprietario della baita “La Colma”, si ricorda quando ogni pomeriggio almeno quindici pullman salivano dalla Brianza per portare i bambini alla scuola di sci. «Nel febbraio 2014», racconta, «in una notte ha messo giù 70 centimetri di neve. Poi ha cominciato a piovere e in quattro giorni s’è sciolta tutta. La neve a volte arriva ancora. Quello che manca è il freddo per conservarla». Sotto la stazione di Brignole a Genova uno sbarramento di cemento armato impedisce il deflusso delle piene del torrente Bisagno. Ancora oggi, a distanza di un anno dall'ultimo disastro nulla è cambiato. In questo video Fabrizio Gatti scende con una telecamera dove il corso d'acqua è stato coperto, proprio sotto la città. E racconta come, nonostante la pulizia del letto, lo sbarramento del Bisagno costituisca tuttora un grave pericolo per Genova. Ma con il riscaldamento climatico e la cementificazione degli argini, aumentano le alluvioni anche lungo i fiumi della pianura Padana. Mentre, durante la forte burrasca del 21 novembre 2015 in Toscana, il mare supera le scogliere e invade le strade. Un prato ancora pieno di fiori fuori stagione e oltre il piccolo ponte sul canale, ecco la Cascina Sguazzarina nella campagna di Castel Goffredo. Come tutte le fattorie della pianura Padana, anche questa ha la sua popolazione di mosche e zanzare. Il gelo serviva da regolatore. Più faceva freddo d’inverno, meno larve e parassiti si risvegliavano in primavera. Ora che la temperatura media è aumentata, gli insetti e non solo il papero Gastone si sentono più arzilli. «Quando avevo dieci anni», ricorda Giacomo Pedretti, 44 anni, agricoltore, «pattinavamo sui canali ghiacciati. Oggi è raro vedere gli alberi bianchi di brina». L’agricoltura deve per forza adattarsi: «In questa zona si arava in autunno, poi pioveva e si lasciava che il gelo rompesse le zolle», spiega Pedretti davanti alla sua fattoria didattica: «Adesso si ara dieci giorni prima della semina, perché se lo facciamo in autunno le zolle si riempiono d’acqua e, senza gelo, restano inzuppate fino in primavera. Questa è un’area ricca d’acqua. Ma in quarant’anni la campagna non si era mai allagata. Negli ultimi tre anni, è successo due volte». Nel bosco accanto al recinto degli animali, gli alberi si avvicinano all’inverno con nuovi germogli e foglie ancora verdi. Stesso paesaggio alla riserva Wwf “Le Bine”, sul fiume Oglio al confine tra le province di Cremona e Mantova. Il caldo ha portato qui una libellula che prima abitava soltanto nel Sud Italia e in Africa. E l’argine, tra il fiume e la palude, profuma di artemisia appena cresciuta. Anche se oggi, 19 novembre, gli steli dovrebbero essere già secchi da un pezzo. Francesco Cecere, 48 anni, responsabile della riserva, mostra i fiori appena spuntati sui rami di nocciolo. «Uno studio su venticinque anni di temperatura alle Bine», spiega, «dimostra un aumento della media delle massime nei mesi caldi. È cambiata anche la distribuzione delle piogge, ora più concentrata in alcuni periodi. E anche le alluvioni, che fino a vent’anni fa avevano un periodo di ritorno di circa dieci anni: oggi si ripetono con frequenza di due o tre anni intervallate da secche più lunghe. Ma non è detto che le alluvioni dipendano solo dal clima. Spesso si dà colpa al riscaldamento, per far passare gli errori dell’uomo». È probabilmente il caso di Genova, dove con i 18 gradi del 20 novembre è ancora primavera. Le ruspe lavorano da mesi alla pulizia del torrente Bisagno dopo la serie di tragiche piene. La principale causa che blocca l’acqua però è sempre lì: la ridotta altezza disponibile dove il corso è stato interrato, proprio sotto viale Brigate partigiane, dalla stazione di Brignole alla Foce. Non sembra esistano alternative: o si riapre il torrente o ci si prepara a futuri disastri. A fine settimana, scende da Nord la prima vera perturbazione. Nel porto di Livorno i pescatori rinforzano gli ormeggi. Sabato 21 novembre, temperatura dell’aria e dell’acqua sono uguali: 18 gradi. Ma le raffiche di vento toccano i cento all’ora. «Sì, sono irriconoscibili anche le stagioni del mare», ammette Michele Vitiello, 40 anni, comandante del peschereccio “Anastasia”: «Il Tirreno è ancora caldo. Orate e calamari che in autunno si avvicinavano alla costa, restano più a lungo in profondità. È cambiata anche la rapidità con cui arriva il brutto tempo. Ora bastano poche ore e ti trovi con una burrasca addosso». L’ultima tappa riporta a Milano. Piove sull’Autostrada del Sole. Dopo Piacenza l’orizzonte buio è rischiarato dai fulmini di un temporale. Mancano poche ore a domenica 22 novembre e sembra una notte di fine luglio.
I mutamenti climatici cambiano il mondo: L'Italia sarà tropicale. Le coltivazioni tradizionali sostituite da frutta esotica. Mentre gli ulivi arrivano fino alla Valtellina. E le zanzare portano malattie africane. Ecco come l’aumento delle temperature sta già modificando flora e fauna del nostro Paese, scrivono Sandro Iannacone e Simone Velesini il 30 novembre 2015 su “L’Espresso”. Banane di Sicilia, olio extravergine delle Alpi, pomodori padani. Ma anche febbri tropicali, litorali scomparsi, stambecchi senza cibo. I mutamenti climatici stanno cambiando i connotati dell’Italia e del mondo. E minacciano di farlo ancora più significativamente nei decenni a venire: alla vigilia della ventunesima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, da cui dovrebbe arrivare la firma del primo accordo universale e vincolante sul clima, è ormai chiaro che il nostro paese è un hot spot del cambiamento climatico, un luogo nel quale già oggi si registrano pesanti influenze dell’aumento delle temperature su agricoltura, alimentazione, salute, turismo. Ecco quello che sta già accadendo. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono particolarmente evidenti in Italia, perché il bacino del Mediterraneo è una delle zone in cui il riscaldamento globale ha iniziato a mostrarsi precocemente. A partire dall’800, la temperatura nel nostro paese è salita in media di un decimo di grado ogni 10 anni, e negli ultimi decenni il fenomeno si è velocizzato: l’Italia, oggi, è di un grado più calda rispetto agli anni Sessanta. Nel 2014 si è segnato il record di sempre (1,45 gradi in più rispetto alla media) e il 2015 sembra destinato a confermare il trend: il luglio appena trascorso è stato infatti il più torrido della storia, con 3,6 gradi oltre la media di questo decennio. Quando l’aumento di temperatura sarà stabilmente oltre i due gradi in più rispetto all’era pre-industriale, ammonisce l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) delle Nazioni Unite, i cambiamenti climatici potrebbero diventare irreversibili. Dengue e febbre del West Nile sono malattie comuni nelle zone tropicali, ma probabilmente dovremo farci l’abitudine anche dalle nostre parti. Trasmesse da zanzare e altri insetti che prosperano grazie al caldo, queste nuove patologie si stanno infatti radicando anche nel nostro paese. Nel 2008 erano 12 i casi di dengue registrati in Italia, ma sono aumentati velocemente passando a 51 nel 2010 e a 74 nel 2012. Simile la situazione anche per la malattia neuroinvasiva da West Nile, originaria dell’Africa Orientale: 8 casi nel 2008, saliti a 44 nel 2013. Anche le allergie si fanno sempre più comuni a causa del global warming, che ha allungato la stagione di fioritura di molte piante, come la parietaria o il cipresso, aumentando da 10 a 100 volte la concentrazione dei pollini nell’aria. «Il risultato», spiega Vincenzo Patella, direttore della Task Force sui cambiamenti climatici della Società italiana di allergologia, asma ed immunologia clinica, «è che negli ultimi dieci anni il numero di allergici è raddoppiato: oggi sono il 20 per cento della popolazione italiana, e si prevede che diventino il 60 per cento nel 2050». Anche l’asma è sempre più frequente: i casi sono aumentati del 60 per cento rispetto agli anni Ottanta, e le morti raddoppiate. Non è una critica alla politica nazionale, ma una constatazione agricola. L’aumento delle temperature ha permesso infatti di avviare la coltivazione di frutti tropicali, un tempo assenti in Italia, e la Sicilia si è rivelata particolarmente adatta per le banane, tanto che a Palermo ha oggi sede il più grande produttore del paese. Ma non solo. Come spiega Stefano Masini, responsabile dell’Area Ambiente di Coldiretti, è l’intero paesaggio agricolo del nostro paese ad essere mutato radicalmente. La coltura dellavite si è spostata sempre più a nord: nei comuni di Morgez e La Salle, in Valle d’Aosta, a circa 1.200 metri di quota, oggi si producono ad esempio i vini più alti d’Europa. L’ulivo, dal canto suo, ha raggiunto la Valtellina, mentre pomodori da conserva e grano, che prima si fermavano più o meno in Toscana, oggi sono coltivati con successo in tutta la pianura Padana. Oltre a mutare la geografia delle colture, i cambiamenti climatici stanno portando nei nostri campi batteri e insetti tropicali infestanti, che trovano le temperature perfette per proliferare: come il punteruolo rosso, un parassita delle palme di origine africana, e la drosofila del ciliegio, originaria del continente americano. O ancora la temuta Xilella fastidiosa, che ha devastato gli ulivi del Salento anche grazie alle temperature estremamente miti dello scorso inverno. «Nei prossimi decenni, l’impatto sull’agricoltura italiana rischia di essere pesantissimo», spiega Domenico Pignore dell’Istituto di genetica vegetale del Cnr di Bari. Un buon esempio, aggiunge l’esperto, è il grano, pianta simbolo della cultura italiana. «Le coltivazioni oggi si stanno spostando progressivamente verso il nord, ma se non interverremo, nei prossimi 50 anni il frumento rischia di sparire dalla nostra penisola, con danni incalcolabili da un punto di vista culturale ed economico». Abita i boschi e le pianure in quota delle Alpi, e per proteggersi fa affidamento sulla sua pelliccia: bianca in inverno, per mimetizzarsi con la neve, e bruno rossastra in estate, come le rocce e le piante tra cui si muove. Con le stagioni ormai impazzite, l’ermellino si trova però ad indossare sempre più spesso la pelliccia sbagliata quando si sciolgono le nevi, in primavera, divenendo facile bersaglio dei suoi predatori. Un altro caso emblematico è quello dello stambecco: le piante di cui si nutre germogliano anticipatamente, e sono povere di sostanze nutritive fondamentali. La conseguenza è un forte aumento della mortalità durante lo svezzamento, passata dal 50 per cento degli anni Ottanta a più del 75 per cento dei giorni nostri. Sono alcuni degli esempi contenuti nell’ultimo report del Wwf, che evidenzia gli effetti nocivi dei cambiamenti climatici sulla fauna italiana. Tra questi, i più evidenti sono la diffusione di specie non autoctone, solitamente di origine tropicale, come i pappagalli ormai di casa nelle città del Centro-Sud, o le meduse che sempre più spesso invadono le acque e le spiagge italiane. Come nel 2013, quando un enorme banco di Pelagia noctiluca, piccola medusa di colore violetto estremamente urticante, ha letteralmente invaso le spiagge dell’Isola d’Elba, mettendo in fuga i bagnanti e provocando diversi ricoveri a causa delle sue punture. Riscaldamento globale vuol dire (anche) addio ghiacciai. Un fenomeno cui l’Italia non è immune, come spiega Claudio Smiraglia, professore di geografia fisica e geomorfologia all’Università degli Studi di Milano e coautore del “Nuovo catasto dei ghiacciai italiani”, il documento che raccoglie e cataloga le informazioni relative ai sistemi glaciali del nostro paese: «Siamo di fronte a un collasso: per tutti i ghiacciai dell’arco alpino, così come per i due piccoli ghiacciai del Gran Sasso, si è registrato un regresso del 30-33 per cento rispetto agli anni Sessanta». Poco più di mezzo secolo fa, i ghiacciai delle Alpi si estendevano su 370 chilometri quadrati, una superficie pari a quella del lago di Garda; a oggi se ne sono persi oltre 160 chilometri quadrati, più o meno quanto il lago di Como. «L’acqua dei ghiacciai», continua Smiraglia, «è passata dallo stato solido allo stato liquido e poi non è stata sostituita, perché le nevicate sono diventate sempre più rare». Un fenomeno che sta modificando notevolmente la biodiversità dell’orizzonte alpino: la vegetazione - soprattutto aghifoglie e larici - sale sempre più di quota, colonizzando gli spazi una volta occupati dai ghiacci e alterando gli equilibri naturali dell’ecosistema. Invertire la tendenza sembra molto difficile, se non impossibile: «Anche se riuscissimo a stabilizzare le emissioni di gas serra», ammonisce Smiraglia, «ci vorranno decenni prima che l’atmosfera reagisca di conseguenza. Nel frattempo, probabilmente, la maggior parte dei ghiacciai italiani sarà scomparsa: non resteranno che pochi lembi di ghiaccio, parzialmente coperti da detriti, alle quote più alte». Venezia, Versilia, le saline di Trapani, il cagliaritano: sono solo alcune delle 33 zone che corrono il rischio di essere allagate entro il 2100, a causa dell’innalzamento del livello del Mediterraneo. A raccontarlo è uno studio di Fabrizio Antonioli, del Centro Ricerche Casaccia dell’Enea, e le previsioni dell’Ipcc, secondo cui le acque italiane si solleveranno di 50 centimetri nei prossimi cento anni per effetto dei soli cambiamenti climatici. A questi andrà sommato l’abbassamento della superficie terrestre, per un aumento netto di quasi un metro. Tutto perché, a causa delle temperature sempre più calde, le calotte polari si sciolgono e riversano in mare aperto enormi masse d’acqua allo stato liquido, che innalzano il livello degli oceani e mettono a repentaglio intere zone costiere. Negli ultimi cento anni, per effetto dei soli cambiamenti climatici (cioè al netto di altri fattori, come il movimento della crosta terrestre), il livello del mare è salito, nel mondo, di quasi venti centimetri. Se dalle nostre parti le cose vanno leggermente meglio (l’innalzamento registrato nel Mediterraneo è di tredici centimetri e mezzo) è solo grazie all’“effetto diga” esercitato dallo stretto di Gibilterra, ma c’è poco da stare sereni: «I cambiamenti climatici stanno influenzando pesantemente il Mediterraneo», racconta Sandro Carniel, dell’Istituto di Scienze Marine del Cnr di Venezia, «in termini di temperatura, salinità, circolazione e livello del mare». Come evidenziato nell’ultimo documento messo a punto dal Ministero dell’Ambiente, per esempio, nel periodo 1904-2006 la temperatura superficiale dell’acqua è aumentata di 0,85 gradi nel Mediterraneo occidentale, di 0,92 nello Ionio e di ben 1,45 nell’Adriatico. L’aumento del livello delle acque nell’intero bacino del Mediterraneo, invece, è stato stimato essere di 2,1 millimetri l’anno nel periodo 1992-2005, sebbene con qualche variabilità locale.
Clima, a cosa serve la conferenza di Parigi. L'incontro Cop21, che riunisce i rappresentanti di oltre 150 Paesi, deve porre le basi per un accordo sulla riduzione delle emissioni da gas serra. E dopo anni di flop potrebbero esserci reali passi avanti. Ma non è detto saranno sufficienti, scrive Marco Magrini il 30 novembre 2015 su “L’Espresso”. Ottantadue presidenti, sei vicepresidenti, quarantasette primi ministri, due cancellieri, cinque re, tre principi, un emiro e un segretario di Stato che parlano al microfono, uno dopo l’altro. I massimi rappresentanti di oltre 150 Paesi del mondo, da Barack Obama a Xi Jingpin, da Vladimir Putin a Recep Erdogan, da Matteo Renzi al cardinale Pietro Parolin, aprono oggi a Parigi la conferenza sul clima delle Nazioni Unite, battezzata Cop21. Un fiume di parole che dovrebbe preludere all’accordo internazionale su una monumentale ricoversione energetica, necessaria a ridurre la collettiva dipendenza dai combustibili fossili che riscaldano l’atmosfera. Ecco le trattative che vanno a cominciare, in cinque punti.
1. La posta in gioco. La scienza assicura che non bisogna permettere alla temperatura media terrestre di salire oltre i due gradi centigradi (è già cresciuta di un grado da metà Ottocento a oggi), pena drammatiche conseguenze climatiche: dal livello dei mari che sale inesorabilmente, agli oceani che si acidificano; dal Medioriente che diventa invivibile, al permafrost siberiano che si scioglie. Sono almeno dieci anni che questo consesso cerca di raggiungere un accordo capace di superare il Protocollo di Kyoto, che aveva il difetto di coinvolgere solo i Paesi industrializzati (peraltro senza gli Stati Uniti, che non l’hanno mai ratificato). Finora però, a cominciare dal celebre flop del vertice di Copenhagen, nel 2009, la diplomazia climatica internazionale ha inanellato un fallimento dopo l’altro. Stavolta ci sono le premesse per un cambio di passo. Tensione in place de la République, dove gruppi di estrema sinistra hanno cercato di organizzare un corteo in vista della conferenza sul clima, Cop21. La polizia ha sparato alcuni lacrimogeni. Le manifestazioni erano state vietate a causa dello stato di emergenza.
2. Ognuno per sé. Per cominciare, la vecchia idea di un impegno uguale per tutti, è stata abbandonata. Siamo entrati nell’era degli Indc (acronimo che sta per Intended nationally determined contributions) dove ogni nazione è libera di stabilire i suoi obiettivi di tagli alle emissioni di gas-serra. La Cina ad esempio, promette di ridurre del 65 per cento l’intensità delle sue emissioni di anidride carbonica (ovvero a parità di Pil), entro il 2030. Gli Stati Uniti invece, puntano a un taglio tout-court del 28 per cento entro il 2025. L’Europa, che è da sempre la prima della classe, ha già deliberato da anni – e per legge – un taglio del 20 per cento entro il ben più vicino 2020, con l’opzione di arrivare al 30 per cento se altri faranno altrettanto. All’Unfccc, la convenzione delle Nazioni Unite che organizza questi negoziati, partecipano 194 Paesi del Mondo. Di questi, solo 181 hanno consegnato le loro lettere di impegno, talvolta piuttosto vaghe, come nel caso dell’Arabia Saudita che non è ovviamente troppo incline all’idea di veder scendere i consumi globali di petrolio, di gran lunga la sua prima risorsa economica. Tuttavia, siccome in questo ambito multilaterale si vota non a maggioranza, ma all’unanimità, questi obiettivi più flessibili, fissati a livello nazionale, paiono davvero propedeutici alla firma del trattato.
3. Guai a chiamarlo "trattato". Quella parola però, non va proprio pronunciata. Se, come sembra, si arriverà a un’intesa finale, verrà chiamata Accordo di Parigi o qualcosa del genere. Ma Trattato di Parigi proprio no: basterebbe quello a richiedere la ratifica del Congresso americano che, per via dell’intransigente posizione repubblicana, non passerebbe mai. Piaccia o no, un solo partito politico di una sola nazione, è in grado di compromettere l’intero, faticoso processo internazionale. L’amministrazione Bush, notoriamente legata alle lobby petrolifere, lo aveva sempre ostacolato. L’amministrazione Obama, che descrive i cambiamenti climatici come un rischio di portata epocale per il mondo del futuro, è più che favorevole: ma a patto di non richiedere un’approvazione parlamentare, che sarebbe impossibile. Non a caso, due settimane fa il segretario di Stato John Kerry ha dichiarato che «l’accordo di Parigi non sarà legalmente vincolante». A caldo, l’Unione Europea ha risposto picche. Ma poi il ministro francese Laurent Fabius (che stamani sarà eletto presidente della Cop21) ha cambiato idea: «non si chiamerà trattato e non conterrà impegni vincolanti». Migliaia di persone in piazza a Parigi per formare una catena umana lunga (secondo gli organizzatori) quasi 3 chilometri in occasione della conferenza sul clima Cop21. Da Place de la Republique a Place de la Nacion i partecipanti hanno esposto cartelli di esortazione, nei confronti dei politici di tutto il mondo presenti al vertice, per trovare le giuste misure per contenere l'aumento delle temperature globali e sostenere i paesi più poveri.
4. Venti favorevoli e contrari. In compenso, il momento è magico. Non soltanto c’è un democratico alla Casa Bianca. Il caso vuole che, in due Paesi industrializzati come il Canada e l’Australia, due primi ministri pro-ambiente abbiano appena preso il posto di due conservatori apertamente schierati contro i negoziati climatici. Poi, tutt’altro che irrilevante, c’è il mondo delle imprese multinazionali. Le quali, oggi più che mai, non chiedono di inquinare impunemente, ma di conoscere le regole del gioco il prima possibile, in modo da poter investire di conseguenza, in un’ottica di lungo periodo. Nella maggior parte dei casi, si tratta di un impegno sincero: un po’ perché è quel che chiedono i consumatori, un po’ perché molte di loro hanno già visto che l’efficienza energetica fa bene al mondo, ma anche al bilancio di fine esercizio. Ma allora, chi è rimasto a remare contro? Beh, l’ambigua posizione dell’Arabia Saudita è ovviamente ricalcata da altri Paesi petroliferi, come il Venezuela. Ma le grandi corporation del petrolio, soprattutto quelle americane, sono forse le più irriducibili. Spicca il ruolo dei petrolieri Charles e David Koch che, secondo il Washington Post, alle ultime elezioni americane hanno coordinato una rete di fondi e associazioni conservatrici, contribuendo al Partito Repubblicano con 407 milioni di dollari. Non è difficile capire perché i senatori di quello stesso partito sono così avversi alla questione climatica.
5. L’ultima spiaggia? Sono almeno quattro anni, che l’appuntamento di Parigi viene descritto come l’ultima ancora di salvezza. Le organizzazioni non governative, presenti in forze alla Cop21, ricordano che, facendo i calcoli sulla base degli impegni annunciati dai singoli Paesi, negli anni a venire la temperatura aumenterà comunque di 2,7 gradi centigradi, ovvero ben sopra la soglia del pericolo. Greenpeace, Wwf, Oxfam e gli altri, chiedono di non superare gli 1,5. Tuttavia, come ha detto due giorni fa Cristiana Figueres, segretario dell’Unfccc, «l’importante è costruire una fiducia reciproca, applaudire ogni passo avanti e poi aggiungere un’altra pietra miliare». In altre parole, l’importante è cominciare. A parte le poche teste coronate per diritto ereditario, i primi ministri e i capi di Stato che parlano oggi a Parigi, andranno e verranno nella parentesi di un mandato elettorale o due. Gli incerti destini della nostra comune atmosfera invece, hanno bisogno di cure e attenzioni molto, molto più lungimiranti.
Il 2015 sembra già destinato a essere l’anno più caldo della storia. E se si vogliono evitare conseguenza catastrofiche su sicurezza alimentare, riserve d’acqua, stabilità economica e pace internazionale bisogna fare di più e in fretta, scrive Marco Magrini l'1 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Tre giorni fa, proprio alla vigilia del vertice climatico attualmente in corso a Parigi, l’Organizzazione meteorologica mondiale, uno dei bracci scientifici delle Nazioni Unite, ha comunicato al mondo due brutte notizie. La prima: a un mese dalla sua conclusione, il 2015 sembra già destinato a essere l’anno più caldo della storia, nonché il quinto anno più caldo consecutivo. La seconda: proprio quest’anno, l’aumento della temperatura media planetaria valicherà la soglia di un grado centigrado, rispetto all’era pre-industriale. Un grado di differenza, sembra poca – o pochissima – cosa. Ma non per chi conosce la distinzione fra la meteorologia (lo studio giornaliero delle condizioni atmosferiche in particolari aree geografiche) e la climatologia (lo studio nel lungo periodo e su scala planetaria). Se in meteorologia, come sappiamo dalla nostra esperienza quotidiana, un grado di differenza in più o in meno è del tutto risibile, nella climatologia si tratta di un valore macroscopico. Ecco perché quella che arriva dalle Nazioni Unite è una pessima notizia. Qui a Parigi, nel centro congressi di Le Bourget trasformato in un fortino protetto dalle forze dell’ordine, i diplomatici di 195 Paesi del mondo sono appena all’inizio del tour-de-force negoziale che dovrebbe portarli a sottoscrivere il tanto atteso Accordo di Parigi, o chissà come verrà chiamato. Tutto ruota intorno alle 183 concessioni volontarie fatte da altrettanti Paesi (inclusa l’Europa a nome dell’Italia e dagli altri 27 Stati dell’Unione), che sono state riaffermate ieri dai rispettivi leader o teste coronate. «È un buon inizio», ha commentato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban-ki Moon. «Però, se vogliamo limitare l’aumento della temperatura globale entro i due gradi, dobbiamo andare molto più avanti e molto più rapidamente. La scienza è chiara: anche un aumento di 2 gradi, avrà serie conseguenze sulla sicurezza alimentare e le riserve d’acqua, sulla stabilità economica e la pace internazionale». Nei solenni discorsi davanti ai rappresentanti della diplomazia climatica di tutto il mondo, i leader della Terra hanno fatto più di una volta esplicito riferimento all’obiettivo dei due gradi, che ormai ha assunto il ruolo di punto fermo della politica internazionale. Ne ha parlato il presidente russo Vladimir Putin (non esattamente un paladino del climate change). O il presidente dell’Ungheria, János Áder, che si è lanciato in un appassionato, ipotetico discorso al nipote che deve ancora nascere, il cui futuro è appeso a un tenue filo di speranza: che quel grande consesso di presidenti e primi ministri apparso ieri davanti ai microfoni del mondo, faccia per davvero quello che dice. Tutto è cominciato in sordina con la Rivoluzione industriale, che ha alimentato il crescendo rossiniano dell’economia planetaria con il carbone, il petrolio e il gas naturale. Una volta bruciati, rilasciano carbonio che si lega con l’ossigeno dell’atmosfera sotto forma di anidride carbonica. La quale – lo sappiamo dall’Ottocento – trattiene la radiazione infrarossa della Terra e la riscalda. E qui compare un altro numero, anche stavolta apparentemente risibile e insignificante: nell’èra pre-industriale, la concentrazione di CO2 era di 280 parti per milione. Oggi, abbiamo superato la soglia dei 400. Cosa possono fare solo 400 molecole di anidride carbonica in mezzo a un altro milione di molecole? Anche in questo caso, molto. Già superare la soglia di 450, garantirebbe il temuto avvicinamento ai famosi due gradi. Ieri, i numerosi rappresentanti degli Stati-isola del mondo, minacciati dall’innalzamento dei mari, hanno chiesto a gran voce ai Paesi industrializzati di non superare il tetto del grado e mezzo. Un tetto che, anche qualora gli impegni solenni annunciati ieri dai leader del mondo venissero rispettati, è destinato ad essere sfondato. E non di poco: i calcoli dicono +2,7 gradi. Quel che sembra chiaro però, è che la corsa verso un mondo a basso impatto di carbonio è ufficialmente cominciata. La banca Barclays stima che, solo per mantenere quelle promesse ci sarà bisogno di 21.500 miliardi di dollari di investimenti in energie alternative e in efficienza energetica, da qui al 2040. E questa cifra, una volta tanto, non appare per nulla insignificante.
I No Global e la demenza col nemico, scrive il 29 novembre 2015 Francesco Maria Del Vigo su "Il Giornale". Più volte, in questo blog, ho manifestato il mio sdegno nei confronti dei vari “No qualcosa”. Non perché non ci si possa ribellare e non si possa manifestare il proprio dissenso – chi dice Signornò mi sta sempre antropologicamente simpatico – ma per il modo cretino con cui lo fanno. Sfasciare una città, in branco, peraltro senza ottenerne nessun vantaggio, non è un gesto politico. È un gesto psichiatrico. Da manicomio. Chiamare “no global” questi cretini è un torto nei confronti di tutti quelli che hanno criticato più volte le storture della globalizzazione. Questi sono solo dei disadattati. Dei frustrati che scaricano la loro rabbia – tutti insieme, protetti dall’anonimato della massa – distruggendo città, spaccando vetrine (di commercianti con la cartella di Equitalia da pagare), malmenando poliziotti e magari distruggendo l’automobile che un povero cristo qualunque sta cercando di pagarsi a rate. Li abbiamo visti in azione tante volte: dal G8 di Genova all’inaugurazione di Expo di pochi mesi fa a Milano. C’è sempre qualcuno che li giustifica: sono giovani, incompresi, figli delle periferie e delle emarginazioni (anche se spesso sono figli della alta borghesia con le terga ben riparate), non trovano lavoro, è una generazione difficile, è colpa del sistema e della società. Non c’è una giustificazione: un cretino che devasta una città è solo un cretino che devasta una città. Un delinquente. E come tale deve essere arrestato. Non si capisce perché se uno evade il fisco è un reietto schifoso che deve marcire in galera, e se uno prende a sassate un poliziotto o devasta un negozio è un neo rivoluzionario che combatte per il sol dell’avvenire. Perché c’è sempre, nemmeno troppo velatamente, una certa complicità nei loro confronti: da parte della politica, della società civile (ogni volta che scrivo questo termine devo prendere un antiemetico) e di una parte degli intellettuali. Spesso sono vecchi male invecchiati, che rivedono in ogni forma di casino i fasti di una gioventù così rivoluzionaria da averli portati direttamente dalle piazze e dai cortei nei palazzi del potere e nei salotti buoni. Ora il circo dei disadattati si è spostato a Parigi per la Conferenza sul Clima. Dove un gruppo di sedicenti anti capitalisti ha fatto casino a Place de la Republique, lanciando contro le forze dell’ordine tutto quello che trovava sul suo cammino. Compresi gli oggetti in ricordo delle vittime della strage jihadiste del 13 novembre scorso. Fa piuttosto schifo, è evidente. Questi disgraziati che giocano a fare alla guerra, sono penosi in tempi di pace. Ma in tempi di guerra sono anche criminali. Perché prima o poi finiranno – magari involontariamente, magari no – per aiutare le frange terroristiche che stanno cercando di gettare l’Europa nel caos. In tempo di guerra – e questo, a suo modo, è un tempo di guerra parcellizzata, rarefatta, rateizzata – li avrebbero condannati per intelligenza col nemico. Visti i soggetti propongo un reato più blando: la demenza col nemico. Ma guai a sottovalutarli.
La lobby del petrolio e la conferenza di Parigi. Ora promette di contribuire alla causa ambientale, ma per anni ha finanziato opinionisti e politici per dire che l'effetto serra era un'invenzione, scrive l'1 dicembre 2015 su Panorama Michele Zurleni. La notizia è gustosa: dieci tra le maggiori compagnie petrolifere del mondo hanno annunciato che intendono fare la loro parte affinché venga raggiunto un accordo sulla riduzione del riscaldamento globale alla Conferenza di Parigi. Visto da una certa prospettiva, questo sembra l'annuncio di un piromane che passa dall'altra parte della barricata e si arruola nei pompieri. Però è così: La Oil and Gas Climate Initiative, il gruppo che include la BP, Shell, Saudi Aramco, la Total e diverse altre importanti società (il 20% della produzione mondiale di petrolio e gas), prima dell'inizio della conferenza ha diffuso una dichiarazione in cui afferma che l'obiettivo è quello di tutti gli altri: due gradi centigradi in meno di riscaldamento globale. "Spesso si ha l'impressione che i combustibili fossili siano i cattivi ragazzi in questa storia, ma i cattivi ragazzi - ha detto il numero uno della Total Patrick Pouyanne - qualche volta sono parte della soluzione del problema". Se l'impegno sarà effettivo e non si rivelerà solo un'abile manovra di pubbliche relazioni, lo diranno i lavori della conferenza e il prossimo futuro. Queste compagnie petrolifere hanno passato gli ultimi anni a sabotare tutti gli sforzi per ridurre l'emissione di gas serra e ora si presentano a Parigi con la vesti dell'agnello. Negli ultimi anni, la lobby del petrolio ha speso decine e decine di milioni di dollari per negare l'esistenza dei cambiamenti climatici. Sono stati finanziati "scienziati" per dimostrare che non c'è alcun nesso tra l'emissione di gas e il surriscaldamento del pianeta; sono stati dati migliaia e e migliaia di dollari a opinionisti per scrivere che il surriscaldamento globale era una favola degli ambientalisti; negli Usa (per esempio) sono stati foraggiati decine di politici per bloccare ogni legge che prevedesse dei limiti alla diffusione dei gas serra. Lo hanno fatto le compagnie che ora fanno parte del "gruppo di Parigi" - come la Bp (indicata da un''organizzazione indipendente, la britannica Influence Map, come la più strenua oppositrice a qualsiasi normativa ambientale a livello europeo) - e lo hanno fatto, a maggior ragione, le società petrolifere che non hanno aderito all'iniziativa parigina. Tra quest'ultime ci sono le americane Exxon e la Chevron. Negli Usa, la lobby del petrolio è molto potente. Lo è sempre stata. E, da anni, lavora per far passare un principio a livello di pubblica opinione: l'effetto serra è una barzelletta. Nello scorso luglio, il quotidiano britannico The Guardian pubblicava un articolo che riguardava proprio la ExxonMobil. La compagnia, nonostante molti dei suoi azionisti avessero chiesto otto anni prima di smetterla di finanziare politici e opinionisti per negare i cambiamenti climatici, aveva continuato a farlo. A diversi membri del Congresso (per lo più repubblicani) erano arrivati un totale di 3 milioni e mezzo di dollari, mentre altri 30 milioni di dollari erano stati dati a ricercatori e attivisti di gruppi anti o pseudo ambientalisti per diffondere falsità sul riscaldamento globale. Negli Stati Uniti, i Re del "negazionismo" ambientale sono i fratelli Koch, tra i più importanti industriali americani, vicini al Tea Party e finanziatori di tutte le campagne e le lobby conservatrici (in primis, quella delle armi). Greenpeace ha rivelato che i Koch hanno speso una cifra che si aggira attorno agli 80 milioni di dollari in una quindicina di anni per foraggiare i gruppi che negano l'esistenza dell'effetto serra. La lobby del petrolio continuerà a lavorare a Washington. L'attivismo di Barack Obama sul fronte ambientale è visto come un vero pericolo. Non è un caso che il Congresso (a maggioranza repubblicano) abbia fatto le barricate contro le leggi proposte dalla Casa Bianca in questo campo. E c'è già chi dice che Capitol Hill potrebbe rigettare l'accordo che uscirà dalla Conferenza di Parigi. Quella sarebbe la più grande vittoria dei "negazionisti per interesse (economico)" dei cambiamenti climatici.
La più grande menzogna dei nostri tempi ansiosi. L'aumento delle temperature indotto dall'uomo è un falso: non c'è nesso con le emissioni di Co2, scrive Franco Battaglia Martedì 01/12/2015 su “Il Giornale”. Quella del riscaldamento globale indotto dalle attività umane è la più grande menzogna del secolo scorso. Ripetuta tante di quelle volte che alla fine i più si sono convinti che è vera. Perfino Papa Bergoglio, che con la Sua ultima Enciclica ha dato prova di essere stato insidiato dal Diavolo. Non sarebbe la prima volta: chi sennò insidiò Urbano VIII quando costrinse Galileo a sottoscrivere l'atto di abiura? Bergoglio oggi come Urbano allora si appella al consenso scientifico. Il fatto è che mai ci si può appellare al consenso scientifico per sostenere l'attendibilità di qualsivoglia affermazione. Anzi, a dire il vero, è contro il consenso che la scienza fa progressi. Quel che conta sono i fatti. L'acqua è H2O non perché v'è un consenso scientifico, ma perché non v'è alcun fatto che contraddice la formula H2O. Il consenso scientifico ai tempi di Galileo era che la Terra fosse ferma al centro dell'universo e quello ai tempi di Einstein era che l'etere esiste. Come oggi si dice ma non è vero il consenso scientifico è che il caldo di cui gode il pianeta è conseguenza delle attività umane. Il fatto è che il pianeta vive da milioni d'anni in una sorta di perenne stato glaciale, interrotto, ogni centomila anni, da diecimila anni di, detta in gergo, optimum climatico. Orbene, questa nostra umanità sta vivendo nell'ultimo di questi favorevoli periodi. Ed è da ventimila anni, cioè da quando il pianeta cominciò a uscire dall'ultima era glaciale, che i livelli dei mari si sono elevati: di oltre cento metri rispetto ad allora. Né l'attuale optimum climatico ha raggiunto ancora i massimi di temperatura che si raggiunsero, in assenza di attività umane, negli optimum climatici precedenti. Una volta usciti da un'era glaciale, il clima del pianeta non resta immobile in un ideale plateau termico. Per esempio, durante l'ultimo optimum climatico, vi sono stati periodi caldi (olocenico, romano e medievale), intervallati da cosiddette piccole ere glaciali, l'ultima delle quali durò qualche secolo ed ebbe il suo minimo 400 anni fa, quando il clima riprese a riscaldarsi, e sta continuando a farlo fino ad oggi. Ma 400 anni fa, quando cominciò il processo, le attività umane erano assenti, e tali rimasero per almeno 3 secoli. Viviamo in un secolo di monotòno crescente riscaldamento, corrispondente all'inconfutabile monotòna, crescente immissione di gasserra? La risposta è no. Nel periodo 1945-1970, in pieno boom di emissioni, il clima visse un periodo d'arresto, ed è da almeno 14 anni che sta accadendo la stessa cosa: a dispetto di una crescita senza sosta delle emissioni di CO2, la temperatura media del pianeta è al momento stabilizzata ai livelli di 14 anni fa. Abbiamo così fatti a sufficienza per smentire ciò che viene spacciato come consenso scientifico. Nella Sua Enciclica il Papa ha proposto che i Paesi ricchi del mondo costruiscano in quelli poveri gli impianti cosiddetti alternativi di produzione energetica. Non si rende conto, Sua Santità, che questo significa, di fatto, negare ai poveri l'unico bene materiale l'energia abbondante e a buon mercato che solleverebbe la misera condizione in cui essi vivono. Quegli impianti «alternativi», infatti, non funzionano (è un fatto tecnico). Ci s'immagini, per un attimo, che con un miracolo spariscano in un istante tutti gli impianti nucleari, a carbone e a gas dell'Europa e, sempre con lo stesso miracolo, fossero sostituiti da impianti eolici e fotovoltaici di pari potenza a quelli spariti. Si fermerebbero, sì, i climatizzatori contro cui Bergoglio ha sollevato l'indice (che pur tanto sollievo portano alle sofferenze dal caldo e dall'umidità), ma si spegnerebbero anche gli impianti degli ospedali, le fabbriche e tutte le luci. Per farla breve: si smetterebbe di essere Paesi ricchi. Proporre che i Paesi poveri usino solo quegli impianti per il proprio fabbisogno energetico, significa negare loro l'energia, cioè significa condannarli alla povertà. Proporre, poi, che siano i Paesi ricchi a sostenere l'enorme, quanto inutile, sacrificio economico, significa impoverire le popolazioni di questi Paesi a vantaggio di quella ristretta minoranza che, unica, si avvantaggerebbe del miserabile affare. La ristretta minoranza che ha assunto le forme del diavolo che, temo, s'è insinuato nei cuori dei consiglieri del Santissimo Padre.
E poi se si muore di smog, tassiamo le bici? Scrive il 30 novembre 2015 Antonio Ruzzo su "Il Giornale". Dovrebbe essere finito il tempo delle chiacchiere. Dovrebbe essere finito il tempo dei compromessi, delle decisioni compiacenti che chi amministra spesso prende per non scontentare chi l’ha votato o chi potrebbe votarlo. L’inquinamento atmosferico soprattutto per chi vive nelle città del nord è un problema serio che deve essere affrontato anche con scelte impopolari. C’è un interesse di salute da tutelare e va fatto. Quindi vanno fermate le auto che inquinano, vanno fermati camion e furgoni che hanno motori di trent’anni fa, vanno messi a norma bruciatori e caldaie ma con controlli seri sui fumi, vanno fatte scelte alternative sul trasporto che non può essere solo su gomma. E altro ancora si potrebbe fare. Perché tutto ciò va fatto subito? Perché L’Italia è il Paese dell’Unione europea che segna il record del numero di morti prematuri rispetto alla normale aspettativa di vita per l’inquinamento dell’aria. La stima arriva dal rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea): il Belpease nel 2012 ha registrato 84.400 decessi di questo tipo, su un totale di 491mila a livello Ue. Tre i ‘killer’ sotto accusa per questo triste primato. Le micro polveri sottili (Pm2.5), il biossido di azoto (NO2) e l’ozono, quello nei bassi strati dell’atmosfera (O3), a cui lo studio attribuisce rispettivamente 59.500, 21.600 e 3.300 morti premature in Italia. Il bilancio più grave se lo aggiudicano le micropolveri sottili, che provocano 403mila vittime nell’Ue a 28 e 432mila nel complesso dei 40 Paesi europei considerati dallo studio, L’impatto stimato dell’esposizione al biossido di azoto e all’ozono invece è di circa 72mila e 16mila vittime precoci nei 28 Paesi Ue e di 75mila e 17mila per 40 Paesi europei. L’area più colpita in Italia dal problema delle micro polveri si conferma quella della Pianura Padana, con Brescia, Monza, Milano, ma anche Torino, che oltrepassano il limite fissato a livello Ue di una concentrazione media annua di 25 microgrammi per metro cubo d’aria. Ora di certo ci sarà chi avrà modo e maniera di interpretare anche questi dati. Di infarcirli di se, di ma, di fare come si dice sempre dei “distinguo”. Ci sarà chi parlerà di terrorismo ambientale e di inutili allarmismi. Può darsi. Certo e che più che tanti incontri, tavole, conferenze mondiali e globali sul clima forse basterebbe il coraggio di fare scelte più semplici e concrete già domattina. Poi però leggi che c’è qualcuno in Parlamento che per far quadrare i conti sta prendendo in considerazione l’ipotesi di targare e bollare anche le bici e allora ti cadono le braccia. E pensi che forse questo è un mondo che gira al contrario.
Gli allarmismi interessati sul clima, scrive Riccardo Cascioli l'1-04-2014. E’ proprio vero che gli eventi estremi sono in aumento, ma non sono quelli climatici. Si tratta invece dei rapporti catastrofisti dell’IPCC (il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici) che si stanno moltiplicando, preceduti da sapienti indiscrezioni che cominciano a spargere terrore nei giorni precedenti il rilascio ufficiale, per poi alimentare il dibattito nelle settimane seguenti. Ieri c’è stata appunto in Giappone la pubblicazione della “Sintesi per i politici” del Rapporto del Gruppo di lavoro 2. Una volta il Rapporto, pubblicato all’incirca ogni 6 anni, veniva presentato tutto insieme, sempre preceduto di qualche mese dalla sua Sintesi per i politici. Evidentemente sembrava troppo poco, così adesso l’annuncio di catastrofi climatiche prossime venture arriva a rate, Gruppo di lavoro per Gruppo di lavoro (ce ne sono 3). E siccome, allarme dopo allarme, cresce l’assuefazione, ogni annuncio deve necessariamente essere più catastrofico del precedente per attirare l’attenzione. Così quello presentato ieri, già da giorni veniva annunciato come il più terribile documento scientifico mai presentato finora, con la "quasi certezza" del solito campionario di eventi: inondazioni, uragani, siccità, ondate di calore, fame, povertà, migrazioni. Il tutto perché la temperatura potrebbe aumentare di 4 gradi centigradi nei prossimi 70-80 anni. Potrebbe, ma già vent’anni fa si prevedeva un aumento esponenziale della temperatura globale che invece non c’è stato. Anzi, è dal 1998 che la temperatura non cresce, e diversi scienziati hanno cominciato a parlare di un prossimo raffreddamento delle temperature. La verità è che nessuno è in grado di sapere cosa accadrà non solo tra 10, 50, 100 anni, ma neanche la prossima settimana. Troppo poco si sa sul clima e come gli innumerevoli fattori che contribuiscono a determinarlo interagiscono fra loro. Così si spaccia per scienza quella che semplicemente è una grande truffa politico-economica ai danni della collettività, che si avvale anche del contributo di uomini di scienza (qualcuno in buona fede, tanti altri no) per legittimare politiche ambientali ed energetiche che vanno a vantaggio di pochi gruppi o paesi. Pensiamo solo al fatto che tutti i media accreditano l’IPCC come il massimo organismo scientifico in fatto di clima. Così tutti immaginano che lì siedano tutti i più importanti e titolati climatologi del mondo. Niente affatto, e non c’è neanche da indagare troppo. Basta rileggere il nome dell’organismo: si chiama Panel Intergovernativo, vale a dire è un organismo politico che risponde direttamente ai governi. I governi scelgono gli scienziati che vi partecipano e i governi controllano ciò che uscirà dal Rapporto. Uno scienziato al soldo del governo – dal quale dipendono i finanziamenti per il suo istituto di ricerca - e il cui futuro dipende anche dalla forza dell’allarme che lancerà, potrà mai essere davvero distaccato e valutare oggettivamente i dati a sua disposizione? Certo, ci sono anche quegli scienziati che, arruolatisi in buona fede, poi ritirano la propria firma una volta visto l’andazzo. E’ successo anche stavolta con uno dei 70 esperti chiamati a redigere la Sintesi per i politici. L’economista olandese Richard Tol, che si occupa degli effetti dei cambiamenti climatici, si è ritirato nei giorni scorsi perché non condivideva l’allarmismo estremo di cui si è voluto permeare questo rapporto. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Il presidente dell’IPCC, l’indiano Rajiendra Pachauri, in carica dal 2002, non solo non è uno scienziato del clima (è ex ingegnere ferroviario) ma ha anche un evidente conflitto di interessi visto che è allo stesso tempo il fondatore di un centro studi indiano (TERI) che si occupa di ricerche sul clima ed è coinvolto in numerosi progetti economici ed energetici i cui finanziamenti dipendono dagli allarmi lanciati dall’IPCC. E malgrado lo scandalo sia scoppiato alcuni anni fa, Pachauri è rimasto ben saldo in sella. Ma il suo non è l’unico caso di conflitto di interessi. Pensiamo al rapporto pubblicato ieri: bisogna sapere che il Rapporto completo del Gruppo di Lavoro 2 è composto di 30 capitoli a cui hanno collaborato centinaia di esperti, ma per ogni capitolo c’è un responsabile. Tra tutte vengono poi scelte una settantina di persone per redigere la Sintesi. Ci si aspetterebbe la scelta di persone al di sopra di ogni sospetto, capaci di sintetizzare in modo onesto e obiettivo i diversi contributi. Ebbene, tra i redattori della Sintesi presentata ieri ci sono ben noti attivisti ecologisti, fanatici delle politiche climatiche. Uno di questi è l’astrofisico Michael Oppenheimer, da vent’anni rappresentante dell’Environment Defense Fund (EDF), una delle più ricche organizzazioni ecologiste americane; un altro è l’australiano Ove Hoegh-Guldberg, biologo marino, che da vent’anni confeziona studi per Greenpeace e WWF. Ancora, troviamo il medico neozelandese Alistair Woodward, autore di diversi lavori per la promozione di “terapie verdi” e impegni ecologisti. Peraltro tutti e tre dal 2010 sono stati nominati responsabili di singoli capitoli: Oppenheimer il 19 (sui rischi emergenti e le vulnerabilità), Hoegh-Guldberg il 30 (sugli Oceani) e Woodward l’11 (sulla salute umana). Quanto possano essere affidabili personaggi che grazie agli allarmi sul clima vedono piovere centinaia di milioni di dollari sulle loro organizzazioni, è facile immaginarlo. Ciò ovviamente non significa che non ci siano o non ci saranno catastrofi naturali, ma ci sono sempre state. L’unica cosa certa è che seguire questi individui non potrà che portare conseguenze peggiori, perché ci spingono a buttare un’enormità di soldi su progetti inutili (se non per loro) togliendo risorse preziose per rendere meno vulnerabili le popolazioni più esposte agli eventi atmosferici estremi.
Cambiamenti climatici, fa più danni l’allarmismo della Co2. L’“ambientalista scettico” Bjorn Lomborg spiega perché, dati alla mano, è più utile aiutare il Terzo Mondo a uscire dalla povertà che buttare montagne di denaro in inutili campagne “green”, scrive “Tempi” il 4 febbraio 2015. Con la consueta sana dose di pensiero anti-ideologico, l’“ambientalista scettico” Bjorn Lomborg è tornato a sottolineare dalle colonne del Wall Street Journal quale sia secondo lui “la cosa allarmante dell’allarmismo climatico”. La tendenza a bombardare il pubblico con titoloni catastrofici e appelli disperati spesso impedisce al mondo di prendere atto di dati che in molti casi smentiscono quegli stessi allarmi, e dunque di studiare soluzioni fondate sulla ragione anziché sul panico. Per esempio, ricorda Lomborg cominciando a elencare i fatti inattesi registrati dagli osservatori scientifici, «è indubbio che le emissioni di anidride carbonica sono in crescita, e più rapidamente di quanto abbia predetto la maggior parte degli scienziati. Ma molti allarmisti climatici sembrano credere che i cambiamenti climatici siano peggiori delle attese. Ignorando però che molti dati in realtà sono incoraggianti. Lo studio più recente dell’Ipcc (il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico, organismo Onu premiato con il Nobel per la pace nel 2007 insieme ad Al Gore, ndr) ha riscontrato che nei precedenti 15 anni le temperature erano aumentate di 0,09 gradi Fahrenheit. La media di tutti i modelli prevedeva 0,8 gradi. Stiamo dunque assistendo a un aumento di temperatura inferiore del 90 per cento alle attese». Concentrare l’attenzione solo sui casi peggiori, insiste Lomborg, non contribuisce all’individuazione di solide politiche ambientali. Un altro esempio? Le calotte polari. «Sì, il ghiaccio artico si scioglie più rapidamente rispetto alle attese dei modelli. Ma i modelli hanno predetto che anche il ghiaccio antartico si sarebbe ristretto, e invece si sta espandendo». Non basta? Prendiamo la siccità: si continua a ripetere che in futuro la mancanza di acqua sarà una piaga sempre più frequente. Eppure, spiega il direttore del Copenaghen Consensus Center, «uno studio pubblicato a marzo dalla rivista Nature mostra che in realtà la superficie del pianeta colpita da siccità è diminuita dal 1982». E non è finita. Continua Lomborg: «A dicembre, alla conferenza Onu sul clima organizzata a Lima, in Perù, è stato detto ai partecipanti che i loro paesi dovranno tagliare le emissioni di anidride carbonica per evitare in futuro danni causati da tempeste come il tifone Hagupit, che ha colpito le Filippine proprio nei giorni della conferenza, uccidendo almeno 21 persone e costringendone oltre un milione a lasciare le proprie case. Eppure, secondo uno studio pubblicato nel 2012 dall’American Meteorological Society’s Journal of Climate, i tifoni che colpiscono l’area delle Filippine per la verità sono in calo dal 1950». Insomma, ribadisce l’“ambientalista scettico”, sentiamo ripetere in continuazione che «le cose sono peggiori che mai, ma i fatti non dicono questo». E forse pensando proprio a un caso come quello delle Filippine, Lomborg suggerisce a esperti e comunicatori di riconoscere una volta per tutte che «non si tratta tanto di tagliare le emissioni di anidride carbonica, quanto di tirare fuori le persone dalla povertà». Non è un caso se nel mondo il tasso di morti causate da disastri naturali è crollato del 97 per cento dall’inizio del secolo scorso a oggi: il calo impressionante, spiega Lomborg, «è dovuto soprattutto allo sviluppo economico che aiuta le nazioni a resistere alle catastrofi». Del resto è ovvio che un uragano in Florida non uccide quanto un uragano nel Sudest asiatico. Più che spendere montagne di soldi per produrre risultati trascurabili con le energie rinnovabili, perciò, il mondo farebbe meglio a promuovere con più convinzione lo sviluppo dei paesi poveri.
Energie rinnovabili, ora ci pensano Zuckerberg e Gates. I membri della nuova associazione, composta solo di imprenditori privati, mette assieme 388 miliardi di dollari in patrimoni personali. Obiettivo: accelerare lo sviluppo delle fonti energetiche. Niente beneficenza: agirà come un venture capital, scrive Paolo Fiore l'1 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Verdi. Anzi, verdoni. Alcuni degli uomini più ricchi (e potenti) del pianeta si sono uniti nella Breakthrough Energy Coalition. Una coalizione che ha l'obiettivo di accelerare lo sviluppo delle energie rinnovabili. Segni particolari: è composta solo da imprenditori privati ma ha la potenza di fuoco di uno Stato di medie dimensioni. I membri del gruppo sono appena 28. Ma mettono assieme patrimoni personali per 388 miliardi di dollari. Tra di loro c'è l'uomo più ricco del mondo (Bill Gates), il più facoltoso dell'India sulla carta (Mukesh Ambani) e nella realtà (Ratan Tata). E ancora: il più ricco d'Africa (Aliko Dangote) e il secondo paperone cinese (Jack Ma). E poi, solo per citare i più noti, Jeff Bezos (boss di Amazon), Mark Zuckerberg (ceo di Facebook) e George Soros. Per capire qual è l'impatto che questo gruppo potrebbe avere a livello mondiale, bastano alcuni dati. La loro fortuna personale supera del 30 per cento gli investimenti mondiali in energie rinnovabili del 2014, pari a 270 miliardi. Se Gates decidesse di investire in eolico e solare tutto il suo patrimonio (circa 79 miliardi di dollari), supererebbe la spesa compiuta nel settore da tutti i Paesi fuori dal G-20 tra il 2009 e il 2013. Mr Microsoft e soci non si priveranno in un sol colpo del loro tesoro. Ma basterebbe mettere sul piatto il 2% dei loro patrimoni per coprire la somma spesa in ricerca e sviluppo nel 2014 da istituzioni pubbliche (5,5 miliardi) e imprese (6,6 miliardi) di tutto il mondo. E questo solo per fermarsi alle tasche personali. Perché la forza di questi imprenditori deriva anche dai fatturati delle loro aziende. Il giro d'affari di Microsoft supera il prodotto interno lordo della Slovacchia. La Reliance Industries Limited, maggiore impresa privata indiana, guidata da Mukesh Ambani, ha un fatturato paragonabile al Pil dell’Azerbaigian. Amazon vende prodotto pari al prodotto interno lordo dell'Oman e Ratan Tata della Bielorussia. La Hp guidata da Meg Whitman (altro membro del club) fattura più della Bulgaria. Mettendo insieme i fatturati delle imprese coinvolte, si toccano i 458 miliardi di dollari. Più o meno il Pil dell'Argentina. E questo senza contare gli asset di venture capital ed hedge fund entrati nel gruppo. Confronti come questi sono poco più di un gioco: una multinazionale non è una nazione. Ma le cifre la dicono lunga sul potere che si accentra nella Breakthrough Energy Coalition. Definirla un gruppo nato intorno ai big della tecnologia sarebbe limitante. È vero, ci sono i fondatori di Alibaba, Microsoft, Amazon, Facebook e LinkedIn. Ma la coalizione è molto di più: è una lobby (termine che negli Stati Uniti non è una parolaccia) potente come e più di uno Stato. Una elite cha avrà portafoglio ampio e grande potere contrattuale. I volti del tech sono forse i più noti, ma ci sono anche magnati dei media come Richard Branson di Virgin e conglomerate industriali dei Paesi in via di sviluppo (Dangote group, Reliance Industries, Tata). La schiera più nutrita, semmai, è un'altra: quella degli uomini d'affari che hanno fatto miliardi con venture capital ed hedge fund: Ray Dalio di Bridgewater Associates, John Doerr di Kleiner Perkins Caufield & Byers, Vinod Khosla di Khosla Ventures, Neil Shen di Sequoia Ventures, Nat Simons e Laura Baxter-Simons di Prelude Ventures, Chris Hohn di The Children's Investment Fund. E poi non poteva mancare sua maestà George Soros. La composizione del gruppo suggerisce che la Breakthrough Energy Coalition non è una fondazione che fa beneficenza. È una società che investe. Lo si legge chiaramente nel suo manifesto. “Ci focalizzeremo su imprese a livello early stage” (cioè ai primi passi) che abbiano “il potenziale per ridurre le emissioni e cambiare il mondo dell'energia”. Gates e compagni funzioneranno come un venture capital sui generis: si porrà nel vuoto creato tra ricerca pubblica e investimenti privati. “Gli investimenti governativi – si legge sul sito web del gruppo - hanno nutrito la creatività privata e portato a enormi successi nel campo spaziale, medico e tecnologico. La politica dovrebbe fare lo stesso nel campo dell'energia”. Tuttavia, “i fondi che oggi il governo destina alle rinnovabili e le ricerche pubbliche non sono sufficienti”. Dall'altra parte, “gli investimenti early stage nel settore hanno un rischio troppo elevato per essere appetibili agli occhi dei business angel e dei venture capital tradizionali”. La Breakthrough Energy Coalition si piazza qui: tra debolezza pubblica e un mercato privato che deve sempre mantenere un equilibrio tra rischi e benefici. Serve “una partnership” tra pubblico e privato che sostenga “i progetti governativi” e convinca gli investitori privati “a supportare le idee innovative”. “Non possiamo aspettare che il sistema cambi”. Non c'è tempo. E adesso ci sono 388 miliardi di motivi per farsi convincere.
Clima, basta con gli allarmismi, servono realismo e responsabilità, scrive Luca Mercalli il 28 luglio 2015 su “La Stampa”. La climatologia è ormai materia popolare, le previsioni del tempo hanno surclassato l’oroscopo. Questo caldo è e sarà la nuova normalità, poi si scopre che decenni fa abbiamo avuto lo stesso fenomeno. Sono contraddizioni che tengono legata la gente alla climatologia, un po’ di allarmismo al momento giusto con successiva rassicurazione. Ma più che sapere se domani pioverà o ci sarà sole, è bene comprendere che lo studio del clima diventerà sempre più importante. Prevedere quello che accadrà è difficile, ma è materia affascinante che col tempo riuscirà ad anticipare l’intensità dei fenomeni con precisione temporale e geografica portando grandi benefici economici e salvando vite umane. Tutte le principali accademie scientifiche del mondo sono concordi nell’affermare che il riscaldamento globale sarà la maggior minaccia che l’Umanità dovrà affrontare nel vicino futuro. Quindi il problema è proprio l’informazione confusa e contraddittoria. Più che di allarmismi e rassicurazioni, abbiamo bisogno di chiarezza, realismo e responsabilità. I progressi scientifici hanno migliorato l’affidabilità dei modelli matematici accoppiati oceano-atmosfera che simulano il clima come il Coupled Model Intercomparison Project promosso fin dal 1995 dal World Climate Research Programme. Come giustamente osserva anche Lei, stanno nascendo – accanto ai tradizionali servizi meteorologici - i servizi climatici in grado di fornire ai politici e ai cittadini gli scenari climatici a cui stiamo andando incontro. In Italia il Centro Euromediterraneo per i Cambiamenti Climatici ha messo a disposizione la piattaforma geografica Lancelot dove consultare cosa succederà al clima della propria regione. Ma dopo che su queste mappe colorate si è presa visione dell’inferno che ci aspetta, tocca muoversi e prendere provvedimenti efficaci. Invece pensiamo che sia tutto un banale videogioco. Attenti, c’è una sola partita da giocare. Caro Mercalli, se in un gruppo si pronunciasse la classica frase “Non ci sono più le mezze stagioni”, sicuramente si intavolerebbe una discussione sulle mutazioni climatiche. A tal proposito è curioso leggere Leopardi: “Egli è pur vero che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune, che i mezzi tempi non vi son più; e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre, che in sua gioventù, a Roma, la mattina di Pasqua di resurrezione, ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno dì impegnar la camiciola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch’ei portava nel cuor dell’inverno”. È un passo sia dello Zibaldone [4241-4242] sia dei Pensieri [XXXIX], datato 1827, ma dove in realtà il Leopardi riferisce parole - risalenti al 1683 - di Lorenzo Magalotti, segretario dell’Accademia del Cimento, l’associazione scientifica fiorentina prima in Europa a utilizzare il metodo sperimentale galileiano. E non si tratta di idee campate in aria: il Magalotti visse nel pieno della Piccola Età Glaciale, e dunque l’osservazione che “il freddo acquista terreno” era sostanzialmente corretta. Oggi fa assai più caldo, quindi “non ci sono più le stesse stagioni”. I passi letterari sono utili per ricostruire la storia del clima prima delle osservazioni strumentali, ma devono sempre essere messi in relazione con dati oggettivi ottenuti da archivi “naturali”, come l’analisi di pollini fossili nelle torbiere, anelli di accrescimento degli alberi, morfologia delle morene glaciali, rapporti isotopici dell’ossigeno o di altri elementi contenuti nel ghiaccio polare o nei depositi minerali delle grotte. Mettendo insieme tutte queste informazioni la paleoclimatologia ha ricostruito migliaia di anni di evoluzione climatica terrestre.
Luca Mercalli, climatologo e docente di sostenibilità e comunicazione ambientale, presiede la Società meteorologica italiana e dirige la rivista «Nimbus», occupandosi di divulgazione per «La Stampa» e «RAI3», dove conduce «ScalaMercalli». Tra i suoi libri: «Che tempo che farà» (Rizzoli) e «Prepariamoci» (Chiarelettere).
Troppo allarmismo sul clima, parola di James Lovelock, scrive Enzo Pennetta il 25 Aprile 2012. Lo scienziato inglese James Lovelock balzò alla ribalta nel 1979 per aver formulato l’ipotesi “Gaia” con la quale sosteneva che la Terra fosse un unico organismo. Ambientalista della prima ora e sostenitore del Riscaldamento climatico causato dalla CO2, adesso afferma di essere stato troppo allarmista. Non solo il “Guru” dell’ambientalismo ha affermato di essere stato troppo allarmista, ma ha affermato che anche altri notissimi personaggi impegnati in prima linea contro l’AGW (Anthropic Global Warming) lo sono stati, a partire dall’ex vice Presidente USA Al Gore, il cui stesso premio Nobel sarebbe dunque da mettere in discussione, almeno questo è quanto riportato sul sito World News: James Lovelock, lo scienziato anticonformista che è diventato un guru del movimento ambientalista con la sua teoria “Gaia” della Terra come un unico organismo, ha ammesso di essere stato “allarmista” sul cambiamento climatico e afferma che anche altri commentatori ambientali, come Al Gore, lo sono stati altrettanto. Il fatto risale a più di un mese fa, ma ad esso non è stato dato molto risalto, i più maliziosi potranno pensare che la notizia poteva non piacere a diversi organi di informazione e a tutti coloro che intorno alla teoria dell’AGW hanno, in un modo o nell’altro, costruito un business. Il motivo di questa presa di posizione è spiegato dal novantaduenne scienziato con la constatazione che non è stata rispettata la prevista correlazione tra due grandezze, nel caso in questione l’incremento di CO2 che dovrebbe precedere il conseguente incremento della temperatura: “Il mondo non si è riscaldato molto dall’inizio del nuovo millennio. Dodici anni sono un tempo ragionevole … (la temperatura) è rimasta pressoché costante, mentre avrebbe dovuto essere in aumento – l’anidride carbonica è in aumento, non c’è dubbio su questo “, ha aggiunto. La situazione di cui parla Lovelock è quella mostrata su questo grafico pubblicato il 12 aprile su Climate Monitor: Quello che alcuni fautori nostrani dell’AGW sembrano non voler vedere è infatti che la crescita della curva della CO2, linea azzurra, subisce un’impennata senza che la temperatura faccia altrettanto, e che quindi non è la stasi delle temperature degli ultimi anni a invalidare la teoria della causa antropica, ma la sua mancata correlazione con l’aumento della CO2, proprio come mostrato nella figura. Se infatti le cose fossero andate come previsto dai fautori dell’AGW adesso staremmo fronteggiando eventi naturali ben più vistosi, come quelli che lo stesso Lovelock prevedeva: …prima che questo secolo finisca miliardi di noi moriranno e le poche coppie riproduttive di persone che sopravvivono saranno nell’Artico dove il clima rimarrà tollerabile. Come è facile constatare, all’anziano scienziato è bastato fare una elementare considerazione per giungere alla conclusione che si è fatto dell’allarmismo: le previsioni non sono state rispettate, e quindi non è la CO2 a causare il riscaldamento della Terra. Ma questa sua presa di posizione certamente non piacerà a molti, e così il novantaduenne “Guru”, rischia di essere trasformato rapidamente da “Vecchio saggio” a “Vecchio rimbambito”… così va il mondo.
LE PALE EOLICHE. IL PROGRESSO IDEOLOGICO E LA DISTRUZIONE DI UNA CIVILTA’. L’ISIS COME LA SINISTRA.
Alla ricerca dell'Appia perduta: in Basilicata tra pale eoliche e nuovi Don Chisciotte. Li chiamano "Erection Manager" perché sanno erigere questi falli ad altezze paurose, scrive Paolo Rumiz su “La Repubblica”. Don Chisciotte era niente. La Mancha nemmeno. La lotta vera con i mulini a vento la fai in Basilicata, Italia, tra l'Ofanto e Melfi. Comincia con una strada misteriosamente chiusa al traffico; la Statale 303, di nuovo lei, ma ancora più sfasciata, e degradata a Provinciale. Non ci passa più nessuno, come se il tratturo antico se la fosse rimangiata. E noi la risaliamo in un silenzio ingannatore, tra finocchietto e ginestre, attirati dalla Medusa. Nessuno di noi sa che questa sarà la tappa più dura del viaggio. Il grano è pettinato al contrario, perché dopo Borea è arrivato lo Scirocco con tafani nervosi. Ed è un corpo a corpo, contro la salita, contro il vento, persino contro le pecore, che scendono a slavina verso il fiume.
"Di dove siete?", chiede il giovane pastore che le segue stravaccato in macchina. Non ha mai visto nessuno passare a piedi di là. Gli italiani non camminano nella pancia del loro Paese. "Siamo del Nord".
La sorpresa si tramuta in sbalordimento. "E dove andate? ".
"A Brindisi".
Ride, si sbraccia per salutarci e passa oltre, strombazzando dietro al gregge lanciato verso l'abbeverata in una scia di caccole. Ma già dal fiume sale un'autocisterna piena d'acqua, con un altro giovanotto al volante. Musica rock dal cruscotto, cicca accesa e portiera aperta per ventilare le ascelle. Anche lui non ha mai visto nessuno a piedi da queste parti.
"Ditemi un po', ma che fate? Passeggiate? Con sti zainetti 'ncoppa?".
"Andiamo da Roma a Brindisi ".
"A piedi?".
Noi in coro: "Certamente".
E lui: "Ma chi vi paga?".
Noi: "Storia lunga. Ma lei piuttosto, che fa?".
"Bagno la strada per i mezzi pesanti che arrivano. Tra poco cominciano a lavorare quelli delle pale".
Alziamo gli occhi verso la collina. La traccia dell'Appia, già divorata dai campi di grano e dagli orti, muore contro un gigantesco parco eolico. Sopra di noi quattro colonne mozze di torri in costruzione, targate Alfa Wind, immense già prima di essere finite. Roba di ottanta metri, senza contare le pale. Ed è solo l'inizio. Le alture e i boschi dove Federico II di Svevia andava a caccia sono talmente scorticati dall'industria del vento che anche il gomitolo della nostra strada ci sfugge di mano. ... Goethe, Viaggio in Italia, 1786: i Romani "lavoravano per l'eternità. Avevano calcolato tutto, tranne la follia dei devastatori, a cui nulla poteva resistere". Ed ecco i primi mostri, peseranno come 5- 6 carri armati ciascuno. Lenti, inesorabili, indifferenti alla nostra presenza, passano sull'ex 303 dissestandola definitivamente. Azienda "Ruotolo", "Fratelli Runco" da Cosenza. Giganteschi anche gli autisti. Sembrano i padroni. E invece no, i capi sono altri: mercenari alieni dalle mani di pianisti, giovani tecnici stranieri che lasciano la fatica agli italiani. Passano ragazzi spagnoli, col sorriso vagamente canzonatorio, abbronzati, in T shirt nere, su furgoni bianchi o land-rover. Il nome della ditta, "Moncobra", sembra rubato a un film di Tarantino. Poi gli irlandesi. Li chiamano "Erection manager", altro nome dell'altro mondo, perché sanno erigere questi falli ad altezze paurose. Poco oltre, un podere, con un contadino che suda attorno ai pomodori. Gli chiedo cosa pensa dei giganti intorno a lui, ma non risponde. Come se il mondo non lo riguardasse. Ma che fai, vorrei dirgli, non vedi che sei rimasti solo, che i vincenti sono loro? Non capisci che qui nessun politico verrà mai, e tantomeno a piedi, a vedere cosa sta succedendo quassù? Guarda cosa è accaduto a San Giorgio la Molara, sopra Benevento, diventata inaccessibile perché l'eolico gli ha devastato le strade. E guarda qui a due passi, in contrada San Nicola. Hanno espropriato terreni agricoli per fare una enorme centrale elettrica collegata alle pale, e l'hanno dichiarata "temporanea". Ma qui nulla è temporaneo. Qui si svende l'Italia. E ognuno sa che è "per sempre". Ancora torri immense. Di una è stato appena scavato il basamento, grande come mezzo stadio di calcio. Oltre, bulldozer sventrano altri campi da grano, e lo sterro lascia ai lati montagne di detriti che saranno spianati chissà quando. La morte della strada è certificata dai ruderi di una cantoniera: "Anas" c'era scritto, ma è rimasta solo la lettera "A", e tu ti chiedi perché in Italia non esiste il reato di incuria e abbandono del pubblico bene. Attorno, la dolcezza dei declivi, anziché consolarti, ti ara l'anima e ti fa schiumare di rabbia. Capisci di essere un vano ficcanaso, un moscerino impotente; se ne accorge anche l'ultimo degli operai. "Che fate?" ci chiedono da un cantiere. "Un film", rispondiamo. "E come si chiama?". "Appia antica". E loro giù a ridere. Dalla cima del colle, chiamato Torre della Cisterna, appare la Puglia sterminata a desertica. L'unica terra, forse, che le pale eoliche non riescono a schiacciare, ma paradossalmente sembrano mettere a misura. Sotto di noi, una superstrada e una ferrovia, con una traccia plausibile dell'Appia che passa sotto i piloni di entrambe. Ma è subito Far West, il corpo a corpo col filo spinato, poi con una recinzione abusiva, infine con un canneto, dal quale usciamo quasi nuotando, tenuti su dal fogliame, senza toccare il terreno, pieni di sete e graffiati da capo a piedi. Ma Riccardo, la nostra guida, ritrova il gomitolo e apre la strada, tranquillo. Sulla mappa Igm c'è scritto "strada provinciale di Leonessa", ma la strada è solo uno sterrato senza anima viva. Tracce di basolato sotto un dito di polvere. E noi avanti, tra i campi, fino a una valletta incantata piena di ginestre. Profumo da sballo. In cima, un ripetitore. E la vista magnifica sul castello di Melfi.
Le pale eoliche sono l'Isis, la Basilicata la nostra Palmira. In nome di un finto progresso il paesaggio di un'intera regione è stato sfregiato da impianti mostruosi. Regalando solo povertà, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Altroché elicotteri che spargono petali! Nulla può dare più dolore, a chi ama Roma e la sua storia, della distruzione, sul nostro corpo, sulla nostra memoria, sulla nostra anima, del tempio di Baal Shamin. E il fumo che si alza dalle rovine, un fungo che richiama i più tragici simboli della guerra, fino all'assurda violenza della bomba atomica, in un richiamo doloroso tanto più dove non c'è nessun nemico, ma solo pietre di un mondo perduto, è un'immagine intollerabile che mai vorrei vedere. E, dietro quel fumo, le teste decapitate dei martiri. Gli attentati criminali a Ninive, a Nimrud, a Hatra, in un crescendo di violenza e di terrore, sono macabri annunci che minacciano di non avere fine. Qualcuno può consolarsi pensando che in Italia non potrebbe accadere. E invece accade, in un silenzio ancora più tombale dell'indifferenza per i morti e le rovine di Palmira, di chi si indigna per il carro funebre di Totò. L'Isis è a casa nostra e, per di più, con la presa in giro della tutela dei beni culturali, del territorio, del paesaggio, dell'ambiente. Ecco, negli anni Settanta l'ideologia pseudo marxista aveva innalzato la bandiera dell'ambientalismo, trasformando anche parole e concetti; e contrabbandando il paesaggio in territorio e le belle arti in beni culturali. Sono stato io, al ministero, a ripristinare la terminologia «belle arti» e «paesaggio». Ma era ormai troppo tardi. Orrori non a Palmira ma nel centro storico di Roma venivano imposti da sindaci e ministri, dopo preventiva distruzione del passato: penso alla teca di Richard Meier, all'Ara Pacis; penso allo sconvolgimento di Piazza San Cosimato; penso alla cancellazione di Bernini da Piazza Montecitorio. Tutto questo è accaduto con il consenso delle autorità. Fino allo sconvolgente allestimento su un trampolino da piscina del Marco Aurelio, sottratto alla piazza del Campidoglio. Ovunque sono cresciuti orrori: a Firenze il Palazzo di Giustizia, a Venezia il cubo di Santa Chiara. Oggi, mentre i colleghi dell'Isis distruggono indisturbati, indisturbati lavorano i costruttori di casa nostra. Ma non bastava sconvolgere il volto del territorio con edifici innominabili. Occorreva proprio intervenire capillarmente sul paesaggio. Ed ecco allora che, prima il Molise e la Puglia, e ora la Basilicata, sono state cancellate; nella prospettiva di Matera capitale europea della cultura, la strada per raggiungere quella città è stata puntellata di pale eoliche, con una accelerazione tipica di chi teme di perdere il vantaggio che norme della incivile Europa hanno concesso a speculatori e facilitatori. Superata Benevento, martoriata da rotatorie decorate con immagini di Padre Pio lanciato verso il cielo, si iniziano a vedere centinaia e centinaia di croci, in disordine, rarefatte o affollate. Sono pale che non girano, ferme, piantate su tutti i colli a perdita d'occhio. Da Grottaminarda a Flumeri, a Frigento, a Gesualdo, a Buonabitacolo, ad Accadia, a Sant'Agata, a Lacedonia, a Candela, a Palazzo San Gervasio, a Spinazzola, a Genzano di Lucania, ad Ascoli Satriano, a Canosa, a Troia, a Foggia. Via via, come alberi di una foresta meccanica, con l'ironia di chiamarne la insensata proliferazione senza ordine né logica, che non sia la cupidigia, di permesso in permesso, di amministrazioni comunali, regionali, intrinsecamente mafiose, in una stabile trattativa con uno Stato criminale, parchi eolici. Ed è inutile richiamare quello Stato e quell'Antimafia, che si agitano per la colonna sonora del Padrino o per un comico manifesto, al rispetto dell'art. 9 della Costituzione, scritto per garantire un mondo perduto, all'opposto di quello che vediamo. E quando vandali su vandali bruciano i boschi, eccoli non trovare più alberi, ma incendiare pale, il cui fusto è nero. E nero resterà fino a quando una mano pietosa tenterà di svellere quei giganteschi chiodi che hanno crocifisso i colli, stuprandoli e riempiendoli di cemento armato fino al midollo. Intorno la vegetazione è scomparsa, gli uccelli volano altrove, ma i nostri occhi contemplano l'orrore dove fino a qualche anno fa c'era la curva di dolci colline. E qualcuno avrà detto: «Ma non sono luoghi importanti, non ci sono monumenti significativi» (e non è vero). Una ragione in più per lasciare integro un paesaggio e conservargli la bellezza del suo essere remoto, lontano, una meraviglia da scoprire. Nessun paesaggio è meno importante di un altro, in Italia. E sembra assai singolare che le stesse autorità che hanno assistito imprudenti e complici, magari magnificando l'energia pulita, a danno di una purissima bellezza, siano oggi, con le stesse espressioni, a celebrare la romantica difesa di paesi abbandonati, di borghi dimenticati, in alcune giornate disperatamente dedicate alla memoria di un uomo giusto che oggi sarebbe furibondo e che non aveva previsto, tra i vari aspetti positivi un riscatto del meridione e della Basilicata attraverso la cultura. Mi riferisco a Carlo Levi e al Festival della Luna e i Calanchi ad Aliano, dove Levi fu al confino. L'organizzatore Franco Arminio pensa agli antichi forni, alle tradizioni, ai canti, alla lingua, in un riscatto di ciò che il progresso ha cancellato nel disprezzo per la povertà. Ed è bellissimo sulla carta. Ma le colline sono perdute. Arminio coltiva la «paesologia». Ed è forse troppo tardi. Così come Carmen Pellegrino inventaria paesi abbandonati (e forse per questo salvati), autodeterminandosi come «abbandonologa». Ma niente è meno abbandonato di ciò che vive dentro noi, e che i barbari minacciano e distruggono, come l'Isis ha fatto con il tempio di Baal Shamin. E mentre noi ci difendiamo in trincea, ad Aliano, ovunque sono disseminate mine e lanciate bombe, esattamente come a Palmira con le mostruose pale eoliche e gli immondi pannelli fotovoltaici. Vorremmo cominciare veramente una lotta contro la mafia e il potere che la sostiene invece che declinarla in prediche, appelli, e luoghi comuni. Qui, i luoghi e la bellezza comune, risparmiati per secoli, si sono sottratti. Un paesaggio perduto è come un tempio distrutto. E non ho mai visto difendere questi paesaggi sfregiati quelle autorità sconcertate contro i simboli, e pronte a dichiarare e a scrivere la loro indignazione per i carri funebri trainati dai cavalli convocati dalla mafia. I simboli di mafia, cari Saviano, don Ciotti, Boldrini, Alfano, sono queste violentissime ferite al paesaggio (non petali di rose) che voi vi ostinate a non vedere, e che rappresentano la più terribile testimonianza del patto Stato-mafia degli ultimi 10 anni. Franco Arminio si rifugia nel paese di Carlo Levi, e le massime autorità dello Stato applaudono. Sordi, ciechi, muti.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
L’INQUINAMENTO ATMOSFERICO UCCIDE, MA SI MUORE ANCHE DI RUMORE…
Inquinamento atmosferico e acustico, scrive Tina Ohliger sul sito del Parlamento Europeo. L'inquinamento atmosferico reca danno alla nostra salute e all'ambiente. Benché le sue fonti siano numerose, esso è causato principalmente dal settore industriale, dei trasporti, della produzione energetica e da quello agricolo. Una nuova strategia dell'UE in materia di qualità dell'aria mira a garantire il pieno rispetto della normativa in vigore sulla qualità dell'aria entro il 2020 e stabilisce nuovi obiettivi a lungo termine per il 2030. Inoltre, l'aumento del traffico e delle attività industriali è una causa frequente di inquinamento acustico, che può anche avere un effetto negativo sulla salute umana. La direttiva sul rumore ambientale contribuisce a determinare i livelli di rumore all'interno dell'UE e ad adottare le misure necessarie per far sì che siano accettabili. Una normativa distinta disciplina le emissioni acustiche derivanti da fonti specifiche.
Base giuridica. Articoli da 191 a 193 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE).
Contesto generale. L'inquinamento atmosferico è nocivo per la nostra salute e l'ambiente in cui viviamo. Esso può provocare non solo malattie cardiovascolari e respiratorie, ma anche il cancro, e costituisce la principale causa di morte prematura nell'UE legata all'ambiente. Alcune sostanze, come arsenico, cadmio, nichel e idrocarburi policiclici aromatici, sono agenti cancerogeni genotossici per l'uomo e non esiste una soglia identificabile al di sotto della quale queste sostanze non comportano un rischio. L'inquinamento atmosferico ha inoltre effetti negativi sulla qualità dell'acqua e del suolo, oltre a danneggiare gli ecosistemi per mezzo dell'eutrofizzazione (eccessivo inquinamento da azoto) e delle piogge acide. Da questo fenomeno sono pertanto interessati il settore agricolo, le foreste, i materiali e gli edifici. Benché le fonti di tale tipologia di inquinamento siano diverse, esso è causato principalmente dal settore industriale, dei trasporti, della produzione energetica e da quello agricolo. Sebbene negli ultimi decenni l'inquinamento atmosferico in Europa sia diminuito in termini generali, l'obiettivo dell'Unione nel lungo termine, vale a dire «livelli di qualità dell'aria che non comportino impatti negativi significativi per la salute umana e per l'ambiente», è tuttora a rischio. Soprattutto nelle aree urbane («punti caldi»), dove vive la maggior parte degli europei, le norme di qualità dell'aria vengono spesso violate, il che può provocare gravi problemi per la salute. Gli agenti inquinanti più problematici nella fase attuale sono le polveri sottili e l'ozono (troposferico) a livello del suolo. I livelli di inquinamento acustico sono in crescita nelle aree urbane, principalmente a causa dell'aumento del traffico e delle attività industriali e ricreative. Secondo le stime, quasi il 20% della popolazione dell'Unione europea è vittima di livelli di inquinamento acustico considerati inaccettabili. Tale forma di inquinamento può incidere sulla qualità della vita e può portare a livelli significativi di stress, disturbi del sonno e a ripercussioni negative per la salute, come problemi cardiovascolari. Il rumore ha inoltre un impatto sulla fauna selvatica.
Risultati nell'ambito della lotta all'inquinamento atmosferico. In Europa, la qualità dell'aria è migliorata considerevolmente da quando l'UE ha iniziato, negli anni '70 del secolo scorso, a contrastare tale problematica. Da allora, sostanze quali anidride solforosa (SO2), monossido di carbonio (CO), benzene (C6H6) e piombo (Pb) sono diminuite in maniera notevole. L'UE dispone di tre diversi meccanismi giuridici per affrontare l'inquinamento atmosferico: la definizione di norme generali di qualità dell'aria per quanto concerne la concentrazione degli inquinanti atmosferici nell'ambiente; la definizione di limiti (nazionali) per le emissioni complessive di agenti inquinanti; l'elaborazione di una normativa specifica in base alla fonte, controllando, per esempio, le emissioni industriali o stabilendo norme in materia di emissioni dei veicoli, efficienza energetica o qualità dei carburanti. Integrano la normativa summenzionata strategie e misure volte a promuovere la tutela dell'ambiente e la relativa integrazione nel settore dei trasporti e in quello energetico.
A. Qualità dell'aria ambiente. Sulla base degli obiettivi della strategia tematica sull'inquinamento atmosferico del 2005, (vale a dire ridurre la concentrazione di particelle sottili, PM2.5, del 75% e quella di ozono troposferico, O3, del 60%, nonché ridurre del 55%, sempre entro il 2020 rispetto ai livelli del 2000, l'acidificazione e l'eutrofizzazione, che rappresentano una minaccia per l'ambiente), è stata adottata, nel giugno 2008, una revisione della direttiva relativa alla qualità dell'aria ambiente, la quale incorpora gran parte della legislazione in materia. Soltanto la quarta «direttiva derivata» (2004/107/CE) dalla precedente direttiva quadro sulla qualità dell'aria è attualmente ancora in vigore. Essa fissa valori obiettivo (meno rigidi di quelli limite) per arsenico, cadmio, nichel e idrocarburi policiclici aromatici. La direttiva 2008/50/CE relativa alla qualità dell'aria ambiente si prefigge di ridurre l'inquinamento atmosferico a livelli tali che limitino al minimo gli effetti nocivi per la salute umana o per l'ambiente. A tale fine essa istituisce misure volte a definire e stabilire obiettivi di qualità dell'aria ambiente (ossia limiti che non devono essere superati in alcun luogo dell'UE) in relazione ai principali inquinanti atmosferici (anidride solforosa, biossido di azoto, ossidi di azoto, materiale particolato, piombo, benzene, monossido di carbonio e ozono). Gli Stati membri sono tenuti a definire zone e agglomerati per valutare e gestire la qualità dell'aria ambiente, monitorare le tendenze a lungo termine e garantire che le informazioni sulla qualità dell'aria ambiente siano messe a disposizione del pubblico. Le misure sono inoltre intese a mantenere la qualità dell'aria ambiente, laddove sia buona, mentre, laddove si superino i valori limite, è necessario adottare dei provvedimenti. La direttiva introduce per la prima volta un obiettivo di qualità dell'aria ambiente per il PM 2.5. La direttiva 2001/81/CE relativa ai limiti nazionali di emissione di alcuni inquinanti atmosferici stabilisce limiti nazionali di emissione per quattro inquinanti atmosferici (SO22, NOx, COV e ammoniaca (NH3)), i principali responsabili dell'acidificazione, dell'ozono a livello del suolo e dell'eutrofizzazione del suolo, nell'ottica di ridurne gli effetti nocivi, fissando come termini di riferimento gli anni 2010 e 2020. A norma della direttiva in parola, gli Stati membri sono tenuti a comunicare annualmente informazioni concernenti le emissioni e le proiezioni per tutti gli inquinanti in questione e a elaborare programmi per la progressiva riduzione delle emissioni nazionali degli inquinanti al fine di conformarsi ai singoli limiti nazionali di emissione. Gli Stati membri avrebbero dovuto conformarsi ai limiti stabiliti entro il 2010; tuttavia, almeno un limite non è stato rispettato da diversi Stati, talvolta nell'arco di numerosi anni. Gli obiettivi a lungo termine della direttiva consistono nel non superamento dei carichi e dei livelli critici nonché nell'efficace tutela dei cittadini dai rischi accertati dell'inquinamento atmosferico per la salute. Nell'ambito del nuovo pacchetto «aria pulita» viene proposta una revisione. Alla fine del 2013, la Commissione ha proposto un nuovo pacchetto di provvedimenti per un'aria pulita, che presenta due obiettivi principali, vale a dire il rispetto della normativa vigente fino al 2020 e la riduzione degli impatti a lungo termine dell'inquinamento atmosferico. Il pacchetto comprende un nuovo programma «Aria pulita per l'Europa» che descrive la problematica nonché le misure strategiche necessarie per conseguire i nuovi obiettivi intermedi volti a ridurre l'impatto sulla salute e sull'ambiente fino al 2030. Esso propone la revisione della direttiva NEC, con l'aggiornamento dei limiti nazionali per il 2020 e il 2030 relativamente ai quattro inquinanti attualmente disciplinati, come pure ad altri due, ovvero le particelle sottili e il metano (CH4). Il pacchetto comprende inoltre una proposta di nuova direttiva relativa alla limitazione delle emissioni nell'atmosfera di taluni inquinanti originati da impianti di combustione medi (in aggiunta ai grandi impianti di combustione che sono già disciplinati) e una proposta di ratifica della versione modificata del protocollo di Göteborg alla Convenzione della Commissione economica per l'Europa delle Nazioni Unite (UNECE) sull'inquinamento atmosferico a grande distanza per diminuire l'acidificazione, l'eutrofizzazione e l'ozono a livello del suolo.
B. Trasporti su strada. Numerose direttive sono state adottate per limitare l'inquinamento causato dal settore dei trasporti, fissando norme di emissione per diverse categorie di veicoli, come ad esempio automobili, veicoli commerciali leggeri, autocarri, autobus e motocicli, nonché disciplinando la qualità del carburante e il relativo tenore di zolfo e piombo. La norma di emissione attualmente in vigore per le autovetture e i furgoni leggeri è Euro V. Essa fissa limiti di emissione per una serie di inquinanti atmosferici, in particolare gli ossidi di azoto (NOx) e il particolato (PM). Gli Stati membri sono tenuti a negare l'omologazione, l'immatricolazione, la vendita e l'introduzione di veicoli (e dei relativi dispositivi di controllo dell'inquinamento di ricambio) che non rispettano i limiti in questione. Euro VI, che dovrebbe entrare in vigore nel settembre 2014 e applicarsi all'omologazione di tutti i nuovi modelli di autoveicoli e, l'anno successivo, all'immatricolazione e alla vendita di tutte le nuove auto e i nuovi furgoni leggeri, stabilisce limiti di emissione ancora più bassi, soprattutto per quanto concerne le emissioni di NOx (per i veicoli commerciali leggeri e le automobili per esigenze particolari tutti i termini sono prorogati di un anno). In detta norma è compresa una clausola di revisione per il ciclo di guida e la procedura di prova al fine di garantire che le prove vengano effettuate in condizioni di guida reali. Il regolamento (CE) n. 715/2007 fissa inoltre norme sulla conformità in servizio, la durata dei dispositivi di controllo dell'inquinamento, i sistemi diagnostici di bordo (OBD), la misurazione del consumo di carburante e disciplina l'accessibilità delle informazioni per la riparazione e la manutenzione del veicolo per gli operatori indipendenti. Lo stesso vale per il regolamento (CE) n.595/2009, che fissa valori limite di emissione per i veicoli pesanti (autobus e camion). La norma d'emissione attualmente in vigore è Euro VI. Al fine di ridurre ulteriormente l'inquinamento provocato dalle emissioni degli autoveicoli, l'UE ha introdotto un divieto di commercializzazione della benzina contenente piombo, nonché l'obbligo di rendere disponibili carburanti senza zolfo all'interno dell'Unione. La direttiva 2009/33/CE relativa alla promozione di veicoli puliti e a basso consumo energetico nel trasporto su strada impone alle amministrazioni aggiudicatrici di tener conto dell'impatto energetico e dell'impatto ambientale nell'arco di tutta la vita, tra cui il consumo energetico e le emissioni di CO2 e di talune sostanze inquinanti, al momento dell'acquisto di veicoli adibiti al trasporto su strada, al fine di promuovere e stimolare il mercato dei veicoli puliti e a basso consumo energetico.
C. Altre emissioni provenienti dal settore dei trasporti. Ulteriori norme di emissione sono state fissate per le macchine mobili non stradali, ad esempio scavatrici, bulldozer e motoseghe, per i trattori agricoli e forestali o per le imbarcazioni da diporto. La direttiva 1999/32/CE disciplina le emissioni di zolfo derivanti dai trasporti marittimi attraverso la definizione di un tenore massimo di zolfo consentito nei combustibili utilizzati nel trasporto marittimo. È stata poi modificata dalla direttiva 2005/33/CE, che ha designato il Mar Baltico, il Canale della Manica e il Mare del Nord come «zone di controllo delle emissioni di zolfo» (SECA), in cui è consentito un tenore di zolfo pari all'1,5 % in massa. La stessa norma si applica alle navi passeggeri in servizio regolare fuori delle SECA. Un'ulteriore direttiva di modifica (direttiva 2012/33/UE) allinea gli standard dell'Unione alle disposizioni dell'Organizzazione marittima internazionale (IMO) e della Convenzione internazionale per la prevenzione dell'inquinamento causato da navi (MARPOL), oltre a introdurre una norma relativa al tenore dello 0,5% del combustibile entro il 2020, indipendentemente da un eventuale rinvio da parte dell'IMO. Nell'allegato VI della Convenzione, sono fissati limiti di emissione per l'anidride solforosa (SOx), gli ossidi di azoto (NOx), le sostanze che riducono lo strato di ozono (O3) e i composti organici volatili (COV) provenienti dalle navi cisterna.
D. Emissioni causate dall'industria. La nuova direttiva sulle emissioni industriali (IED, direttiva 2010/75/UE) disciplina le attività industriali altamente inquinanti, attività che rappresentano una quota rilevante dell'inquinamento in Europa. Adottata nel novembre del 2010, essa consolida e fonde tutte le direttive del caso (in materia di incenerimento dei rifiuti, COV, grandi impianti di combustione, prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento, ecc.) in un coerente strumento legislativo che si prefigge di agevolarne l'attuazione e di ridurre al minimo l'inquinamento derivante da varie fonti industriali. La direttiva stabilisce gli obblighi che tutti gli impianti industriali devono rispettare, contiene un elenco di misure per la prevenzione dell'inquinamento delle acque, dell'aria e del suolo e funge da base per il rilascio di licenze o autorizzazioni agli impianti industriali. Applicando un approccio integrato, essa tiene conto delle prestazioni ambientali complessive di un impianto, tra cui l'utilizzo di materie prime o l'efficienza energetica. Il concetto di «migliori tecniche disponibili» (BAT) svolge un ruolo centrale e lo stesso vale per la flessibilità, le ispezioni ambientali e la partecipazione del pubblico.
Risultati nell'ambito della lotta all'inquinamento acustico.
Rumore ambientale: la direttiva quadro relativa alla determinazione e alla gestione del rumore ambientale (direttiva 2002/49/CE) mira a ridurre l'esposizione a questo tipo di rumore armonizzando i descrittori acustici e i metodi di valutazione, raccogliendo informazioni sull'esposizione al rumore sotto forma di «mappe acustiche» e rendendo tali informazioni disponibili al pubblico. Sulla base di quanto precede, agli Stati membri è imposto di definire piani di azione per affrontare i problemi relativi all'inquinamento acustico. Occorre procedere a un riesame delle mappe acustiche e dei piani d'azione almeno ogni cinque anni.
Traffico stradale: le direttive 70/157/CEE e 97/24/CE (che saranno sostituite nel 2016 con nuove regolamentazioni) stabiliscono i limiti relativi ai livelli ammissibili del rumore emesso dai veicoli a motore, dai ciclomotori e dai motocicli. Nell'aprile del 2014 si è adottata una nuova regolamentazione sul livello sonoro dei veicoli a motore che introduce un nuovo metodo di prova per la misurazione delle emissioni sonore, diminuisce i valori limite di rumore attualmente in vigore e racchiude disposizioni aggiuntive sulle emissioni sonore in sede di procedura di omologazione. Essa si applicherà a partire dall'aprile del 2016. A integrazione di ciò, la direttiva 2001/43/CE sancisce la verifica e l'imposizione di limiti sul livello di rumore causato dal rotolamento dei pneumatici e la sua graduale riduzione.
Traffico aereo: nel 1992 è stata limitata l'utilizzazione di aerei subsonici civili a reazione in linea con le norme stabilite dall'Organizzazione internazionale dell'aviazione civile (ICAO). Ciò ha comportato di fatto il divieto dagli aeroporti europei dei velivoli più rumorosi (direttiva 92/14/CEE, abrogata dalla direttiva 2006/93/CE). La direttiva 2002/30/CE (attualmente in fase di revisione) stabilisce norme e procedure per l'introduzione di restrizioni operative ai fini del contenimento del rumore negli aeroporti dell'Unione, sulla base «dell'approccio equilibrato» raccomandato dall'ICAO (rendere gli aerei meno rumorosi attraverso la definizione di norme relative alla rumorosità; gestire in maniera sostenibile il territorio circostante gli aeroporti; adeguare le procedure operative al fine di ridurre l'impatto acustico a terra e, se del caso, introdurre limitazioni operative).
Traffico ferroviario: nel contesto della direttiva relativa all'interoperabilità ferroviaria, una specifica tecnica di interoperabilità (STI) fissa i livelli massimi di rumore prodotto dai nuovi veicoli ferroviari (convenzionali). Nel 2013 la Commissione ha avviato una consultazione pubblica su «un'effettiva diminuzione del rumore prodotto dai carri merci in seno all'Unione europea» in vista di eventuali misure di follow-up.
Altre fonti di rumore: i grandi impianti industriali e agricoli, contemplati dalla direttiva sulle emissioni industriali, possono ottenere autorizzazioni in funzione dell'applicazione delle migliori tecniche disponibili (BAT) come riferimento. Esiste inoltre una regolamentazione relativa all'inquinamento acustico prodotto dai cantieri edili (per esempio da scavatrici, pale caricatrici, macchine per movimento terra e gru a torre), dalle imbarcazioni da diporto o dalle attrezzature destinate a funzionare all'aperto.
Ruolo del Parlamento europeo. Il Parlamento europeo ha svolto un ruolo decisivo nell'elaborazione di una politica ambientale progressiva di lotta contro l'inquinamento atmosferico e acustico. Prendendo atto del fatto che ogni anno 50 000 persone muoiono prematuramente a causa dell'inquinamento atmosferico provocato dalle navi, i deputati al Parlamento europeo hanno votato in favore di una drastica diminuzione del nocivo tenore di zolfo dei carburanti marittimi. Ai sensi delle nuove norme adottate nel 2012 dal Parlamento, il limite generale di zolfo per i carburanti nei mari europei verrebbe ridotto dal 3,5% allo 0,5% entro il 2020. I deputati si sono battuti con successo contro i tentativi di prorogare tale termine di cinque anni. Su richiesta del PE, la legislazione adottata chiede inoltre alla Commissione di valutare la possibilità di estendere i più rigorosi limiti SECA a tutte le acque territoriali dell'Unione. Quanto all'inquinamento acustico, il Parlamento ha ripetutamente sottolineato la necessità di abbassare ulteriormente i valori soglia e di introdurre procedure di rilevamento ottimizzate in relazione al rumore ambientale. Esso ha caldeggiato la definizione di valori a livello di UE per l'inquinamento acustico nelle aree in prossimità degli aeroporti (tra cui anche l'eventuale divieto di volo in orario notturno), nonché l'estensione delle misure per la riduzione dell'inquinamento acustico agli aerei subsonici militari. Il Parlamento ha altresì approvato l'introduzione graduale di nuovi limiti acustici per le automobili al fine di ridurre il limite dagli attuali 74 decibel (db) a 68 db. I deputati hanno inoltre condotto una campagna di successo per introdurre etichette che informino i consumatori sui livelli acustici, analogamente a quanto avvenuto per i regimi esistenti in materia di rendimento del carburante, la rumorosità dei pneumatici e le emissioni di CO2.
Rumori quotidiani? Ecco quelli che fanno male alla salute. Dal rumore della pioggia, al talk show a voce alta, al rumore del traffico fino all'aspirapolvere in casa: ecco i danni alla salute dei rumori quotidiani più banali, scrive “Stai Bene”. Il clacson delle auto, la sirena dell’ambulanza, il cane che abbaia, ma anche le chiacchiere dei colleghi. Il rumore è, di fatto, una presenza costante nelle nostre giornate con cui bisogna imparare a convivere; tuttavia è importante sapere che i rumori possono avere effetti enormi non solo sulla qualità delle nostre giornate, ma anche sulla salute. Il 61% degli europei che vivono in aree metropolitane soffre per l’inquinamento acustico e l´invasione di decibel (l’unità di misura con cui viene misurata l’intensità del suono) nelle loro case e il 32% si sente molto o estremamente infastidito. Gli effetti dei rumori sulla salute si verificano però in maniera “silenziosa”. Come? Con problemi di vista, difficoltà di respirazione e sonno disturbato. Non solo. Secondo un rapporto dell´Organizzazione mondiale della sanità, migliaia di persone nel mondo si ammalano o muoiono di attacchi cardiaci provocati proprio dalla prolungata esposizione al rumore metropolitano. L’Oms con il progetto “Noise Environmental Burden on Diseas”, iniziato nel 2003, rivela che, oltre alla relazione tra il rumore metropolitano e le malattie cardiache, il 2% dei cittadini europei soffre di seri disturbi del sonno a causa del caos e il 15% di grave irritabilità. L'Unione europea ha emanato una direttiva che obbliga le città con più di 250 mila abitanti a produrre mappe digitali del rumore, che indichino le zone urbane dove il traffico è maggiore.
Traffico, aspirapolvere, tv: i decibel nocivi. Ciascuno di noi ha un personale definizione di rumore. Da un punto di vista più scientifico, sono due gli elementi che concorrono a rendere un rumore pericoloso per la salute: l’intensità (che viene misurata in decibel) e la durata. Vediamo quali sono i danni che i rumori possono provocare alle persone:
fino a 40 dB l’organismo non ne risente;
da 40 a 60 dB si possono aver le prime reazioni di fastidio;
tra 60 e 80 dB, aumenta la sensazione di stress e malessere, con segni fisici come tachicardia e colite;
tra 80 e 120, possono comparire nausea, capogiri ed emicrania;
tra 120 e 180, ci sono danni all’udito e dolore.
Secondo le linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità, il rumore durante la notte non dovrebbe superare i 50 decibel per evitare problemi cardiovascolari; per non soffrire di disturbi del sonno dovrebbe essere sotto i 42 decibel; per non sentirsi irritati o tesi sotto i 35 decibel (il suono di un sussurro).
Facciamo qualche esempio:
Il battito di ali di una farfalla: 5 dB.
Una conversazione con tono di voce normale: 30 dB.
Il rumore della pioggia: 50 dB.
Una conversazione animata (oppure tv o radio a volume alto): 60 dB.
L’aspirapolvere: 85 dB.
Il rumore che si rileva in una strada mediamente trafficata: 90 dB.
Se combinate questa casistica rumorosa con la scala del fastidio di rumore pubblicata più in alto, scoprite per esempio che quando piove, il rumore della pioggia è già causa di irritabilità, un tal show in cui i presenti litigano danno stress, tachicardia e colite, il rumore del traffico quando siete fuori casa, o della banale aspirapolvere quando siete a casa portano nausea, capogiri ed emicrania.
Come difendersi dal rumore al lavoro e in casa. Se difendersi totalmente dal rumore è impossibile, si può cercare almeno di limitare i danni da inquinamento acustico. Ecco come.
Al lavoro – I macchinari e le attrezzature presenti nell’ambiente di lavoro non dovrebbero produrre un rumore superiore a 85 decibel. La soluzione ottimale consisterebbe nell’avere macchinari poco rumorosi o altrimenti schermarli. Quando però questo non è possibile, deve essere ridotto il tempo di esposizione al rumore e vanno indossate apposite protezioni: tappi e cuffie fonoassorbenti. Coloro che, per motivi di lavoro, sono esposti a un ambiente rumoroso dovrebbero sottoporsi con regolarità a un esame audiometrico.
In casa – Se nell’ambiente di lavoro non possiamo agire personalmente sulla riduzione del rumore, dobbiamo cercar di farlo almeno tra le pareti domestiche, agendo sulle fonti che producono rumore. Anzitutto dobbiamo cercare di abbassare il volume di radio, televisione, hi-fi. Quindi dovremmo tenere chiusa la porta della stanza in cui funzionano lavastoviglie o lavatrice. Un altro modo per diminuire il rumore consiste nel fare ricorso a pannelli fonoassorbenti. Si possono utilizzare pareti doppie, separate tra loro da un’intercapedine riempita di lana di vetro, oppure ricorrere alle finestre con doppi vetri.
Inquinamento acustico, l'Italia è troppo rumorosa. Nel 2012 il 42,6% delle sorgenti di rumore oggetto di controllo ha superato almento una volta il limite normativo, scrive “La Repubblica”. Chi abita nei pressi di Malpensa o Ciampino, lo sa bene. L'Italia è un paese rumoroso, dove l'inquinamento acustico rappresenta ormai uno dei maggiori problemi ambientali. Lo rileva l'Annuario dei dati ambientali dell'Ispra, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, secondo il quale il 42,6% delle sorgenti di rumore oggetto di controllo, nel 2012, ha presentato almeno un superamento dei limiti normativi. I controlli, rileva lo studio, sono stati più diffusi per quanto riguarda le attività di servizio e commerciali (il 57,7%) seguite dalle attività produttive (31,5%). Una delle possibili risposte a questo problema sempre più sentito è la classificazione acustica, che deve essere approvata dai comuni: ma al 31 dicembre 2012 esisteva solo nel 51% dei centri abitati italiani. Le regioni con la percentuale di comuni zonizzati più elevata rimangono Marche e Toscana (97%), Valle d'Aosta (sale al 96%), Liguria (84%), Lombardia (sale all'83%), mentre quelle che registrano percentuali inferiori al 10% sono Abruzzo (7%), Sardegna (3%) e Sicilia (1%). La percentuale di popolazione residente in comuni che hanno approvato la classificazione acustica è pari al 56,5%, con forte disomogeneità sul territorio nazionale. Il rumore rappresenta il fattore di disturbo più segnalato dalla popolazione che risiede nelle vicinanze degli aeroporti, spesso localizzati in prossimità delle aree urbane. In particolare l'aeroporto "G. B. Pastine" di Ciampino, compreso nel territorio di Roma, Ciampino e Marino, secondo aeroporto del Lazio per movimentazione aerea. Dal 2008, anche a seguito del significativo incremento del numero di voli dovuto allo sviluppo delle compagnie "low cost", l'Arpa Lazio ha installato una propria rete di stazioni di misura. Il monitoraggio acustico effettuato nel 2012 ha consentito di riscontrare livelli annuali di Lva (Livello di Valutazione del rumore Aeroportuale) superiori ai limiti in due postazioni di misura e livelli medi di LAeq (Livello equivalente) superiori ai limiti in altre due postazioni, in particolare presso due edifici scolastici sono stati riscontrati livelli superiori a 10 dB(A) del limite diurno relativo alla Classe I (50 dB(A)). All'inquinamento acustico si aggiunge poi l'inquinamento elettromagnetico: in Italia, nel 2012, erano presenti 6.094 impianti Srb (Stazioni radio base) e 11.382 impianti Rtv (Radiotelevisivi). Tra il 2011 e il 2012 si è registrato un aumento degli impianti Srb e della relativa potenza complessiva, pari rispettivamente al 10% e al 42%. I casi di superamento dei limiti di legge riguardo gli impianti Radiotelevisivi (pari a 608) sono circa 7 volte superiori a quelli relativi agli impianti Srb (Stazione Radio Base), pari a 88.
Il rumore che avvelena l'Italia, scrive “La Repubblica”. Diecimila vittime l'anno in Europa a cui vanno aggiunti casi crescenti di malattie cardiache, insonnia e problemi cognitivi per i bambini. Meno conosciuto di quello atmosferico, l'inquinamento acustico ci costa ogni anno un pesante tributo in termine di salute. Le leggi per tenere i decibel sotto controllo ci sarebbero, ma sono ampiamente disattese. Come dimostrano i casi dei quartieri attraversati dalle autostrade, di quelli a ridosso degli aeroporti e il nostro viaggio nel centro di Roma muniti di un fonometro.
Ogni anno 10mila vittime in Europa, scrive Antonio Cianciullo. A Torino è finita in tribunale la battaglia tra i cittadini di piazza Vittorio e della Gran Madre e 11 gestori di locali notturni dei Murazzi accusati di disturbo della quiete pubblica e apertura abusiva. A Roma in buona parte del centro è ormai guerra permanente tra la specie invasiva dei pub e quella in ritirata degli artigiani, con la responsabile del Comitato Vivere Trastevere, Dina Nascetti, che denuncia 80 decibel in piena notte, un frastuono vietato anche attorno alle fabbriche. Il conflitto - reso cronico dall'assalto dilagante delle birrerie con sbornia inclusa nei tour organizzati - è destinato a riaccendersi in molte città con l'avvicinarsi dell'estate e delle multe europee per il mancato rispetto delle direttive sull'inquinamento acustico. "La procedura contro l'Italia per il rumore è stata aperta formalmente: in assenza di correzione di rotta le sanzioni arriveranno nel giro di un anno", ricorda Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente. "Purtroppo questo è un problema troppo spesso trascurato. Le norme ci sono, e anche molto precise, ma i risultati pratici sono vicini allo zero". E in futuro andrà anche peggio perché i limiti sono destinati a diventare più severi. Nel febbraio 2013 il Parlamento europeo ha approvato un progetto di legge per abbassare il tetto di decibel per le automobili da 74 a 68 decibel e per i mezzi pesanti da 81 a 79 decibel. Le indagini sulle conseguenze dell'overdose di decibel danno infatti risultati sempre più inquietanti. Secondo l'ultimo rapporto dell'Agenzia Europea per l'Ambiente, Noise in Europe 2014, quasi il 20% della popolazione dell'Unione europea (oltre 125 milioni di persone) è sottoposto a livelli di inquinamento sonoro inaccettabili. Questa esposizione - calcola lo studio - contribuisce ogni anno nella Ue alla morte di 10mila persone, a oltre 900mila casi di ipertensione e a 43mila ricoveri ospedalieri per ictus e malattie coronariche. I danni si manifestano anche nel disturbo del sonno di 8 milioni di persone. "Dobbiamo proteggere soprattutto gli ambienti più a rischio e i momenti della giornata più esposti: il livello raccomandato dall'Organizzazione mondiale per la salute è di 30 decibel nella stanza da letto durante la notte e 35 decibel nelle classi scolastiche", ricorda Roberto Bertollini, direttore di ricerca dell'ufficio europeo dell'Oms. "La mancanza di un sonno adeguato può determinare infatti pressione alta e malattie cardiovascolari. Si calcola che nell'Unione europea a causa dell'eccesso di rumore si perdano 61mila anni di buona qualità della vita per malattie ischemiche del cuore, 45mila anni per disturbi cognitivi nei bambini, 903mila anni per disturbi del sonno. Sommando anche gli altri effetti si arriva a un totale di 1,6 milioni di anni di vita di buona qualità persi". "Per ogni decibel oltre i limiti raccomandati dall'Oms (55 diurni e 45 notturni) aumentano del 5% gli interventi di pronto soccorso per problemi cardiaci", aggiunge l'avvocato Lluis Gallardo. "Per fortuna in Spagna la magistratura comincia a muoversi: i casi più eclatanti sono stati quelli del ristorante El Portet, con la condanna a 4 anni di detenzione, del bar Macumba, anche in questo caso 4 anni, e del pub Donegal, che finora ha avuto la pena maggiore: 5 anni e 6 mesi di carcere". Anche in Italia sono arrivate le prime sentenze in materia. Nel 2011, ad esempio, la Cassazione ha convalidato un risarcimento di 5 mila euro per i disturbi provocati da un disco-pub di Soleto, in provincia di Lecce. Decisioni collegate a verdetti sempre più netti da parte della comunità scientifica: secondo una ricerca condotta dall'équipe di Megan Ruiter, dell'università dell'Alabama di Birmingham, la possibilità di ictus aumenta di 4 volte nelle persone che dormono meno di 6 ore per notte, rispetto a chi ne dorme 7-8. A questi rischi ha cercato di far fronte la direttiva europea del giugno 2002. La norma prevede la creazione di mappe acustiche delle città e piani di risanamento. Principi recepiti dalla legge quadro italiana che sancisce l'obbligo per i Comuni con più di 50mila abitanti di presentare una relazione biennale sullo stato acustico del proprio territorio. Ma solo 15 dei 147 Comuni che superano i 50mila abitanti hanno rispettato la legge. E ovviamente, come per i rifiuti, è scattata (aprile 2013) la procedura di infrazione per violazione delle direttive europee: i dati sulla mappature del territorio sono considerati incompleti, i piani di azione inadeguati, la comunicazione ai cittadini insufficiente. Eppure la comunicazione sarebbe semplice: forse proprio questo è il problema visto che la legge resta quasi ovunque lettera morta. Nelle aree particolarmente protette (come ospedali e scuole) il valore da non superare è 45 decibel di giorno e 35 di notte. Nelle aree prevalentemente residenziali si arriva a 50 decibel di giorno e 40 di notte. Nelle aree a intensa attività umana si sale a 65 decibel di giorno e 55 di notte. In quelle esclusivamente industriali sono ammessi 65 decibel sia di giorno che di notte.
Inquinamento acustico, a Roma livelli sforati ovunque. "Calcolando che la scala di misurazione è logaritmica, cioè che il valore raddoppia ogni 3 decibel, emerge la distanza abissale che separa gli 80 decibel di Trastevere dall'obbligo di mantenere nelle aree a intensa attività umana il limite notturno a 55 decibel: vuol dire che la pressione acustica è 256 volte più alta del lecito", aggiunge Zampetti, che ha coordinato un'indagine sul campo, con i fonometri, di Legambiente. Per comprendere il senso di questi numeri si può pensare che in una stanza da letto se ci sono 65 decibel ci si sveglia, ma già a partire da 40 - 45 decibel si cominciano a registrare effetti di disturbo che alterano la fase Rem del sonno e portano ad alzarsi la mattina dopo con un senso di spossatezza. Sembra piuttosto chiaro. Ma ai Comuni la norma che difende il nostro sistema nervoso dall'assalto dei picchi di rumore non piace. "A fine 2013 il piano era stato approvato solo in 13 città", si legge in uno studio appena reso pubblico da Legambiente. "Sebbene Ispra specifichi come l'indagine abbia evidenziato la necessità del piano di risanamento in 25 dei 73 capoluoghi di provincia analizzati". Sempre dal rapporto dell'Ispra è emerso che nel 2013 nei Comuni capoluogo ci sono stati 1.474 controlli sul rumore, 9 volte su 10 per segnalazione dei cittadini. In quasi la metà di questi interventi si è accertato almeno un superamento dei limiti previsti dalla legge. Chi è il maggior colpevole di questo fracasso? La prima fonte di inquinamento acustico è il traffico (l'Italia si attesta al secondo posto a livello europeo per tasso di motorizzazione, con oltre 62 autovetture ogni 100 abitanti, valore che supera del 30% il dato medio europeo). Ma il maggior numero di lamentele è causato da attività commerciali (come discoteche e pubblici esercizi, 71% sui controlli totali) e produttive (industriali, artigianali e agricole, 11%), seguite da cantieri e manifestazioni (8%). Segno della necessità di un intervento su più fronti.
Genova pioniera nella battaglia per il silenzio, scrive Giulia Destefanis. La storia della Genova che batte i pugni, lotta, incrocia le braccia e fa piccole grandi rivoluzioni, passa anche di qui. Dal tratto Genova-Savona dell'autostrada A10, una ferita di rumore che taglia in due la città di Ponente, in mezzo alle case dei quartieri di Prà e Palmaro, "con un impatto sul tessuto urbano che non ha eguali in altre parti del mondo", dice il presidente del Municipio cittadino di Ponente Mauro Avvenente. Perché qui, negli anni '70, il raddoppio delle carreggiate si è mangiato metri di vivibilità anche in altezza, con la costruzione di una carreggiata sopra l'altra ed auto e tir che sfrecciano a 3 metri dalle finestre del terzo piano dei palazzi. "In quei tratti il rumore passava l'immaginazione, non riuscivi a parlare sul balcone, impossibile tenere le finestre aperte d'estate... E allora all'inizio degli anni '90 sono iniziate le proteste", racconta lo storico condottiero dei comitati dei residenti, Arcadio Nacini. Dopo 20 anni di lotte, occupazioni "di caselli e sedi istituzionali", e l'innovativo "Progetto pilota Genova", con la prima commissione sull'inquinamento acustico autostradale creata al ministero dell'Ambiente e sforzi di cui hanno beneficiato poi città di tutta Italia, "a partire dall'obbligo per Società Autostrade di destinare il 7% dei ricavi dalle nuove costruzione alla riduzione dell'impatto acustico", oggi la battaglia di Genova contro il fracasso è vinta a metà. Si sono ottenute, sì, le tante barriere fonoassorbenti lungo la A10 (e la A7, altra grana che taglia la città verso nord, verso Milano) costruite negli anni 2000, che hanno "schermato" qualcosa come 130mila abitanti. Due le soluzioni: i pannelli verticali ai lati delle carreggiate, e quelli coprenti, sorta di gallerie "traforate" di materiale fonoassorbente, che hanno ridotto il rumore ma scatenato altre polemiche. Questa volta sull'impatto ambientale e visivo delle barriere: "Causano una quasi totale occlusione della vista, con danni sulla qualità della vita e sul valore della abitazioni vicine", denunciava ancora poco tempo fa in consiglio comunale Paolo Putti, capogruppo grillino. Eppure, benché a suo tempp molti cittadini avessero chiesto i nuovi "tunnel" trasparenti, fu la Soprintendenza stessa a volerli grigi, giudicandoli meno impattanti. Il dibattito continua, "ma intanto in quei tratti il rumore è notevolmente ridotto, i vecchi che ricordano i tempi senza barriere dicono di essere rinati", continua Nacini, che grazie alle sue battaglie ambientaliste era stato eletto consigliere comunale e lo è stato sino al 2012, tra le fila di Se. "E non si dimentichi - aggiunge ancora - che è stata una rivoluzione: l'istituzione della prima commissione al ministero fu una vittoria, e il caso-Genova ha fatto scuola in Italia. Certo, non è ancora stata vinta la battaglia più importante". Ecco perché il successo, si diceva, è a metà: perché nel tratto più delicato, proprio dove l'autostrada sfiora il terzo piano dei palazzi, si pensò a un complesso progetto per riportare le carreggiate una di fianco all'altra. "E firmammo pure l'accordo con Regione e Autostrade - ricorda sempre Nacini - Ma poi fummo traditi". Dopo un decennio di dibattiti, il progetto infatti è tramontato un anno fa perché troppo costoso. "Ora le Autostrade hanno promesso tunnel di pannelli come quelli già presenti in altri tratti - spiega il presidente del Municipio di zona Mauro Avvenente - Speriamo che a breve partano i lavori. Ma ne abbiamo chiesti altri, perché le criticità a Genova non sono finite". E non danneggiano solo i residenti, ma anche i turisti: "Ad esempio in un luogo di pace e natura molto frequentato, la storica Villa Pallavicini, si continua a sentire il rumore dei tir, ed è inaccettabile. Basterebbe il proseguimento di un metro delle barriere già presenti: inspiegabile che non sia ancora stato realizzato".
A Prato il quartiere attraversato dalla A11, scrive Gerardo Adinolfi. Sulla terrazza della casa della signora Laura Nocentini di Cafaggio, frazione di Prato, in Toscana, sembra di essere in una piazzola di sosta dell'autostrada A11. Si fa fatica anche a parlare. Ogni mattina lei si sveglia, apre la finestra e dalla camera da letto può godersi il panorama trafficato dell'arteria che collega Firenze al litorale tirrenico: una scia di tir e macchine senza interruzione. Per sentire i rumori dei motori che sfrecciano a 130 chilometri orari tra i caselli di Prato Est e Prato Ovest, invece, non c'è bisogno neanche di aprire le persiane."Sembra sempre che ci sia un terremoto - dice Laura mimando i boati - di notte se soffri di insonnia sei cullato dai tir". Nel 1997 sul cavalcavia dell'A11 un camion sbandò scavalcando il guard rail e finì prima nella scarpata e poi sul terrazzo distruggendolo. Ora è inutilizzato. Troppa la paura di un nuovo incidente. Ma soprattutto è troppo il rumore che proviene dall'autostrada, a neanche 2 metri e mezzo di distanza. Laura e gli altri residenti della zona aspettano da 14 anni che siano costruite le barriere antirumore.
Niente barriere antirumore, l'incubo della frazione sulla A11. Cafaggio è una storia tutta italiana fatta di intese, proteste, protocolli, procedure burocratiche, ricorsi, sospensive e rimpalli. Cafaggio è una frazione divisa in due dall'autostrada. Un quartiere di 2.500 residenti, di cui 500 abitano nelle case e nei palazzi che costeggiano il cavalcavia di via Roma. Molte delle abitazioni sono state costruite negli anni '50, prima che la Firenze-Mare passasse di lì. "Troppo inquinamento acustico", ripetono i residenti e fanno vedere una mappa dell'Arpat che include l'area nella zona rossa. La zona rossa indica il massimo livello di rumore rilevato in città. Il paradosso vuole che confinante con l'autostrada, a soli 20 metri, ci sia anche un palazzo di 5 piani che ospita alcuni uffici dell'Asl di Prato. Prima che la tempesta di vento del 5 marzo scorso li portasse via, su tutti i balconi di via Roma, via Davanzati, via Jacopo da Lentini c'erano lenzuoli bianchi e la scritta: "In mezzo ad un'autostrada". Che è anche il nome del Comitato dei residenti pronto, dopo anni di battaglie inascoltate, a presentare un esposto in procura contro Autostrade per l'Italia per chiedere, passando alle vie giuridiche, la costruzione delle barriere antirumore. Un piano, nel 2001, era anche partito con un accordo tra il Comune di Prato e Autostrade che prevedeva 3 chilometri di barriere. "Ad oggi ne sono state installate per appena 200 metri", dice Tommaso Chiti, portavoce del Comitato. Tutto si è bloccato nel 2004, dopo un nuovo accordo tra Autostrade e Ministero che legava la costruzione delle barriere a quella della terza corsia nel tratto Firenze-Pistoia. Un progetto da 390 milioni di euro per 3 anni di lavoro che la Regione Toscana ha confermato nella variante al piano di indirizzo territoriale del 2013. Dieci anni di lavori fermi, senza nessuna prospettiva prossima di ripresa e in attesa che si concluda l'iter. Ma a che punto è? Per la terza corsia, di competenza statale, manca ancora un progetto esecutivo, come si rileva da un documento della Regione Toscana. E nello Sblocca Italia non sono previsti finanziamenti. Quasi quattro anni fa, nel 2011, Autostrade per l'Italia ha presentato alla Regione tutta la documentazione necessaria per ottenere il parere favorevole richiesto dal ministero dell'Ambiente, ottenendolo, ma il 28 maggio 2014 si è di nuovo bloccato tutto perché Autostrade ha presentato ricorso contro le prescrizioni e chiesto la sospensione del decreto. Si arriva così ad oggi con la Toscana decisa a non cambiare la sua delibera e lo Stato che ha avviato un'istruttoria sul caso. Tempi ancora lunghi, quindi. A pagare, nel frattempo, sono gli abitanti. "Abbiamo contestato ad Autostrade l'utilizzo della sospensiva rilasciata ormai 10 anni fa - spiega l'assessore comunale all'ambiente Filippo Alessi - dopo tutto questo tempo non è più applicabile". Il Comune di Prato vuole accelerare ed è anche disposto a cofinanziare l'intervento, come già fatto nel 2001. "Se può essere un incentivo, noi ci siamo", dice Alessi. La progettazione delle barriere, però, dovrebbe seguire lo stesso iter burocratico già in corso per la terza corsia e quindi potrebbe avere tempi anche più lunghi. "Sembra che sia un'opera non importante - dice l'assessore - e questo prender tempo non fa renderci nervosi".
I dannati di Orio al Serio tra charter e voli cargo, scrive Edoardo Bianchi. "Per la disperazione, una sera mi misi a contarli; poi persi il conto e provai a prendere sonno". Sorride, il sindaco di Orio al Serio, Alessandro Colletta. Ma è un sorriso quasi amaro. Non è facile vivere, mangiare, dormire sotto un frastuono di turbine che sembra non smettere mai. Non è il solo. Anche i suoi concittadini e altri sindaci di altri comuni limitrofi soffrono le stesse insonnie e inseguono gli stessi incubi. "Basta affacciarsi alla finestra", aggiunge Claudio Pedrini, commerciante del comune di Cassinone, "per capire il livello di rumore che ha raggiunto la nostra città". Apre le imposte e si prepara ad alzare la voce. Il rombo dell'ennesimo aereo in fase di atterraggio suggerisce qualche minuto di silenzio. Pedrini con il dito indica il cielo. Poi riprende: "Come vede, la situazione è sempre più complicata. E' quasi impossibile vivere in questi quartieri. Ma l'emergenza non riguarda solo noi, di Cassinone. Coinvolge tutti i 17 comuni del Bergamasco travolti da questo vero inquinamento acustico".
Inquinamento acustico, tra i dannati di Orio al Serio. La storia è nota. L'aeroporto Caravaggio, così intitolato dal 2011, ha avuto uno sviluppo imponente dal 2000. Da piccolo scalo regionale usato più che altro dai jet executive e altri voli charter, ha finito per assumere dimensioni e un'intensità di traffico che il progetto iniziale non aveva considerato e previsto. Oggi accoglie tutto il flusso alternativo a Linate e Malpensa, soprattutto quello low cost. Il numero di passeggeri è aumentato in modo esponenziale, come quello del numero di velivoli che decollano e atterrano. I limiti acustici decisi dalle diverse amministrazioni responsabili sono stati superati. Ma gli interessi commerciali, economici, e anche politici, che ruotano attorno allo scalo bergamasco finiscono per frenare decisioni che in molti, associazioni e comitati locali su tutti, ritengono ormai ineludibili. "L'inquinamento acustico - commenta il primo cittadino di Orio Al Serio - è figlio di una scelta imposta per altre ragioni. La pianificazione urbanistica non è più compatibile con l'attuale traffico aereo". Alessandro Colletta conosce a fondo la realtà della provincia. "I Comuni di Grassobbio e Seriate", ricorda, "prestano solo una parte del proprio territorio ad uno dei limiti aeroportuali; non sono investiti del tutto dal frastuono provocato dai jet. Diverso il discorso per quelli di Cassinone, di Colognola e dello stesso Orio al Serio: sorgono esattamente ad est e ovest del campo d'aviazione. Il primo è allineato alla rotta di atterraggio, gli altri due a quella di decollo. E' chiaro che si tratta di realtà diverse. Ma siamo tutti noi a pagare le conseguenze dello sviluppo dello scalo". Dal 2003, l'aeroporto è divenuto infatti il centro nevralgico dei voli charter da e per il Nord Italia e in poco più di dieci anni ha fatto registrare un aumento impressionante di passeggeri trasportati: da due milioni del 2002, agli oltre otto milioni del 2013. Oltre al traffico civile, a Orio al Serio si sono concentrati anche tutti i voli cargo. Sono questi il vero incubo dei cittadini. Operano in orari notturni, fuori da quelli già occupati dai voli commerciali e sono dei veri giganti dei cieli, spinti da enormi turbine che squarciano con frastuoni infernali le notti silenziose. I dati qui sopra riportati sono eloquenti. Testimoniano da soli lo sviluppo del traffico negli anni e soprattutto il flusso di passeggeri e di merci. Il ministero dell'Ambiente è stato ovviamente coinvolto. Ma prima di intervenire, nel 2014 ha dato incarico all'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (Arpa) della Regione Lombardia di verificare l'impatto acustico ambientale generato dal campo di volo sulla zona circostante. Silvana Patrizia Angius, una fisica esperta di problemi acustici, è la responsabile dell'Unità organizzativa agenti fisici e radioprotezione dell'Agenzia. A lei è stata affidato il monitoraggio degli squilibri acustici attorno all'aeroporto di Orio al Serio. A suo parere i valori sono effettivamente superiori ai limiti imposti dalla Regione Lombardia. "Ma la responsabilità", sostiene, "ricade solo in parte sullo scalo. Il vero inquinamento è dovuto al traffico stradale e ferroviario della zona. Anche questi sono aumentati. E' chiaro che le soglie vengono regolarmente superate. Il problema, quindi, è dovuto a diversi fattori. Ed è su tutti questi che bisognerebbe intervenire".
Salta il divieto di voli notturni, a Orio al Serio salute a rischio. Ma come si è giunti a queste conclusioni? E' la stessa Angius a spiegarlo: "Abbiamo svolto - ricorda - un'analisi incrociata tra il periodo di maggior traffico aereo e quello di fermo dello scalo per esigenze di manutenzione. I dati sono stati catturati ed elaborati da delle centraline in dotazione alla società che gestisce l'aeroporto". Per fare il confronto si è proceduto a due diverse valutazioni. Il primo è chiamato LVa: registra i 'picchi acustici' al passaggio degli aerei. Il secondo è detto Leq: memorizza il valore acustico ambientale, ossia tutti i rumori indipendenti dall'aeroporto e provocati da altre sorgenti presenti nella zona. "Ebbene - sottolinea la dirigente dell'Arpa - nel 2014 l'attività aeroportuale sembra non aver inciso da sola sull'inquinamento acustico; esso appare generato anche dal traffico autostradale e ferroviario. Quello che viene registrato attraverso le centraline, sono i picchi di LVa al momento del decollo e atterraggio degli aerei che, sommati, determinano l'incisività d'inquinamento acustico dovuto ai voli". Ma i risultati sono contestati da tutti i comitati cittadini sorti nei Comuni, come l'associazione "Colognola per il suo futuro". Spiega Gabriella Pesce, rappresentante dell'organizzazione: "Basta confrontarle con la perizia fonica effettuata dalla Bionoise di Stezzano per conto dell'Amministrazione comunale e i valori appaiono subito diversi e maggiori". Secondo quest'altra analisi, alcune centraline posizionate in zone differenti rispetto a quelle di proprietà Sacbo avrebbero registrato livelli decibel superiori. "La perizia basa i suoi risultati su misure logaritmiche. Ogni tre Db, il rumore viene amplificato e percepito in maniera raddoppiata dalle persone. Il risultato, quello che arriva alle nostre orecchie, è micidiale". Il fatto che la stessa società che gestisce lo scalo di Orio al Serio registri i dati e di fatto si autocertifichi suscita grandi perplessità. Il presidente dell'Osservatorio Nazionale Liberalizzazioni e Trasporti, Dario Balotta, lo dice chiaramente: "La cosa migliore, quella più equilibrata, sarebbe di affidare ad una struttura esterna la valutazione e l'analisi dei dati. Lo abbiamo chiesto più volte. Ma sembra che sia impossibile". Il dibattito continua da anni. Con polemiche e precisazioni. La responsabile dell'Arpa difende la scelta. E precisa: "I dati sono grezzi. Ci vengono forniti e li facciamo elaborare. Il rischio di analisi viziate è escluso". Replica di Ballotta: "E' una questione di costi. Ma basterebbe reintrodurre la tassa sul rumore e le analisi sarebbero finanziate". La tassa in effetti esisteva, fino a qualche anno fa. Poi, complice la crisi e il calo degli incassi degli aeroporti, la Regione Lombardia ha pensato di abolirla. Un rimpallo di posizioni e punti di vista che scatena un coro di lamentele da parte di chi il rumore lo subisce. L'avvocato Valentina Carminati, assessore all'Ambiente del Comune di Bagnatica, sintetizza così: "I cittadini vorrebbero che i voli cargo, quelli più inquinanti da un punto di vista acustico, fossero deviati verso l'aeroporto Montichiari di Brescia. Ma non è facile. Bisognerebbe mettere d'accordo la Save ( gestore dell'aeroporto di Venezia) e la Sacbo, per la spartizione degli introiti generati dagli stessi voli". Antonella Litta, responsabile nazionale dell'Isde (Associazione medici per l'ambiente), ritiene invece che il problema comunque non si risolverebbe. "Smistare i voli in altri aeroporti - osserva - finirebbe solo per distribuire i tassi di inquinamento. Il livello generale resterebbe uguale. Ma coinvolgendo fette più larghe della popolazione". Nel vasto elenco dei disagi dovuti all'aeroporto di Orio, c'è poi come detto quello dei voli notturni e quello della zonizzazione acustica: un limite territoriale approvato dalla Commissione aeroportuale per la prima volta nel 2010, ma poi revocato nel 2013 dal Tar di Brescia dopo un ricorso proposto dai Comitati locali. Così si è giunti ad una situazione di stallo creata da veti incrociati. Da una parte, il disagio di voli in piena notte non autorizzati e contro la normativa che ne vietava il traffico (modificata e approvata dal Tar del Lazio nell'ottobre del 2014). Dall'altra, il rifiuto da parte della direzione aeroportuale di avviare dei lavori di insonorizzazione e delocalizzazione, successivi all'annullamento della zonizzazione acustica che specificava le zone urbanistiche, e il rispetto dei livelli acustici stabiliti. Insomma, il classico paradosso all'italiana.
CHI INQUINA, NON PAGA.
Responsabilità ambientale. L’Unione europea (UE) stabilisce una quadro comune di responsabilità al fine di prevenire e riparare i danni causati agli animali, alle piante, agli habitat naturali e alle risorse idriche, nonché i danni arrecati ai suoli. Il regime di responsabilità si applica, da un lato, ad alcune attività professionali esplicitamente elencate e, d'altro lato, alle altre attività professionali quando l'operatore ha commesso un errore o una negligenza. Spetta comunque alle autorità pubbliche accertarsi che gli operatori responsabili adottino o finanzino le misure necessarie in materia di prevenzione e riparazione. Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. La direttiva istituisce un quadro di responsabilità ambientale basato sul principio “chi inquina paga” per prevenire e riparare i danni ambientali.
Ai sensi della direttiva, i danni ambientali sono definiti nel modo seguente:
i danni, diretti o indiretti, arrecati all'ambiente acquatico coperti dalla legislazione comunitaria in materia di gestione delle acque;
i danni, diretti o indiretti, arrecati alle specie e agli habitat naturali protetti a livello comunitario dalla direttiva "Uccelli selvatici" e dalla direttiva "Habitat";
la contaminazione, diretta o indiretta, dei terreni che crea un rischio significativo per la salute umana.
Il principio di responsabilità si applica ai danni ambientali e alle minacce imminenti di danni qualora risultino da attività professionali, laddove sia possibile stabilire un rapporto di causalità tra il danno e l'attività in questione. La direttiva distingue due situazioni complementari cui si applica un regime di responsabilità diverso: da una parte, le attività professionali elencate nella direttiva stessa, e dall'altra parte, altre attività professionali.
Il primo regime si applica alle attività professionali pericolose o potenzialmente pericolose elencate nell'allegato III della direttiva. Si tratta essenzialmente di attività agricole o industriali soggette ad un'autorizzazione ai sensi della direttiva sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento, di attività che comportano lo scarico di metalli pesanti nell'acqua o nell'aria, di impianti che producono sostanze chimiche pericolose, di attività di gestione dei rifiuti (in particolare gli scarichi e gli impianti di incenerimento) nonché di attività concernenti gli organismi geneticamente modificati e i microrganismi geneticamente modificati. Secondo questo regime, l'operatore può essere considerato responsabile anche se non ha commesso errori.
Il secondo regime di responsabilità si applica a tutte le attività professionali diverse da quelle elencate all'allegato III della direttiva, ma solo quando un danno o una minaccia imminente di danno viene causato alle specie e agli habitat naturali protetti dalla legislazione comunitaria. In tal caso, la responsabilità dell'operatore sarà messa in causa solo se questo ha commesso un errore o una negligenza.
La direttiva prevede una serie di casi di esclusione della responsabilità ambientale. Il regime di responsabilità non si applica, ad esempio, in caso di danno o minaccia imminente di danno derivante da un conflitto armato, una catastrofe naturale o un'attività prevista dal trattato che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica, da un'attività di difesa nazionale o di sicurezza internazionale, nonché un'attività che rientra in alcune convenzioni internazionali elencate all'allegato IV. Quando emerge una minaccia imminente di danno ambientale, l'autorità competente designata da ciascuno Stato membro può:
imporre all'operatore (inquinatore potenziale) di adottare le misure preventive idonee;
adottarle essa stessa recuperando successivamente le spese relative a queste misure.
Quando si verifica un danno, l'autorità competente può:
imporre all'operatore interessato di adottare le misure di riparazione idonee (determinate sulla base delle regole e dei principi enunciati all'allegato II della direttiva); o adottare misure preventive essa stessa recuperando successivamente le spese relative a queste misure. In caso di più danni verificatisi, l'autorità competente può decidere l'ordine di priorità per il loro risarcimento.
La riparazione dei danni ambientali assume diverse forme secondo il tipo di danno:
per i danni che interessano i suoli, la direttiva impone che i suoli in questione siano decontaminati fino ad eliminare qualsiasi rischio significativo di causare effetti nocivi sulla salute umana;
per i danni che interessano l'acqua o le specie e gli habitat naturali protetti, la direttiva mira a ripristinare le condizioni originarie dell’ambiente precedenti al danno. A tal fine, le risorse naturali danneggiate o i servizi danneggiati dovrebbero essere ripristinati o sostituiti da elementi naturali identici, simili o equivalenti, o nel luogo dell'incidente o, se necessario, in un sito alternativo. Maggiori dettagli sul metodo da adottare per la riparazione del danno ambientale sono riportati nell'allegato II della direttiva.
Nel caso in cui l'autorità competente stessa abbia attuato misure di prevenzione o riparazione, tale autorità copre i costi sostenuti dall'operatore responsabile del danno o della minaccia imminente di danno. Lo stesso principio si applica in relazione alle valutazioni ambientali per determinare l'entità dei danni e alle misure da adottare per risolvere il problema. L'autorità competente è legittimata ad avviare i procedimenti per il recupero entro cinque anni dalla data di completamento delle misure di prevenzione o riparazione oppure dalla data in cui l'operatore responsabile o il terzo, sono stati identificati, a seconda di quale data sia posteriore. Qualora più operatori siano solidalmente responsabili del danno, essi devono sostenere i costi di riparazione o solidalmente o su base proporzionale. La direttiva non obbliga gli operatori a fornire una garanzia finanziaria, come un'assicurazione, per coprire la loro potenziale insolvenza. Tuttavia, gli Stati membri sono tenuti a incoraggiare gli operatori a utilizzare tali meccanismi. Le persone fisiche o giuridiche che potrebbero essere colpite dal danno ambientale, nonché le organizzazioni il cui scopo è la protezione dell'ambiente possono, a determinate condizioni, chiedere alle autorità competenti di intervenire rispetto ad un danno. Le persone e le organizzazioni che hanno presentato una richiesta di azione possono avviare un ricorso presso un tribunale o una organizzazione specifica al fine di valutare la legittimità delle decisioni, azioni o omissioni dell'autorità competente. Quando un danno o la minaccia di un danno può avere conseguenze che colpiscono più di uno Stato membro, tali Stati collaborano negli sforzi per prevenire o riparare.
Verdi, dossier sull'Italia: dall'Ilva all'Eternit, chi inquina non paga. Gli ambientalisti hanno esaminato gli ultimi dieci anni di maxi-inquinamenti provati. E hanno calcolato che tra il 2004 e il 2013 le aziende italiane non hanno risarcito danni per 220 miliardi di euro,, scrive Corrado Zunino su “La Repubblica”. Dice, un nuovo dossier dei Verdi, che in Italia chi inquina non paga. Ilva di Taranto, Caffaro di Brescia, Eternit di Casale Monferrato, il petrolchimico di Agusta in Sicilia, l'ex Stoppani di Cogoleto sulla costa ovest genovese. Fabbriche in funzione e fabbriche dismesse hanno inquinato - e lo ha certificato una procura o un'istituzione di Stato - e non hanno mai versato un euro per risarcire i danni al territorio e ai suoi abitanti. Il danno ambientale comprende il ricovero in ospedale dei cittadini ammalati a causa dell'inquinamento, i costi ambientali e quelli delle bonifiche. Già. In Europa "chi inquina paga" è un dogma garantito dalla direttiva europea 35 del 2004, in Italia no. Angelo Bonelli, portavoce degli ambientalisti, a inizio 2015 ha preso in esame gli ultimi dieci anni di maxi-inquinamenti provati e ha calcolato che tra il 2004 e il 2013 le aziende italiane non hanno pagato danni per 220 miliardi di euro. Alla prescrizione penale - spesso sopravvenuta, come hanno illustrato gli ultimi processi per l'amianto dell'Eternit o per la discarica di Bussi nel Pescarese - è seguita la prescrizione economica. In molti casi, l'Ilva di Taranto per esempio, le aziende sotto accusa continuano a produrre e a bruciare, a sversare. Nello stesso periodo considerato - 2004-2013 - i tribunali italiani hanno preso atto di un milione e 552 mila prescrizioni. Di queste, ottantamila riguardano reati ambientali. Ci sono 7.300 chilometri quadrati da bonificare nel paese, che sono pur sempre il 2,4 per cento della sua superficie. Trecento comuni interessati per sette milioni di persone coinvolte. I siti inquinati di interesse regionale sono oltre 33 mila, trentanove quelli di interesse nazionale. I costi di bonifica per ettaro stanno tra i 450 mila e il milione di euro, ma i soldi (pubblici e privati) per avviare le pulizie delle terre e delle acque sono dati con il contagocce. Dal 2002 al 2013 sono stati spesi quattro miliardi di euro: 2,3 di Stato e 1,8 delle aziende. Il danno ambientale nel Sin di Taranto (i dintorni dell'Ilva, sito di importanza nazionale da bonificare) è stimato dai custodi giudiziari della Procura della Repubblica in 8,5 miliardi. Per la discarica abruzzese di Bussi il ministero dell'Ambiente ha valutato altri 8,5 miliardi. Per la centrale Enel di Polesine Camerini a Porto Tolle, provincia di Rovigo, l'Ispra, che è il controllore pubblico dell'ambiente, ha calcolato il danno ambientale in 2,7 miliardi con una relazione scientifica depositata nel procedimento penale che ha portato nel 2011 alla condanna dell'ex amministratore delegato dell'Eni, Paolo Scaroni. Nel petrolchimico di Priolo-Melilli-Augusta, provincia di Siracusa, solo per disinquinare l'area servirebbero 10 miliardi a cui vanno aggiunti i danni sanitari e ambientali arrivando a quota 12 miliardi. A Brescia la Caffaro, produttrice di policlorobifenili (Pcb), ha inquinato per cinquant'anni e fino al 1983: il danno stimato dall'Ispra è di 1,5 miliardi. Il fiume Toce ha portato il Ddt della Syndial (Eni) nel Lago Maggiore e il Tribunale di Torino nel luglio 2008 ha sentenziato la condanna dell'azienda indicando il danno per il periodo che va dal 1990 al 1996 in 1,9 miliardi. Per i composti di cromo della Stoppani dell'area Cogoleto, che ha cessato l'attività nel 2003, a fronte di 1,3 miliardi da risarcire, la pubblica struttura commissariale ha sostenuto interventi per 400 milioni di euro. I privati, zero. L'Istituto superiore di sanità ha stimato in diecimila i casi di mortalità in eccesso in 44 siti di interesse nazionale (oggi sono, appunto, solo 39). "Incrementi significativi dell'incidenza di tumori maligni a carico di numerose sedi sono stati messi in evidenza dalla ricerca", si legge. Uno studio dedicato al sito di Augusta-Priolo e di Gela sostiene che la bonifica dell'area salverebbe 47 persone l'anno e farebbe risparmiare 10 miliardi di euro in trent'anni. La dotazione del ministero dell'Ambiente per le bonifiche - ultimo dato conosciuto quello del 2013 - è di un milione di euro. Un milione. Le uniche risorse davvero disponibili arrivano dalle transazioni con i privati, che fin qui hanno dato 540 milioni. L'Eni ha in corso una maxi-trattativa con il ministero dell'Ambiente per chiudere nove contenziosi aperti per la bonifica di nove siti industriali. Angelo Bonelli, il coordinatore dei Verdi che ha curato il dossier, dice: "Chi ha inquinato e attentato alla salute dei cittadini in Italia non ha mai pagato. Le conseguenze economiche di questo danno ambientale sono state elevate negli indotti dell'agricoltura, della pesca, nel turismo e nel commercio. Elevate e poco studiate". I Verdi chiedono l'introduzione del sequestro dei patrimoni per chi ha inquinato, "bisogna seguire la procedura utilizzata per i sequestri per mafia".
LA NATURA NON E' AMBIENTALISTA.
La natura? Non è ambientalista. La natura è una grande macchina che produce vita e morte. Dall'infinitamente piccolo (i batteri) all'infinitamente grande (le galassie), si nasce e si muore ed è solo una questione di tempo. Se usiamo con disinvoltura l'aggettivo «naturale», in realtà su questa macchina abbiamo ancora molto da imparare e da capire. A cominciare dal fatto che la natura non è buona né giusta né bella. Questi sono giudizi e proiezioni umani. La natura di noi non si cura. E quando la si usa per giustificare comportamenti, opinioni, valori si producono errori e talvolta tragedie. Combinando attualità e filosofia, il libro affronta con stile caustico e dissacrante tutti i temi più controversi - dal nostro rapporto con le tecnologie ai paradossi del cibo a Km zero e delle terapie naturali, fino alla nascita dell'«ambientalista collettivo» e alle applicazioni scellerate del principio di precauzione - in un capovolgimento di prospettiva che ci induce a riflettere su quello che intendiamo per natura.
Ogm, inquinamento, km zero: un pamphlet di Testa ribalta i luoghi comuni dell'ecologismo. Che sono pericolosi, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Naturale. Secondo natura. Naturalmente. Paroline che usiamo di continuo e che hanno, sempre più, assunto il valore di sinonimi di: buono, bello, giusto, equilibrato. Un po' perché in un mondo dove la tecnologia va veloce è «naturale» avere la tentazione di essere passatisti. Un po' perché la natura, spesso compendiata dalla formula bio, è di moda e, come cantava Gaber, «Quando è moda è moda!». Ma davvero questa equivalenza tra natura e tutto ciò che è positivo ha un senso? Ed è un'equivalenza così automatica? Ci riflette sopra Chicco Testa in Contro (la) natura (Marsilio, pagg. 130 euro 10, scritto con Patrizia Feletig). E il responso è già tutto nel sottotitolo: Perché la natura non è buona né giusta né bella . Testa, che è stato anche presidente di Legambiente, non può facilmente essere tacciato di poca sensibilità ecologica. Però al giochino di santificazione di quella che già per Leopardi era una matrigna di cattivo carattere non ci sta. E in un pamphlet, molto agile, elenca una serie di fatti e di capisaldi logici difficili da smentire. Faranno però venire l'orticaria a chi sogna ritorni a un'età dell'oro de-tecnologizzata, figlia del mito del buon selvaggio. Il primo dato che rileva è che «usiamo l'aggettivo "naturale" per rafforzare opinioni e concetti che sono solamente nostri». Giusto per fare un esempio, chi elogia il ritorno al mondo agricolo di una volta, di quel mondo agricolo "vende" un'idea quanto mai edulcorata, a metà tra l'Arcadia virgiliana e le réclame del Mulino Bianco. Ma è natura? Così Testa: «Ciò che noi amiamo della vita in natura è in realtà un paesaggio che abbiamo forgiato secondo le nostre esigenze e che è cominciato a diventare bello e piacevole negli ultimi decenni». Insomma niente che abbia a che fare con il mondo selvaggio. Solo qualche anno fa la vita delle campagne era «grama, molto grama». Adesso però la campagna è carina, «oggi è possibile vivere a Bolgheri con gli stessi comfort di chi vive a Manhattan... grazie alla tecnologia». Quella che ci piace è una finta natura, comoda e umanizzata. Non mancano nemmeno pagine dedicate ai cosiddetti rimedi naturali, a partire da un capitoletto intitolato «Cialtroterapia». Elencano con dovizia di particolari medicinali fitoterapici che possono allegramente mandare al creatore, gli effetti devastanti del curarsi con terapie non testate clinicamente. E spiegano bene come quello della cura alternativa sia diventato un enorme business che spesso, come nel caso dell'omeopatia, si basa su un principio di diluizione tale che assumere il farmaco «è un po' come versare una tazzina di caffè in una piscina olimpionica, bere un sorso di quell'acqua e pretendere di aver assunto della caffeina». Sotto sotto c'è un'idea molto sbagliata della natura perché invece la natura funziona con le regole della chimica. Insomma c'è molto più buon senso "naturale" in un laboratorio che in chi rifiuta le vaccinazioni. Con lo stesso piglio viene poi spiegato come le città siano energeticamente più efficienti e meno inquinanti della campagna, come la sopravvivenza delle balene debba molto all'utilizzo industriale del petrolio, et similia. Tutti fatti che non piaceranno a chi ha trasformato l'ambientalismo in catastrofismo. Come Greenpeace che Testa definisce (sempre con apposito capitoletto) il «Politburo dell'ambiente». Ma ciò di cui abbiamo parlato sin qui è solo il livello più semplice, anche se forse più divertente, del puntuto saggio. Sotto traccia c'è un ragionamento, più profondo, su come la deificazione della natura e l'ignoranza delle più elementari basi scientifiche e storiche crei un miscuglio pericoloso. Sulla scorta di una lunga tradizione di pensatori, che si potrebbe far partire da John Stuart Mill, l'autore ragiona sul fatto che «La natura è un'imponente macchina che produce vita e morte... Da questa macchina abbiamo molto da imparare e molto da capire. Ma non è giusta, né buona né bella. Come nessuna macchina può esserlo in sé. La natura non si cura di noi esseri umani. Va avanti e basta. Quando a essa si ricorre invece per giustificare comportamenti, giudizi e valori, si producono errori e talvolta tragedie». Ma dicendo queste cose Testa rischia di essere fuori moda.
La natura non ha bisogno di fondamentalisti, scrive Massimo Micucci su “The Frontpage”. “Contro la Natura. Perchè la Natura non è nè buona, nè giusta, nè bella”. Un libro, scritto da Chicco Testa con Patrizia Feletig, che si legge nel corso di una mattinata con soddisfazione, che deve essere costato tempo, ma non troppa fatica: perchè sono idee che gli autori sostengono ovunque, assieme ad una limitata e crescente pattuglia di ambientalisti scettici. “Contro (la) Natura”, nel provocare scandalo e scomuniche, è come inchiodare le tesi di Lutero sulla porta della cattedrale di Wittemberg, contro la chiesa egemone ed indiscussa della natura. Scrivere che la natura può e deve essere modificata, affinchè la specie umana possa viverci meglio, è peggio di una eresia. Pur essendo la realtà e pur corrispondendo ad un istinto naturale, quello di allontanare la morte e migliorare la propria vita. Il comandamenti, la virtù teologali, i peccati ed i riti della religione naturalista, ambientalista, integrista, anti-sviluppista ed anti-scientifica vengono passati in rassegna e sottoposti ad una critica puntuale ed argomentata, con ironia e con dovizia di esempi clamorosi ed evidenti. Il cuore della “verità naturalista assoluta” è che la natura è bella, buona, giusta, quanto potente (questo è vero) e salvifica. Sarebbe l’uomo con il suo sviluppo, prevalentemente capitalista, ad ostacolarla e ad imbrattarla, condannando tutti alla morte del pianeta tra catastrofi ad intensità crescente ed atroci tormenti. Quelli della decrescita felice, del KM-0, del principio di precauzione, i No-Triv, No-Tav, No-Gas, No-Oil, No-Coke, se ne fregano se negli ultimi decenni grazie al progresso umano e tecnologico sul presunto ordine naturale delle cose, le condizioni degli umani sono migliorate, le malattie “naturali” combattute attraverso le ultime scoperte scientifiche, o se si sono ridotti i morti per denutrizione e su come le tecnologie – comprese quelle più discusse – hanno migliorato la vita sopratutto dei poveri grazie all’industrializzazione e all’urbanizzazione. Il problema, di tutti e non solo degli ambientalisti riformisti come Chicco Testa o Patrick Moore, è che questa religione ha imposto la sua cornice intellettuale e comunicativa a tutti (soprattutto a sinistra) ed ovunque (in modo particolare a chi se la passa meglio). Motivo per cui, ci ritroviamo davanti ad una Vandana Shiva che paragona gli scienziati favorevoli agli ogm a stupratori seriali. Per non parlare di Green Peace, associazione senza alcuna trasparenza democratica, in cui il Politburo sta facendo di tutto, in nome della ideologia anti-ogm, per fermare il Golden Rice che consentirebbe di debellare la mancanza di vitamina B in grandi aree in via di sviluppo e di salvare milioni di bimbi dalla cecità. Insomma “natura e “ naturale” sono parole da maneggiare con cura, perchè un tempo anche partorire con dolore e schiavizzare i neri era considerato da qualcuno come naturale e ancora oggi altri cercano di imporre come naturale ed unica la forma di famiglia che sta nelle scritture. Se ci sono voluti secoli per evitare che la popolazione europea venisse decimata regolarmente dalle epidemie, se altrettanto c’è voluto per ridurre il numero di persone che vivevano sotto il limite della sopravvivenza, per allungare l’età media e ridurre la mortalità infantile, vale la pena tenere la natura con tutto il rispetto alla distanza giusta. Distanza di cui ci rallegriamo solo quando la civiltà e la tecnica ci tiene al riparo da accidenti o catastrofi, appunto, naturali. Una rassegna di esempi e ragionamenti che a tratti fa sorridere per le clamorose incongruenze dei fondamentalisti, a volte invece deprime, ma ci aiuta a pensare e a sviluppare un punto di vista critico rispetto al pensiero pesante e spesso retrogrado di chi considera la natura un eden da riconquistare.
Quanto valgono gli operai Ilva, si chiede Nicola Porro su “Il Giornale”. L’Italia è ancora il secondo produttore europeo di acciaio, dopo la Germania. Con il 15 per cento del totale, produciamo più billette e prodotti piani di francesi (che hanno il nucleare e un prezzo dell’energia ridicolo), spagnoli e inglesi. È un mestiere che prima i bresciani con i forni elettrici e poi i Riva con gli altiforni sanno fare. Il caso degli acciai speciali di Terni (due forni elettrici) che i tedeschi della Thyssen vogliono mollare, parte da lontano, ma riguarda, in sostanza, cinquecento operai (con tutto il rispetto per ognuno di loro). Pensate cosa avverrebbe se dovesse saltare l’Ilva di Taranto (portandosi dunque appresso gli stabilimenti di Genova e Novi): 16mila dipendenti a spasso. Altro che quattro feriti in piazza davanti all’ambasciata tedesca. Sia nel primo caso, sia nel secondo ci sono precise responsabilità. E non riguardano i proprietari di questi impianti, non sono affare dei padroni (che possono aver commesso degli sbagli), ma di quello che i professoroni chiamano «sistema Paese» e che poi non si capisce mai cosa sia. Ve lo spieghiamo noi. Sistema Paese (che non funziona) è quel Paese in cui l’amministratore delegato della Thyssen viene condannato a 16 anni per omicidio volontario e dopo sette anni non conosce ancora il prezzo finale della sua pena. In uno dei suoi impianti, la linea numero 5, sono tragicamente morti sette operai. E uno di loro si è salvato per miracolo. Negligenza della Thyssen. Il processo, dopo vari gradi, è ancora in corso. In primo grado un tribunale italiano ha condannato il massimo responsabile di quell’industria come se avesse volontariamente ucciso i suoi sette operai. Qualunque impresa, anche micro, ha centinaia di controlli, ma evidentemente non lo stabilimento Thyssen di Torino, dove è avvenuto il fattaccio. Quando poi la tragedia avviene, si condanna con il manganello il boss tedesco dell’impresa. E si rettifica in appello. Non stupiamoci quindi se i vertici tedeschi dichiarano, più o meno: in Italia non si può investire. Indovina, indovinello: se la Thyssen deve chiudere uno dei suoi stabilimenti europei, quale Paese sceglie? Nessuno dice di lasciare impunite le malefatte delle multinazionali, ma converrebbe avere un po’ di certezza del diritto e non sparare sentenze clamorose e di piazza. L’Ilva di Taranto è un altro tragico caso di scuola. Un malinteso senso di giustizia (che vale solo in un senso, quello dell’accusa) sta distruggendo un patrimonio del Paese. Gli altiforni di Taranto sono stati espropriati alla famiglia Riva sulla base di accuse durissime (disastro ambientale) che sono tutte ancora da dimostrare. La prima udienza è arrivata un mesetto fa, dopo più di due anni di caos giudiziario. Il patron della famiglia è morto, l’azienda è stata commissariata e, secondo un bel reportage di Paolo Bricco, dagli arresti a oggi i vari commissari hanno bruciato 2,5 miliardi di patrimonio netto. Hanno messo in ginocchio l’acciaio italiano. Con un accanimento da Far West , dove però i soprusi arrivano dagli sceriffi. L’Eurostat, non Babbo Natale, ha calcolato che i tedeschi dal 2003 al 2010 hanno fatto investimenti ambientali nelle loro industrie siderurgiche per circa 450 milioni. L’Italia per circa un miliardo, e dunque la quota Ilva di Taranto (che rappresenta il 55% della nostra industria) ha investito nei sette anni della gestione Riva più di quanto abbiano fatto tutte le industrie tedesche. La questione sociale dell’Ilva è lì lì per scoppiare. Su questa Zuppa lo scriviamo da più di un anno. Intanto il tempo passa e l’azienda va a catafascio. Le imprese non si gestiscono con i commissari (grazie al cielo Bondi ha lasciato il passo al più serio Gnudi). L’Ilva è sull’orlo del collasso finanziario e quando domani vedremo i suoi operai in piazza non potremo girarci dall’altra parte: dovremo dire loro con chi prendersela. E non sono i Riva. Il governo ha deciso di mettere in campo la Cassa depositi e prestiti, si tratta di una nazionalizzazione bella e buona. È pur sempre meglio dell’offerta degli indiani: spregiudicati nel comprare a debito e a prezzi da saldo e poi nel fare lo spezzatino. Ma l’aver sventato un rischio (quello indiano, appunto) e aver individuato una possibile via d’uscita (la Cdp con Arvedi, che di acciaio se ne intende) non toglie che il legittimo proprietario esista e si chiama Riva. Tanto per intenderci, i suoi affari, fuori dal perimetro dell’Ilva e dunque delle inchieste tarantine, vanno a gonfie vele. I suoi Forni Elettrici (non ha diversificato in pizzi e merletti) fatturano circa 4 miliardi di euro, fanno utili e non hanno indebitamento rilevante. Sono degli imprenditori modello? Non lo sappiamo. Ma non c’è alcuna sentenza, nemmeno di primo grado, che dica il contrario. E la loro gestione economica dell’Ilva di Taranto, e ora della Forni Elettrici, dimostra come siano tra i pochi in Europa a saper fare questo mestiere. E noi li abbiamo sputtanati e buttati a mare. Ne pagheremo le conseguenze. E sarà inutile piangerci sopra. Era già tutto previsto…Ps. Rincresce vedere come il mondo industriale sia stato assente dalla difesa di questa famiglia, e dunque di questa industria strategica per il Paese. E solo ora stia dando qualche cenno di vita. A parte la solitaria battaglia del numero uno di Federacciai (Antonio Gozzi si è battuto come un leone per fare emergere le ragioni dell’impresa) e dell’attuale numero uno di Assolombarda (Gianfelice Rocca), il resto del mondo confindustriale si è girato dall’altra parte. Si è vergognato dei Riva. In fondo, pensavano, potevano essere un po’ più puliti. O un po’ più confindustriali.
LA BEFFA DEI SOLDI NON SPESI PER I DEPURATORI.
Inquinamento delle acque, i dati allarmanti di Goletta Verde. I campioni prelevati e analizzati dall'associazione ambientalista sono a dir poco preoccupanti senza eccezioni, dalla Liguria alla Sicilia. Principali imputati i depuratori assenti o non idonei e comportamenti criminali come lo sversamento di rifiuti industriali, scrive Carmine Gazzanni su “L’Espresso”. A leggere il rapporto sulla qualità delle acque di balneazione stilato, come ogni anno, dal ministero della Salute, non ci sarebbe di che preoccuparsi. Si evidenzia, addirittura, un aumento delle acque di qualità eccellenti in Italia, con una percentuale pari all’87,2% sul totale delle acque di balneazione italiane, rispetto all’85,1% dell’anno precedente. Insomma, come si legge nel rapporto, “l’Italia è uno dei paesi europei con un più elevato livello di tutela sanitaria in questo settore”. Un risultato di tutto rispetto se consideriamo che il nostro è il Paese europeo con il maggior numero di acque di balneazione tra marine (4.880) e interne (629), per un totale di 5.511 siti. Un quarto del totale di quelle europee. Peccato, però, che i dati pubblicati dal ministero, pur essendo lodevoli, non sembrino poi così attendibili. Non fosse altro per un motivo: il rapporto, pubblicato a stagione estiva ormai nel vivo, descrive una realtà riferita alle analisi condotte nel 2013. E, com’è facilmente immaginabile quando si parla di inquinamento delle acque, nel giro di un anno può cambiare davvero tutto. Perlomeno questo viene da pensare confrontando il quadro che emerge dalla relazione ministeriale con quanto sta venendo alla luce dalle analisi condotte in questi giorni da Legambiente nell’ambito della campagna “Goletta Verde”. Certo, qui parliamo di esami condotti su un campionamento di siti. Eppure le analisi dovrebbero mettere tutti in allerta. Per questioni ambientali. Ma anche per ragioni economiche. Cominciamo dai dati. Come spiega la portavoce di Goletta Verde, Serena Carpentieri, i prelievi e le analisi vengono eseguiti dal laboratorio mobile di Legambiente. I parametri indagati sono microbiologici (enterococchi intestinali, escherichia coli) e vengono determinati come “inquinati” i risultati che superano i valori limite previsti dalla normativa sulle acque di balneazione vigente in Italia (Dlgs 116/2008 e decreto attuativo del 30 marzo 2010) e “fortemente inquinati” quelli che superano più del doppio tali valori. “Quando quei batteri si trovano nell’acqua – precisa Carpentieri – significa che c’è un inquinamento di tipo biologico causato da insufficiente depurazione”. L’obiettivo, d’altronde, è proprio questo, andare a scovare situazioni critiche: “Difficilmente andiamo a campionare tratti di mare che non sono interessati da scarichi, foci di fiumi e quant’altro. Su segnalazione dei cittadini e con l’aiuto dei nostri circoli locali andiamo a campionare siti che sono interessati da canali e fiumi”. Ebbene, da Nord a Sud Legambiente presenta e illustra una realtà impressionante. Il viaggio di Goletta Verde è partito dalla Liguria dove, sui 23 campionamenti effettuati lungo i 345 chilometri di costa, nel 40% dei casi sono stati rinvenuti valori di inquinanti ben oltre i limiti consentiti. Dei sei prelievi in provincia di Genova, tre sono risultati “fortemente inquinanti”, così come anche a Imperia e a La Spezia. Tutta colpa, dicono da Legambiente, di “acque avvelenate da scarichi non depurati adeguatamente che evidentemente provengono anche dalle aree interne e attraverso i fiumi si immettono a mare”. E la situazione non si presenta poi tanto diversa scendendo giù lungo la costa tirrenica. Anzi, se si vuole peggiora. E così, nonostante in Toscana si riscontrino dati tutto sommato positivi con “solo” sei casi che hanno fatto registrare valori oltre il consentito su un totale di 18 prelievi effettuati, bisogna anche qui entrare nel merito. Facendo un raffronto con il Portale delle Acque del Ministero della Salute, infatti, scopriamo che due dei sei punti inquinati (Foce torrente Carrione a Grosseto, Marina e Moletto del Pesce di Marciana Marina, in provincia di Livorno) non sono per nulla campionati dalle autorità competenti; le restanti quattro invece risultano balneabili. Addirittura, denuncia l’associazione, due punti dell’isola d’Elba risultati inquinati, nel portale istituzionale godono di un profilo “eccellente”. C’è qualcosa che non torna. Ma anche questo, purtroppo, non deve sorprendere. Come ci spiega Serena Carpentieri, infatti, “molti tratti di mare interessati da Goletta Verde non ricadono in acque di balneazione per il ministero e quindi sono stati propri esclusi dai campionamenti. In pratica, viene dato per scontato che sono tratti inquinati e tali devono rimanere dato che non vengono monitorati”. Siamo al paradosso. Dati davvero preoccupanti arrivano anche dal Lazio dove, su un totale di 24 campionamenti, ben 18 (il 75%) presentano una incredibile concentrazione di inquinamento microbiologico. Basti questo: in 13 casi il giudizio è addirittura “fortemente inquinato”. Bollino rosso soprattutto per quanto riguarda la provincia di Roma: in quasi la totalità dei prelievi (in 12 casi su 13) sono stati registrati livelli ben al di sopra del consentito. Non solo. Secondo quanto denunciato dal COOU (Consorzio Obbligatorio degli Oli Usati) che sta conducendo le analisi con Legambiente, una vera e propria piaga per il Lazio è costituita dallo sversamento di oli usati. I dati registrati nell’ultimo rapporto (relativo al 2013) sono impressionanti: solo in questa regione sono stati raccolti 10.252 tonnellate di olio usato, di cui 6.548 nella provincia di Roma. Al peggio, però, non c'è fine. E allora, per raschiare davvero il fondo del barile, bisogna aspettare di leggere i dati relativi a Campania, Calabria e Sicilia. Dei 31 punti monitorati in Campania, ben 21 sono risultati inquinati e, di questi, 10 campionamenti riguardano la sola provincia di Napoli. Numeri, d’altronde, che non sorprendono: anche le ultime stime ufficiali (relative al 2012) dell’Arpac parlano di una regione con una quota di depuratori non conformi superiore al 50%. E, come nel Lazio, anche in Campania la responsabilità sarebbe imputabile agli oli usati non eliminati in modo corretto. Secondo la denuncia di Antonio Mastrostefano, direttore della Comunicazione del COOU, “se eliminato in modo scorretto questo rifiuto pericoloso può danneggiare l’ambiente in modo gravissimo: 4 chili di olio usato, il cambio di un’auto, se versati in mare inquinano una superficie grande come sei piscine olimpiche”. Basti pensare che lo scorso anno sono stati quasi 14mila le tonnellate di olio usato recuperato dal COOU. Di questi quasi 9mila nella provincia napoletana. E allora non sarebbe affatto un caso che, dopo ben due condanne dell’Unione Europea per il mancato trattamento delle acque reflue, sia arrivata, proprio all’inizio della stagione estiva, l’apertura di una terza procedura d’infrazione e che questa coinvolga ben 115 comuni campani (su un totale di poco meno di 900), classificando la Campania tra le regioni peggiori d’Italia. Numeri, questi, che fanno eco a quelli pugliesi: su un totale di 187 depuratori, 12 impianti continuano a scaricare nel sottosuolo nonostante questa sia una pratica vietata dalla legge (non a caso due sono stati da poco dismessi), 39 depuratori (dati Arpa Puglia 2013) non sarebbero affatto a norma, 33 sarebbero sotto sequestro per procedimenti penali e 37 sarebbero coinvolti dalla procedura UE. Una realtà incredibile che, dallo screening effettuato, evidenzia pesanti anomalie soprattutto nel tarantino e nel brindisino: i dati di Goletta Verde parlano di 5 punti “fortemente inquinati” su 10 campionamenti effettuati nelle due province. Ci sono regioni, poi, dove i problemi depurativi vanno avanti da anni. È il caso della Sicilia. Dalle analisi di Goletta Verde emerge che oltre il 60% dei punti monitorati lungo le coste non supera l’esame: su 26 prelievi totali, 16 casi hanno restituito un giudizio negativo. C’è da sorprendersi? Probabilmente no, dato che si registrava una situazione profondamente critica già nel 2008 quando l’Istat realizzò il suo ultimo rapporto sui livelli di depurazione e la Sicilia si classificava come peggiore regione italiana, registrando solo un 47% di adeguata copertura. Non sorprende, pertanto, che nella nuova procedura d’infrazione siano addirittura 175 i comuni siciliani attenzionati. Si dirà: ma negli anni non è stato fatto niente? Come vedremo, no. Nonostante i lauti stanziamenti messi a disposizione. È inizio luglio quando la procura di Vibo Valentia, guidata da Mario Spagnuolo, denuncia trenta sindaci tutti del vibonese per scarico abusivo, al termine di un’indagine a tappeto condotta dalla Capitaneria di Porto di Vibo Marina che ha messo sotto osservazione gli impianti di depurazione del territorio provinciale. Dai controlli, infatti, sarebbe emersa una situazione disastrosa: secondo quanto denunciato dalle autorità, il servizio di depurazione nel vibonese coprirebbe solo il 40% della popolazione, i reflui del 60% degli abitanti scorrerebbe a mare o in fossi e torrenti, su 50 comuni della provincia di Vibo ben 17 non sarebbero dotati di impianti e gran parte dei tronchi fognari scaricherebbero le proprie acque, senza alcun tipo di trattamento, nei corsi d'acqua che arrivano a mare. Insomma, un disastro. Così come lo è stata un’altra vicenda, anche questa denunciata dalla procura di Vibo, sull’indotto dell’Alaco, il lago artificiale che, tra la provincia vibonese e quella catanzarese, rifornisce d’acqua circa 400 mila abitanti: tra tecnici, funzionari regionali e amministratori locali (tra cui anche i due sindaci dei capoluoghi) sono 36 le persone coinvolte nei confronti dei quali si contesta, tra le altre cose, anche l’avvelenamento colposo delle acque. Una realtà incredibile, dunque, quella calabrese. E i dati di Legambiente non fanno che confermarlo: addirittura nell’80% dei casi campionati (19 su 24) sono state registrate cariche batteriche almeno due volte più alte di quelle consentite dalla legge, con un giudizio di “fortemente inquinato”. E non è solo Legambiente a denunciare questa situazione, visto che nella nuova procedura di infrazione europea sul trattamento dei reflui urbani sono 129 i comuni calabresi in cui vengono segnalate “anomalie” sulla depurazione. Oltre al danno ambientale, quello economico. Tra sentenze UE e finanziamenti mai utilizzati. Il quadro che emerge, dunque, è spaventoso. E non solo per questioni ambientali, ma anche per ragioni economiche. La direttiva europea sulle acque reflue è del 21 maggio 1991: sono dunque quasi 25 anni che l’Italia resta inadempiente e colleziona sanzioni comunitarie, nonostante la direttiva sia stata recepita nel ‘99. E così, a conferma del grave deficit del sistema depurativo, è arrivata solo pochi mesi fa la terza procedura d’infrazione, relativa a 41 agglomerati urbani per un totale di circa 900 comuni sparsi in ben 12 regioni italiane. Gravissime le conclusioni a cui giunge la Commissione e riportate nella comunicazione del 31 marzo: “la Commissione ritiene che l’Italia sia venuta meno agli obblighi incombenti (...) della Direttiva 91/271/CEE in un numero consistente di agglomerati, alcuni dei quali molto grandi (Roma, Firenze, Napoli, Bari, Pisa, ecc.) e alcuni dei quali scaricano in aree sensibili”. E ancora: “l’Italia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti della Direttiva in cinquantacinque aree sensibili”. Conclusioni che ribadiscono quanto già detto nelle due sentenze di condanna già inflitte: una, arrivata a luglio 2012 (e aperta nel 2004), riguardante oltre 100 agglomerati; la seconda (aperta nel 2009) la cui sentenza è arrivata il 10 aprile 2014 e riguardante decine di agglomerati, dalla Sicilia alla Lombardia, con più di 10mila abitanti equivalenti che scaricano in aree sensibili. “Ben presto – dice Carpentieri – arriveranno anche delle multe in seguito alle condanne. Bisognerà vedere se negli agglomerati sia stata messa in atto una programmazione tale da poter evitare sanzioni pecuniarie”. Sanzioni che potrebbero essere decisamente pesanti. Secondo una ricognizione della Confservizi Piemonte si parlerebbe di una condanna che andrebbe da un minimo di 11.904 euro a un massimo di 714.240 euro per ogni giorno di ritardo nell’adeguamento a decorrere dalla pronuncia della sentenza, che si aggiungerebbero a una somma forfetaria che per l’Italia corrisponde ad un minimo di 8 milioni 863 mila euro. Ancora più drastico è stato il gruppo Hera (società che gestisce il servizio idrico in Emilia Romagna) che addirittura ha parlato di sanzioni che in totale potrebbero arrivare a 700 milioni di euro. Bisognerebbe correre ai ripari, dunque. E il prima possibile. Peccato, però che poco si stia facendo. Nonostante – paradosso dei paradossi – i finanziamenti ci siano. Clamorosi i casi, tra gli altri, di Sicilia e Calabria. Secondo quanto denunciato dalla deputata M5S Dalila Nesci in un’interrogazione depositata in questi giorni, dal 2000 al 2012 la regione calabrese ha beneficiato tra fondi CIPE, europei e ministeriali di 717 milioni di euro proprio per completare, adeguare e ripristinare il sistema fognario. A vedere i risultati, però, sembrerebbe proprio che poco sia stato fatto, tanto che la parlamentare ha chiesto conto di tali finanziamenti e dei progetti portati a termine. Situazione analoga anche in Sicilia. Secondo la denuncia di Legambiente il miliardo e 161 milioni di euro messi a disposizione per la regione dal Fondo di Sviluppo e Coesione per realizzare fogne e depuratori rischia ora di tornare a Bruxelles. Il motivo è tragicomico: quasi nessuno ha utilizzato questi fondi. “Finora – denuncia ancora Carpentieri - le risorse utilizzate ammontano ad appena 65 milioni”. Il resto è rimasto incredibilmente in cassa. Vedremo cosa succederà d’ora in avanti considerando che con la legge di stabilità 2014 è stato istituito un fondo apposito finalizzato a potenziare la rete depurativa per i reflui urbani. La dotazione complessiva per il prossimo triennio è di 90 milioni di euro (10 per quest’anno, 30 per il 2015 e 50 per il 2016). Difficile, davanti ad un quadro così desolante, rintracciare singole responsabilità. Certamente gli enti locali hanno la loro bella fetta di colpa dato che “sono i primi chiamati in causa soprattutto in riferimento alle progettualità da avviare. È una materia che tocca tanti enti che dovrebbero riunirsi attorno ad un tavolo per pianificare il lavoro. Questa dinamica però – continua la portavoce di Legambiente – spesso fallisce e il risultato è che ogni estate ci troviamo a dover commentare dati di questo genere e ad assistere a sequestri di depuratori e a malfunzionamenti di vario genere. Ci sono situazioni che vanno avanti da decenni e non si vede all’orizzonte una soluzione”. Alla negligenza e incuria delle singole amministrazioni locali, si affiancano anche responsabilità ministeriali. Quello che verrebbe da pensare, infatti, è che mancano i dovuti controlli. E, quando ci sono, arrivano in spaventoso ritardo. Non solo infatti il rapporto presentato pochi giorni fa dal ministero della Salute si riferisce, come detto, ad analisi del 2013. C’è anche dell’altro. Il 9 luglio scorso, infatti, si è riunita la “Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche” messa in piedi direttamente della Presidenza del Consiglio dei ministri e in cui ritroviamo tecnici ministeriali, della protezione civile e delle varie amministrazioni locali. Ebbene, in quella data si è deciso di avviare – finalmente – la programmazione di interventi in materia di depurazione e trattamento delle acque reflue. Bene. Ma da quando? Da settembre 2014. Insomma, a stagione estiva e turistica conclusa. D’altronde è tempo di vacanze. Meglio farsi un bagno in mare. Inquinato.
La beffa dei soldi non spesi per i depuratori, due miliardi inutilizzati. Quattro italiani su dieci scaricano nei fiumi e in mare. In arrivo una maximulta da Bruxelles. Maglia nera al Friuli Venezia Giulia, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Zero carbonella: ecco i soldi spesi dalla Sicilia di quel miliardo e 96 milioni di euro che aveva ricevuto per depurare le acque. Un danno e una beffa: sta per arrivare, da Bruxelles, una sanzione pesante. Che non colpirà solo l’isola. È l’Italia tutta, infatti, a essere lontana dagli standard dei Paesi di punta: il 36% dei cittadini scarica direttamente nei fiumi e in mare. Una vergogna. Che ci può costare quasi un miliardo di maximulta. Soldi buttati per «sciatterie, inefficienze, mancati controlli...». La tabella di confronto col resto d’Europa fa arrossire: dietro di noi, che arranchiamo con solo 64 cittadini su cento dotati d’un sistema fognario, ci sono l’Estonia, il Portogallo, la Slovenia... Ma siamo staccati di 9 punti dal Belgio, 17 dalla Repubblica Ceca, 20 dalla Francia, 22 dalla Spagna, 33 dalla Finlandia, 34 dalla Lituania e dalla Gran Bretagna, 36 dall’Austria, dalla Germania o dall’Olanda. Certo, i dati della «Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e lo sviluppo delle infrastrutture idriche», voluta da Renzi per accorpare il tema delle acque e unificare ad esempio sei banche dati diverse «dove non c’era un numero che tornasse», dicono che è il Mezzogiorno l’area più critica: la metà dei cittadini scarica senza filtri. A dispetto di certi stereotipi anti-meridionalisti, però, spiega Erasmo D’Angelis, che guida la Struttura, la regione più esposta alla stangata europea per l’assenza di depurazioni è il Friuli Venezia Giulia. Dove la multa in arrivo da Bruxelles il 1° gennaio 2016, secondo le previsioni calcolate dalla Struttura di missione dovrebbe essere di 66 milioni di euro pari a 53,6 euro pro capite. Il doppio della multa alla Calabria, quasi il quintuplo rispetto alla Liguria, sette volte la media nazionale (8,1 euro), il decuplo della Puglia. Seconda, per sanzione pro capite, è un’altra regione settentrionale, la Val d’Aosta: 39 euro pro capite. Terza la Sicilia, che pagherà complessivamente la somma più alta: 185 milioni. Ma è tutta la penisola, accusa D’Angelis, ad essere in ritardo: «Perfino in Lombardia (dico: in Lombardia!) i fiumi e i laghi sono per il 40% gravemente inquinati». Totale della maximulta in arrivo per i depuratori, secondo la Struttura: 482 milioni di euro. Più altrettanti o poco meno per l’inquinamento di corsi d’acqua, laghi, lagune... Sono strettamente collegati il rischio idrogeologico, lo sviluppo delle infrastrutture idriche e l’adeguamento del sistema della depurazione delle acque e della bonifica delle discariche. Senza equilibrio, addio. Come ricorda una relazione della «Struttura» alla Camera, il nostro è uno dei Paesi più franosi del mondo: «486.000 delle 700.000 frane in tutta l’Ue sono in 5.708 Comuni italiani, 2.940 a livello di attenzione molto elevato». E questo «si intreccia con una impressionante carenza pianificatoria di superficie, la quasi scomparsa delle manutenzioni, abuso del suolo e fiumi incanalati in piste da bob o intubati sotto le città pronti ad esplodere al primo nubifragio come il Seveso». E si intreccia ancora «con un generale fatalismo e la scarsa percezione della dimensione dei rischi e di conoscenza dei fenomeni». Va da sé che la potenza distruttiva della natura (Dante stesso pare accennare alle «bombe d’acqua» ma ce n’erano molte meno di oggi) «viene moltiplicata dai nostri errori fatali, primo fra tutti la caparbietà con la quale il territorio più fragile» e più abitato (189 abitanti per chilometro quadrato contro i 114 della Francia e gli 89 della Spagna) «è stato spremuto» senza tener conto della «regola base della prevenzione strutturale». Un esempio? Su 16.700 chilometri di binari ferroviari 6.700 sono esposti a rischio: «Non occorrono esperti amministrativisti o contabili ma di psichiatria». Basta, sostiene il documento, «non è più accettabile vedere l’Italia che crolla, frana e si allaga così facilmente e non poter far nulla o poco perché pur in presenza di risorse bisogna aspettare firme, timbri e pareri per tempi indefiniti. E assistere a Conferenze di servizi dove i poteri di veto di ogni partecipante sono simili a quelli del Consiglio di Sicurezza Onu, facendo passare 3-6 anni dalla progettazione all’inizio di lavori anche banali». Matteo Renzi assicura di voler accantonare «un miliardo l’anno del Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC) 2014-20 per il finanziamento di interventi infrastrutturali di messa in sicurezza di territori e in particolare a difesa delle aree metropolitane». Ma poi, sarà possibile spendere quei soldi o resteranno appesi al soffitto come caciocavalli? La domanda non è retorica: negli ultimi 16 anni, accusa il documento consegnato a Montecitorio, non sono stati usati un sacco di quattrini destinati alla messa in sicurezza idrogeologica e alla depurazione delle acque, che come abbiamo visto nel caso del Seveso o del Sarno sono strettamente legate. Colpa di «procedure burocratiche abnormi», di ricorsi infiniti dopo ogni appalto (perfino i lavori sul Bisagno, protagonista di disastrose inondazioni a Genova, sono bloccati...), di veti incrociati, di «ritardi ed eccessiva complessità delle procedure di valutazione di impatto ambientale». Totale dei soldi non spesi, in tre blocchi principali di finanziamenti: due miliardi e 273 milioni. Tutti denari già disponibili, cash, per i quali non sono mai stati aperti i cantieri. E qui sono sotto accusa soprattutto tre regioni meridionali. «Sicilia, Calabria e Campania hanno in comune l’impressionante incapacità di spesa e l’inefficienza della Pubblica amministrazione a partire dai livelli regionali», scrive D’Angelis in una lettera al presidente del Consiglio. Un esempio? I soldi stanziati con gli accordi di programma 2009/10. In Calabria, su 185 interventi programmati, solo cinque cantieri aperti e manco uno chiuso nonostante il territorio sia così fragile da aver vissuto dal 2010 a oggi «454 nuove emergenze». In Campania su 97 programmati solo quattro cantieri aperti e solo due chiusi. In Sicilia 194 programmati, 43 cantieri già chiusi e 71 aperti ma la Regione, che avrebbe dovuto sborsare 172 milioni accanto a quelli statali, ha scucito solo «lo 0,1%». Quanto al Report delle opere idriche, «la Delibera Cipe 60/2012 impegnava 1,6 miliardi per le Regioni del Sud per un totale di 183 interventi (depuratori, collettori, reti fognarie). Ad oggi nessuna opera è conclusa». Nessuna. Maglia nera, come dicevamo, la Sicilia che grazie anche a Stefania Prestigiacomo era stata benedetta da una pioggia di quattrini: «Su 96 opere programmate per 1.096 miliardi appena 5 opere al preliminare e zero fondi impegnati». Ulteriore conferma di una certezza: non è (solo) una questione di soldi...
AREA MARINA PROTETTA. A MANDURIA QUALCOSA NON VA……
A Manduria qualcosa non va. Non voglio pensare che tutti i cittadini del paese messapico siano in sintonia con i loro amministratori. Al contrario, la cosa sarebbe grave e da far pensare.
Gli amministratori manduriani, che si presume rappresentino tutta la cittadinanza di Manduria, sembra che adottino provvedimenti amministrativi paradossali e poco condivisibili dal resto del mondo.
Gli amministratori manduriani e quelli savesi, pur avendo un vasto territorio idoneo alla bisogna, furbescamente, prima hanno deciso di disfarsi delle loro feci, scaricandoli sul territorio di Avetrana, con la realizzazione del depuratore consortile a fianco dell’Urmo, frazione turistica di Avetrana ad 1 km dal mare, giusto per rovinare lo sviluppo turistico di Avetrana, poi, non contenti decidono di sversare il liquame nel mare prospiciente, di competenza manduriana.
Questo con la colpevole, se non dolosa, complicità dei rappresentanti locali e regionali di tutti gli schieramenti politici: da Calò, Massaro fino a Massafra; da Fitto a Vendola.
Non è che per anni Manduria abbia fatto qualcosa per quel suo territorio di costa. Abusivismo, abbandono e degrado. Quello che fa Maruggio con Campomarino, o Porto Cesareo per sé e con Torre Lapillo per valorizzare la costa e creare sviluppo e lavoro, (giusto per citare i loro vicini più prossimi), per i manduriani è una missione impossibile.
Cosa si può pensare di una amministrazione che ti vieta addirittura il parcheggio per le auto dei bagnanti pendolari che dall’entroterra si versano sulla costa. Giusto per respingerli come se fossero migranti venuti dall’Africa. E poi per difendere cosa? Se non una costa abbandonata e desolata.
Per i manduriani considerare il Salento come la nuova El Dorado del turismo al pari del resto della Puglia o della Versilia o del litorale marchigiano romagnolo è una utopia scolastica. Purtroppo i limiti culturali ed imprenditoriali son quelli. Chissà se gli amministratori manduriani hanno mai visitato quei luoghi, giusto per imparare qualcosa dai loro colleghi.
Oggi che si vedono stretti in un cul de sac dalle proteste di tutte le popolazioni spalleggiate dalle loro amministrazioni comunali dei paesi limitrofi per la questione depuratore consortile, il Consiglio Comunale di Manduria ha approvato all’unanimità l’avvio dell’iter per l’istituzione di un’area marina protetta a tutela degli ecosistemi marini e costieri del tratto di mare che ricade nella giurisdizione della città messapica. I diciotto chilometri della costa di Manduria si allungano in direzione sud-ovest da Torre Borraco a Torre Columena dove arrivano le ultime propaggini delle Murge Tarantine, passando per San Pietro in Bevagna. Quasi a tempo di record, quindi, la proposta avanzata dal circolo di Manduria di Legambiente è stata recepita dall’intero consesso elettivo. Legambiente ha prodotto tutta la documentazione necessaria, oltre alle cartine dell’area interessata. Il Consiglio Comunale, pertanto, non si è lasciato sfuggire l’occasione di avviare l’iter per dotarsi di uno strumento per loro prezioso.
Ergo: sotto l’egida degli ambientalisti hanno approvato l’adozione di un progetto di desertificazione. Le mire degli ambientalisti manduriani è come quello degli ambientalisti tarantini: anziché incrementare aziende sanificate tendono a desertificare il territorio dal tessuto produttivo.
L’adozione della proposta assomiglia alla barzelletta di quel marito tradito che per punire la moglie si taglia il…….
In un periodo di recessione, intervenendo sullo sviluppo, impedendone la crescita è un paradosso.
Per chi vuol sapere cosa sia una Area Marina Protetta, basta leggere Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
L'area naturale marina protetta, definita per comodità, anche a livello internazionale, generalmente e più brevemente solo come area marina protetta o AMP, è una zona di mare circoscritta, in genere di particolare pregio ambientale e paesaggistico, all'interno della quale è in vigore una normativa limitativa e protettiva dell'habitat, delle specie e dei luoghi, e relativa alla regolamentazione e gestione delle attività consentite. Rientrano nell'ambito delle aree naturali protette e spesso sono anche definite riserve; in alcune di esse viene consentita anche la pesca commerciale tradizionale, presumibilmente non distruttiva.
In Italia dopo un lunghissimo iter di studio e fattibilità, contrastato soprattutto da pescatori, persone e politici con interessi particolari soprattutto speculativi all'interno delle aree dove ne era prevista l'istituzione, un estenuante e acceso dibattito politico nonché un profondo ritardo nei confronti di tutti gli stati occidentali, è stata finalmente attuata una legge quadro ed infine nel giro di diversi anni sono state infine istituite nel tempo tutte le aree marine ora in esercizio.
Le motivazioni di base erano e sono la necessità di preservare l'ambiente ed in particolare la flora, la fauna e la geologia delle aree prese in esame, di rendere impossibile o limitare, se non per motivi di effettiva necessità istituzionali, la costruzione di nuovi edifici e di non effettuare attività turistiche, commerciali ed industriali che potessero in qualche modo snaturare e danneggiare e fasce costiere di tali località, anche se in effetti le tardive istituzioni hanno consentito negli anni passati di costruire alberghi e insediamenti abitativi completamente inadeguati e fuori dalle logiche ambientalistiche all'interno delle aree costiere di pregio. Le AMP sono in pratica delle zone dove è praticamente molto difficile se non impossibile costruire lungo i litorali nuovi edifici, nel caso possono e devono essere restaurati e resi fruibili per le normali attività degli enti e associazioni preposti alla tutela, valorizzazione e promozione di tali aree.
Una delle peculiarità delle regole dell’AMP è quella di limitare le attività di pesca e prelievo con delle regolamentazioni specifiche, ma anche quella di promuovere ed effettuare dei programmi di studio, ricerca e ripopolamento abbinati a dei programmi didattici ed educativi che permettano la maggiore conoscenza e sensibilità nei confronti della natura.
In Italia le aree sono suddivise in 3 zone denominate zona "A", zona "B" e zona "C" Le zone "A" sono delle aree delimitate dove non è possibile svolgere alcuna attività, quindi neanche il transito e la balneazione, che non sia di carattere scientifico e di controllo, mentre le zone "B" e "C" sono fruibili ma con relativi limiti alla pesca e agli attrezzi utilizzabili ed alla velocità di transito, in genere sotto i 6 nodi vicino alle coste. La pesca sportiva con canne e lenze è generalmente consentita con autorizzazioni contingentate mentre la pesca subacquea sportiva è completamente vietata, ed è consentita solo la pesca subacquea professionale limitatamente alla raccolta del riccio di mare Paracentrotus lividus che hanno raggiunto la taglia commerciale e solo in apnea, con ulteriore limitazione delle quantità prelevabili.
In poche parole Area Marina Protetta significa area marina e costiera non più fruibile da alcuno, residente o turista.
Bene, ma come si concilia da desertificazione e quindi l’inibizione di qualsivoglia opera urbanistica igienico sanitaria con la sanificazione di tutta un’area aggredita dall’edilizia abusiva con migliaia di case che scaricano i liquami domestici nella falda acquifera?
C’è da chiedersi: a Manduria come si scelgono i rappresentanti politici? Per la loro capacità o solo per la loro ambizione e capacità di proporsi per apparire?
DEPURATORI. COME CI PRENDONO PER IL CULO.
Dal 23 luglio 2014 una piattaforma attrezzata per le trivellazioni marine ha effettuato dei carotaggi (trivellazioni per prelevare campioni da esaminare), nei fondali in zona Specchiarica, marina di Manduria, scrive “La voce di Manduria”. La società che se ne occupa è la Ce.Sub. di San Giorgio, incaricata dalla ditta Putignano, l’impresa aggiudicataria dei lavori di realizzazione del depuratore con scarico a mare. I lavori già autorizzati dalla Capitaneria di porto prevedono «l’esecuzione di un’indagine stratigrafica dei fondali marini tramite attività di carotaggio continuo e l’esecuzione di video riprese subacquee lungo l’asse di varo della condotta negli specchi acque meglio di seguito individuati, propedeutici alla costruzione di una condotta sottomarina asservita all’impianto di depurazione e collettori di scarico a servizio degli abitanti di Sava e Manduria». Di tali lavori di carotaggio sono stati già informati sia la Regione Puglia che il Comune di Manduria. A quest’ultimo la comunicazione è pervenuta proprio mercoledì 23. Sicuramente prima al presidente Nichi Vendola e al suo assessore ai Lavori Pubblici, Giovanni Giannini che proprio lunedì (due giorni prima che al comune di Manduria arrivasse il fax dell’Aqp), ha incontrato i sindaci di Manduria, Sava, Avetrana e Maruggio ai quali – invitati a Bari proprio per discutere la questione depuratore -, non è stata data comunicazione di un iter oramai più che avviato. Alla vigilia dell’importante incontro sulle sorti del depuratore consortile tra gli assessori regionali Giannini e Nardoni, rispettivamente ai lavori pubblici e all’agricoltura, e i sindaci di Sava, Manduria e Avetrana, il primo cittadino di Sava, Dario Iaia, che ha chiesto e ottenuto l’incontro, prende posizione e lancia la proposta che «potrebbe mettere d’accordo tutti». «E’ necessario – dice – che vi sia un ulteriore sforzo da parte degli organi regionali per finanziare e rendere concreto un maggiore affinamento delle acque reflue ed il riuso in agricoltura, con lo sversamento dei reflui nelle cave di Avetrana o nei terreni messi a disposizione dal comune di Manduria, prevedendo la condotta sottomarina solo per i casi di emergenza». Consapevole delle resistenze che opporranno alla sua proposta «gli oltranzisti dell’ambiente i quali si opporranno sempre e comunque a qualunque soluzione», il sindaco Iaia presenta per la prima volta una proposta alternativa al vecchio progetto dell’acquedotto pugliese che, allo stato dei fatti, prevede un depuratore sulla costa manduriana con lo sversamento nel mare di Specchiarica attraverso una condotta sottomarina, dei reflui non affinati. La proposta del sindaco di Sava è sostanzialmente identica a quella che il sindaco di Manduria ha ribadito nel corso di una riunione avuta venerdì mattina nel suo studio con i rappresentanti dei comitati ambientalisti di Manduria e Avetrana. Il sindaco savese ha le idee chiare in proposito. «Ho chiesto ai miei colleghi sindaci ed agli assessori Nardoni e Giannini di insediare un tavolo politico – afferma Iaia – per confrontarci, ancora, su quale possa essere la soluzione più condivisa per risolvere questa annosa questione. Come abbiamo avuto modo di chiarire anche in altre occasioni – continua il primo cittadino di Sava – questo non può più essere il tempo dell’attesa, ma deve essere quello della decisione e della responsabilità che deve essere assunta da chi ha ruoli politico amministrativi. Il mio comune con 17 mila abitanti – sottolinea Iaia – non può più attendere la realizzazione di quest’opera perché le condizioni igienico sanitarie sono al limite, a meno che – avverte – non si voglia che si ritorni a parlare di colera anche da noi. Queste considerazioni, avverte il sindaco Iaia, valgono anche per Manduria, per Avetrana e per le marine, «ancora oggi – ricorda – prive completamente o in gran parte di sistema fognario». Rivolgendosi agli ambientalisti soprattutto avetranesi, il sindaco di Sava conclude così il suo intervento: «dovrebbero ammettere – dice – che oggi tutti noi stiamo inquinando la falda acquifera e quindi il mare; anche se non lo vediamo lo sappiamo ed è sufficiente guardare i dati dell’Arpa sul decadimento della qualità delle acque nei mesi estivi, causato dagli scarichi in falda». Alla luce di questo nuovo intervento di Sava le posizioni delle parti si possono così delineare. Le istituzioni di Manduria e Sava, mantenendo ferma la necessità di un nuovo depuratore, spingono per l’ambientalizzazione dell’opera: sì al depuratore; sì all’affinamento dei reflui da utilizzare per uso irriguo; sì alla condotta sottomarina a Specchiarica ma solo per il troppo pieno quando cioè le falde o le cave non riusciranno a smaltire la quantità dei reflui prodotta in eccesso. Le istituzioni di Avetrana e gli ambientalisti più convinti (questi ultimi quasi tutti avetranesi), dicono no al depuratore sulla costa, no alla condotta sottomarina e sì alle alternative delle cave o trincee drenanti. Insieme alla comunicazione di inizio lavori di carotaggio, l’Acquedotto pugliese ha fatto sapere come si muoverà sino al completamento dell’opera (depuratore tabella 2 con condotta sottomarina di un chilometro) che dovrebbe entrare in esercizio il 15 marzo del 2017 mentre i lavori, sempre secondo il cronoprogramma della società che lo gestirà (l’Aqp stessa), termineranno il 15 luglio del 2016. L’apertura vera e propria del cantiere invece, è stata fissata per il prossimo 15 settembre 2014.
Questo non basta. In piena estate e in periodo di fulcro turistico si impedisce la balneazione. Secondo quanto previsto dall’ordinanza della Capitaneria di Porto che autorizza l’impresa «Ce. Sub», incaricata di effettuare i sondaggi e le videoriprese dei fondali dove sarà ancorata la condotta del depuratore, tutta la zona interessata deve essere interdetta alla balneazione, navigazione e pesca. Questo sino alla fine delle operazioni prevista per il 10 agosto. Sino a quella data, quindi, una vasta zona di mare (una lingua larga 400 metri e lunga un chilometro in direzione di Specchiarica) è off-limits. «Negli specchi d’acqua sopra indicati – si legge infatti nell’ordinanza della capitaneria – durante le attività specificate sono vietate la navigazione di qualsiasi unità navale, la pesca e qualsiasi altra attività legata all’uso del mare».
Non hanno perso tempo e sono passati ai fatti gli avetranesi che per protesta hanno bloccato la litoranea. Sin dalle prime ore del pomeriggio gli attivisti dei comitati avetranesi e semplici residenti della zona di Specchiarica si sono raccolti sul tratto di spiaggia dove, al largo, erano in corso i lavori di trivellazione e carotaggio. Ne è nata una manifestazione spontanea cresciuta a dismisura. Il gruppetto di protestanti si è trasformato in folla rumorosa e arrabbiata composta anche da ambientalisti manduriani. I manifestanti tra cui alcuni amministratori di Avetrana, hanno detto che non si muoveranno da lì sino a quando non si fermeranno i lavori. Disagi intanto sono stati creati alla circolazione per l’interruzione della litoranea all’altezza del Bar D’Alì nella Marina di Specchiarica. Tra le proposte di lotta avanzate, oltre al sit in permanente, la raccolta firme e l’occupazione pacifica con imbarcazioni civili del tratto di mare interessato ai saggi della ditta di San Giorgio. Durante i comizi improvvisati non sono mancate accuse di lassismo al popolo e alle istituzioni di Manduria. Assenti gli amministratori messapici.
Già tutte anime candide. E vi si elencano.
Gli Amministratori di Manduria e Sava vogliono sversare la loro “merda” nel territorio di avetrana: «E’ necessario – dice – che vi sia un ulteriore sforzo da parte degli organi regionali per finanziare e rendere concreto un maggiore affinamento delle acque reflue ed il riuso in agricoltura, con lo sversamento dei reflui nelle cave di Avetrana o nei terreni messi a disposizione dal comune di Manduria, prevedendo la condotta sottomarina solo per i casi di emergenza» Dice il Sindaco di Sava Daio Iaia. La proposta del sindaco di Sava è sostanzialmente identica a quella che il sindaco di Manduria Roberto Massafra ha ribadito nel corso di una riunione avuta nel suo studio con i rappresentanti dei comitati ambientalisti di Manduria e Avetrana.
I manduriani, si sa, sono inconcludenti dal punto di vista amministrativo; litigiosi e polemici dal punto di vista politico; sono molto volpini, così come i savesi, se devono fottere i vicini stupidi, come sono quelli di Avetrana. Il progetto sul depuratore e sullo scarico a mare fu avviato da Antonio Calò e proseguito da Francesco Saverio Massaro, Paolo, Tommasino Roberto Massafra.
I governatori e le giunte regionali hanno autorizzato i depuratori e gli scarichi a mare, (quindi non solo quello consortile di Manduria-Sava posto a confine al territorio di Avetrana e sulla costa). I vari governatori sono stati Raffaele Fitto del centro destra e Nicola Vendola del centro sinistra. Entrambi gli schieramenti hanno preso per il culo le cittadinanze locali, preferendo fare gli interessi dell’Acquedotto pugliese, loro ente foriero di interessi anche elettorali.
Le popolazioni in rivolta, in particolare quelle di Avetrana, sono sobillate e fomentate da quei militanti politici che ad Avetrana hanno raccolto, prima e dopo l’adozione del progetto, i voti per Antonio Calò alle elezioni provinciali e per tutti i manduriani che volevano i voti di Avetrana. Il sindaco Luigi Conte, prima, e il sindaco Mario De Marco, dopo, nulla hanno fatto per fermare un obbrobrio al suo nascere. Conte ha pensato bene, invece, con i soldi pubblici, di avviare una causa contro Fitto per la riforma sanitaria. In più, quelli del centro destra e del centro sinistra, continuavano e continuano ed essere portatori di voti per Raffaele Fitto e per Nicola Vendola, o chi per loro futuri sostituti, e per gli schieramenti che li sostengono.
Certo, però, è che la ritorsione non si è fatta attendere.
Gestiva un chiosco-bar in muratura con tanto di tettoria ricoperta in legno per la sistemazione di tavolini e sedie per gli avventori direttamente realizzato sulla spiaggia libera, in un tratto di pubblico demanio marittimo del litorale del comune di Manduria, per la precisione in località Specchiarica, per una superficie totale abusivamente occupata di circa 200 mq., all’interno della quale i militari accertatori appartenenti al Nucleo Difesa mare della Guardia Costiera di Taranto hanno rinvenuto anche un ripostiglio in legno, una vasca di stoccaggio e persino una fossa imhoff, il tutto in difetto di alcun titolo concessorio che legittimasse l’occupazione di pubblico demanio oltre che di alcuna concessione edilizia rilasciata dal Comune competente, scrive “La Voce di Manduria” in questo lunghissimo periodo senza soluzione di continuità sintattica. All’atto del controllo, condotto in prima mattinata del 24 luglio 2014 , il chiosco, ubicato in un tratto di litoranea altamente frequentato da turisti e bagnanti, iniziava ad affollarsi per il sopraggiungere di clienti, che sorpresi del fatto che l’intera struttura fosse completamente abusiva, hanno assistito agli accertamenti condotti dal personale militare procedente. Di tutta l’operazione è stata prontamente informata la Procura della Repubblica di Taranto che ha disposto l’immediato sequestro penale di tutte le opere abusive realizzate. Il titolare del chiosco-bar è stato quindi denunciato dai militari procedenti per la abusiva occupazione ai sensi dell’articolo 1161 del Codice della Navigazione.
“Ecco un esempio come in Italia funzionano i controlli. Quel kiosco si trova là da minimo 40 anni, prima era invisibile o altro!!!”, commenta Maria.
“Ma dai un ristoro come ce ne sono a centinaia. Proprio un comune pochissimo virtuoso come quello di Manduria che fa le pulci ad un poveraccio che tira a campare. Ma mi faccia il piacere se volete controllare andate a vedere quello che non viene fatto per gli abitanti di tutta la Marina di Manduria.Mancanza di acqua potabile e fognatura per cominciare. Ma proprio per cominciare……”, scrive invece Rossiandrea900.
L’acquedotto Pugliese, invece, fa gli affari suoi. Non riusa i reflui della depurazione per l’agricoltura perché troppo oneroso. Come se l’acqua resa non se la facesse pagare.
La stampa, poi, più che altro è manduriana o tarantina. Sai quanto se ne fottono di quei quattro indigeni avetranesi?
Basta guardare cosa succede a chi sputa nel piatto in cui si mangia.
E’ stato licenziato Luigi Abbate, il giornalista di Taranto divenuto famoso per le sue domande scomode e il microfono che gli fu strappato dalle mani durante una conferenza stampa da Girolamo Archinà, il responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva, arrestato nell’ambito dell’inchiesta della magistratura tarantina "Ambiente Svenduto". Lo scrive in una nota il presidente di Assostampa Puglia, Raffaele Lorusso. Già un anno fa, nell'assordante silenzio delle istituzioni e delle forze politiche di Taranto, Blustar Tv - scrive Lorusso - licenziò quattro giornalisti adducendo quale motivazione il venir meno dei centomila euro annualmente garantiti dall'Ilva.
DEPURATORI DELLE ACQUE E POLEMICHE STRUMENTALI. UN PROBLEMA NAZIONALE, NON LOCALE.
Come si butta via l’acqua. Lo spreco di una risorsa naturale essenziale per la vita e lo sviluppo economico.
Diritto alla salute o idolatria naturista? Politica malsana o interessi economici? Disatteso fabbisogno di acqua o inquinamento delle acque superficiali? Tutto questo parlame coinvolge tutti i cittadini, mentre la magistratura sta a guardare…..
«Per secoli si sono sversate in falda sotterranea o nei canali di scolo le acque reflue di origine urbana, quando esse non erano riutilizzate. La natura auto depurava l’insano liquido. Poi con l’industrializzazione sono nati i problemi di inquinamento delle risorse idriche. E sono nati i depuratori ed il business del trattamento delle acque reflue. Oggi è una vergogna solo starne a parlare. Scegliere tra il riuso e lo spreco o l’inquinamento? Solo i mentecatti possono decidere di buttare a mare o in falda una risorsa naturale limitata! Solo i criminali scelgono di inquinare l’ambiente e impedire lo sviluppo economico!»
Questo denuncia il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” ed autore del libro “Ambientopoli” pubblicato su Amazon.
Si definisce trattamento delle acque reflue (o depurazione delle acque reflue) il processo di rimozione dei contaminanti da un'acqua reflua di origine urbana o industriale, ovvero di un effluente che è stato contaminato da inquinanti organici e/o inorganici. Le acque reflue non possono essere reimmesse nell'ambiente tal quali poiché i recapiti finali come il terreno, il mare, i fiumi ed i laghi non sono in grado di ricevere una quantità di sostanze inquinanti superiore alla propria capacità autodepurativa. Il trattamento di depurazione dei liquami urbani consiste in una successione di più fasi (o processi) durante i quali, dall'acqua reflua vengono rimosse le sostanze indesiderate, che vengono concentrate sotto forma di fanghi, dando luogo ad un effluente finale di qualità tale da risultare compatibile con la capacità autodepurativa del corpo ricettore (terreno, lago, fiume o mare mediante condotta sottomarina o in battigia) prescelto per lo sversamento, senza che questo ne possa subire danni (ad esempio dal punto di vista dell'ecosistema ad esso afferente). . Il ciclo depurativo è costituito da una combinazione di più processi di natura chimica, fisica e biologica. I fanghi provenienti dal ciclo di depurazione sono spesso contaminati con sostanze tossiche e pertanto devono subire anch'essi una serie di trattamenti necessari a renderli idonei allo smaltimento ad esempio in discariche speciali o al riutilizzo in agricoltura tal quale o previo compostaggio.
Il problema che ci si pone è: la depurazione è effettivamente eseguita? Le acque reflue depurate dove possono essere reimmesse? In grandi vasche o bacini per il riuso in agricoltura od industria, o smaltite inutilizzate in mare o nei fiumi o direttamente in falda? Quale è la valenza economica per tale decisione? Quale conseguenza ci può essere se la depurazione è dichiarata tale, ma non è invece effettuata?
L'acqua di riuso, costa di più dell'acqua primaria, sotterranea o superficiale, per questo è conveniente smaltire ed inquinare il mare o la falda con le acque che i gestori dicono essere depurate. Affermazioni infondate? No! Peggiora lo stato di salute del nostro mare. Imputato numero uno è la «mala depurazione»: 130 i campioni risultati inquinati dalla presenza di scarichi fognari non depurati - uno ogni 57 km di costa - sul totale delle 263 analisi microbiologiche effettuate dal laboratorio mobile di Goletta Verde, storica campagna di Legambiente, in quest'estate. Un dato in aumento rispetto all’anno precedente,quando era risultato inquinato 1 punto ogni 62km.
Su queste basi ultimamente è salita alla ribalta la presa di posizione con relative proteste di alcune località costiere. La popolazione non vuole lo scarico a mare. Ma come sempre nessuno li ascolta.
Ogni estate la bellezza incontaminata del nostro mare è messa a rischio dalla pessima gestione di depuratori e scarichi a mare da parte di istituzioni e amministrazioni pubbliche. Ed il turismo ne paga le conseguenze. E’ da qualche anno ormai che l’inizio della bella stagione ci pone l’inquietante dubbio di quale sarà il tratto di costa a chiazze marroni che dovremo evitare e, quel che è peggio, leggiamo distrattamente delle proteste del comitato di turno, quasi la cosa non riguardasse tutti noi. La situazione è molto delicata e non mette a rischio solo ambiente e salute, ma anche la possibilità di fare del nostro mare il principale volano di sviluppo del territorio. Le maggiori criticità riguardano i comuni di Manduria, Lizzano, Pulsano e il capoluogo Taranto ed è perciò facile capire come la situazione vada letta nel suo insieme, poiché finisce per riguardare tutta la litoranea orientale.
Oggi in Puglia il servizio di depurazione copre il 77% del fabbisogno totale, secondo i dati forniti dal Servizio di tutela delle acque della Regione e contenuti nel Piano di tutela delle acque. Numeri che evidenziano come poco meno di un milione di cittadini pugliesi scarica i propri reflui senza che questi vengano depurati. Sono 187 i depuratori che coprono il servizio su tutto il territorio regionale, ma su cui insistono ancora problemi di funzionamento, criticità e situazioni irrisolte che in alcuni casi rendono inefficace la depurazione dei reflui. Innanzitutto c’è la questione dei 13 impianti che scaricano in falda, con grave rischio di inquinamento delle acque sotterranee. Poi ci sono i depuratori che presentano problemi nel funzionamento e i cui scarichi risultano non conformi, come certificano i dati Arpa relativi al 2012. La causa di queste anomalie deriva dal cattivo funzionamento degli impianti, causato in alcuni casi anche all’ingresso nei depuratori di reflui particolari (scarti dell’industria casearia o olearia, industriali o un apporto eccessivo di acque di pioggia spesso legate alla incapacità dei tessuti urbani di drenare l’acqua). Un problema che riguarda il 39% degli impianti a livello regionale secondo i dati a disposizione dell’Acquedotto pugliese, ma che in alcune province arriva ad oltre l’80%, come nel caso dei depuratori della BAT. La Puglia, inoltre, come si evince dal dossier Mare Monstrum di Legambiente, è la quarta regione a livello nazionale per numero di illeciti legati all’inquinamento del mare riscontrati, con 261 infrazioni, pari al 10,1% sul totale, 328 fra le persone denunciate e arrestate e 156 sequestri.
Le norme violate sono quelle previste dal Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale e comunque il reato contestato è il getto pericoloso di cose. Ma non tutte le procure della Repubblica si muovono all’unisono.
Avetrana, Pulsano, Lizzano, Nardò, ecc. Il problema, però, come si evince, non è solo pugliese. Il riuso delle acque nessuno lo vuole. Eppure il fabbisogno di acqua cresce. Recentemente, con la crescita della sensibilità ambientale in tutto il pianeta, il tema del riutilizzo delle acque si sta diffondendo sempre più: anche l’Unione Europea si è spesso occupata di riutilizzo delle acque reflue, ma solo recentemente questo tema è entrato nel Piano di Azione volto ad individuare criteri e priorità per il finanziamento di nuovi progetti nel campo della gestione delle risorse idriche. Il riutilizzo in agricoltura delle acque usate è una pratica diffusa in molti paesi e sempre più spesso raccomandata dagli organismi internazionali che promuovono lo sviluppo sostenibile; tra i paesi che hanno la maggior esperienza nel settore è bene ricordare gli Stati Uniti e lo Stato di Israele.
La vicepresidente e assessore all'Assetto del Territorio della Regione Puglia, Angela Barbanente, ha diffuso questa nota sulla questione della depurazione in Puglia. «La mia opinione è che “la politica si manterrà chiacchierona, rincorrendo ora l’uno ora l’altro contestatore” sino a quando, in questo come in altri campi, mancherà di una visione chiara, condivisa, realizzabile. La visione che occorre perseguire, questa sì senza tentennamenti se si hanno a cuore la salvaguardia e il risanamento dell’ambiente, e quindi la salute dei cittadini, dovrebbe innanzitutto prevedere il massimo possibile riutilizzo delle acque depurate in agricoltura o per usi civili. Non è ammissibile, infatti, che nella Puglia sitibonda si butti in mare l’acqua depurata mentre nei paesi nordeuropei ricchi di acque superficiali si adottano ordinariamente reti duali per evitare di sprecare la risorsa! Inoltre, ove possibile e specialmente nelle aree turistiche, si dovrebbe fare ricorso a tecnologie di depurazione naturale quali il lagunaggio o la fitodepurazione.»
Non ha tutti i torti e sentiamo di sposare le sue parole. Nell'ultimo decennio sono state registrate annate particolarmente siccitose con una ridotta disponibilità di risorse idriche tradizionali. Le cause sono dovute in parte ai mutamenti meteo climatici ma anche al crescente peso demografico e turistico, ai maggiori fabbisogni connessi allo sviluppo economico industriale, agricolo (anche se in questi ultimi anni pare affermarsi un'inversione di tendenza complice la crisi economica) e civile. Ciò implica la necessità di avviare cambiamenti radicali nei comportamenti e nelle abitudini di cittadini e aziende finalizzati al risparmio idrico, di reperire nuove fonti di approvvigionamento e al contempo di incentivare in tutte le forme possibili il riuso delle acque depurate. Il riutilizzo delle acque reflue costituisce una fonte di approvvigionamento idrico alternativo ai prelievi da falda, e rappresenta una buona pratica di gestione sostenibile delle acque che consente di fronteggiare lo stato di crisi quali-quantitativa in cui versa la risorsa idrica. Infatti attraverso il riutilizzo si limita il prelievo delle acque sotterranee e superficiali e si riduce la riduzione dell'impatto degli scarichi sui corpi idrici recettori.
Questa lotta di civiltà ci deve coinvolgere tutti, senza tentennamenti ed ipocrisie, fino all’estremo gesto di non votare più i nostri partiti di riferimento con gli amministratori regionali che decidono contro gli interessi della collettività.
E passiamo oltre al fatto che i sindaci ci obbligano a contrarre in termini perentori il servizio di smaltimento delle acque con i gestori locali, che sono anche i gestori dei depuratori. I sindaci si mettono a posto per eventuali screzi legali. I cittadini pagano un oneroso tributo in termini di spese di allaccio e di smaltimento per un servizio che non si sa se e quando si attiverà. Un altro balzello che si dovrebbe invece chiamare “Pizzo”.
CONTRO IL DEPURATORE CONSORTILE SAVA-MANDURIA AD AVETRANA E SCARICO A MARE. LOTTA UNITARIA O FUMO NEGLI OCCHI?
Sentiamo la voce del dissenso dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e dell’Associazione Pro Specchiarica entrambe di Avetrana. La prima a carattere nazionale e la seconda prettamente di interesse territoriale. Il perché di un rifiuto a partecipare alla lotta con gli altri, spiegato dal Dr Antonio Giangrande, componente del direttivo di entrambe le associazioni avetranesi. «L’aspetto da affrontare, più che legale (danno emergente e lucro cessante per il territorio turistico di Avetrana) è prettamente politico. La gente di Avetrana non si è mobilitata in massa e non vi è mobilitazione generale, come qualcuno vuole far credere, perché è stufa di farsi prendere in giro e conosce bene storia e personaggi della vicenda. Hanno messo su una farsa poco credibile, facendo credere che vi sia unità di intenti.» Esordisce così, senza giri di parole il dr Antonio Giangrande. «Partiamo dalla storia del progetto. La spiega bene il consigliere comunale Arcangelo Durante di Manduria: “Che la realizzazione a Manduria di un nuovo depuratore delle acque reflue fosse assolutamente necessario, era già scontato; che la scelta del nuovo depuratore non sia stata fatta dall’ex sindaco Francesco Massaro, ma da Antonio Calò, sindaco prima di lui, ha poca importanza. Quello che invece sembra molto grave, è che il sindaco Massaro, in modo unilaterale, nel verbale del 12 dicembre 2005 in allegato alla determina della Regione Puglia di concessione della Via (Valutazione d’Impatto Ambientale), senza informare e coinvolgere il consiglio comunale sul problema, ha indicato il mare di Specchiarica quale recapito finale del depuratore consortile”. Bene. Da quanto risulta entrambi gli schieramenti sono coinvolti nell’infausta decisione. Inoltre questa decisione è mirata a salvaguardare il territorio savese-manduriano ed a danneggiare Avetrana, in quanto la localizzazione del depuratore è posta sul litorale di Specchiarica, territorio di Manduria (a poche centinaia di metri dalla zona residenziale Urmo Belsito, agro di Avetrana)». Continua Giangrande, noto autore di saggi con il suffisso opoli (per denotare una disfunzione) letti in tutto il mondo. «L’unitarietà della lotta poi è tutta da verificare. Vi sono due schieramenti: quello di Manduria e quello di Avetrana. Quello di Manduria è composto da un coordinamento istituito solo a fine maggio 2014 su iniziativa dei Verdi e del movimento “Giovani per Manduria” con il comitato “No Scarico a mare” di Manduria. Questo neo coordinamento, precedentemente in antitesi, tollera il sito dell’impianto, purchè con sistema di filtrazione in tabella IV, ma non lo scarico in mare; quello di Avetrana si oppone sia alla condotta sottomarina che alla localizzazione del depuratore sul litorale di Specchiarica. Il comitato di Avetrana (trattasi di anonimo comitato ed è tutto dire, ma con un solo e conosciuto uomo al comando, Pino Scarciglia) ha trovato una parvenza d’intesa fra tutti i partiti, i sindacati e le associazioni interpellate, per la prima volta sabato 17 maggio 2014, e si schierano compatti (dicono loro), superando ogni tipo di divisione ideologica e ogni steccato, che sinora avevano reso poco incisiva la mobilitazione. In mattinata del 17 maggio, il Consiglio Comunale di Avetrana si è riunito per approvare, all’unanimità, la piattaforma di rivendicazioni già individuata nella riunione fra il comitato ristretto e i rappresentanti delle parti sociali. In serata, invece, maggioranza e minoranza sono saliti insieme sul palco di piazza Giovanni XXIII per rivolgere un appello alla comunità composta per lo più da forestieri. Si legge nel verbale dell’ultima riunione del Movimento. “E’ abbastanza chiaro, inoltre, che le Amministrazioni Comunali di Manduria, che si sono succedute nel tempo da 15 anni a questa parte, non hanno avuto nè la volontà nè la capacità di modificare o di bloccare questo obbrobrio, trincerandosi dietro a problematiche e a questioni tecniche/burocratiche, a parer loro, insormontabili”. Il gruppo di lavoro unitario avetranese è composto da consiglieri di maggioranza e minoranza (Cosimo Derinaldis, Antonio Baldari, Pietro Giangrande, Antonio Lanzo, Emanuele Micelli e Rosaria Petracca). “Vorrei innanzitutto far notare come, finalmente, si stia superando ogni tipo di steccato politico o ideologico – afferma l’assessore all’Agricoltura e al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. Steccato veramente superato? A questo punto reputo poco credibile una lotta portata avanti da chi, di qualunque schieramento, continui a fare propaganda politica contrapposta per portare voti a chi è ed è stato responsabile di questo obbrobrio ai danni dei cittadini e ai danni di un territorio incontaminato. Quindi faccio mia la domanda proposta da Arcangelo durante “Bisogna dire però, che il presidente Vendola è in misura maggiore responsabile della questione, poichè di recente ha firmato il decreto di esproprio, nonostante che, prima il consiglio comunale dell’ex amministrazione Massaro e dopo quello dell’amministrazione Tommasino, si siano pronunciate all’unanimità contrarie allo scarico a mare. Presidente Vendola, ci può spiegare come mai, quando si tratta di opere che riguardano altri territori, vedi la Tav di Val di Susa, reclama con forza l’ascolto e il rispetto dei cittadini presenti sul territorio; mentre invece, quando si tratta di realizzare opere che interessano il nostro territorio, (dove lei ha il potere) non rivendica e utilizza lo stesso criterio, come l’ultimo provvedimento da lei adottato in qualità di Commissario Straordinario sul Depuratore?”»
AMIANTO. IL KILLER CONOSCIUTO.
Amianto. In greco amiantos. Significa immacolato, ma anche incorruttibile. Il termine asbesto equivale ad amianto ed in greco significa perpetuo, inestinguibile. L'amianto è un minerale naturale a struttura microcristallina e di aspetto fibroso appartenente alla classe chimica dei silicati e alle serie mineralogiche del serpentino e degli anfiboli. Si ottiene a seguito di un'attività estrattiva, e il suo nome deriva dalla parola Asbesto che tradotto significa "Che non si spegne mai". La sua composizione chimica è variabile ed è costituita appunto da fasci di fibre molto fini, tanto che in un centimetro lineare si possono allineare fianco a fianco 335.000 fibrille di amianto paragonato alla quantità di 250 capelli per il solito spazio di un centimetro, fa capire quanto siano sottili. Per la normativa italiana sotto il nome di amianto sono compresi 6 composti distinti in due grandi gruppi: anfiboli e serpentino, l'amianto serpentino è composto principalmente da amianto cosiddetto bianco chiamato anche crisotilo, dall'aspetto sfrangiato. L'altro chiamato anfibolo è composto da crocidolite (amianto blu), amosite, e tremolite, l'amosite e pochi altri. Fra le sue caratteristiche più interessanti, l'amianto ha una buona resistenza termica elevata, all'azione di agenti chimici e biologici, alla trazione, all'usura. É stato così largamente usato per le sue eccezionali proprietà di resistenza al fuoco, di isolamento termico ed elettrico, per la facilità di lavorazione (struttura fibrosa), di resistenza agli acidi ed alla trazione, è facilmente mescolabile ad altre sostanze (cemento), dotato di capacità fonoassorbenti e per ultimo ma non trascurabile l'aspetto che aveva un basso costo. Queste ed altre proprietà, legate ad un basso costo di produzione, hanno fatto dell'amianto un materiale estremamente versatile, utilizzato per la fabbricazione di oltre 3000 prodotti. Considerate queste caratteristiche, ha trovato largo utilizzo nei campi dell'Edilizia, dell'Industria e dei Trasporti, sotto forma di innumerevoli manufatti . Era presente nelle frizioni e nei freni degli autoveicoli e dei treni (adesso non più), come materiale isolante, materiali fonoassorbenti, coperture di edifici industriali (Eternit), tubazioni, serbatoi, cassoni e guarnizioni. Inoltre l'amianto è stato utilizzato in maniera insolita per produrre imballaggi, carta e cartoni, pavimentazioni (linoleum) tessuti ignifughi per l'arredamento di teatri e cinema e addirittura nell'abbigliamento. Nel nostro paese il crisolito ha rappresentato il 75% dell'uso totale di amianto ed il 75% di tutto l'amianto usato è stato impiegato nel settore edilizio e delle costruzioni. In Italia l'attività estrattiva era svolta presso la miniera di Balangero (Piemonte) adesso chiusa per procedere alla bonifica dell'area. Nel nostro paese il boom è avvenuto negli anni che vanno dal 1960 al 1990 in corrispondenza appunto del boom economico, e già nel 1983 in accordo con una direttiva CEE, è vietata anche in Italia l'applicazione dell'amianto spruzzato in edilizia, ma solo nel 1992 viene vietata la produzione e il commercio di manufatti contenente amianto con la cessazione di tutte le attività di estrazione, importazione, ed utilizzo. Le malattie da amianto possono manifestarsi dopo molti anni, a volte persino dopo 40 anni dalla prima esposizione. La pericolosità dell'amianto consiste, infatti, nella capacità che il materiale ha di rilasciare fibre potenzialmente inalabili dall'uomo, fibre che hanno la caratteristica di dividersi in senso longitudinale anzichè trasversale come le altre tipologie di fibre. I materiali più pericolosi sono ovviamente quelli contenenti amianto friabile, il cemento-amianto (o Eternit) ha una pericolosità molto inferiore dato che le fibre al suo interno sono presenti in misura dal 10% al 15%, rispetto ai materiali friabili che possono arrivare anche al 100% di presenza di fibre. La sua pericolosità è comunque legata allo stato di conservazione. Non sempre l'amianto, però, è pericoloso; lo è sicuramente quando può disperdere le sue fibre nell'ambiente circostante per effetto di qualsiasi tipo di sollecitazione meccanica, eolica, da stress termico, dilatamento di acqua piovana. Per questa ragione il cosiddetto amianto friabile che cioè si può ridurre in polvere con la semplice azione manuale è considerato più pericoloso dell'amianto compatto che per sua natura ha una scarsa o scarsissima tendenza a liberare fibre.
Malati per colpa dell’amianto. Il picco deve ancora arrivare. Un nemico che colpisce dopo molto tempo, anche dopo quaranta anni dall’esposizione. L’amianto è stato dichiarato cancerogeno già negli anni Sessanta, scrive Maria Giovanna Faiella “Il Corriere della Sera”. È un nemico subdolo, che colpisce a distanza di anni e continua a fare vittime anche oggi. Anzi: secondo studi scientifici ed epidemiologici il picco di malattie provocate dall’esposizione all’amianto si raggiungerà nei prossimi 15 anni. Da qui il monito a non abbassare la guardia venuto dagli esperti nel corso di una conferenza internazionale, svoltasi di recente a Roma su iniziativa dell’Osservatorio nazionale amianto, l’associazione onlus che raggruppa lavoratori ex esposti, familiari delle vittime, medici, ricercatori, avvocati, ingegneri. «Secondo le nostre stime - afferma l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio - i mesoteliomi con esito infausto sono circa 1.500 l’anno, i tumori polmonari almeno tremila e, se si aggiungono le altre patologie asbesto-correlate, siamo ben oltre i 5mila morti per amianto ogni anno». Sebbene l’uso di questo minerale, dichiarato cancerogeno dalla comunità scientifica internazionale già negli anni Sessanta, sia stato vietato nel nostro Paese ormai ventidue anni fa da una legge dello Stato (n. 257 del 1992), la sua pericolosa eredità rimane tuttora, soprattutto a causa del lungo periodo di latenza delle malattie asbesto-correlate, in particolare del mesotelioma (leggi la scheda della malattia), uno dei tumori più aggressivi: passano perfino 40-45 anni tra l’inizio dell’esposizione all’amianto e il momento in cui si manifesta la malattia. Quelle fibre inalate tanti anni fa ora fanno ammalare soprattutto i lavoratori esposti; risale agli anni Ottanta, prima della sua messa al bando, il periodo di massima produzione di questo materiale molto utilizzato perché economico, versatile e resistente anche al fuoco; veniva impiegato non solo nelle fabbriche di cemento-amianto, nei cantieri navali e in diversi siti industriali, ma anche per costruire case, scuole, ospedali. «In diversi casi, in barba alla legge, si è continuato a usare l’amianto fino al 2004 attraverso deroghe tecniche - denuncia Paolo Pitotto, medico del lavoro e consulente della Procura della Repubblica di Milano -. E l’esposizione continua oggi, anche perché uno dei principali problemi da risolvere è la dismissione dei materiali con amianto». Il loro deterioramento, anche semplicemente dovuto alla vetustà, può essere causa di rilascio di fibre e può quindi nuocere alla salute. «La mancata rimozione dell’amianto espone al pericolo le persone sia in ambito lavorativo sia negli ambienti di vita - sottolinea Pitotto - e continueranno ad aumentare le malattie asbesto-correlate». Le fibre di amianto inalate possono causare placche pleuriche e ispessimenti della pleura o malattie più gravi, anche se meno diffuse, come: asbestosi; mesotelioma pleurico, pericardico, peritoneale, della tunica vaginale o del testicolo; carcinoma polmonare. In quest’ultimo caso, spiega Luciano Mutti, direttore del laboratorio di oncologia clinica all’Asl 11 di Vercelli: «Il rischio è maggiore se le fibre di amianto interagiscono con un altro agente cancerogeno, il fumo di sigaretta. Secondo studi, inoltre, l’amianto fa aumentare il rischio di tumori gastrici, delle ovaie, di laringe e faringe». Secondo i dati aggiornati al 2008 del Registro nazionale dei mesoteliomi, che attua una sorveglianza epidemiologica su tutta la popolazione, i più a rischio rimangono i lavoratori, ma circa l’8-10% dei pazienti si è ammalato per motivi ambientali, vivendo vicino a siti contenenti amianto, o in quanto familiari dei lavoratori esposti, per esempio a causa di residui su indumenti.
Tra i luoghi da bonificare anche 2.500 edifici scolastici. La prevenzione primaria può ridurre il numero di nuovi malati e salvare molte vite. «Il rimedio più efficace contro gli effetti nocivi dell’amianto è evitare ogni forma di esposizione» afferma Giancarlo Ugazio, esperto in patologie da esposizione occupazionale ed extra lavorativa ad asbesto e presidente del Gruppo di ricerca per la prevenzione della patologia ambientale. Già, l’esposizione. La mappatura della presenza di amianto sul territorio nazionale, ancora in corso da parte di Inail, Ministero dell’Ambiente e Regioni, ha registrato al 2013 circa 34 mila siti contaminati. Secondo il Cnr-Consiglio nazionale delle ricerche, con gli attuali ritmi di bonifica serviranno ancora 85 anni per completare la dismissione degli oltre 32 milioni di tonnellate di amianto presenti in Italia. «Siamo ancora in fase di mappatura, nel frattempo altri cittadini potrebbero ammalarsi - chiosa l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto - . Occorre procedere subito con la messa in sicurezza dei siti e degli edifici, a partire da quelli scolastici: stimiamo che circa 2.500 scuole siano a rischio di amianto. Oltre alla loro ristrutturazione, come ha annunciato di recente il Governo, va disposta la bonifica, perché eseguire i lavori senza tener conto della possibile presenza del minerale significa correre il rischio che si sbricioli, liberando fibre nell’aria poi inalate da studenti e personale scolastico». Un’altra emergenza riguarda la sorveglianza sanitaria di lavoratori e cittadini già esposti a fibre di amianto e che rischiano di ammalarsi. «Visto il lungo periodo di latenza tra esposizione e insorgenza delle malattie asbesto-correlate diventa ancora più importante il monitoraggio preventivo degli ex esposti - sottolinea Paolo Pitotto, medico del lavoro e consulente della Procura della Repubblica di Milano - . Le Regioni avrebbero dovuto istituire con proprie norme i registri degli ex esposti all’amianto, ma funzionano davvero solo in Lombardia, Veneto, Friuli, Toscana: qui vengono eseguiti controlli periodici gratuiti. In Friuli è garantito anche il supporto psicologico». L’anno scorso il Governo Monti ha approvato il Piano nazionale amianto che, però, non è mai entrato in vigore perché non ha ottenuto il via libera della Conferenza Stato-Regioni, soprattutto per la carenza di copertura finanziaria. «Quel Piano è inadeguato e va rivisto - commenta il presidente dell’Osservatorio nazionale amianto -. Innanzitutto, minimizza i numeri dell’epidemia in corso, poiché fa riferimento a una stima di circa mille decessi l’anno per il mesotelioma pleurico ma sorvola su tutti gli altri mesoteliomi, sul tumore al polmone e sulla stessa asbestosi. L’elenco delle patologie che l’Inail indennizza come asbesto-correlate, presumendone l’origine professionale, va aggiornato con tutte le altre patologie». «Poi, - continua Bonanni - occorre puntare sulla prevenzione primaria con la bonifica di tutti i siti contaminati. Per esempio, il rinnovo degli impianti potrebbe avvenire predisponendo un piano industriale che utilizzi i fondi strutturali europei e la leva fiscale per consentire la detrazione delle spese». Ma, una volta individuato, come viene smaltito l’amianto e dove va a finire? «La maggior parte va in Germania dove viene reso inerte e riutilizzato, mentre quel che resta in Italia va nelle discariche autorizzate o in posti non proprio limpidissimi, come la Terra dei fuochi - afferma il presidente dell’Osservatorio amianto -. C’è poi il problema dell’amianto friabile: le cave abbandonate, per esempio, non sono adatte a contenerlo. Piuttosto che continuare a portarlo all’estero con enormi costi di trasporto e bonifica, perché non costruire anche da noi impianti di inertizzazione? Oltre a tutelare la nostra salute e l’ambiente, creerebbero nuovi posti di lavoro».
Amianto, la strage dimenticata. Quindici operai morti, almeno 150 malati e un intero quartiere a rischio avvelenamento. È il tragico bilancio portato alla luce dall'inchiesta sull'Isochimica, l'azienda di Avellino dove negli anni '80 i lavoratori erano assunti per rimuovere a mani nude la fibra killer dai treni. Perché oltre allo scandalo Eternit in Italia ci sono ancora centinaia di siti da bonificare e migliaia di persone che rischiano di essere contaminate, scrivono Antonio Cianciullo e Pierluigi Melillo su “La Repubblica”. La fabbrica della morte è chiusa da quasi trent'anni, ma continua ad uccidere. Il killer fantasma è nell'aria, ogni giorno gli abitanti di borgo Ferrovia, quartiere popolare di Avellino, respirano i veleni che arrivano da quel mostro chiamato "Isochimica", l'opificio dove negli anni '80 venivano scoibentate le carrozze ferroviarie, quasi tremila in sei anni. Si lavorava a mani nude, senza mascherine, inconsapevoli dei pericoli. Almeno 20mila tonnellate di amianto sarebbero state sotterrate nel piazzale della fabbrica, altre scorie sono state chiuse in cubi di cemento oppure sistemate in sacchi neri e sversate nelle acque del fiume Sabato o addirittura nel mare della costiera amalfitana. L'hanno rivelato gli ex operai ai magistrati. "Ma mentre tutto ciò accadeva dov'erano i cittadini?", si chiede il procuratore della Repubblica di Avellino, Rosario Cantelmo, che paragona l'Isochimica all'Eternit di Casale Monferrato, all'Ilva di Taranto a alla Thyssen Krupp. "Dovremo andare via da qui", dice Gabriella Testa, alla guida del comitato di mamme di borgo Ferrovia che si battono per la bonifica del sito. L'Arpac, l'agenzia regionale per l'ambiente della Campania, ha accertato che ci sono 27 fibre di amianto per litro d'aria nella zona, stando alle raccomandazioni dell'Oms non ce ne dovrebbe essere nemmeno una. Il biologo Carlo Caramelli, garante del Tribunale per i diritti del malato, ha chiesto al prefetto di far evacuare il rione. "Perché Renzi non viene a visitare la scuola elementare che è a cento metri dalla fabbrica?", ha chiesto polemicamente Carlo Sibilia, l'avellinese arrivato in Parlamento con il Movimento 5 Stelle. C'è già stato lo screening sui bambini della scuola, il pediatra dell'Asl di Avellino, Felice Nunziata, che ha guidato l'equipe per le analisi, ha ammesso: "Qui non farei vivere mio figlio, la bonifica è urgente". Ma è ancora tutto fermo: il Comune non ha i soldi, la Regione prende tempo. Eppure il procuratore Cantelmo, dopo aver messo sotto inchiesta il titolare dell'Isochimica, Elio Graziano, imprenditore protagonista negli anni '80 dello scandalo "lenzuola d'oro", l'ex giunta comunale e perfino il curatore fallimentare, ha cercato di imprimere un'accelerazione nominando custodi giudiziari dell'impianto il sindaco, Paolo Foti, e il governatore regionale, Stefano Caldoro. Dopo anni di omissioni e indifferenza almeno qualcosa si muove. Ma la svolta non c'è stata. Resta il conto dei morti, una lunga scia di lutti e dolore: l'amianto ha già ucciso 15 ex operai ed un lavoratore che con l'Isochimica non c'entrava nulla. Si chiamava Vittorio Esposito, lucidava i pavimenti della stazione ferroviaria dove si scoibentavano le carrozze ferroviarie direttamente sui binari evitando di portarle in fabbrica. Anche sua moglie, la vedova Rosetta Capobianco che lavava le tute del marito impregnate di amianto, si è ammalata ai polmoni, ma continua a battersi per il risanamento del quartiere. E ora da qualche mese la Procura indaga su altri 23 decessi, nuovi casi sospetti tra ex operai, familiari e cittadini di cui sono state sequestrate cartelle cliniche e certificati di morte. Si fanno i conti. All'Isochimica lavoravano 333 operai, almeno 150 sono già risultati ammalati. "Ormai ci sentiamo dei morti che camminano", confessa Carlo Sessa, uno degli ex operai che ha visto morire i compagni di lavoro: da tempo chiede inutilmente aiuto a tutti i partiti per la battaglia del prepensionamento degli ex dipendenti della fabbrica dei veleni. Ma la politica è rimasta ancora indifferente. E il futuro fa paura. Mario Polverino, direttore del polo pneumologico dell'ospedale "Scarlato" di Scafati, ha scoperto che gli 80 operai dell'Isochimica provenienti dal Salernitano sono stati tutti contaminati dalle fibre killer. "Il picco delle malattie derivanti dall'amianto si avrà intorno al 2020, quindi tutti gli ex operai e i cittadini sono a rischio", conferma Polverino che ha paragonato l'Isochimica alla miniera di crocidolite, l'amianto blu, di Wittenoom Gorge nel Western Australia dove a distanza di 45 anni dall'esposizione, le persone che abitavano nei dintorni della cava continuavano ad ammalarsi e a morire fino a far diventare il villaggio una città fantasma. Ma Borgo Ferrovia ora vuole vivere. Anche se la lotta contro i veleni non è ancora finita. C'è un'altra morte sospetta legata alla fabbrica dei veleni su cui indaga la Procura di Avellino. Lui si chiamava Vito Cotrufo: fu ucciso nel 1987 da un tumore ai polmoni, l'Isochimica era ancora in piena attività. Sarebbe stata chiusa solo due anni dopo dal pretore di Firenze, Beniamino Deidda che indagava sui morti delle grandi officine toscane dove le carrozze ferroviarie tornavano dalla fabbrica irpina, ripulite male dall'amianto. Nelle carte della Procura di Avellino ci sono poi i nomi dei decessi più recenti: Umberto De Fabrizio, Vittorio Matarazzo, Luigi Maiello, Alberto Olivieri e altri dodici ex lavoratori Isochimica, stroncati da malattie all'apparato respiratorio causate dall'amianto. Parallela a queste si è consumata poi la tragedia di Pasquale Soricelli, che nel 2011 dopo aver scoperto di essere affetto da una grave malattia per le fibre killer si tolse la vita. Una targa da qualche anno ricorda il sacrificio di questi lavoratori davanti alla fabbrica. Chissà se oggi il titolare dell'Isochimica, l'ormai 82enne Elio Graziano, che sconta da condannato ai domiciliari le sue pene nell'abitazione di contrada Scrofeta alla periferia di Avellino, pensa mai al disastro che ha lasciato alle sue spalle. "Ho sempre solo fatto del bene", ripete ancora oggi al suo avvocato, il penalista Alberico Villani. Tornerà un uomo libero solo il 19 ottobre del 2017, quando finirà il conto delle sentenze che l'hanno colpito per corruzione e omicidio colposo. Ma con lui la giustizia non ha ancora chiuso i conti. Lo chiamavano "Papà Elio" perché lui, da presidente dell'Avellino ai tempi della serie A, elargiva con grande generosità, come un buon padre di famiglia, banconote da centomila lire a tifosi e operai che lo acclamavano. Era un imprenditore rampante Graziano, che dopo l'Isochimica aprì un altro stabilimento industriale a Fisciano (Salerno) per la produzione del detersivo "Dyal", marchio che sponsorizzava le magliette dell'Avellino. Anche nel piazzale di quella fabbrica sarebbe stato smaltito l'amianto. Il patron arrivava allo stadio "Partenio" in elicottero prima delle partite e prometteva premi favolosi ai calciatori. Da presidente portò l'Avellino guidato in panchina da Luis Vinicio a sfiorare la qualificazione all'allora Coppa Uefa, lanciando campioni che avrebbero fatto le fortune della Juventus come Tacconi, Favero e Vignola. L'anno dopo, nel campionato '87-'88, ci fu però la retrocessione in B e l'esplosione dello scandalo delle "lenzuola d'oro", storia di mazzette pagate da Graziano ai vertici delle Ferrovie per le forniture di biancheria sui treni notturni. Vicenda che costò la poltrona all'allora presidente delle Fs Ludovico Ligato. Per l'industriale iniziò così la parabola discendente che non è ancora finita. Perché c'è anche lui tra i 24 iscritti nel registro degli indagati nell'inchiesta della Procura sulla morte di quanti sono stati uccisi dall'amianto dell'Isochimica.
Polvere killer ovunque ma lo smaltimento è fermo, scrive Antonio Cianciullo. Molto amianto e poche discariche attrezzate. Una previsione di 2mila morti all'anno e 22 anni di ritardo sulle misure di sicurezza. Mentre dal punto di vista giudiziario il quadro delle responsabilità è emerso con chiarezza nel primo grado di giudizio che ha visto i proprietari della Eternit condannati a 16 anni di reclusione per disastro doloso permanente, il panorama dell'esposizione alla fibra killer resta sconfortante. Ci sono più di 34mila siti da bonificare e oltre 32 milioni di tonnellate di amianto sparse in giro. Non è solo un problema che si declina al passato. Il rischio continua. Anzi si allarga visto che c'è una crescita dei casi di esposizione non professionale: tra le vittime aumentano le persone entrate casualmente in contatto con l'amianto (più di 50mila edifici contengono asbesto). Mettendo assieme i luoghi più esposti al pericolo si arriverebbe a 75mila ettari, l'equivalente della provincia di Lodi. Questa superficie - formata dalle zone inserite nel programma nazionale di bonifica del ministero dell'Ambiente - comprende Casale Monferrato e i 47 Comuni vicini costruiti usando amianto; Bagnoli e la contrada Targia a Siracusa, con le fabbriche di cemento amianto; Comuni come Broni (Pavia) con i siti produttivi dismessi che lavoravano la fibra killer; le miniere di Balangero (Torino), ed Emarese (Aosta) da dove veniva estratto il minerale; gli edifici che hanno utilizzato asbesto. Ma i dati sono parziali e sotto stimati perché la legge del 1992, che in Italia ha vietato l'estrazione, l'importazione e l'utilizzazione dell'amianto e dei prodotti che lo contengono, obbligava le Regioni ad adottare entro 180 giorni dalla sua entrata in vigore un programma dettagliato per il censimento, la bonifica e lo smaltimento dei materiali contaminati dalla fibra killer. La disposizione però è rimasta quasi ovunque lettera morta. In molte aree del paese i dati mancano. "Ancora oggi le Regioni si trovano in forte ritardo negli interventi per ridurre il rischio sanitario da amianto ", si legge nel rapporto firmato da Legambiente. "Un ritardo che in alcuni casi riguarda addirittura l'approvazione del Piano. Ad oggi solo due Regioni hanno previsto una data in cui arriveranno a completare la bonifica e la rimozione dei materiali contenti amianto: la Lombardia (entro il 2016) e la Sardegna (entro il 2023)". Ecco l'elenco delle aree critiche contenuto nel dossier: 23.816 edifici pubblici (di cui oltre 12 mila in Piemonte) e 24.299 edifici privati (il 99% in Lombardia); 100 milioni di metri quadrati in strutture di cemento amianto (l'81% in Lombardia); 650 mila metri cubi di amianto censiti in Basilicata, Abruzzo e Liguria; in tre regioni (Toscana, Emilia Romagna e Piemonte) la contaminazione da amianto riguarda anche le aree di cava. "Tra il verdetto scientifico di estrema pericolosità e la reazione è passato un tempo troppo lungo", commenta Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente. "Perciò oggi milioni di italiani, probabilmente un terzo della popolazione, si trovano esposti a un rischio che poteva essere evitato con un intervento tempestivo. Ora bisogna andare veloci: creare un Fondo nazionale per le bonifiche dei siti 'senza più padrone', sul modello del Superfund statunitense; completare le analisi epidemiologiche nelle aree a maggior rischio; organizzare discariche sicure per i materiali ricavati dalle bonifiche, mentre oggi esportiamo il 75% dei rifiuti contenenti amianto e questo incide molto sui costi".
LADROCINIO AL MINISTERO DELL’AMBIENTE?
Ex ministro Clini indagato anche a Roma: associazione a delinquere per corruzione, scrive “La Repubblica”. L'inchiesta coinvolge anche la moglie Martina Hauser ed altre 4-5 persone e verte su presunte provviste realizzate tramite progetti per centinaia di milioni realizzati in Cina e Montenegro. Ora è ai domiciliari per il procedimento aperto dalla procura di Ferrara: un mln sottratto da fondi governo. E' accusato di far parte di una associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. L'ex ministro dell'Ambiente, Corrado Clini, dal 26 maggio 2014 ai domiciliari con l'accusa di peculato su richiesta della procura di Ferrara, è investito da una nuova bufera giudiziaria a Roma sulla gestione ministeriale di una gran massa di milioni utilizzati per finanziare progetti all'estero. La vicenda verte su presunte provviste realizzate tramite progetti per centinaia di milioni realizzati in Cina e Montenegro. Oltre all'ex ministro, nel registro degli indagati sono state iscritte altre 4-5 persone tra cui la moglie di Clini, Martina Hauser, assessore comunale a Cosenza. E il movimento "Rivolta ideale", fondato dall'avvocato Michele Arnoni, ex segretario provinciale di Cosenza de La Destra, ha chiesto le dimissioni della Hauser che ha le deleghe per la Sostenibilità ambientale e le Energie rinnovabili, insieme alla Programmazione e l'ottimizzazione dell'uso delle risorse idriche. Due inchieste incrociate. Quella del pm Alberto Galanti marcia infatti parallelamente a quella della procura di Ferrara. La Guardia di Finanza ha perquisito gli uffici di Clini e trovato documenti utili a Roma. Cina e Montenegro sono al centro di progetti, rispettivamente per 200 milioni e 14 milioni di euro approvati nell'arco di più di un decennio e riguardano prevalentemente la riqualificazione ambientale di alcune aree. Il sospetto degli inquirenti è che dietro il finanziamento di questi progetti, ottenuti da imprese italiane, ci sia stato un giro di mazzette. Martina Hauser, la moglie dell'ex Ministro dell'Ambiente Corrado Clini, è assessore comunale a Cosenza. Le sue deleghe sono la Sostenibilità ambientale e le Energie rinnovabili, insieme alla Programmazione e l'ottimizzazione dell'uso delle risorse idriche. Dopo che si è diffusa la notizia che Martina Hauser è indagata, il movimento "Rivolta ideale", fondato dall'avvocato Michele Arnoni, ex segretario provinciale di Cosenza de La Destra, ne ha chiesto le dimissioni. "Le dimissioni, a nostro avviso - afferma il movimento in un comunicato - rappresentano un atto dovuto per stile, dignità ed etica politica" ma anche "per consentire all'assessore Hauser, già sempre assente dal territorio sin dal suo insediamento e fortemente voluta dal sindaco, Mario Occhiuto, di difendersi con maggiore serenità dalle pesanti accuse". A chiedere che si dimetta è anche l'ex sindaco di Cosenza, Pietro Mancini, figlio dell'ex segretario nazionale del Psi, Giacomo. "Gli indagati, fino a sentenza definitiva - sostiene Pietro Mancini - non vanno considerati colpevoli. Tuttavia, donna Martina, se non l'ha già fatto, rassegni al più presto le dimissioni e rinunci alla poltrona". Nell'inchiesta di Ferrara c'è anche il caso della distrazione di 54 milioni destinati dal ministero al progetto "New Eden", che serviva "alla protezione e preservazione dell'ambiente e delle risorse idriche, da realizzarsi in Iraq". L'ex ministro dell'Ambiente Corrado Clini aveva un conto cifrato in Svizzera, denominato 'Pesce', nel quale sarebbero confluiti i fondi sottratti al finanziamento del governo italiano per il progetto di risanamento delle acque in Iran. Lo scrive il Gip di Ferrara nell'ordinanza di custodia cautelare con cui ha disposto i domiciliari per l'ex ministro. L'intervento prevedeva anche una sorta di bonifica del bacino del Tigri e dell'Eufrate, nel sud iracheno. Oltre a Clini, un ordine di custodia cautelare ai domiciliari è stato firmato dal gip anche anche a carico di Augusto Calore Pretner, imprenditore e ingegnere del padovano, socio dello studio che ha curato il progetto. Oggi al tribunale di Ferrara Pretner però non ha sostenuto l'interrogatorio avvalendosi della facoltà di non rispondere. Nei confronti dell'ex ministro dell'Ambiente la procura di Ferrara aveva chiesto la custodia cautelare in carcere ma il Gip Piera Tassoni ha respinto la richiesta dei pm. "Nonostante la gravità delle condotte delittuose - si legge nell'ordinanza del giudice - si ritiene che le esigenze cautelari possano essere adeguatamente salvaguardate per entrambi gli indagati con l'adozione degli arresti domiciliari". L'ex ministro Corrado Clini sarà interrogato domani mattina a palazzo di Giustizia a Ferrara: da quanto si apprende il gip Piera Tassoni, come accaduto oggi per l'altro arrestato, l'ingegnere padovano Augusto Pretner, ha deciso di ascoltare direttamente l'ex ministro evitando una rogatoria con Roma dove Clini si trova agli arresti domiciliari nella propria abitazione, per l'accusa di peculato. Clini arriverà a Ferrara, dunque, in modo autonomo con il suo avvocato Paolo Dell'anno che aveva già dichiarato l'estraneità alle accuse. L'ex ministro dell'Ambiente Corrado Clini avrebbe intascato oltre un milione di euro facente parte del finanziamento che il governo italiano aveva concesso per il progetto New Eden in Iraq. Lo scrive il Gip di Ferrara Piera Tassoni nell'ordinanza di custodia cautelare sottolineando che il denaro, attraverso l'emissione di false fatture, sarebbe finiti su un conto corrente aperto a Lugano mediante otto bonifici per complessivi 1.020.000. "E' stato messo in atto un complesso e sofisticato meccanismo, preordinato all'appropriazione di denaro pubblico, conseguendo ingenti profitti", scrive il Gip. "Il pericolo di reiterazione del reato - aggiunge - s'individua nella già reiterata condotta criminosa protrattasi nel tempo e 'naturalmente' tesa alla ripetizione". Nell'ordinanza il giudice ricostruisce il percorso fatto dal denaro. Le somme distratte attraverso un sistema di fatture false, scrive, "una volta pervenute sul conto intestato a Coolshade Enterprise di Augusto Pretner erano con un primo passaggio versate con bonifico, per il solo transito di denaro, al conto corrente relazione bancaria Limecross Limited Tortola facente capo da un intermediario svizzero e con un secondo passaggio, nella stessa data del ricevimento, trasferite con bonifico, per pari importo ed in dipendenza del codice, su altri conti correnti, identificati con tre codici: 'Schiavo', 'Sole' e 'Pesce'. Sole si identifica in Augusto Pretner. Pesce si identifica in Corrado Clini. Il terzo è di persona deceduta". Sul conto 'Pesce', secondo l'accusa, finiscono otto bonifici per un totale di 1.020.000 tra il 14 ottobre 2008 e il 22 giugno 2011. Quel conto, si legge nell'ordinanza, "è stato aperto il 13 giugno 2005. Trattasi di relazione cifrata il cui titolare è Corrado Clini".
Quattro passaggi esteri e poi i soldi arrivavano a destinazione: conto corrente 0247678051 aperto presso la filiale di Lugano dell’Ubs, intestato a Corrado Clini, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Nome in codice, «Pesce». Celandosi dietro lo pseudonimo l’ex ministro dell’Ambiente pensava forse di farla franca. Invece sono state proprio le autorità elvetiche a denunciare l’irregolarità di quegli otto bonifici per un totale di un milione e 20mila euro ordinati tra il 2008 e il 2011 contestando il reato di riciclaggio. E alla fine le verifiche effettuate dalla Guardia di Finanza hanno convinto il giudice di Ferrara a far scattare l’arresto. Anche perché il denaro proveniente dai fondi pubblici stanziati per l’Iraq potrebbe essere soltanto una parte dei finanziamenti che Clini ha «stornato» per sé nell’ambito di numerosi progetti internazionali gestiti nel suo incarico di direttore generale. La procura di Roma sta indagando su flussi finanziari che superano i 215 milioni di euro e ipotizza il reato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione anche nei confronti della moglie Martina Hauser, assessore comunale a Cosenza e - dice l’accusa - destinataria di alcuni contratti di consulenza proprio grazie al marito. Il «paravento» individuato dai finanzieri di Ferrara guidati dal colonnello Sergio Lancerin era il progetto «New Eden» affidato alla «Nature Iraq» per lo sfruttamento di Tigri e Eufrate. Investimento del governo italiano: 54 milioni di euro. Una segnalazione arrivata lo scorso anno dalla polizia tributaria olandese accusa la società «Gbc, Global Business & Comunications» di aver emesso false fatture in favore della Ong. Le verifiche effettuate dal Nucleo Tributario confermano il sospetto e forniscono altri dettagli. Scrive il giudice nell’ordinanza di cattura contro Clini e il suo «socio», anche lui ai domiciliari, Augusto Calore Pretner: «Le somme erogate dal governo italiano confluivano nei conti correnti intestati a “Nature Iraq” e “Iraq Foundation”. Dagli stessi conti erano tratti i bonifici con cui queste società pagavano le fatture emesse nei loro confronti dalla “Gbc” per un totale di 3milioni e 424mila euro». In realtà l’azienda non ha svolto alcuna attività, quei documenti contabili sarebbero «pezze d’appoggio» per creare le provviste da destinare a Clini e ai suoi presunti sodali. Il provvedimento giudiziario ricostruisce i successivi passaggi del denaro: «La società olandese “Orient Invest” emette fatture per un totale di 3 milioni e 251mila euro che la “Gbc” paga su un conto corrente aperto a Dubai tenendosi una percentuale del 5 per cento. A sua volta la “Orient Invest” trattiene una percentuale del 2 per cento e bonifica 3 milioni e 172mila euro su un conto aperto presso la Ubs di Lugano e intestato alla società di dominio caraibico “Coolshade Enterprise”». È la tappa cruciale perché quest’ultima azienda fa capo a Pretner e serve allo smistamento delle somme che puntualmente avviene, sia pur con un frazionamento per sfuggire ai controlli. L’espediente evidentemente non basta. Dopo un ulteriore passaggio sul deposito messo a disposizione da un mediatore svizzero, i soldi arrivano su tre conti che hanno un’intestazione in codice: «Sole» è Pretner e prende 2 milioni e 30mila euro; «Schiavo» è Luciano Mascellani, un signore poi morto al quale risultano bonificati 120mila euro; «Pesce» è Clini che riceve un milione e 20mila. Ben più alte le somme che Clini avrebbe ricevuto grazie ai progetti di cooperazione internazionale avviati in Cina e Montenegro per la riqualificazione ambientale di vaste aree. Gli inquirenti sospettano che lo stesso «sistema» usato per l’affare iracheno sia stato adottato per gli altri Stati. E calcolando che la percentuale presa attraverso «New Eden» supera il 5%, l’ammontare totale delle mazzette potrebbe superare i 10 milioni di euro. Denaro che Clini avrebbe spartito con la moglie e altri «soci» disponibili a mettere a disposizione società per l’emissione di false fatture. Il 12 ottobre 2013, quando i magistrati di Ferrara lo hanno convocato per contestargli le irregolarità relative ai rapporti del ministero con «Nature Iraq», Clini ha dichiarato: «Prendo atto dei documenti che mi vengono mostrati, ma non so nulla. In ragione del mio incarico (direttore generale ndr) prenderò i necessari provvedimenti a tutela dello Stato italiano». In realtà i soldi erano già al sicuro sui suoi conti correnti italiani. Il conto svizzero è stato infatti «svuotato il 4 agosto 2011 trasferendosi i soldi su un altro conto attraverso 18 bonifici intestati alla società Freelance riferibile a soggetti intermediari finanziari dediti al trasporto di valuta contante». Sono i cosiddetti «spalloni» che l’ex ministro ha evidentemente deciso di utilizzare anche per sfuggire al fisco.
L’amico “Corrado” era Clini? Si chiede Sabrina Giannini su “Il Corriere della Sera”. Allora ministro dell’Ambiente, Clini rifiutò con sdegno di essere “quel Corrado, un nostro uomo” evocato da un manager dell’Ilva nel corso di una presunta intercettazione telefonica che sarebbe stata registrata dalla Guardia di Finanza per conto dei magistrati tarantini. Non si è ancora capito che fine abbia fatto la registrazione integrale di quella intercettazione, forse e come spesso accade quando il re perde la corona, affiorerà all’improvviso aggiungendo (o forse togliendo) un tassello del puzzle ancora incompleto che ha portato a uno dei disastri ambientali più gravi degli ultimi anni e che ha visto contrapporsi il Gip Todisco ai decreti salva-Ilva, incluso quello firmato nel 2012 dal ministro del governo Monti, Corrado Clini appunto. Monti lo scelse come tecnico, di certo poco esperto di ambiente avendo una laurea in medicina. Eppure le sue perle di saggezza sembravano derivare da profonda conoscenza del fenomeno, come quando dichiarò che il problema ambientale nasceva dall’imbecillità urbanistica di chi aveva costruito il quartiere Tamburi a ridosso dell’acciaieria. Avesse letto su Wikipedia la storia in breve di Taranto avrebbe appreso che quel quartiere c’era già al tempo dei Romani (quelli con le bighe e non quelli delle auto blu usate anche dai Dg ministeriali come lui), quindi qualche secolo prima che in preda all’ansia di prestazione meridionalista (e relativa questua di voti) i democristiani costruissero un gigante d’argilla, costato alla collettività 32 miliardi di euro in sedici anni solo per ripianare i debiti e, soprattutto, un imprecisato tributo di vite umane. Clini, da due giorni agli arresti domiciliari per la presunta accusa di avere sottratto milioni di euro dalle casse pubbliche, avrà tempo per colmare le sue lacune in storia e comprendere anche quale altra perla ci ha donato quando aveva proposto come soluzione per Taranto lo spostamento del quartiere sfortunato. Una sorta di deportazione di massa che avrebbe risolto il problema. Che ovviamente non era l’acciaieria e la gestione criminale dei dirigenti dell’Italsider prima e dei Riva poi, consapevoli che ogni centesimo risparmiato per il risanamento degli impianti avrebbe minato la salute degli operai e dei cittadini (almeno otto miliardi di euro risparmiati dai Riva secondo gli esperti del Gip Todisco, due dei quali trafugati nei paradisi fiscali secondo i magistrati milanesi: si veda a proposito l’inchiesta su Report “Patto d’acciaio”.) Ma se un dirigente di carriera come Clini guadagna trecentomila euro l’anno una ragione ci sarà. Il Wikileaks - Italian reaction to President Bush's new climate change initiative “servitore dello Stato” Corrado sarebbe stato «un architetto chiave del ponte tra gli Stati Uniti e l’Europa in materia di cambiamenti climatici negli anni del governo Berlusconi (2001-2006)», come scrive l’ambasciatore Ronald Spogli nelle sue comunicazioni riservate con il Dipartimento di Stato, pubblicate da WikiLeaks. “Il nostro migliore amico al ministero dell’Ambiente” sarebbe stato proprio Corrado Clini percepito dagli americani come un aiuto in un momento critico per Bush, isolato per avere scelto di non aderire al Protocollo di Kyoto con lo scopo di non penalizzare le industrie inquinanti. Da dirigente “esperto” in questioni climatiche Clini nell’ottobre del 2012 entra nella squadra di Monti e firma il primo decreto salva-Ilva con il quale si mettono alla porta i custodi nominati dal tribunale restituendo così la gestione dello stabilimento ai Riva e al loro presidente Bruno Ferrante, il quale, forte dello scudo del decreto, ha continuato a produrre acciaio in deroga a numerose norme ambientali senza attivare il risanamento come avrebbe dovuto. Mentre i Riva spostavano i loro soldi in passaggi societari inestricabili in Lussemburgo, l’Ilva di Monti-Clini-Ferrante “tutelava” i polmoni dei cittadini del quartiere Tamburi (in attesa della deportazione) recintando lo stabilimento con le reti usate per la raccolte delle olive varietà leccino che, secondo l’”esperto” Clini, avrebbero potuto trattenere le polveri inquinanti che si sollevano insieme ai minerali. A corredo della farsa furono acquistati otto cannoni nebulizzatori che per mesi non hanno funzionato (per fortuna, perché avrebbero fatto più danni che altro). L’effetto di quel decreto fu devastante e ancora oggi Taranto ne paga le conseguenze. Il commissario Bondi voluto da Letta non ha trovato i soldi per risanare né per riqualificare l’acciaio sempre meno appetibile perché l’azienda è poco affidabile per la qualità della materia prima. Il mercato non perdona. La Corte Costituzionale aveva restituito all’azienda la facoltà d’uso a patto che risanasse e così non è stato. La Procura, incredibilmente, non ha più agito contro i trasgressori e il recente decreto del governo Renzi ha ormai azzerato quell’obbligo. Il piano ambientale è stato rivisto da Bondi, sono stati tolti i vincoli, annullate le prescrizioni e rinviati sine die i termini per eseguire gli interventi. Oggi non resta che quel monumento alla finzione che si è voluto erigere a disprezzo dell’intelligenza umana: le reti per le olive che non proteggono i polmoni dei bambini dei Tamburi. Il diritto alla salute di quei bambini, di tutti gli abitanti dei Tamburi, è annientato dalle leggi “speciali” redatte dagli “esperti” dei ministeri e da Bondi, un chimico risanatore di finanze che ha clamorosamente fallito perfino nella sua pratica: quella di chiedere soldi alle banche. I veri esperti che avrebbero tutelato e pianificato un risanamento graduale e, parallelamente, garantito la produzione a rigor di legge, potevano essere i tre custodi giudiziari nominati dal giudice Patrizia Todisco. Oltre a stimare gli interventi necessari per eliminare le “emissioni inquinanti” definendone i costi in 8 miliardi di euro, avevano anche definito un piano di recupero preciso e dettagliato. Centinaia di pagine, sintesi delle centinaia di ore passate a studiare camini, impianti, filtri, emissioni e quindi soluzioni. Tutto già fatto, bastava applicarlo. Ma Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, in un’intervista definisce i tre custodi nominati dal Gip Todisco “tre ragazzi che accusano Riva di aver sottratto 8 miliardi di profitti all’ambiente, giudizio però bocciato dalla Cassazione.” I “tre ragazzi” sono gli ingegneri industriali tecnici dell’Arpa coordinati da Barbara Valenzano, dirigente con specializzazione in impianti chimici di processo, massimo titolo conseguibile quale qualificazione professionale, che nel frattempo si sarebbe rivolta a un avvocato per querelare Gozzi. Il quale forse non sa che la Cassazione ha annullato il provvedimento del Gip con motivazioni legate alla procedura di sequestro e non per le modalità con cui è stato redatto il Piano di interventi necessari per risanare l’Ilva, tanto che lo stesso Bondi l’avrebbe ricalcato, fatta eccezione per la copertura dei parchi minerari. Peccato che i soldi dei Riva siano blindati sotto sequestro a Milano e non utilizzabili per lo scopo del risanamento, a meno che non siano loro ad autorizzarlo. Ovviamente se avessero avuto lo spessore degli industriali illuminati non avrebbero trasformato l’Ilva in uno degli esempi di inciviltà industriale di cui possiamo solo vergognarci. Anche a causa delle protezioni istituzionali e degli aiuti dei governi. Ministri salva-Ilva inclusi. Tra questi anche Clini. L’esperto Clini. Verso il quale Gozzi non ha mai proferito cattive parole. Sarà perché Clini è amico di tutti?
LA GRANDE BUFALA: LA GREEN ECONOMY.
La più grande bufala della storia: la green economy, scrive Gianni Petrosillo. La nostra avrebbe dovuto essere l’era dell’energia pulita, il secolo lindo e trasparente delle fonti rinnovabili “non convenzionali”. Da quando poi il profeta nero dell’ecologia verbale, simbolicamente perfetto ed eticamente furbetto, al pari dei suoi scaltri predecessori, è salito sul pero della prima potenza mondiale non si è parlato d’altro perché egli stesso non aveva nient’altro di coinvolgente da dire. Il signor Presidente aveva ricevuto il mandato preciso di accendere le coscienze per spegnere i cervelli, di infiammare i cuori per bruciare i concorrenti, di innalzare gli spiriti per seppellire le nazioni. Questo ha fatto con premura prima che il tanto annunciato futuro radioso dell’umanità sostenibile ed ecocompatibile si sciogliesse al sole e si volatilizzasse nell’aria. Le bugie hanno le gambe corte ma il passo spedito, quel che basta per seminare i potenziali competitori creduloni che restano indietro quanto più avanzati e moderni si sentono. Sole, vento, combustibili vegetali e non inquinanti in generale avrebbero dovuto prendere il posto delle fonti classiche, dal carbone, al petrolio, al gas, nel giro di qualche anno. Ed, invece, siamo ancora al punto di partenza con la differenza che rispetto al passato abbiamo accumulato montagne di balle sesquipedali e di menzogne monumentali, piuttosto difficili da smaltire. Il conformismo propagandistico ecologistico ha alimentato l’illusione energetica “non convenzionale” per recondite ragioni geopolitiche, accollando spese pazze alle collettività più incaute ed ingenue. I buoni di cuore e gli ultrasensibili ai destini del globo, nonché al fato delle generazioni a venire (machissenefrega), alle quali avremmo l’obbligo di riconsegnare il pianeta perché ne siamo meri usufruttuari per volere della sorte, di dio o di chissà cos’altro (salvo soprese spaziali che potrebbero cancellarlo all’istante senza tener conto delle nostre speranze) se la sono bevuta tutta d’un fiato. L’unica cosa che è aumentata a dismisura è la produzione di scorie intellettuali che hanno avvelenato il buon senso e le faticose risultanze della scienza in questo campo. I padroni del mondo adesso se la ridono impunemente essendo stati più pragmatici e meno accecati dalle fandonie del Global Warming o da quelle sui limiti della crescita. Essi sanno come fornire le dosi giornaliere di “soma” social-ambientale a chi gli scodinzola intorno, evitando di contaminarsi e di rincitrullirsi a loro volta. Così, all’abbisogna, con estrema lucidità, impartiscono il contrordine senza stuzzicare i popoli che dormono da quando sono nati. Non che non ci abbiano rimesso pure loro qualcosa ma il gioco valeva la candela e, comunque, gli altri avrebbero perso tutto, compresa la faccia. Obama ha incominciato decantando i colossali investimenti in imprese innovative del settore delle rinnovabili. Solyndra e A123 Systems, i casi più eclatanti. Entrambe miseramente fallite con sperperi di denaro pubblico e posti di lavoro. Tuttavia, dietro le quinte, gli Usa lavoravano ad altro senza andare tanto per il sottile e mettendo da parte le chiacchiere verdi. Scommettevano sul gas di scisto e ancora sul petrolio (alla faccia delle teorie sul picco e sul suo esaurimento imminente) perché, ai livelli tecnologici dati, non c’è finora nulla di superiore, di conveniente e di performativo (escludendo il nucleare). Oggi, grazie alla tecnica del fracking che consiste nella frantumazione delle rocce per estrarne il gas (shale gas) Washington ha raggiunto la quasi autonomia energetica. Sapete come hanno chiamato gli americani questo sistema di sfruttamento delle risorse naturali che presenta controindicazioni ambientali elevatissime? La rivoluzione tranquilla. E meno male…Ma questo è il minimo della presa per i fondelli. Sabato 1° febbraio il Washington Post, in un articolo a firma di Juliet Eilperin e Steven Mufson, ha scritto del maxi-oleodotto progettato tra Canada e Stati Uniti che a pieno regime sarà in grado di trasportare di 830.000 barili di greggio al giorno. La pipeline attraverserà tutto il Midwest, da Nord a Sud, fino al Texas, un percorso lunghissimo e costoso (oltreché ad alto impatto ambientale) che, tuttavia, si completerà lo stesso, nonostante gli ecologisti siano già sul piede di guerra, perché si tratta di acciuffare il primato mondiale sul petrolio (del Nord America su paesi come l’Arabia). Gli interessi nazionali e strategici del Paese vengono anteposti, com’è giusto che sia, alle favole belle e impossibili. La testa prima del cuore ed il fegato di rischiare prima di tutto il resto. E in Italia, invece, che facciamo? Continuiamo a strapagare sulla bolletta energetica ogni “inutilità alternativa” per fare contenti i parassiti del verde e a costituire comitati di opposizione, altrettanto alternativi, ma soltanto al raziocinio, per bloccare qualsiasi sviluppo. A che serve il progresso vero quando si hanno a disposizione pozzi inesauribili di progressismo finto? Vivremo di quelli, cioè decresceremo felici e impotenti.
Energia, la bufala della green economy, scrive Fabio Balocco su “Il Fatto Quotidiano”. Alcuni, non pochi, che masochisticamente leggono ciò che scrivo, sono convinti sviluppisti. Per loro il massacro che l’uomo sta perpetuando alla Terra è necessario appunto come lo sviluppo. Le morti per inquinamento, i disastri ambientali, puri incidenti di percorso oppure effetti collaterali indesiderati ma ahimè necessari. Sono questi che pronunciano la solita trita e ritrita frase “questi ambientalisti che dicono no a tutto” ed in particolare, in campo energetico (l’energia = motore dello sviluppo), “si oppongono al nucleare, al carbone, al petrolio, e persino al solare, all’eolico, ed all’idroelettrico”. Non rispondo per decenza a chi continua a volere il nucleare, visto che già i disastri parlano da soli, visto che le scorie nessuno giustamente le vuole, così come nessuno vuole le miniere estrattive. Non rispondo neppure a coloro che sono favorevoli all’utilizzo di carbone e petrolio nella produzione di energia visti anche i recenti sviluppi riguardanti la salute delle persone che hanno la sfortuna di vivere nei siti intorno alle centrali. Andiamo invece a quella che viene definita la “green economy”, che spesso ha più l’apparenza di una operazione di greenwashing che di una reale produzione compatibile con l’ambiente.
Solare. Va benissimo il solare sparso sul territorio, ma non su terreni coltivabili. Che tipo di “economia verde” è un’energia che il verde commestibile lo fa sparire? A Torino c’è ad esempio una realizzazione virtuosa: pannelli solari piazzati sopra una discarica chiusa. E perché non agire sulla leva delle imposte per convincere chi ha o realizza capannoni industriali a rendersi autonomi energeticamente? I capannoni continuano ad essere realizzati in prefabbricati e sono energeticamente ignobili: caldi d’estate e freddi d’inverno.
Eolico. Gli incentivi fanno sì che buona parte dei parchi eolici fino ad oggi realizzati non siano economicamente vantaggiosi, in quanto realizzati in zone scarsamente ventilate. Ma non solo: pale eoliche realizzate sui crinali ed alte da 60 a 100 metri possono forse considerarsi compatibili con la tutela del paesaggio predicata dall’art. 9 della Costituzione? Esiste il minieolico ed il microeolico, perché se si vuole incentivare non si incentivano soprattutto queste forme di produzione, anziché quelle ad alto investimento, che, tra l’altro, esperienza dimostra che possono attirare capitali di dubbia origine?
Idroelettrico. Realizzato soprattutto in montagna, l’idroelettrico “ha già dato”. Eppure, anche qui, si continuano a presentare nuove domande di concessione per il cosiddetto “piccolo idroelettrico”, e cioè sotto i 3 megawatt di potenza. Eppure più del 90% dei corsi d’acqua alpini non versa in condizioni di naturalità. Ha senso continuare a sfruttare la risorsa a danno dei pochi ecosistemi ancora integri?
Biomasse. Le centrali a biomassa oggi vanno di moda. Ma se ha un senso una centrale che sfrutti gli scarti di lavorazione agricola, o le cippature delle alberate, nessun senso ha invece realizzare una centrale che brucia legna proveniente dall’estero, con relativi costi di trasporto, oppure una centrale che brucia legna proveniente dal taglio di un bosco secolare.
Una parola sugli inceneritori. Siamo l’unico paese che ha dato incentivi agli inceneritori (chiamandoli vezzosamente “termovalorizzatori”) assimilandoli alle fonti rinnovabili. Non è il caso di spendere molte parole. Una raccolta differenziata virtuosa come dovrebbe essere in ogni comune (ce ne sono che raggiungono percentuali del 90%) non darebbe nessuna linfa vitale agli inceneritori. Non si avrebbe il problema delle scorie, e non si avrebbero le ricadute negative sulla salute dei cittadini.
Gli sviluppisti troveranno in queste poche righe ulteriori elementi di accusa. “eh, sì, e allora come ci possiamo sviluppare?”. Il punto è proprio qui. Non dobbiamo ingrassare, dobbiamo dimagrire. Non è semplice, ma è necessario.
La green economy e la sua mistificazione, scrivono Franco Fondriest e Luca Lombroso su “Il fatto Quotidiano”. La “green economy” va molto di moda in alcuni ambienti politici, in particolare di centro sinistra. Ma è veramente questa la via giusta per ridare fiato al pianeta? Ora tutto è green:
- i detersivi sono green, basta aggiungere qualche componente naturale;
- gli alberghi sono green, basta lavare meno spesso gli asciugamani;
- i centri commerciali sono green, basta collocare un pannello solare;
- le banche sono green, basta fare un po’ di home banking.
Basta una ritoccatina e tutto diventa green. Perfino le supercar sportive e la formula uno con la scusa del motore ibrido, perfino la guerra, con i cacciabombardieri a biocarburanti che ammazzano e distruggono tutto, ma non l’ambiente (!!!!!!!). Il riciclaggio dei rifiuti ne è un esempio ancor più chiaro; una filiera industriale basata sul riciclo di materiali, poniamo plastica, implica che si continui a utilizzare plastica e a buttarne via, per poi riciclarla, all’infinito. E’ certamente meritevole riciclare rifiuti, ma ciò implica la necessità, nei processi produttivi, di uso di energia e di acqua. Ma a volte la convenienza “energetica” (tecnicamente ‘Eroei’, Energia ritornata rispetto l’energia investita) è risicata, e il processo si sostiene, a fatica, grazie a pubblici contributi, vedi il caso del vetro; basta guardare a fianco dell’Autosole fra Modena e Bologna per trovarne vere e proprie montagne abbandonate, fra le giuste proteste dei comitati e le vaghe promesse, non mantenute, dei politici. Altre volte, aziende “ecologiche” che riciclano materiale si incendiano, e allora ci accorgiamo di quanto poco ecologico è stoccare plastica, pneumatici, o quant’altro. La vera via per risolvere il problema dei rifiuti insomma non è il riciclaggio, ma la loro drastica riduzione alla fonte e ciò vale per quelli urbani e ancor più per quelli di cui pochi parlano, detti “speciali”, ovvero i rifiuti industriali prodotti alla fonte della filiera. In poche parole, la via proposta per uscire dalla crisi economica da alcuni politici ed ambientalisti sarebbe la “crescita verde”, ovvero se non si riesce più a vendere un oggetto, o a costruire una grande opera, si rimedia facendolo ecosostenibile. Questa via è solo poco meglio, o forse meno peggio, del consumismo tradizionale e ha dei grossi limiti e problemi, economici etici e ambientali. Spesso sconfina nel greenwashing, che è ancora più dannoso per l’ambiente perché induce il consumatore, in buona fede, a comprare prodotti inutili solo perché “ecologici” o giustifica la costruzione di grandi opere solo piantando qualche albero e facendo una barriera antirumore, magari coperta di pannelli solari male esposti al sole. Altra cosa invece è parlare di “futuro sostenibile” e non di “sviluppo sostenibile”, infatti con sviluppo spesso si sottintende la crescita che, piaccia o no, verde o sporca che sia, è limitata da ragioni fisiche e di disponibilità di risorse e probabilmente è anche definitivamente terminata, almeno nel nostro paese e in altri. Riprendiamo l’esempio dei centri commerciali fuori dalle città; portano traffico, inducono al consumo, consumano quantità ingenti di energia per illuminazione, riscaldamento, raffrescamento e refrigerazione dei cibi; la vera alternativa sostenibile sono i centri di vicinato, i mercati a (vero) km 0, quelli biologici o di gruppi di acquisto solidale. Quindi, se a qualcuno piace green perché è funzionale ad un sistema basato sulla crescita, nel quale fare e disfare è funzionale, lo dica chiaramente, ma non lo si spacci per sviluppo sostenibile!
CHI HA PAURA DELLE NUOVE TECNOLOGIE: HYST ED OGM?
Antonio Giangrande: “Fame nel mondo: disinformazione e scienza”.
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Ogni qualvolta c’è una nuova tecnologia o una nuova terapia, che non sia abilitata e di proprietà intellettuale delle grandi lobbies, ecco lì che interviene la magistratura a stoppare il tutto. Dei metodi Di Bella e Stamina sono argomenti che ho trattato nei miei libri nel tema della sanità. In questa sede voglio parlare delle tecnologie HYST e degli OGM, trattati nei miei libri nel tema delle frodi agro alimentari.»
“L’Italia sfamerà il Mondo grazie alla tecnica BioHyst. Gli scienziati italiani hanno scoperto un nuovo metodo per ricavare farine proteiche dai sottoprodotti dell’industria molitoria attraverso un processo di frammentazione degli scarti- scrive Anna Germoni su “Panorama” – Nel mondo, 800 milioni di persone soffrono di fame. In Italia da alcuni anni c’è una tecnologia, denominata Hyst, in grado di valorizzare a fini alimentari i residui di attività agricole. A sperimentarlo un’associazione onlus, Scienza per Amore, che conta 200 soci, ha la titolarità del brevetto e un progetto internazionale, Bits of Future: food for all. Con questa tecnologia si ricavano farine proteiche dai sottoprodotti dell’industria molitoria, attraverso un processo di frammentazione degli scarti. Il ministero della Salute, il 19 dicembre del 2012 ha dato «parere positivo alla produzione e commercializzazione di integratore alimentare di vitamina B1, manganese e fosforo prodotto con il sistema Hyst»; anche quello delle Politiche agricole il 18 dicembre del 2012 si è espresso favorevolmente «per la produzione e commercializzazione di frumento prodotto da crusca». Sei paesi africani: Burkina Faso, Camerun, Congo, Ruanda, Senegal, Somalia e Burundi, interessati a questa tecnologia, hanno ottenuto l’ok dalla World Bank di Washington e della Banca Africana di Sviluppo di Tunisi per installarla. L’impianto è stato sperimentato da universitari e persone altamente qualificate che ne hanno attestato l’efficacia Fra le certificazioni, quelle delle università de La Sapienza di Roma, di Milano, la Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, l’Asl di Pavia, Confindustria energia. Il macchinario, su cui girano miliardi di euro, viene inghiottito da due filoni giudiziari. Da una parte i ministeri della Salute e delle Politiche agricole, esprimono pareri favorevoli sulla validità e potenzialità di tale impianto e della tecnologia che usa, dall’altra la polizia municipale boccia l’utilità e l’adeguatezza del metodo Hyst. I soci della onlus hanno chiesto il dissequestro alla Procura di Roma e che sia disposto incidente probatorio al fine di testare l’efficacia di impianto e tecnologia alla presenza di consulenti nominati dal giudice. Tali istanze sono state per ora rigettate, impedendo agli indagati di smontare in concreto le accuse di vigili urbani e PM di Roma. Chi ha titolo per valutare l’efficacia di una tecnologia, i dicasteri competenti o la polizia municipale? I soci di una onlus che si autofinanzia possono truffare se stessi? Chi ha interesse a bloccare questo impianto?” Si chiede ancora Anna Germoni su “Panorama”.
“Tecnologia Hyst: truffa o rivoluzione umanitaria? – Si chiede Patrizia Notarnicola su “L’Indro”. – La tecnologia Hyst (Hypercritical Separation Technology) è un sistema, inventato e perfezionato negli ultimi 40 anni dall’ingegnere Umberto Manola, per trasformare scarti dell’industria alimentare (cruscame) e biomasse agricole (ad esempio paglia e legno) in componenti per l’alimentazione umana, per la zootecnica e per la produzione di biocarburanti. In poche parole, dagli scarti si otterrebbero soprattutto farine alimentari a basso costo e senza alcun impatto ambientale, con un grandissimo vantaggio per i Paesi più poveri.”
“Una setta? Forse solo degli illusi che voglio fare arte e mettere a disposizione dei governi nuovi strumenti tecnologici per sopperire alla carenza alimentare dei paesi più poveri? Sta di fatto che l’associazione Scienza per l’Amore ha visto sequestrati preventivamente entrambi i siti web dove promuovevano le loro attività e progetti. Il Tribunale di Roma, con la Procura della Repubblica – Direzione distrettuale antimafia, ha dato mandato alla Polizia locale di Roma Capitale, con il suo Gruppo di elite sulla Sicurezza Sociale Urbana, all’oscuramento in base al Proc. Pen. N. 13650/11 R.G.I.P. e il Proc. Pen. N. 25093/10 R.G.N.R., probabilmente perché sospettati di essere dei truffatori con il voler contribuire alla crescita e al benessere dell’Africa, mettendo in grado gli stessi africani di sfruttare al meglio le risorse locali, dove sono endemiche le carenza alimentari ed energetiche – scrive Nero Penna – Il Progetto Bits of Future: Food For All può lasciare alcuni per lo meno perplessi sulla possibilità che un macchinario trasformi degli scarti in cibo, ma sequestrare la loro vetrina senza specificarne le motivazioni. Bisogna diffidare dei soci e simpatizzanti dell’associazione, e perché? Magari sono contagiosi ed è consigliabile non stringere loro la mano. Sul sito veniva sbandierata l’adesione di una serie di stati africani (Repubblica del Senegal, Governo di Transizione della Repubblica Somala, Repubblica del Burkina Faso, Repubblica del Camerun, Repubblica del Ruanda, Repubblica del Burundi, Repubblica del Congo Brazzaville) al Progetto con lettere di ministri e rappresentanze diplomatiche. Forse sono solo il frutto di millantato credito o come è spesso accade un’occasione per dei governanti di fare un po’ di business?”
CHI HA PAURA DELL’OGM?
“«Ogm? L’unica cosa di cui dovete aver paura è il terrorismo pseudo-scientifico che uccide il biotech», – scrive Emmanuele Michela su “Tempi” – Pierdomenico Perata, rettore della Sant’Anna di Pisa, smonta tutte le leggende sugli organismi “giornalisticamente modificati”. Ma ammette: «Purtroppo in questo campo chi fa disinformazione è più abile di chi informa». Nel clima di sospetto che verte attorno ai cibi transgenici la stampa ha giocato un ruolo chiave, e a Tempi Perata cerca di fare luce sui tanti limiti e pericoli addebitati a questo genere di colture. «Ai giornalisti piace inventare titoli a effetto. E così nascono anche leggende che non esistono, come la “fragola-pesce”, o la storia che i semi Ogm sarebbero sterili. Eppure, tra ricercatori, scienziati e biotecnologi il fronte sembra compatto nel guardare con favore agli Ogm.»”
“Fino ad oggi un solo coltivatore, a Vivaro in Friuli, aveva seminato mais ogm – su un piccolo appezzamento di poco più di mezzo ettaro – fra proteste, denunce e mobilitazioni di ambientalisti e soprattutto di contadini – scrive Jenner Meletti su “La Repubblica” – Adesso invece una “Petizione pro mais transgenico Mon 810″ viene firmata da oltre 600 imprenditori agricoli del mantovano (associati alla Confagricoltura) e inviata alla Regione Lombardia.”
“Stessa biodiversità campi ogm e non. Lo indica il primo studio sulle coltivazioni in Africa – scrive “L’Ansa” – Il primo studio sui campi di mais geneticamente modificato (gm) in Africa indica che la biodiversità degli insetti è uguale a quella presente nelle colture tradizionali, sia per la varietà delle specie che per il numero di individui. Condotto in Sudafrica e pubblicato sulla rivista Environmental Entomology, il risultato si deve al gruppo di ricerca coordinato da Johnnie van den Berg, della North-West University. I dati confermano quelli raccolti finora dalle ricerche condotte in Cina, Spagna, e Stati Uniti su campi di riso, cotone e mais gm. La biodiversità di un ecosistema agricolo, scrivono gli autori dello studio, è importante non solo per il suo valore intrinseco, ma perché influenza le funzioni ecologiche vitali per la produzione vegetale nei sistemi agricoli sostenibili e nell’ambiente circostante. Una delle preoccupazioni più comuni in merito alle colture geneticamente modificate è il potenziale impatto negativo che potrebbero avere sulla diversità e l’abbondanza degli organismi che ospitano, e successivamente sulle funzioni degli ecosistemi. Pertanto, proseguono gli autori, è essenziale valutare il potenziale rischio ambientale di queste colture e il loro effetto sulle specie. Tuttavia la valutazione dell’impatto del granturco ogm sull’ecosistema è stata finora ostacolata dalla mancanza di liste di controllo delle specie presenti nelle coltivazioni di mais. Il primo obiettivo dello studio è stato quindi compilare una lista degli insetti che popolano queste colture per confrontare la diversità e l’abbondanza nelle coltivazioni ogm. In due anni in entrambi i campi considerati nella ricerca sono stati censiti 8.771 insetti di 288 specie, fra decompositori, erbivori, predatori, e parassiti. I dati indicano che, per quanto riguarda i campi di mais in Sudafrica, ”la diversità di insetti nei sistemi agricoli ogm – sottolinea van den Berg – è elevata come nei sistemi di agricoltura tradizionali”.”
“La comunicazione della scienza nell’era dei social: emozionare o informare? – Si chiede Moreno Colaiacovo su “I Mille” – Organismi geneticamente modificati, metodo Stamina, sperimentazione animale: il dibattito pubblico su temi scientifici è più acceso che mai. Incalzata dai media e dai gruppi di pressione, la politica si è trovata ad affrontare – spesso con scarsi risultati – problemi complessi, in cui l’aspetto scientifico e quello sociale si sono mescolati a tal punto da risultare molte volte indistinguibili. E se alla classe politica possiamo rimproverare di non aver affrontato razionalmente questi problemi, concedendo troppo alla demagogia, d’altra parte non si può dire che la popolazione avesse gli strumenti per valutare lucidamente le questioni che di volta in volta venivano sollevate: raramente i media hanno scelto di spiegare, quasi sempre hanno preferito scandalizzare, commuovere o spaventare. Impostare un dibattito sui binari dell’emotività è il modo più semplice per muovere le coscienze, soprattutto in un Paese come il nostro, dove la cultura scientifica è da sempre trattata con supponenza e sospetto. Parte di questa strategia ha a che fare con l’uso delle immagini. Puoi fare un discorso perfettamente logico e convincente, puoi presentare numeri e tabelle, ma il castello della razionalità crolla miseramente se dall’altra parte c’è un’immagine vincente. Con le immagini è tutto più facile: basta una foto per far scattare a piacimento sentimenti come la rabbia, l’indignazione, la paura, la pietà. E i tre temi menzionati all’inizio di questo articolo, in effetti, hanno tutti un denominatore comune: in tutti questi casi l’opinione pubblica è stata condizionata e plasmata anche grazie all’uso di immagini forti. Immagini che passano in TV e sui giornali, ma che diventano virali soprattutto sui social network, Facebook in particolare. Nel caso degli OGM si è voluto spaventare. Basta cercare “OGM” su Google per rendersene conto: le immagini neutrali o favorevoli agli organismi geneticamente modificati sono una minima parte rispetto ai mostruosi fotomontaggi che hanno accompagnato questa tecnologia fin dalla sua nascita. Pensiamo alla fragola-pesce, una creatura mitologica che è ormai entrata a far parte dell’immaginario collettivo. Una vera e propria leggenda metropolitana che si è rivelata essere lo strumento perfetto per allontanare l’interlocutore dal sentiero della razionalità e spingerlo verso le pulsioni più istintive, che ci portano a fuggire da tutto ciò che è nuovo e sconosciuto, invitandoci ad approdare al porto sicuro della tradizione e dei bei tempi andati. Ovviamente non è mai esistita nessuna fragola-pesce, ma l’immagine era così evocativa da resistere ancora oggi, a distanza di anni dalla sua comparsa sui media. Cosa dire invece del metodo Stamina? Il caso è diventato di pubblico dominio grazie alle Iene, il cui messaggio è passato in gran parte attraverso la strumentalizzazione di immagini di bambini malati e sofferenti. Gli scienziati, dal canto loro, hanno dovuto subire l’accusa infamante di essere persone insensibili, fredde macchine razionali impossibili da scalfire persino con la più straziante delle tragedie umane. Eppure è esclusivamente con la razionalità e la lucidità che si può fare scienza, e trasformare le nuove conoscenze in soluzioni terapeutiche concrete ed efficaci. Ma quando dall’altra parte c’è il dolore di un bambino sbattuto in prima pagina (o in prima serata), qualunque considerazione ancorché giusta svanisce istantaneamente. Infine, la questione più scottante e attuale, quella relativa alla sperimentazione animale. Anche qui, la battaglia tra le due fazioni (perché di guerra si tratta, in molti casi) si è combattuta a suon di immagini. I movimenti animalisti hanno fatto abbondante uso di fotografie terribili, con animali costretti a subire tremende torture, ma non hanno disdegnato nemmeno sapienti fotomontaggi volti a screditare quei ricercatori che avevano difeso pubblicamente l’utilità della vivisezione (come viene impropriamente chiamata). Poco importa se le immagini cruente di animali straziati non corrispondano alla realtà, almeno non qui in Europa, e ancor meno importa il fatto che circa il 92% degli scienziati ritenga che purtroppo non si possa fare a meno della sperimentazione animale. L’impatto emotivo di quelle foto e di quei camici insanguinati è semplicemente devastante. Le immagini sono uno strumento potentissimo all’interno di una discussione, specie se gli interlocutori non sono molto informati sul tema. Spesso raggiungono l’obiettivo, muovendo le masse verso una posizione piuttosto che un’altra. E ad avvantaggiarsene sono stati anche coloro che stanno dalla parte della scienza, come dimostra la recente vicenda di Caterina Simonsen, suo malgrado divenuta nel giro di poche settimane una celebrità della rete. Il coinvolgimento emotivo è un’arma micidiale, che può essere usato sia dagli oppositori della scienza, sia da quelli che dovrebbero esserne i paladini. Ma è davvero la strategia migliore? Dal punto di vista etico, sfruttare immagini di persone sofferenti per portare avanti una causa non sembra certo il massimo della correttezza. Tuttavia, non è a questo che mi riferisco, quanto piuttosto all’efficacia di questo approccio nel lungo periodo. Le immagini scioccanti sono perfette per orientare l’opinione pubblica in merito al singolo episodio (i movimenti animalisti hanno obiettivamente accusato il colpo dopo la vicenda di Caterina), ma hanno il difetto di mancare il bersaglio grosso, quello che un amante della scienza dovrebbe considerare come l’obiettivo prioritario: insegnare a valutare un problema in modo razionale, informandosi e pesando pro e contro. In teoria, viviamo in una democrazia moderna, relativamente colta e istruita. Dovremmo quindi smetterla di trattare le persone come un gregge da guidare da una valle all’altra ogni volta che si presenta un nuovo argomento di discussione. Oggi è la sperimentazione animale, domani potrebbe essere qualcos’altro. La verità è che esiste soltanto una bussola che permette di trovare sempre, in ogni circostanza, la via giusta: è la bussola del pensiero critico, della logica e della corretta informazione. Educare le persone a usarla le renderà cittadini liberi, e realmente consapevoli delle proprie opinioni. Fare informazione corretta paga. Prendiamo ad esempio il recentissimo sondaggio IPSOS sulla sperimentazione animale: la percentuale di favorevoli saliva dal 49% al 57% se agli intervistati venivano fornite informazioni di base sull’argomento. In modo analogo, all’ultimo Festival della Letteratura di Mantova, il ricercatore Dario Bressanini e la giornalista Beatrice Mautino erano riusciti a vincere un confronto Oxford-style sul tema degli OGM, convincendo molti scettici a passare dalla loro parte. Comunicare la scienza in modo pacato, chiaro e oggettivo rimane ancora la strategia vincente. Anche nell’era di Twitter e Facebook.”
CHI HA PAURA DELLE NUOVE TECNOLOGIE: HYST ED OGM?
CHI HA PAURA DELLA TECNOLOGIA HYST PER SFAMARE IL MONDO?
Quando la carestia sarà un ricordo, scrive Nero Penna. Una setta? Forse solo degli illusi che voglio fare arte e mettere a disposizione dei governi nuovi strumenti tecnologici per sopperire alla carenza alimentare dei paesi più poveri? Sta di fatto che l’associazione Scienza per l’Amore ha visto sequestrati preventivamente entrambi i siti web dove promuovevano le loro attività e progetti. Il Tribunale di Roma, con la Procura della Repubblica – Direzione distrettuale antimafia, ha dato mandato alla Polizia locale di Roma Capitale, con il suo Gruppo di elite sulla Sicurezza Sociale Urbana, all’oscuramento in base al Proc. Pen. N. 13650/11 R.G.I.P. e il Proc. Pen. N. 25093/10 R.G.N.R., probabilmente perché sospettati d essere dei truffatori con il voler contribuire alla crescita e al benessere dell’Africa, mettendo in grado gli stessi africani di sfruttare al meglio le risorse locali, dove sono endemiche le carenza alimentari ed energetiche. Lo strumento per realizzare questi obiettivi è la tecnologia Hyst, che consente di impiegare a fini alimentari ed energetici qualsiasi scarto proveniente dalle lavorazioni agricole. Si produrranno così farine per alimentazione umana, zootecnica ed energia pulita. L’Hyst è un sistema innovativo che anticipa quello che, nelle pubblicazioni scientifiche del settore, si auspica di realizzare fra 10-20 anni. Una tecnologia che trasforma gli scarti di cereali e frutta in prodotto alimentare appare molto simile al sottoporsi a una cura staminale con cellule trattate in ambiente difficilmente ritenuto sterile. Il Progetto Bits of Future: Food For All lascia per lo meno perplessi sulla possibilità che un macchinario trasformi degli scarti in cibo, ma sequestrare la loro vetrina senza specificarne le motivazioni. Bisogna diffidare dei soci e simpatizzanti dell’associazione, e perché? Magari sono contagiosi ed è consigliabile non stringere loro la mano. Sul sito veniva sbandierata l’adesione di una serie di stati africani (Repubblica del Senegal, Governo di Transizione della Repubblica Somala, Repubblica del Burkina Faso, Repubblica del Camerun, Repubblica del Ruanda, Repubblica del Burundi, Repubblica del Congo Brazzaville) al Progetto con lettere di ministri e rappresentanze diplomatiche. Forse sono solo il frutto di millantato credito o come è spesso accade un’occasione per dei governanti di fare un po’ di business? L’Ifad (Fondo Internazionale per la Sviluppo Agricolo) interpellato sull’essere a conoscenza del progetto Bits of Future: Food for All ha risposto chiarendo le competenze dell’organizzazione impegnata nello sviluppo agricolo e ha tenuto a chiarire che la Fao (Food and Agriculture Organization of the United Nations: Employment) potrebbe rispondere. Mentre alle richieste inviate alla Fao di essere a conoscenza del progetto e confermare un loro interesse non è a tutt’oggi giunto alcun commento. Come non ha fatto seguito alcuna risposta con il Wfp (Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite).
L'Italia sfamerà il Mondo grazie alla tecnica BioHyst. Gli scienziati italiani hanno scoperto un nuovo metodo per ricavare farine proteiche dai sottoprodotti dell’industria molitoria attraverso un processo di frammentazione degli scarti, scrive Anna Germoni su “Panorama”. Nel mondo, 800 milioni di persone soffrono di fame. In Italia da alcuni anni c’è una tecnologia, denominata Hyst, in grado di valorizzare a fini alimentari i residui di attività agricole. A sperimentarlo un’associazione onlus, Scienza per Amore, che conta 200 soci, ha la titolarità del brevetto e un progetto internazionale, Bits of Future: food for all. Con questa tecnologia si ricavano farine proteiche dai sottoprodotti dell’industria molitoria, attraverso un processo di frammentazione degli scarti. L’ingegnere Pier Paolo Dell’Omo, presidente della onlus, nonché ricercatore del dipartimento di ingegneria astronautica, elettrica ed energetica de La Sapienza di Roma dice: «Con un chilo di pula prodotta dalle riserie, che costa 15 centesimi di euro, si producono 40 dosi di integratori, prodotti ideali per ovviare ai deficit proteici sulla malnutrizione». Il ministero della Salute, il 19 dicembre del 2012 ha dato «parere positivo alla produzione e commercializzazione di integratore alimentare di vitamina B1, manganese e fosforo prodotto con il sistema Hyst»; anche quello delle Politiche agricole il 18 dicembre del 2012 si è espresso favorevolmente «per la produzione e commercializzazione di frumento prodotto da crusca». Sei paesi africani: Burkina Faso, Camerun, Congo, Ruanda, Senegal, Somalia e Burundi, interessati a questa tecnologia, hanno ottenuto l’ok dalla World Bank di Washington e della Banca Africana di Sviluppo di Tunisi per installarla. L’impianto è stato sperimentato da universitari e persone altamente qualificate che ne hanno attestato l’efficacia Fra le certificazioni, quelle delle università de La Sapienza di Roma, di Milano, la Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, l’Asl di Pavia, Confindustria energia. Il dottor Vito Pignatelli, responsabile del coordinamento tecnologie biomasse e bioenergie per le fonti rinnovali dell’Enea, interpellato da Panorama sull’efficacia dell’impianto risponde: «Da quel che ho avuto modo di vedere, e dai documenti che riportano i risultati delle prove effettuate presso laboratori universitari, la tecnologia in esame presenta indubbiamente interessanti potenzialità. Migliora la qualità nutrizionale delle farine ottenute dalla macinazione dei cereali. Poi è chiaro che, utilizzando la capacità degli impianti, si può pensare ad un uso degli stessi per ottenere un’elevata produzione di biogas anche da biomasse ricche di zuccheri non fermentiscibili, come sono appunto le paglie, o, in prospettiva, per la produzione di etanolo di seconda generazione. E con ulteriori prove sperimentali, sarà certamente in grado di dimostrare tutte le sue potenzialità, anche nel campo della bioenergia». Panorama ha consultato un altro parere, quello dell’ingegnere Franco Del Manso, responsabile dei rapporti internazionali ambientali e tecnici dell’Unione petrolifera, che riferisce: «Nel campo dei biocarburanti abbiamo individuato nella tecnologia BioHyst una delle possibili risposte all’esigenza di trasformare residui delle lavorazioni agricole in biometano per l’impiego nel settore dei trasporti. Sulla base dei risultati preliminari che ci sono stati forniti dai tecnici che hanno sviluppato la tecnologia, l'Unione Petrolifera e le società ad essa associate, sono molto interessate alla verifica di tali risultati con sperimentazioni ad hoc da effettuarsi con prove su strada. Il biometano prodotto con questa tecnologia è configurabile come biocarburante di seconda generazione, cui viene riconosciuto un valore energetico doppio e dunque faciliterebbe il raggiungimento degli obblighi di miscelazione dei biocarburanti». Ma l’impianto è fermo, posto sotto sequestro dalla Procura di Roma dal marzo 2011 per indagini della polizia municipale capitolina, nei confronti sia di alcuni soci finanziatori della onlus con l’ipotesi di reato di associazione a delinquere e truffa nei confronti degli altri associati, sia dell’ideatore di tale progetto di cooperazione, sotto processo a Tivoli per presunti abusi sessuali su due minori e per aver “inventato” il metodo Hyst al fine di spillare soldi agli associati. Il macchinario, su cui girano miliardi di euro, viene inghiottito da due filoni giudiziari. Da una parte i ministeri della Salute e delle Politiche agricole, esprimono pareri favorevoli sulla validità e potenzialità di tale impianto e della tecnologia che usa, dall’altra la polizia municipale boccia l’utilità e l’adeguatezza del metodo Hyst. I soci della onlus hanno chiesto il dissequestro alla Procura di Roma e che sia disposto incidente probatorio al fine di testare l’efficacia di impianto e tecnologia alla presenza di consulenti nominati dal giudice. Tali istanze sono state per ora rigettate, impedendo agli indagati di smontare in concreto le accuse di vigili urbani e PM di Roma. Chi ha titolo per valutare l’efficacia di una tecnologia, i dicasteri competenti o la polizia municipale? I soci di una onlus che si autofinanzia possono truffare se stessi? Chi ha interesse a bloccare questo impianto?
Tecnologia Hyst: truffa o rivoluzione umanitaria? Si chiede Patrizia Notarnicola su “L’Indro”. Intervista con Daniele Lattanzi, responsabile Business Development Manager di BioHyst. La tecnologia Hyst (Hypercritical Separation Technology) è un sistema, inventato e perfezionato negli ultimi 40 anni dall'ingegnere Umberto Manola, per trasformare scarti dell'industria alimentare (cruscame) e biomasse agricole (ad esempio paglia e legno) in componenti per l'alimentazione umana, per la zootecnica e per la produzione di biocarburanti. In poche parole, dagli scarti si otterrebbero soprattutto farine alimentari a basso costo e senza alcun impatto ambientale, con un grandissimo vantaggio per i Paesi più poveri. A questo risultato rivoluzionario si arriva, secondo il suo inventore, con l'uso di una sola macchina, capace di separare i componenti della materia prima e di provocare l’urto, ad alta velocità e con forti correnti d’aria, delle particelle di biomassa. In questo modo amido e proteine, importantissimi per l’alimentazione umana, vengono isolati dalla parte fibrosa, che invece non è digeribile dall’uomo. Della validità scientifica di questa ricerca, che è finanziata dall’associazione 'Scienza per Amore',ci occuperemo in una seconda puntata della nostra inchiesta. Ci interessa intanto capire perché sul Presidente di questa associazione, Danilo Speranza, siano cadute come un macigno pesantissime accuse nell’ambito di due procedimenti penali diversi: truffa da un lato, abusi sessuali su due minori dall’altro. Per cercare di saperne di più, abbiamo intervistato Daniele Lattanzi, membro di Scienza per amore e responsabile Business Development Manager di BioHyst.
A che punto è la ricerca per l’applicazione della tecnologia Hyst?
«Al momento abbiamo operato su due installazioni pilota per testarla insieme al suo inventore, l’ing. Manola. Tuttavia i due impianti in questione (ndr. San Giuseppe di Comacchio e a Chignolo Po, in provincia di Pavia) sono sotto sequestro dell’autorità giudiziaria per ragioni probatorie.»
Perché nel 2011 è scattato il sequestro?
«Per valutarne il funzionamento e i risultati. Contro Danilo Speranza è stato avviato un procedimento penale per truffa. È stato accusato di millantare la validità della tecnologia per estorcere denaro agli altri associati di “Scienza per amore”. Chi ha sollevato le accuse, pur non avendo prove scientifiche, sostiene che gli impianti producevano sostanze velenose. Siamo ancora in fase di indagini preliminari. Una prima perizia tecnica, disposta dal pm, ha dato riscontro alle valutazioni precedentemente condotte dall’Università di Milano a nostro vantaggio.»
Prima ancora, nel 2010, Speranza, ex maestro di yoga, è stato arrestato a Roma per abusi sessuali su minori. Oggi è agli arresti domiciliari. Ma chi è Danilo Speranza e che relazione ha con la tecnologia Hyst?
«Danilo Speranza si occupa da anni di progetti filantropici. Circa 20 anni fa ha incontrato l’ing. Manola e ha inizialmente finanziato da solo il progetto, come persona fisica. Poi ha proposto all’associazione di dare un secondo finanziamento ma in maniera molto libera. In questo modo si voleva dare una prospettiva diversa alla tecnologia. Questo accadeva agli inizi degli anni ’90. L’associazione si chiamava ancora R.e. Maya.»
Perché l’associazione R.e. Maya, accusata di essere una setta, ha cambiato nome in “Scienza per amore” dopo l’arresto?
«L’associazione ha voluto prendere le distanze dalle accuse degli ex associati di R.e. Maya. Il boom mediatico aveva imposto un rifacimento della comunicazione del progetto Hyst. In questo modo abbiamo voluto tutelare sia la tecnologia sia coloro che l’hanno finanziata e portata avanti.»
Quanti sono oggi gli associati di “Scienza per amore”?
«Circa 200, tutti su Roma».
Nessuno tra voi ha voluto prendere le distanze da Speranza?
«Le accuse che hanno colpito Speranza riguardavano fatti di cui gli associati non potevano avere notizia o riscontro oggettivo. Il percorso seguito per la tecnologia Hyst è sempre stato alla luce del giorno e a conoscenza di tutti.»
Dalle nostre indagini (ndr. riscontri della Polizia Giudiziaria di Roma) risulta che alcuni ex associati si sono sentiti raggirati e plagiati dallo Speranza. Non temete che entrambi i procedimenti penali in corso compromettano l’attendibilità del vostro progetto?
«Credo che questo sia l’ obiettivo di chi ha fatto la denuncia: screditare il promotore e gettare fango sull’associazione chiamandola “setta”, in modo da adombrare il progetto. Ma contro la tecnologia Hyst non è stato portato uno straccio di prova scientifica. La tecnologia è stata invece valutata positivamente dall’università di Milano, dall’università La Sapienza di Roma, dall’Enea. Abbiamo avuto riscontro dal ministero della Salute e dal ministero delle politiche agricole.»
Che rapporti ci sono tra la vostra associazione e l’inventore Manola in questo momento?
«Manola ci ha ceduto i diritti sulla sua invenzione. Con lui in questo momento abbiamo rapporti marginali.»
Avete contatti con i Governi africani in cui vorreste esportare la vostra tecnologia?
«Abbiamo esposto il progetto al vicepresidente della banca Africana di Sviluppo , il professor Mthuli Ncube, e su sua iniziativa, lo abbiamo presentato a Tunisi a tutto il suo staff. Abbiamo riscontri da parte di moltissimi governi africani, come Congo Brazzaville, Burundi, Senegal, Somalia, Rwanda e Camerun. Il nostro è un progetto commerciale attraverso il quale intendiamo reperire risorse per un progetto di cooperazione internazionale. Il nostro fine è dare a questo Paesi gli strumenti sia per lavorare sia per produrre da soli quanto necessario per una esistenza dignitosa.»
CHI HA PAURA DELL’OGM?
Ruminano tranquille, nella grande stalla, le 140 vacche dell'azienda Lasagna. La campagna mantovana è la più grande "fabbrica" italiana di formaggi e di carne. Cinquecentomila vacche da latte, 1,3 milioni di maiali, 150.000 bovini da carne. Tutti animali nutriti soprattutto a mais e soia. Ed è proprio in questa enorme fabbrica (dove vengono lavorati parmigiano e grana padano, cosce per il prosciutto di Parma e per il San Daniele, bistecche e braciole per macellerie e supermercati) che si spacca la linea Maginot dei contadini italiani, fino ad oggi uniti e compatti contro gli ogm, organismi geneticamente modificati, scrive Jenner Meletti su “La Repubblica”. Fino ad oggi un solo coltivatore, a Vivaro in Friuli, aveva seminato mais ogm - su un piccolo appezzamento di poco più di mezzo ettaro - fra proteste, denunce e mobilitazioni di ambientalisti e soprattutto di contadini. Adesso invece una "Petizione pro mais transgenico Mon 810" viene firmata da oltre 600 imprenditori agricoli del mantovano (associati alla Confagricoltura) e inviata alla Regione Lombardia. "Noi non vogliamo fare la guerra a nessuno" racconta il presidente Lasagna. "Vogliamo una discussione laica, senza ideologie. Vogliamo una ricerca scientifica - fatta dalle università, non dalla Monsanto - che dia risposte precise. Gli ogm sono già nel nostro Paese. Il 90% della soia mangiata dai nostri animali è geneticamente modificata, come il 40% del mais.
Stessa biodiversità campi ogm e non. Lo indica il primo studio sulle coltivazioni in Africa, scrive “L’Ansa”. Il primo studio sui campi di mais geneticamente modificato (gm) in Africa indica che la biodiversità degli insetti è uguale a quella presente nelle colture tradizionali, sia per la varietà delle specie che per il numero di individui. Condotto in Sudafrica e pubblicato sulla rivista Environmental Entomology, il risultato si deve al gruppo di ricerca coordinato da Johnnie van den Berg, della North-West University. I dati confermano quelli raccolti finora dalle ricerche condotte in Cina, Spagna, e Stati Uniti su campi di riso, cotone e mais gm. La biodiversità di un ecosistema agricolo, scrivono gli autori dello studio, è importante non solo per il suo valore intrinseco, ma perché influenza le funzioni ecologiche vitali per la produzione vegetale nei sistemi agricoli sostenibili e nell'ambiente circostante. Una delle preoccupazioni più comuni in merito alle colture geneticamente modificate è il potenziale impatto negativo che potrebbero avere sulla diversità e l'abbondanza degli organismi che ospitano, e successivamente sulle funzioni degli ecosistemi. Pertanto, proseguono gli autori, è essenziale valutare il potenziale rischio ambientale di queste colture e il loro effetto sulle specie. Tuttavia la valutazione dell'impatto del granturco ogm sull'ecosistema è stata finora ostacolata dalla mancanza di liste di controllo delle specie presenti nelle coltivazioni di mais. Il primo obiettivo dello studio è stato quindi compilare una lista degli insetti che popolano queste colture per confrontare la diversità e l'abbondanza nelle coltivazioni ogm. In due anni in entrambi i campi considerati nella ricerca sono stati censiti 8.771 insetti di 288 specie, fra decompositori, erbivori, predatori, e parassiti. I dati indicano che, per quanto riguarda i campi di mais in Sudafrica, ''la diversità di insetti nei sistemi agricoli ogm - sottolinea van den Berg - è elevata come nei sistemi di agricoltura tradizionali''.
«Ogm? L’unica cosa di cui dovete aver paura è il terrorismo pseudo-scientifico che uccide il biotech», scrive Emmanuele Michela su “Tempi”. Pierdomenico Perata, rettore della Sant’Anna di Pisa, smonta tutte le leggende sugli organismi “giornalisticamente modificati”. Ma ammette: «Purtroppo in questo campo chi fa disinformazione è più abile di chi informa». Si potrebbe parlare di Ogm partendo da Eric-Gilles Séralini, il ricercatore francese che nel novembre 2012 aveva dimostrato che un certo mais transgenico induceva tumori, salvo poi essere scaricato dalla Food and Chemical Toxicology, rivista che a inizio dicembre ha ritirato lo studio in oggetto per evidenti lacune metodologiche. Oppure, si potrebbe ricordare la posizione statuaria dell’Italia di fronte alle biotecnologie, che sul nostro territorio non possono essere usate per coltivare. O ancora, si potrebbe guardare all’Expo 2015, evento che verterà attorno alla nutrizione del mondo, tema che però gli ambientalisti vorrebbero ridurre solo al biologico e alle pratiche agricole minimaliste, escludendo gli sviluppi più freschi del settore agroalimentare. Tutte tematiche che lasciano intendere quanto sia urgente un dibattito non ideologizzato sull’argomento: «Ma purtroppo chi fa disinformazione in questo campo è più abile di chi invece fa informazione». C’è fastidio e rassegnazione nelle parole di Pierdomenico Perata, docente ordinario di Fisiologia vegetale e ricercatore nel settore delle biotecnologie, e dalla scorsa primavera rettore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (ha preso il posto di Maria Chiara Carrozza, diventata ministro dell’Istruzione). Sorride al ricordo di quel soprannome con cui la scienza motteggia l’atteggiamento molto scoopistico con cui i media guardano agli Ogm: organismi giornalisticamente modificati. Nel clima di sospetto che verte attorno ai cibi transgenici la stampa ha giocato un ruolo chiave, e a Tempi Perata cerca di fare luce sui tanti limiti e pericoli addebitati a questo genere di colture.
«Ai giornalisti piace inventare titoli a effetto. E così nascono anche leggende che non esistono, come la “fragola-pesce”, o la storia che i semi Ogm sarebbero sterili».
Eppure, tra ricercatori, scienziati e biotecnologi il fronte sembra compatto nel guardare con favore agli Ogm.»
«Tutte le accademie scientifiche nazionali hanno preso posizione: non esiste un problema Ogm a livello scientifico. Ormai non sono considerati una minaccia per la salute delle persone o dell’ambiente, su questo proprio non c’è più dibattito. Può starci invece la considerazione che a ciò debba fare seguito una liberalizzazione del commercio di questi prodotti, ma non si capisce perché la politica deve offrire pseudo-ragioni scientifiche per supportare la propria obiezione agli Ogm, e non possa usare invece argomentazioni politiche. È scorretto trasmettere un’immagine di pericolo all’opinione pubblica per giustificare queste scelte politiche. Forse a livello economico non conviene aprire agli Ogm, o forse sì, però sta qui il punto del dibattito.»
A fine novembre sul Corriere della Sera gli accademici dei Lincei lanciavano l’allarme: il no italiano agli Ogm mette in pericolo l’economia italiana.
«Sì, e il primo danno è per gli agricoltori: molti, specie nel nord Italia, dicono che coltivare Ogm sarebbe un grande vantaggio per loro. D’altronde, c’è un motivo per cui alcuni organismi geneticamente modificati, penso al mais Bt o alla soia, hanno avuto un enorme successo a livello planetario. Non vengono attaccati dagli insetti, consentono pratiche agricole più agevoli. Impedire ai nostri agricoltori di sfruttare queste tecnologie significa metterli in una posizione di inferiorità competitiva rispetto a quelli degli altri paesi. Il fatto che la soia è comunque necessaria per l’alimentazione del bestiame, innesta un corto circuito: in Italia non coltiviamo quella transgenica, ma alla fine la importiamo per darla ai nostri maiali. È abbastanza stupido. Preoccupanti sono poi le previsioni sul lungo periodo.»
In che senso?
«La ricerca biotech in Italia è ormai inesistente, non è più finanziata. Il nostro paese ha ancora delle competenze residuali rimaste dall’ultimo decennio, ma nell’arco di 10-20 anni perderemo tutto e saremo totalmente inermi di fronte alle nuove tecnologie transgeniche portate avanti da altre nazioni. Non solo non saremo più in grado di proporle noi italiani, ma non saremo neanche in grado di valutare quelle che ci verranno proposte. Non si vuole comprendere che il progresso di questo settore è talmente veloce che nell’arco di uno o due decenni avremo tecnologie di modifica delle piante totalmente diverse da quelle odierne: il nostro paese non avrà altra scelta se non adottarle. Da acquirente però, non da venditore.»
Parliamo dello studio di Séralini ritirato dalla rivista Food and Chemical Toxicology. Come spiega questo stop?
«La storia della pubblicazione di Séralini è un pasticcio combinato in prevalenza dalla rivista. È abbastanza inusuale che un articolo venga ritirato su basi che avrebbero giustificato una non accettazione dello stesso all’origine. Spesso è stato criticato proprio sul piano metodologico, la retraction di oggi sembra un goffo tentativo per rimediare all’errore precedente. Vorrei poi ricordare una cosa: ciò che scrive un ricercatore su una rivista scientifica non rappresenta la verità, ma rappresenta un punto di vista basato più o meno su risultati scientifici. Ciò che conta è l’opinione che la comunità scientifica ha di quei risultati, e la verifica degli stessi col tempo. Un lavoro come quello di Séralini ha richiesto anni, per cui servirà tempo perché ricercatori indipendenti lo verifichino. Rimandando quindi il giudizio su questo studio, ciò che risulta bizzarro è che un singolo lavoro è riuscito a determinare posizioni politiche sugli Ogm. A differenza di altri temi come il cambiamento climatico, sulle colture transgeniche la politica decide in base all’opinione del 5 per cento dei ricercatori, ignorando i migliaia di articoli che invece mostrano quanto innocue siano queste coltivazioni.»
Per quanto riguarda l’Expo, come giudica questa paura nei confronti degli organismi geneticamente modificati? Teme che questo possa ritardare gli investimenti di espositori stranieri?
«Non lo so, non sono convinto che l’Expo avrebbe avuto dalle multinazionali del transgenico delle iniezioni di liquidità così consistenti. Si può credere a un contrasto dell’Europa (non solo dell’Italia) agli Ogm anche a causa dell’origine di queste tecnologie, prevalentemente americane. Come se ci fosse un protezionismo, magari anche giustificato: siccome gli Ogm sono nelle mani delle multinazionali americane, perché dovremmo dargli spazio? È anche vero, però, che l’Europa fin qui ha giocato malissimo: vi sono realtà importanti dell’industria tedesca, come la Basf che ha spostato all’estero tutta la sua ricerca biotech. Quindi il nostro continente perde tanto in ricerca quanto in aziende, e da questo punto di vista l’Expo può essere un’occasione per dibattere di colture transgeniche. Purtroppo non so se verrà fatto. Temo invece che ci sarà offerta una visione più bucolica dell’agricoltura, non industriale. Un’agricoltura che esiste solo nella testa degli italiani, quella secondo cui nel secolo scorso si coltivava meglio di oggi, cosa ovviamente non vera.»
Ma un evento
simile dedicato al cibo può permettersi di chiudere totalmente gli occhi davanti
a queste innovazioni?
«Il mio timore è che l’Expo diventi
un’occasione persa per affrontare uno dei temi principali della nutrizione,
ossia la mancanza di cibo in una quota considerevole del mondo. Nei prossimi
cinquant’anni la popolazione aumenterà, e con essa la carenza alimentare, specie
nei paesi dove già non si è in grado di sfamare la gente. Senza un dibattito su
ciò, l’Expo rischia di diventare una vetrina delle eccellenze agroalimentari
solo dei paesi ricchi. Non so se sarà così, se lo fosse sarebbe un grave errore.»
Ma siamo sicuri che lo sviluppo degli Ogm possa davvero ridurre i problemi di nutrizione nel mondo? In fondo, la fame è dovuta alla povertà, non alla carenza di risorse alimentari.
«Nei paesi poveri la fame dipende dal fatto che la produzione agricola non è in grado di soddisfare la richiesta interna, figuriamoci se sono in grado di acquistarne altrove. Ma se la produttività agricola degli stati sviluppati è già al massimo, in quelli poveri c’è una potenzialità enorme, ed è qui che serve l’utilizzo di tutte le tecnologie. Gli Ogm sono incidentalmente la meno costosa: è più facile ed economico sviluppare una pianta resistente agli insetti piuttosto che comprare e distribuire l’antiparassitario. Per quest’ultimo servono trattori, macchinari e competenza, per gli Ogm basta sapere piantare. Il loro alto costo è legato alle procedure di registrazione: è la burocrazia a renderli onerosi. E bisogna aggiungere che la questione delle sementi è un falso problema: i semi sterili non esistono. Al massimo possiamo dire che qualunque mais coltivato in Italia è ibrido: dai suoi semi si ottiene la segregazione dei diversi caratteri presenti nella pianta, e in questo modo ciò che nascerà sorà diverso da ciò che abbiamo seminato in origine. Ma questo accade con tutti i moderni ibridi, non solo con gli Ogm.»
In questo modo, però, se vuole ottenere piante commerciabili, l’agricoltore è obbligato a rivolgersi all’azienda da cui ha acquistato le sementi: è la tanto contestata brevettatura dei semi.
«Ma l’agricoltore è già vincolato alle aziende. I coltivatori della Pianura Padana comprano i semi dalle multinazionali americane e se vogliono una determinata produttività devono rimanere legati a quell’azienda. Se volessero utilizzare i semi prodotti dalla pianta non ci sarebbero problemi per le multinazionali. E per gli agricoltori? Semplicemente raccoglierebbero prodotti diversi, proprio per la segregazione dei caratteri.»
Un altro punto contestato è che queste colture porterebbero alla perdita progressiva delle tipicità di casa nostra.
«Sfido chiunque a dire che soia e mais sono prodotti tipici italiani. Sono specie che vengono da altri continenti (America e Asia), non vedo in che modo il mais Ogm può colpire la tipicità italiana. Se andiamo invece su altre colture bisogna fare un discorso a sé. Il pomodoro San Marzano, ad esempio, non lo coltiva più nessuno perché è terribilmente suscettibile ai virus. È stato soppiantato da altre varietà non transgeniche, prodotte da multinazionali non italiane. Attualmente il pomodoro da industria, il perino, non è più San Marzano. Non c’è bisogno di evocare gli Ogm per ipotizzare una perdita di agrobiodiversità, che invece è insita nel concetto di agricoltura: da sempre varietà meno produttive sono sostituite con varietà più produttive.»
È possibile che gli Ogm vengano incontro a queste varietà italiane, come accaduto con la papaya delle Hawaii, salvata proprio con colture transgeniche?
«Potrebbero sicuramente. Ad esempio, alcuni centri di ricerca della zona di Napoli avevano proprio pensato a un pomodoro San Marzano resistente ai virus, che quindi potesse essere coltivato senza problemi. Ma in Italia non si possono coltivare gli Ogm, e quindi lo studio non ha avuto futuro.»
Perché la scienza fa così fatica a comunicare con l’opinione pubblica italiana?
«Perché il ricercatore, purtroppo, tende ad adottare nella comunicazione lo stesso rigore metodologico che segue nel fare ricerca. E quindi di fronte alla domanda: «Gli Ogm fanno bene o fanno male?», l’attivista risponde: «Fanno male», lo scienziato inizia a fare dei distinguo, e a quel punto la comunicazione è già persa. E così il timore arriva alla gente, dove c’è un’innegabile paura di quel che si mangia: probabilmente l’uomo è arrivato fino a oggi perché ha sempre avuto paura di cibarsi di ciò che non conosceva. E mentre siamo pronti a comprare un nuovo modello di cellulare perché su queste tecnologie non abbiamo alcuna diffidenza, nei confronti del cibo abbiamo invece migliaia di anni di evoluzione che ci hanno educato a diffidare dei prodotti che non conosciamo.»
E gli agricoltori? Come guardano agli Ogm? Da una parte la Coldiretti è sempre rigida nel suo no, dall’altra ci sono coltivatori come Silvano Dalla Libera e gli altri di Futuragra, apertissimi alle innovazioni…
«Bisognerebbe chiedere a questi agricoltori cosa coltivano. Se seminano mais è probabile che siano a favore degli Ogm, se coltivano pomodori non gli costa nulla essere contro, dato che non ci sono pomodori geneticamente modificati in commercio. Probabilmente sta anche qui l’origine della posizione della Coldiretti: i loro agricoltori sono coltivatori di mais o no? Oggi in Italia la questione Ogm riguarda mais e soia, nient’altro. Mi chiedo quante di queste posizioni riflettono gli interessi dei propri associati.»
La comunicazione della scienza nell’era dei social: emozionare o informare? Si chiede Moreno Colaiacovo su “I Mille”. Organismi geneticamente modificati, metodo Stamina, sperimentazione animale: il dibattito pubblico su temi scientifici è più acceso che mai. Incalzata dai media e dai gruppi di pressione, la politica si è trovata ad affrontare – spesso con scarsi risultati – problemi complessi, in cui l’aspetto scientifico e quello sociale si sono mescolati a tal punto da risultare molte volte indistinguibili. E se alla classe politica possiamo rimproverare di non aver affrontato razionalmente questi problemi, concedendo troppo alla demagogia, d’altra parte non si può dire che la popolazione avesse gli strumenti per valutare lucidamente le questioni che di volta in volta venivano sollevate: raramente i media hanno scelto di spiegare, quasi sempre hanno preferito scandalizzare, commuovere o spaventare. Impostare un dibattito sui binari dell’emotività è il modo più semplice per muovere le coscienze, soprattutto in un Paese come il nostro, dove la cultura scientifica è da sempre trattata con supponenza e sospetto. Parte di questa strategia ha a che fare con l’uso delle immagini. Puoi fare un discorso perfettamente logico e convincente, puoi presentare numeri e tabelle, ma il castello della razionalità crolla miseramente se dall’altra parte c’è un’immagine vincente. Con le immagini è tutto più facile: basta una foto per far scattare a piacimento sentimenti come la rabbia, l’indignazione, la paura, la pietà. E i tre temi menzionati all’inizio di questo articolo, in effetti, hanno tutti un denominatore comune: in tutti questi casi l’opinione pubblica è stata condizionata e plasmata anche grazie all’uso di immagini forti. Immagini che passano in TV e sui giornali, ma che diventano virali soprattutto sui social network, Facebook in particolare. Nel caso degli OGM si è voluto spaventare. Basta cercare “OGM” su Google per rendersene conto: le immagini neutrali o favorevoli agli organismi geneticamente modificati sono una minima parte rispetto ai mostruosi fotomontaggi che hanno accompagnato questa tecnologia fin dalla sua nascita. Pensiamo alla fragola-pesce, una creatura mitologica che è ormai entrata a far parte dell’immaginario collettivo. Una vera e propria leggenda metropolitana che si è rivelata essere lo strumento perfetto per allontanare l’interlocutore dal sentiero della razionalità e spingerlo verso le pulsioni più istintive, che ci portano a fuggire da tutto ciò che è nuovo e sconosciuto, invitandoci ad approdare al porto sicuro della tradizione e dei bei tempi andati. Ovviamente non è mai esistita nessuna fragola-pesce, ma l’immagine era così evocativa da resistere ancora oggi, a distanza di anni dalla sua comparsa sui media. Cosa dire invece del metodo Stamina? Il caso è diventato di pubblico dominio grazie alle Iene, il cui messaggio è passato in gran parte attraverso la strumentalizzazione di immagini di bambini malati e sofferenti. Gli scienziati, dal canto loro, hanno dovuto subire l’accusa infamante di essere persone insensibili, fredde macchine razionali impossibili da scalfire persino con la più straziante delle tragedie umane. Eppure è esclusivamente con la razionalità e la lucidità che si può fare scienza, e trasformare le nuove conoscenze in soluzioni terapeutiche concrete ed efficaci. Ma quando dall’altra parte c’è il dolore di un bambino sbattuto in prima pagina (o in prima serata), qualunque considerazione ancorché giusta svanisce istantaneamente. Infine, la questione più scottante e attuale, quella relativa alla sperimentazione animale. Anche qui, la battaglia tra le due fazioni (perché di guerra si tratta, in molti casi) si è combattuta a suon di immagini. I movimenti animalisti hanno fatto abbondante uso di fotografie terribili, con animali costretti a subire tremende torture, ma non hanno disdegnato nemmeno sapienti fotomontaggi volti a screditare quei ricercatori che avevano difeso pubblicamente l’utilità della vivisezione (come viene impropriamente chiamata). Poco importa se le immagini cruente di animali straziati non corrispondano alla realtà, almeno non qui in Europa, e ancor meno importa il fatto che circa il 92% degli scienziati ritenga che purtroppo non si possa fare a meno della sperimentazione animale. L’impatto emotivo di quelle foto e di quei camici insanguinati è semplicemente devastante. Le immagini sono uno strumento potentissimo all’interno di una discussione, specie se gli interlocutori non sono molto informati sul tema. Spesso raggiungono l’obiettivo, muovendo le masse verso una posizione piuttosto che un’altra. E ad avvantaggiarsene sono stati anche coloro che stanno dalla parte della scienza, come dimostra la recente vicenda di Caterina Simonsen, suo malgrado divenuta nel giro di poche settimane una celebrità della rete. Il coinvolgimento emotivo è un’arma micidiale, che può essere usato sia dagli oppositori della scienza, sia da quelli che dovrebbero esserne i paladini. Ma è davvero la strategia migliore? Dal punto di vista etico, sfruttare immagini di persone sofferenti per portare avanti una causa non sembra certo il massimo della correttezza. Tuttavia, non è a questo che mi riferisco, quanto piuttosto all’efficacia di questo approccio nel lungo periodo. Le immagini scioccanti sono perfette per orientare l’opinione pubblica in merito al singolo episodio (i movimenti animalisti hanno obiettivamente accusato il colpo dopo la vicenda di Caterina), ma hanno il difetto di mancare il bersaglio grosso, quello che un amante della scienza dovrebbe considerare come l’obiettivo prioritario: insegnare a valutare un problema in modo razionale, informandosi e pesando pro e contro. In teoria, viviamo in una democrazia moderna, relativamente colta e istruita. Dovremmo quindi smetterla di trattare le persone come un gregge da guidare da una valle all’altra ogni volta che si presenta un nuovo argomento di discussione. Oggi è la sperimentazione animale, domani potrebbe essere qualcos’altro. La verità è che esiste soltanto una bussola che permette di trovare sempre, in ogni circostanza, la via giusta: è la bussola del pensiero critico, della logica e della corretta informazione. Educare le persone a usarla le renderà cittadini liberi, e realmente consapevoli delle proprie opinioni. Fare informazione corretta paga. Prendiamo ad esempio il recentissimo sondaggio IPSOS sulla sperimentazione animale: la percentuale di favorevoli saliva dal 49% al 57% se agli intervistati venivano fornite informazioni di base sull’argomento. In modo analogo, all’ultimo Festival della Letteratura di Mantova, il ricercatore Dario Bressanini e la giornalista Beatrice Mautino erano riusciti a vincere un confronto Oxford-style sul tema degli OGM, convincendo molti scettici a passare dalla loro parte. Comunicare la scienza in modo pacato, chiaro e oggettivo rimane ancora la strategia vincente. Anche nell’era di Twitter e Facebook.
ILARIA ALPI, NATALE DE GRAZIA E LE NAVI DEI VELENI.
Aspettando il 20 Marzo 2013, Rai Tre presenta Toxic Somalia. Il punto sul caso Ilaria Alpi di Mariangela Gritta Grainer. Alpi-Hrovatin, il caso, Associazione Ilaria Alpi. Il 20 marzo 2013 saranno passati 19 anni dalla tragica esecuzione di Mogadiscio in cui Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi con un solo colpo ciascuno sparato alla nuca. Sappiamo che si è trattato di un’esecuzione. Un’esecuzione su commissione. Ilaria è stata uccisa perché era brava, il suo modo di fare giornalismo di cercare sempre la verità e di comunicarla ha fatto paura e fa ancora paura. Per questo la verità sulla sua uccisione ancora non si conosce per intero. Sappiamo che è stata uccisa, insieme a Miran, perché aveva rintracciato, nel suo lavoro d’inchiesta, un gigantesco traffico internazionale di rifiuti tossici e di armi che aveva nella Somalia (martoriata da un sanguinario dittatore come Siad Barre prima e dalla guerra civile poi) un crocevia importante per traffici illeciti di ogni tipo che solamente organizzazioni criminali, mafia, ’ndrangheta e camorra possono gestire (come indagini di procure, dichiarazioni di pentiti e collaboratori di giustizia hanno fatto emergere anche di recente). Lunedì 4 marzo alle ore 23.05 Rai Tre presenta un reportage – Premio Speciale alla 18^ edizione del Premio Ilaria Alpi – scritto e diretto da Paul Moreira, firma di prestigio del giornalismo d’inchiesta in Europa: una iniziativa forte in apertura di un mese di marzo ricco di incontri per non dimenticare Ilaria e Miran, il loro lavoro, le loro vite e soprattutto per dare impulso alla ricerca delle prove e dei responsabili (esecutori e mandanti) di questa esecuzione. In “Toxic Somalia” Moreira documenta gli effetti sulla popolazione dei rifiuti tossici scaricati dall’occidente in terra somala, seguendo la strada aperta da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e ricostruendo i rapporti segreti tra il mondo degli affari e quello della criminalità. L’inchiesta valorizza il lavoro intrapreso dalla giovane inviata del TG3 e dal suo operatore mostrando con efficacia come ne abbia segnato la tragica fine perché gli affari sporchi, l’illegalità potesse e possa continuare. In programma diversi incontri che ci aiuteranno a rimettere sotto i riflettori il duplice delitto di Mogadiscio nel contesto delle stragi di mafia, di tangentopoli, la fine della prima Repubblica. Due i fatti che l’anno appena trascorso ci ha consegnato.. Il processo che vedeva imputato per il reato di calunnia Ahmed Ali Rage detto Jelle (testimone d’accusa chiave nei confronti di Hashi Omar Hassan in carcere da oltre dieci anni dopo la condanna definitiva a 26 anni) si è chiuso con una assoluzione le cui motivazioni sono incredibili (“…appare evidente l’impossibilità di pervenire ad un giudizio di colpevolezza…”). Assoluzione in contumacia avendo di fatto accertato che la testimonianza potrebbe essere falsa mentre un cittadino somalo è in carcere forse innocente e di certo due cittadini italiani, Ilaria e Miran, sono stati assassinati quasi vent’anni fa e ancora non hanno avuto giustizia. La relazione conclusiva della commissione bicamerale d’inchiesta sulle ecomafie sostiene che il capitano Nicola De Grazia è stato avvelenato (riesumata la salma, “la consulenza del professor Arcudi arriva ad una conclusione inequivoca: …..la morte è la conseguenza di una “causa tossica”). Il capitano Natale De Grazia (morto in circostanze misteriose il 13 dicembre 1995 mentre si recava a La Spezia per indagini importanti) è stata figura chiave del pool investigativo coordinato dal procuratore di Reggio Calabria Francesco Neri che indagava sulle “navi dei veleni”. Fu De Grazia a trovare il certificato di morte e/o l’annuncio “di morte avvenuta di Ilaria” nelle perquisizioni effettuate a casa di Giorgio Comerio, noto trafficante di armi, e coinvolto secondo gli investigatori nel piano per smaltire illecitamente rifiuti tossico nocivi che prevedeva la messa in custodia di rifiuti radioattivi delle centrali nucleari in appositi contenitori e il loro ammaramento. “La morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese”, con queste parole si conclude la relazione della commissione. In contrasto e dunque ancora più incomprensibile la decisione assunta dal Procuratore della Repubblica di Nocera Inferiore di chiedere l’archiviazione dell’inchiesta sul caso della morte del capitano Natale De Grazia. Due fatti che confermano quanto è avvenuto in questi anni dolenti: depistaggi occultamenti, carte false, testimoni e/o persone informate dei fatti che hanno mentito …: il tutto spesso confezionato direttamente e/o con la complicità di parti e strutture dello Stato. “Menti raffinatissime” sono state e sono in azione fin dai primi giorni dopo l’uccisione premeditata: l’omissione di soccorso, la sparizione dei blok notes e di alcune cassette video, la non effettuazione dell’autopsia, la violazione dei sigilli dei bagagli, la costruzione “persistente” della tesi della casualità (tentativo di sequestro finito male, il proiettile vagante …)…….Il corso della giustizia è stato compromesso, gli assassini e chi li copre hanno potuto contare sul fatto che le tracce si possono dissolvere, che alcuni reperti sono scomparsi o non sono più utilizzabili, che molti testimoni sono morti in circostanze misteriose, che anche pezzi di Stato hanno lavorato all’accreditamento ufficiale di una falsa versione manipolando fatti reali. Nonostante infiniti tentativi che avrebbero voluto chiudere questo caso da anni l’impegno incessante di Giorgio e Luciana Alpi lo hanno tenuto aperto e grazie a loro all’associazione Ilaria Alpi al premio e alle moltissime scuole, istituzioni, migliaia di cittadine e cittadini che sono impegnati il caso è ancora apertissimo. Siamo ancora qui non ci arrendiamo vogliamo e avremo verità, tutta la verità e giustizia. Può essere una buona medicina anche per questa nuova fase politica che di certo esige aria pulita ripartire dal “senso della verità” e della giustizia. Mariangela Gritta Grainer,Presidente Associazione Ilaria Alpi.
SIAMO ALLE SOLITE: VOGLIONO INSABBIARE TUTTO. IL CAPITANO DE GRAZIA E' MORTO INUTILMENTE?
Perché non è arrivato vivo alla Spezia? Il dossier: "La Spezia crocevia dei veleni", scrive “Città Della Spezia”.
Legambiente si prepara per l'udienza
sull'archiviazione dell'inchiesta sulle navi dei veleni.
Poco più di un mese per riuscire a mettere insieme una quantità
di notizie di rilievo tale da convincere il gip del Tribunale della Spezia a
rifiutare la richiesta di archiviazione dell'indagine sulle navi dei veleni
avanzata dalla procura. E' la missione che sta compiendo Legambiente, tanto a
livello nazionale, quanto localmente, con l'appoggio legale dell'avvocato
Valentina Antonini. "La procura spezzina - ha spiegato Paolo Varrella - ha
avanzato la richiesta per indizi insufficienti, ma riteniamo di poter
contribuire nel fornire dati da 'sgranare' e poter così far procedere le
indagini. Se ci fosse stata maggiore attenzione sulle problematiche che
riguardano casi come Pitelli o le navi dei veleni, probabilmente non avremmo
dovuto stendere un dossier e intervenire in soccorso della magistratura. Invece
non abbiamo a disposizione nessuna indagine epidemiologica seria, che avrebbe
potuto fornire dati incontrovertibili, e la politica si disinteressa
completamente di queste vicende". A ribadire come il problema sia prima di tutto
una questione politica è stato Marco Grondacci, esperto di diritto ambientale,
che ha contribuito alla stesura del dossier e che continuerà a guardare da
vicino le questioni che riguardano le navi dei veleni, una vicenda resa ben nota
anche per l'assassinio rimasto senza colpevoli di Natale Di Grazia, il capitano
della Capitaneria di porto che si stava recando proprio alla Spezia per indagare
sui traffici illeciti di rifiuti pericolosi e sugli affondamenti delle navi
cariche di veleni. Non a caso il dossier è stato intitolato 'La Spezia, crocevia
dei veleni - Vent'anni di misteri, di colpevoli silenzi e di nessuna verità'.
"Viviamo in un regime di opacità amministrativa, senza alcuna attenzione per la
prevenzione, da parte di quasi nessuno degli enti che dovrebbero occuparsene.
Invece - ha detto Grondacci - non è mai stata fatta una mappatura seria della
situazione ambientale e degli effetti che questa ha sulle persone". Matteo
Bellegoni, segretario provinciale Fiom Cgil, ha parlato della necessità di
avviare una 'bonifica culturale', mentre Daniela Patrucco, intervenuta a nome
del comitato 'Spezia via dal carbone', ha definito la città della Spezia come
una "nave scuola nel campo del lasciar andare le cose in un certo modo, per la
prassi di piegare le normativa a ragioni differenti. Finché poi non interviene
la magistratura. C'è un filo rosso di omertà che lega le vicende degli ultimi 20
anni, con il disinteresse a intervenire che è di fatto una sorta di
favoreggiamento delle attività criminali". "Un filo rosso - ha aggiunto Enrico
Adami, per l'associazione Murati vivi di Marola - che si estende anche sul Campo
in ferro e sullo stoccaggio dell'amianto rimosso dalle navi militari, che a
quanto ci risulta è avvenuto senza rispettare le normative. E le istituzioni,
che ben sanno come stanno le cose, non fanno niente". Il vice presidente di
Legambiente, Stefano Ciafani, venuto alla Spezia per appoggiare l'iniziativa
della sezione locale presieduta da Stefano Sarti, ha ricordato come
l'associazione sia impegnata anche sul fronte di Pitelli, con il ricorso al Tar
che chiede che ritorni ad essere un sito di bonifica di interesse nazionale.
"Non ci possiamo rassegnare al fatto che Pitelli e le navi dei veleni finiscano
come tanti altri casi in Italia, dove la presenza di figure 'grige', che
lavorano per rendere tutto estremamente complicato, hanno impedito che si
arrivasse a punire i colpevoli, anche se le verità storiche sono ben note".
"Bisogna evitare la parcellizzazione delle tematiche - ha concluso l'avvocato
Antonini - lavorare affinché i collegamenti tra i diversi casi vengano alla
luce".
Navi dei veleni, De Grazia avvelenato durante il viaggio per La Spezia, scrive ancora scrive “Città Della Spezia”.
La commissione parlamentare ha stabilito che il capitano, che indagava su un enorme traffico di rifiuti tossici, sia morto per 'causa tossica'. Un piccolo squarcio nel velo del mistero che avvolge insieme le morti del capitano Natale De Grazia, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, con la città della Spezia e un traffico internazionale di rifiuti tossici. Quindici anni dopo la notte in cui il capitano De Grazia morì inspiegabilmente sul sedile dell'auto che lo stava portando da Reggio Calabria alla volta del golfo spezzino, il presidente della commissione parlamentare d'inchiesta Gaetano Pecorella ha anticipato le conclusioni alle quali sono giunti deputati e senatori, affiancati da specialisti di prim'ordine: De Grazia, che stava indagando su 180 inabissamenti dolosi, non è morto per cause naturali, ma per una 'causa tossica'. In pratica: è stato avvelenato. E a suffragio di questa ipotesi (sostenuta da tempo dai familiari) ci sono alcuni avvenimenti rimarcati dallo stesso Pecorella. "Tutti gli elementi di sospetto - ha dichiarato il presidente della commissione parlamentare - hanno acquisito una luce particolare ed inquietante. Mettendo insieme più elementi erano venuti alla luce una serie di fatti che inducevano a sospettare della morte del capitano". La prima è che De Grazia svolgeva indagini di grande importanza sul traffico di rifiuti radioattivi e pericolosi e che c'erano interessi significativi, anche di Stati esteri. Il secondo punto è che c'era stato "un tentativo di spostare De Grazia ad altri uffici; tentativo poi bloccato dagli stessi magistrati". Ancora: parte del "materiale di indagine su De Grazia, contenuto nei fascicoli processuali, è stato sottratto". E inoltre, "si sono perse le tracce del certificato di morte di Ilaria Alpi che De Grazia aveva trovato" nel corso di una perquisizione. Infine, tra gli elementi di sospetto, secondo Pecorella c'è il fatto che "poco prima della morte di De Grazia si sciolse il gruppo investigativo che aveva in carico inchieste di grande importanza". Se tre indizi fanno una prova, ce n'era abbastanza per pensare che un 41enne, sottoposto a visite mediche periodiche dalla Marina militare, giunto all'acme di una attività di indagine pericolosa e che pestava i piedi di molti potentati, potesse non essere morto per un arresto cardiaco. Eppure la prima autopsia svolta stabilì proprio questo. Purtroppo, trascorsi tanti anni, per il professore Giovanni Arcudi, perito interpellato dalla commissione, non è stato possibile stabilire possa essere stata la causa tossica. E nemmeno se questa effettivamente ci sia stata. La conclusione è stata ottenuta per esclusione della possibilità che la morte sia stata naturale. Il decesso dovuto ad una tossina, secondo il perito, "appare analiticamente motivata, e scientificamente inattaccabile. Ciò che risulta è che il capitano De Grazia ha ingerito gli stessi cibi di chi lo accompagnava nel viaggio, salvo un dolce: queste almeno sono state le dichiarazioni dei testimoni (i due carabinieri che erano in viaggio con De Grazia). Se così è, appare difficile ricondurre la tossicità ad una causa naturale, anche se non lo si può escludere in forma assoluta". Il presidente Pecorella, ha concluso dicendo che "non è compito della commissione pronunciare sentenze, né sciogliere nodi di competenza dell'autorità giudiziaria, ma non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese". E i nuovi risultati impongono di valutare la situazione in una chiave nuova e non poco allarmante.
Il capitano De Grazia avvelenato mentre indagava sulla nave del Kgb, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Le conclusioni della commissione parlamentare sui rifiuti tossici: Non si crede alla incidente e ci sono gli elementi per riaprire il caso dell'ufficiale morto come torna a chiedere anche Legambiente. Nuovi informazioni sullo strano caso della nave Latvia. La morte del capitano Natale De Grazia non ha mai convinto nessuno. Oggi però ci sono anche gli elementi concreti per chiedere la riapertura del caso. Legambiente, che per prima lanciò l'allarme sulle navi dei veleni all'inizio degli anni 90 ha organizzato a Reggio Calabria un incontro a cui prende parte anche Alessandro Bratti, componente Pd della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Un dibattito per dire che il "Caso De Grazia", non è chiuso. Una richiesta sostenuta dalle conclusioni cui è giunta la stessa Commissione, per la quale l'ufficiale che indagava sui traffici illegali di scorie non morì "di morte naturale", come stabilito da due perizie mediche fatte immediatamente dopo il decesso, ma che si trattò di una morte dovuta ad una sorta di intossicamento. Veleno insomma. De Grazia era sulle tracce delle navi dei veleni che venivano utilizzate per inabissare sostanze tossiche. Ed era arrivato a scoprire storie pericolose. Il mistero dei cargo affondati nel Mediterraneo poteva essere risolto. Natale De Grazia la notte in cui morì si stava recando a La Spezia, porto nel quale doveva fare una serie di approfondimenti, incontrando anche alcune fonti "riservate". A La Spezia, sapeva, essere in porto anche una strana imbarcazione la Latvia, una motonave dell'ex Unione Sovietica, che era stata dei servizi segreti russi. Scrive la Commissione: "Dell'esistenza di questa nave si dà conto per la prima volta nell'annotazione di polizia giudiziaria redatta dal Corpo forestale dello Stato di Brescia in data 26 ottobre 1995, nella quale si evidenzia che la nave, venduta ad un prezzo superiore al valore reale, avrebbe potuto essere destinata al trasporto di rifiuti nucleari e/o tossico-nocivi". E ancora: "Nell'area portuale di La Spezia è presente la motonave Latvia. adibita al trasporto passeggeri, ex-sovietica, giunta nei cantieri Oram prima della caduta del blocco orientale. Nave ritenuta come appartenente ai servizi segreti sovietici (Kgb) (...). Attualmente è ormeggiata alla diga di La Spezia, è stata messa in vendita (forse dal tribunale) ed acquistata da una società Liberiana con sede in Monrovia, tramite un ufficio legale di La Spezia. Da fonte attendibile risulta che il prezzo pagato è superiore di quello del valore reale, e questo fa supporre che potrebbe essere utilizzata come "bagnarola" per traffici illegali di varia natura, in particolare di rifiuti nucleari e o tossico-nocivi (...)". La misteriosa Latvia viene menzionata in un'altra annotazione di polizia giudiziaria che porta la data 10 novembre 1995. Nell'informativa "il brigadiere Gianni De Podestà comunicò alle procure di Reggio Calabria e di Napoli che fonte confidenziale attendibile aveva di recente riferito in merito al coinvolgimento di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate nei traffici di rifiuti radioattivi e tossico nocivi interessanti la zona di La Spezia e l'hinterland napoletano. Si dava atto che la Latvia, così come già era stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso, avrebbe dovuto essere preparata per salpare nell'arco di 4 giorni con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la rotta La Spezia-Napoli (per un ulteriore carico, come accertato per la Rosso) - Stretto di Messina-Malta - ritorno sulle coste joniche (per affondamento)". Fantasie di un informatore pazzo? No, secondo gli investigatori è molto attendibile. La fonte denominata "Pinocchio", ritenuto uomo in odore di servizi segreti italiani, indica fatti precisi. Rimane anonima per ragioni di sicurezza personale, familiare e per la polizia giudiziaria che lavora all'indagine. Sembrerebbe quasi un infiltrato. Di fronte a un'informazione dettagliata di questo tipo, il pm reggino Francesco Neri e il pool di cui De Grazia faceva parte, iniziò ad indagare anche sulla Latvia. Spiega la Commissione: "Si trattava, infatti, di una nave che era possibile monitorare per così dire 'in diretta' e che consentiva, quindi, di superare i vuoti conoscitivi attinenti alle altre navi delle quali si erano perse le tracce". Appare, quindi, del tutto credibile la circostanza emersa nell'ambito dell'inchiesta svolta dalla Commissione, secondo la quale il capitano De Grazia si sarebbe dovuto recare a La Spezia anche per effettuare indagini con riferimento alla predetta nave e per avere un contatto diretto con la fonte confidenziale che aveva già riferito informazioni in merito alla Latvia. Tale circostanza, invero, non risulta da alcun documento, ma è stata rappresentata alla Commissione da un soggetto il cui nome è rimasto segretato". Il 13 dicembre a La Spezia sarebbe arrivato De Grazia. Non fece in tempo, morì misteriosamente nel viaggio di andata. Una morte resa ancora più sospetta da un fatto: "data 15 dicembre 1995, due giorni dopo il decesso del capitano De Grazia, l'ispettore Tassi trasmise un fax alla procura circondariale di Reggio Calabria nel quale testualmente riferiva che "In data odierna è stata accertata la partenza della Motonave Latvia, avvenuta all'incirca verso la terza decina del Novembre per raggiungere il porto di Ariga (Turchia)". La Commissione trae le conclusioni: "Non può non sottolinearsi la peculiarità della vicenda, tenuto conto dei seguenti dati: nel pieno di indagini concernenti l'utilizzo di navi per lo smaltimento illecito di rifiuti tossici, vi era la possibilità di monitorare una nave, la Latvia, rispetto alla quale vi erano concreti indizi in merito al suo utilizzo per le predette finalità illecite; ebbene, nonostante la preziosissima fonte di informazioni, rappresentata dalla motonave in questione, non solo non risultano effettuate verifiche approfondite da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria della zona, ma neppure risultano essere stati mai sentiti gli occupanti della nave; paradossale è poi che non sia stato predisposto un servizio di osservazione in merito agli spostamenti della nave".
Dalle carte spuntano il nome di Gelli e i magistrati spiati dai servizi segreti, continua Giuseppe Baldessarro. La commissione ha anche desecretato delle informazioni arrivate dal Copasir da cui emergono cinquecento milioni di spese sostenute dagli 007. Per fare cosa? "Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (...) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l'evaso Licio Gelli". A raccontarlo davanto ai deputati della Commissione d'inchiesta sui rifiuti è Nicolò Moschitta, maresciallo dei Carabinieri e componente di punta del pool di investigatori che con De Grazia, si occupava delle navi dei veleni. "In modo particolare, (nel documento) si trattava della fuga di Licio Gelli da Lugano fino al suo rifugio segreto nel principato di Monaco. Ci risulta che la casa in cui era ospitato Licio Gelli era di Giorgio Comerio. In seguito, i servizi segreti sono entrati ufficialmente con noi nell'indagine perché esaminavano la documentazione, d'accordo con la magistratura. In effetti, è stata una collaborazione corretta, leale e senza problemi". La collaborazione tra procura e Sismi proseguì anche dopo che il fascicolo fu trasmesso alla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. La conferma è nel provvedimento con il quale il sostituto procuratore Alberto Cisterna, divenuto poi titolare dell'indagine, autorizzò la polizia giudiziaria "ad avvalersi dell'ausilio informativo del Sismi per il tramite di persone nominativamente indicate appartenenti all'ottava divisione". Se quello descritto "fu il rapporto 'formale' tra procura e servizi segreti, in merito alle indagini sulle "navi a perdere", Secondo la Commissione, si tratterebbe di "un ulteriore profilo di intervento dei servizi segreti nella materia riguardante il traffico dei rifiuti radioattivi e tossico nocivi e il traffico di armi". "In particolare il documento proveniente dal Copasir, riguarda una comunicazione del Sismi al Cesis in merito alle spese sostenute nell'anno 1994 per i servizi di intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi, indicati nella misura di 500 milioni di lire. Si tratta di un documento desecretato dalla Commissione particolarmente interessata a comprendere in che modo fossero stati utilizzati i 500 milioni di lire nelle operazioni di intelligence relative al traffico di rifiuti e di armi. Per farne cosa? "Non è stato però possibile, nonostante le numerose audizioni effettuate sul punto, sapere in che modo sia stata spesa la somma di cui sopra, per lo svolgimento di quali attività e, ancor prima, per quali ragioni i servizi, all'epoca, fossero interessati al tema dei rifiuti radioattivi". Che i servizi fossero stati coinvolti ufficialmente nell'inchiesta delle navi è un fatto accertato. Ora però la commissione si pone anche qualche altra domanda, visto che gli stessi servizi controllavano i movimenti del pool di magistrati e investigatori che lavoravano al caso. E infatti: "È stato, inoltre, prospettato alla Commissione, ma non è stato acquisito alcun riscontro al riguardo, un ulteriore ipotetico interessamento dei servizi all'indagine svolta da Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria". Le indicazioni in questo senso le fornisce il Colonello della Forestale Rino Martini (anch'esso coinvolto nelle indagini) alla Commissione quando dice: "In quel periodo, si verificarono due episodi, uno dei quali ricordato dal procuratore Pace. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un'altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trentanni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell'autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. (...) Certamente, c'era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo".
'Rigel', è al largo di Capo Spartivento la nave perduta carica di veleni, continua “La Repubblica”. Il cargo, che batteva bandiera maltese, venne fatto affondare il 21 settembre 1987. Prima di morire, il comandante De Grazia aveva trovato abbondanti prove sul fatto che il naufragio era servito per nascondere in fondo al mare un inconfessabile carico di scorie nucleari. Truffe, corruzione, cemento e polvere di marmo per nascondere l'evidenza. Motonave Rigel, battente bandiera maltese, stazza 3852 tonnellate. Affondata 20 miglia a largo di Capo Spartivento alla latitudine di 37 gradi e 58' nord e longitudine di 16 gradi e 49' est, almeno ufficialmente. È una carretta del mare, molto voluminosa certo, ma pur sempre una carretta. È colata a picco, con il suo carico "generico", il 21 settembre del 1987. E' una nave dei veleni, o meglio è l'unica delle navi cercate dal capitano Natale De Grazia su cui affiorano indizi precisi, sostenuti da un'inchiesta precedente. Dell'affondamento della Rigel, infatti, si viene a sapere per un dettaglio particolare. L'armatore greco Papanicolau chiede ai Lloyd's il risarcimento dei danni. La nave era assicurata e, dopo il naufragio, il proprietario vuole passare all'incasso. Scrive a Londra, senza prevedere che le assicurazioni, prima di pagare, avrebbero condotto le loro indagini, acquisendo elementi quantomeno singolari. E scoprendo che l'affondamento era una truffa. Che era stato provocato per mettere le mani su qualche miliardo della compagnia. Circostanza costata ai protagonisti della vicenda una condanna penale definitiva. La storia della Rigel è emblematica. È la copia conforme di altre vicende e, forse, è anche rappresentativa dell'intera storia del traffico dei veleni. C'è del marcio. È chiaro. Basta leggere le carte dell'inchiesta della procura della Repubblica di La Spezia. Dell'affondamento non c'è traccia nei registri delle Autorità marittime locali e nazionali. Non una parola. Da nessuna parte. Se non ci fosse stata la denuncia di Papanicolau, di questa nave, affondata durante il suo viaggio da Marina di Carrara a Limassol (Cipro), non sarebbe rimasta neanche l'ombra. L'equipaggio quel 21 settembre non lancia neppure l'SOS. Non chiede aiuto alle Capitanerie di Porto calabresi o siciliane, che in poche ore avrebbero potuto essere sul posto. Niente di tutto questo. Comandante e marinai vengono salvati "per caso" dalla Krpan, una nave jugoslava che non li sbarca in uno dei tanti approdi italiani che ha sulla rotta. Se ne va invece in giro per il Mediterraneo per un po' e poi scarica tutti a Tunisi. Strano. E non è il solo elemento anomalo. Il processo per truffa stabilisce che c'è qualcosa che non va anche sul carico denunciato. Secondo i registri, nella stiva della Rigel c'erano "macchine riutilizzate" e "polvere di marmo". In realtà quel carico non era stato mai controllato dalla dogana, i funzionari dell'ufficio si erano fatti corrompere per 900 mila lire a container. Alcuni dei soggetti coinvolti nell'inchiesta di La Spezia, pur ammettendo di non sapere cosa in realtà trasportasse la nave, ammisero che il carico non era quello dichiarato e che era stata commessa una truffa ai danni dell'assicurazione. C'è di certo che almeno 60 container erano stati riempiti di blocchi di cemento, "appositamente realizzati nell'arco di tre mesi". Perché? Qualcuno potrebbe rilevare che i blocchi servissero per far affondare prima la nave. Sbagliato. O quantomeno illogico. Il cargo era pieno di mille e 700 tonnellate di polvere di marmo, oltre alle presunte "macchine". Sufficienti a far inabissare qualsiasi nave. E, se proprio ci fosse stato un problema, perché non usare altra polvere di marmo? È più pesante del cemento e persino meno costosa. Invece no. Invece si decide per i blocchi. La spiegazione del magistrato Francesco Neri nelle carte dell'indagine che si stava svolgendo a Reggio Calabria è netta: "Appare ipotizzabile che la presenza a bordo dei blocchi fosse utile alla cementificazione di rifiuti radioattivi". Non è finita. Ci sono tre persone, lavoratori del porto coinvolti nelle indagini, che parlano con il pm. Sono Paolo Lantean, Nedo Picchi e Riccardo Baronti, e confermano che "i container, una volta caricati dei blocchi di cemento, di notte, erano stati tenuti d'occhio da alcuni sconosciuti". Personaggi strani, che avevano montato la guardia ai contenitori d'acciaio e che ci avevano girato attorno per diverse ore. Cosa sorvegliavano? C'è poi dell'altro. La Rigel è già pronta a salpare il 2 settembre. Ma non si muove da Marina di Carrara. La ragione è semplice: Papanicolau vuole i soldi che gli spettano dai caricatori. Un miliardo e mezzo, come stabilito tramite l'avvocato genovese Teresa Gatto. Si legge nella sentenza che lo condanna per la truffa: "Una parte doveva essere versata entro due giorni dalla partenza della Rigel da Marina di Massa e l'altra metà prima del naufragio". Si è accertato che ci furono dei ritardi nei pagamenti e che la Rigel dopo la partenza si fermò per qualche tempo a Palermo, poi gironzolò davanti a Capo Spartivento per almeno una settimana prima di essere affondata. Aspettava, insomma, il segnale dell'avvenuto incasso. E, infatti, i soldi arrivano estere su estero la sera del 18 settembre. E la nave cola a picco il 21. "Lost the ship". La storia riaffiora quando il comandante Natale De Grazia, durante una perquisizione nel maggio del '95, trova un'agenda che viene poi sequestrata. Alla pagina del 14 settembre c'è un appunto in inglese: "Se noi non abbiamo il denaro disponibile prima del 19 settembre non possiamo comprare la nave per la produzione al pubblico". E, sul foglio dell'agenda relativo al 21 settembre, la frase "Lost the ship". Che tradotto significa "Perduta la nave". Coincidenze? I riferimenti alla Rigel sembrano chiari. L'agenda era in un cassetto dell'ufficio di Giorgio Comerio, il faccendiere implicato in mille traffici di rifiuti ed in altrettanti di armi. Uno che è pappa e ciccia con i servizi segreti di mezzo mondo. Prima di partire per il suo ultimo viaggi De Grazia aveva telefonato all'allora procuratore di Matera Nicola Maria Pace che conduceva indagini parallele a quelle di Reggio Calabria sul traffico di rifiuti radioattivi: "Procuratore quando torno deve venire a Reggio Calabria. La porto nel punto preciso in cui è affondata la Rigel". Non è mai più tornato.
Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti.
RELAZIONE SULLA MORTE DEL CAPITANO DI
FREGATA NATALE DE GRAZIA. Segue
il testo della ”Relazione sulla morte del capitano di fregata Natale De Grazia”
così come è stata pubblicata sul sito del relatore on. Alessandro Bratti.
(Relatori: On. Gaetano PECORELLA e On. Alessandro
BRATTI)
Approvata dalla Commissione nella seduta del 5 febbraio 2013- Comunicata alle
Presidenze l’11 febbraio 2013 ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 6
febbraio 2009, n. 6.
RELAZIONE SULLA MORTE DEL CAPITANO DI FREGATA NATALE DE GRAZIA
PREMESSA
Il capitano Natale De Grazia. Il dodici dicembre 1995 è stato l’ultimo giorno di vita del capitano Natale De Grazia. Alle prime ore del 13 dicembre 1995, qualche giorno prima del suo trentanovesimo compleanno, il capitano De Grazia è deceduto per cause che a molti apparvero quanto meno sospette e che ancora oggi, a distanza di anni, continuano ad essere considerate tali. Il capitano di fregata Natale De Grazia era un ufficiale della Marina militare, in servizio presso la Capitaneria di porto di Reggio Calabria. Al momento della sua morte era applicato alla sezione di polizia giudiziaria presso la procura circondariale di Reggio Calabria e faceva parte di un pool investigativo, coordinato dal sostituto procuratore Francesco Neri, costituito per effettuare le indagini avviate a seguito di un esposto presentato da Legambiente, concernente presunti interramenti di rifiuti tossici in Aspromonte. Nel corso dell’inchiesta si aprirono subito scenari inquietanti legati al fenomeno delle “navi a perdere”, indicandosi con tale espressione le navi affondate dolosamente con carichi di rifiuti radioattivi o comunque tossici, smaltiti illegalmente nelle profondità marine. Secondo un dossier di Legambiente trasmesso alla Commissione gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero stati 88 (doc. 117/30). Del gruppo investigativo facevano parte, oltre al capitano De Grazia, il maresciallo capo Scimone Domenico, appartenente alla sezione di polizia giudiziaria dei Carabinieri presso la procura di Reggio Calabria, il maresciallo Moschitta e il carabiniere Rosario Francaviglia, questi ultimi due appartenenti al nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria. In un momento successivo parteciparono attivamente alle indagini anche ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti al Corpo forestale dello Stato di Brescia e di La Spezia. Nelle indagini il capitano De Grazia profuse una dedizione ed un impegno fuori dal comune, tali da farlo considerare, anche dai sui stessi colleghi, il “motore” dell’inchiesta. Non a caso, dopo la sua morte, le attività investigative (giunte a risultati importanti e, da un certo punto di vista, ad una vera e propria fase di svolta) subirono un rallentamento significativo: alcune delle attività che il capitano stava personalmente compiendo non furono proseguite e si disperse, in parte, quel bagaglio di conoscenze e di professionalità che il capitano aveva acquisito nel corso dell’inchiesta e aveva messo a servizio dei magistrati e dei colleghi. Per dare un’idea di quanto fosse considerato fondamentale l’apporto professionale del capitano De Grazia, basti leggere le note che il procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, inviò al comandante della Capitaneria di porto e al procuratore generale presso la Corte d’appello di Reggio Calabria: la prima, del 13 novembre 1995, finalizzata a far dispensare il capitano dalle ordinarie attività svolte presso la Capitaneria di porto onde consentirgli di dedicarsi all’indagine della procura; la seconda, di ringraziamento, del 27 novembre 1995 (doc. 681/7). Entrambe si riportano integralmente.
Nota del 13 novembre 1995: “Oggetto: Proc. penale n. 2114/94 R.G.N.R. – Indagini relative ad un traffico di rifuti tossici e/o radioattivi. Com’è noto alla S.V., anche per aver partecipato ad una delle riunioni promosse dal procuratore generale per il coordinamento tra le varie procure interessate, da parte di quest’ufficio sono in corso le indagini di cui in oggetto, le quali hanno già conseguito i primi risultati anche grazie al prezioso contributo, in termini di professionalità, intuito investigativo e spirito di sacrificio, del C.C. Natale De Grazia, in servizio presso codesto Comando. Da circa tre mesi, però, detto ufficiale si trova nell’impossibilità di svolgere tale attività in quanto impegnato, come dalla S.V. personalmente significatomi in via informale, nell’espletamento dei suoi compiti di Istituto. La conseguenza immediata di ciò, purtroppo, è stata una situazione di stallo dell’attività investigativa, che ha gravemente risentito, per la sua specificità (pare che i rifiuti vengano smaltiti col sistema delle “navi a perdere”), del venir meno delle conoscenze tecniche del succitato ufficiale (oltre che della sua elevata professionalità). In considerazione di quanto sopra, vorrà esaminare la possibilità di disporre che il capitano De Grazia sia temporaneamente, e per due mesi almeno, dispensato dai compiti attinenti a codesto ufficio, onde consentirgli di riprendere a collaborare con lo scrivente nello svolgimento delle delicate e complesse indagini di cui sopra”.
Nota del 27 novembre 1995: “La presente per darLe atto della grande sensibilità dimostrata in relazione ai problemi che ebbi a prospettarle con la mia del 13 u. s. ringraziarla vivamente della sollecitudine con cui ha consentito al capitano De Grazia di continuare a collaborare con quest’ ufficio nelle indagini di cui in oggetto”. Rientrato a tempo pieno nel gruppo investigativo, il capitano De Grazia si dedicò nuovamente alle indagini con la consueta determinazione. Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1995 partì, unitamente al maresciallo Moschitta e al Carabiniere Francaviglia, con autovettura di servizio, alla volta di La Spezia per dare esecuzione alle deleghe di indagine, firmate dal procuratore Scuderi e dal sostituto Neri, finalizzate ad acquisire maggiori elementi di conoscenza in merito all’affondamento di alcune navi. Durante il viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre 1995, il capitano venne colto da malore e, quindi, trasportato dall’ambulanza, nel frattempo intervenuta, presso il pronto soccorso dell’ospedale di Nocera Inferiore, ove però giunse cadavere.
Con nota del 22 dicembre 1995 il capitano Antonino Greco, comandante del nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria, rimise al procuratore Scuderi le sei deleghe di indagine datate 11 dicembre 1995 “non potute evadere a causa del decesso del capitano di corvetta De Grazia Natale” (doc. 321/2). Il Comitato civico “Natale De Grazia” ha trasmesso alla Commissione una serie di documenti dai quali si rileva che nel giugno 2004 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì al capitano De Grazia la Medaglia d’oro alla Memoria con le seguenti motivazioni: “Il capitano di Fregata (CP) Spe r.n. Natale DE GRAZIA ha saputo coniugare la professionalità, l’esperienza e la competenza marinaresca con l’acume investigativo e le conoscenze giuridiche dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria, contribuendo all’acquisizione di elementi e riscontri probatori di elevato valore investigativo e scientifico per conto della procura di Reggio Calabria. La sua opera di Ufficiale di Marina è stata contraddistinta da un altissimo senso del dovere che lo ha portato, a prezzo di un costante sacrificio personale e nonostante pressioni ed atteggiamenti ostili, a svolgere complesse investigazioni che, nel tempo, hanno avuto rilevanza a dimensione nazionale nel settore dei traffici clandestini ed illeciti operati da navi mercantili. Il comandante De Grazia è deceduto in data 13.12.1995 a Nocera Inferiore per “Arresto cardio-circolatorio”, mentre si trasferiva da Reggio Calabria a La Spezia, nell’ambito delle citate indagini di “Polizia Giudiziaria”. Figura di spicco per le preclare qualità professionali, intellettuali e morali, ha contribuito con la sua opera ad accrescere e rafforzare il prestigio della Marina militare Italiana” (doc. 191/2).
L’APPROFONDIMENTO SULLA MORTE DEL CAPITANO DE GRAZIA
L’approfondimento sulle cause del decesso del capitano De Grazia si inserisce nel contesto dei più ampi accertamenti chela Commissione ha effettuato sul fenomeno delle “navi a perdere”. Si tratta di un tema tornato di attualità a seguito del rinvenimento nell’anno 2009, sui fondali antistanti la costa di Cetraro, del relitto di una nave, inizialmente (ed erroneamente) ritenuta essere la Cunsky ossia una delle navi che l’ex collaboratore di giustizia Francesco Fonti aveva indicato essere state affondate dolosamente insieme al loro carico di rifiuti altamente tossici. In relazione a questa vicenda, la procura di Paola ha aperto un procedimento penale, poi proseguito dalla procura di Catanzaro e conclusosi con un provvedimento di archiviazione. Nell’ambito di questa più ampia inchiesta, invero, sono emerse talune peculiarità relative alle circostanze che hanno accompagnato il decesso del capitano ritenute meritevoli di ulteriori approfondimenti sia perché le indagini effettuate all’epoca furono carenti sotto molteplici aspetti, lasciando insoluti interrogativi in ordine alle cause del decesso sia perché tale tragico evento si inserisce in un contesto investigativo del tutto particolare in ragione degli interessi in gioco e dei personaggi coinvolti (dalle indagini sulle navi a perdere condotte dalle procure di Reggio Calabria e Matera emersero, infatti, per la prima volta indizi di un disegno criminoso di respiro sovranazionale, nel quale apparivano coinvolti diversi Stati, riguardante il presunto inabissamento in mare di rifiuti tossici). La Commissione, oltre ad aver acquisito copia degli atti del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore relativo al decesso del capitano nonché degli atti riguardanti le indagini alle quali lo stesso capitano De Grazia aveva preso parte, ha svolto direttamente una serie di attività mirate a far luce sugli aspetti poco chiari della vicenda. In primo luogo, si è cercato di comprendere come mai, dopo la morte del capitano, il gruppo investigativo si fosse progressivamente sfaldato, come se, ad un certo momento, tutti coloro che ne avevano preso parte non fossero più interessati a proseguire, nonostante si trattasse di un’indagine particolarmente rilevante sia per l’oggetto trattato (smaltimento illecito di rifiuti radioattivi) sia per le dimensioni sovranazionali del traffico illecito sia, ancora, per la collaborazione prestata non solo da diverse forze di polizia operanti sul territorio nazionale, ma anche dai servizi segreti, in particolare dal Sismi. Contestualmente, si è cercato di comprendere se effettivamente, all’epoca, vi fosse un clima di intimidazione che gli stessi inquirenti hanno dichiarato di aver percepito durante lo svolgimento del loro lavoro. Ancora, sono stati oggetto di approfondimento da parte della Commissione alcuni aspetti emergenti proprio dall’indagine avviata dalla magistratura in ordine al decesso del capitano e conclusasi con provvedimento di archiviazione.
L’ATTIVITÀ DELLA COMMISSIONE
Gli approfondimenti della Commissione sono stati effettuati attraverso: - l’acquisizione dei documenti afferenti le indagini dell’autorità giudiziaria (tra i più rilevanti si segnalano gli atti delle indagini svolte dalle procure circondariali di Reggio Calabria e di Matera in merito allo smaltimento di rifiuti radioattivi; gli atti dei procedimenti relativi al decesso del capitano De Grazia; gli atti dei procedimenti iscritti dalla procura presso il tribunale di Reggio Calabria e dalla procura presso il tribunale di Paola);
- l’acquisizione di documenti utilizzati da precedenti Commissioni parlamentari di inchiesta (Commissione di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Commissioni parlamentari di inchiesta sul ciclo dei rifiuti presediute dall’On. Russo e dall’On. Scalia);
- audizione dei persone in grado di riferire
elementi utili ai fini dell’inchiesta.
E’ stato, inoltre, conferito un incarico di consulenza tecnica al prof. dottor
Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica
dell’Università di Roma “Tor Vergata” nonchè consulente della Commissione) al
fine di operare una rivalutazione delle attività medico legali svolte dai
consulenti nominati dal pubblico ministero e dalle parti civili nell’ambito del
procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore,
volto ad accertare le cause del decesso del capitano De Grazia.
Tra gli auditi si segnalano:
- i magistrati Francesco Neri, Nicola Maria Pace, Francesco Greco, Giancarlo Russo, Felicia Genovese, Francesco Basentini, Alberto Cisterna;
- Postorino Francesco, cognato del capitano di fregata Natale De Grazia;
- il maresciallo Niccolò Moschitta, già appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;
- il maresciallo Domenico Scimone, già appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;
- il carabiniere Rosario Francaviglia, appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;
- il carabiniere Angelantonio Caiazza;
- il carabiniere Sandro Totaro;
- l’ex colonnello del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Rino Martini;
- il brigadiere del Corpo dello Stato Gianni De Podestà;
- il vice ispettore del Corpo forestale dello Stato dello stato Claudio Tassi;
- Francesco Fonti, ex collaboratore di giustizia;
- il medico legale, dottoressa Del Vecchio;
- il medico legale, dottor Asmundo;
- il comandante in seconda, ufficiale presso la Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Giuseppe Bellantone;
- rappresentanti della società di navigazione Ignazio Messina.
La relazione è strutturata in due parti: La prima dedicata all’indagine avviata dalla procura circondariale di Reggio Calabria, nella quale ebbe un ruolo determinante il capitano De Grazia. Ed infatti, non è possibile trattare adeguatamente il tema del decesso del capitano, senza avere prima analizzato nel dettaglio l’indagine nella quale lo stesso era impegnato; in questa parte si è affrontato anche il tema relativo allo sfaldamento del gruppo investigativo nel quale operava il capitano De Grazia. La seconda parte è dedicata alle cause della morte del capitano e all’inchiesta aperta sul punto dalla magistratura. Sono poi riportati gli accertamenti e le attività che la Commissione ha ritenuto di svolgere al fine di approfondire tutti gli aspetti ritenuti poco chiari. Infine, vi sono le conclusioni, nelle quali la Commissione – pur nella consapevolezza della difficoltà di scrivere una parola definitiva sulla vicenda in questione, tenuto conto del lasso di tempo trascorso dagli accadimenti – riesamina criticamente tutti gli elementi acquisiti.
PARTE PRIMA – LE INDAGINI GIUDIZIARIE
1 – L’INDAGINE AVVIATA DALLA PROCURA CIRCONDARIALE DI REGGIO CALABRIA
1.1 – La denuncia di Legambiente del 2 marzo 1994 e l’apertura del procedimento. La Commissione ha accertato che il primo procedimento penale aperto in relazione alla vicenda delle “navi a perdere” fu quello recante il n. 2114/94 mod. 21 R.G.N.R., iscritto presso la procura circondariale di Reggio Calabria, assegnato al sostituto procuratore della Repubblica, dottor Francesco Neri. Il procedimento venne aperto inizialmente a carico di ignoti a seguito di un esposto di Legambiente del 2 marzo 1994 nel quale si denunciava l’esistenza, in Aspromonte, di discariche abusive contenenti materiale tossico-nocivo e/o radioattivo, trasportato con navi presso porti della Calabria e, successivamente, in montagna con automezzi pesanti. Nella denuncia si evidenziava come il territorio calabrese si prestasse particolarmente alla realizzazione di discariche abusive sia perché i porti erano scarsamente controllati, sia perché l’Aspromonte, con le sue caverne naturali, appariva il luogo ideale in cui nascondere questo tipo di materiale. Vennero, pertanto, disposti dal pubblico ministero accertamenti tecnici – per il tramite dell’istituto geografico militare – finalizzati a verificare se il territorio calabrese fosse effettivamente adatto per un simile illecito smaltimento di rifiuti. La risposta fu affermativa in quanto realmente l’Aspromonte, per la sua geomorfologia, accessibilità e vicinanza a porti incontrollati si prestava ad essere utilizzato per occultare rifiuti pericolosi. Contestualmente, vennero delegate indagini ai ROS, alla Guardia di finanza e alla squadra mobile di Reggio Calabria, finalizzate ad accertare quali veicoli pesanti avessero potuto trasportare rifiuti in Aspromonte. Occorre subito evidenziare che – in poco meno di un anno – le indagini ebbero sviluppi inimmaginabili, tanto che nel giugno 1995 il sostituto procuratore Francesco Neri sentì l’esigenza di trasmettere al procuratore capo una relazione nella quale evidenziava le tappe investigative ed i sorprendenti scenari che si erano aperti, per i quali riteneva necessario procedere con rogatorie internazionali, collaborazioni con altre procure, non solo calabresi, e scambio di informazioni con i servizi segreti (cfr. doc. 362/3 allegato).
1.2 – Approfondimenti relativi alla nave Korabi e
costituzione del primo gruppo investigativo. Il tema investigativo ben preso si
ampliò. Ed infatti, contemporaneamente allo svolgimento degli accertamenti sulle
caratteristiche del territorio calabrese, giunse alla procura di Reggio Calabria
la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di
Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante
“Pentimele” perché sospettata di trasportare materiale radioattivo (scorie di
rame di altoforno). La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per
radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di
Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, detta radioattività non era stata
riscontrata. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione
Durazzo. Questo dato è stato rappresentato dal dottor Neri come particolarmente
inquietante perché poteva far presumere che la nave si fosse disfatta del carico
radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria.
Nel corso dei controlli effettuati presso il porto di Reggio Calabria dalla
Guardia di finanza venne trovato a bordo della nave un motore fuoribordo, del
quale il comandante non seppe fornire alcuna giustificazione. I successivi
controlli effettuati consentirono di accertarne la provenienza furtiva. Venne
disposto, dunque, il fermo di polizia giudiziaria del comandante per
ricettazione ed il sequestro della nave, nel frattempo ormeggiata presso il
porto di Pescara. Gli accertamenti disposti successivamente sulla radioattività
della motonave Koraby ebbero esito negativo e la nave venne, pertanto,
dissequestrata. Fu disposta, in seguito, consulenza collegiale per accertare se
le “presunte” scorie di rame contenessero “plutonio” o altre sostanze
radioattive o fungessero da “scudo” ad altra fonte radioattiva di cui il
comandante si era potuto disfare nel tragitto tra Palermo e Reggio Calabria.
Invero, lo stesso, nel corso dell’interrogatorio reso innanzi all’autorità
giudiziaria di Pescara, aveva dichiarato che il carico ritirato a Durazzo era
stato scaricato a Rieka (Fiume) Slovenia per essere poi caricato su vagoni
ferroviari con destinazione ignota (cfr. doc. 362/3 allegato). Si iniziò,
dunque, a profilare l’ipotesi che rifiuti tossici potessero essere smaltiti
illecitamente in mare.
La denuncia di Legambiente fu trasmessa anche alle procure di Locri, Palmi, Vibo
Valentia e Crotone. Fu disposta una consulenza collegiale da parte di tutte le
procure interessate al fine di ottenere una mappa aggiornata di tutti i
possibili siti (discariche, cave, ecc.) di stoccaggio abusivo di rifiuti
radioattivi e tossico/nocivi. Sempre nello stesso periodo venne acquisita dalla
procura della Repubblica di Savona (pubblico ministero dottor Landolfi)
documentazione circa il ritrovamento di 6.000 fusti contenenti materiale tossico
in una cava di Borghetto Santo Spirito, gestita da personaggi legati alle cosche
calabresi. L’ipotesi, poi approfondita dalla procura di Locri, competente per
territorio, era che il materiale tossico potesse essere destinato al sud, nei
territori gestiti dalle cosche predette. Anche dalle procure di Vibo Valentia,
Crotone e Palmi pervennero notizie in merito a presunti interramenti di rifiuti
tossici. Quello sopra descritto è lo scenario nel quale si sviluppò l’indagine
condotta dal dottor Francesco Neri. Proprio per la complessità delle situazioni
emerse venne creato un apposito gruppo investigativo costituito dal maresciallo
capo Scimone Domenico, appartenente alla sezione di polizia giudiziaria dei
Carabinieri presso la procura di Reggio Calabria, dal capitano di fregata De
Grazia Natale, dal maresciallo M. Moschitta e dal carabiniere Rosario
Francaviglia, questi ultimi due appartenenti al nucleo operativo del reparto
operativo CC di Reggio Calabria. Tale gruppo ebbe modo di interfacciarsi sia con
la procura di Matera (che indagava sul centro ricerche Trisaia Enea di
Rotondella) sia con il Corpo forestale dello Stato di Brescia (che aveva da
tempo avviato indagini mirate su Giorgio Comerio, presunto trafficante di
rifiuti tossici e, più in generale, mirate sul traffico di rifiuti radioattivi).
1.3 – Audizione del teste “Billy” e coordinamento investigativo con la procura di Matera. Nel marzo 1995 l’indagine si arricchì di elementi importanti, riguardanti il traffico e la gestione delle scorie nucleari in Italia, lasciando intravedere anche il coinvolgimento dell’Enea. Un funzionario di questo ente, ingegner Carlo Giglio, chiese espressamente alla polizia giudiziaria di essere sentito, dopo aver appreso dalla stampa che la procura di Reggio Calabria si stava occupando di traffici illegali di rifiuti radioattivi in Calabria. Il teste venne sentito a Roma, ove risiedeva, il 17 marzo 1995(doc. 681/44 allegato), dal dottor Neri e dai marescialli Scimone e Moschitta. Riferì di essere riuscito a scoprire, nell’ambito della sua attività istituzionale, che la registrazione degli scarti nucleari era truccata per rendere incontrollabile il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo che doveva essere gestito presso tutti gli impianti nucleari. Dichiarò che le sue relazioni ispettive effettuate presso i centri Enea di Rotondella (MT) e di Saluggia (Vercelli) scatenarono all’interno dell’ente azioni di ritorsione che sfociarono in denunce per diffamazione e calunnia. Parlò, poi, di una presunta attività clandestina dell’Enea finalizzata a fornire tecnologia e materiale nucleare all’Iraq (12.000 kg di uranio), delle reazioni del governo americano e dei servizi segreti israeliani. Riferì, ancora, in ordine allo smaltimento dei rifiuti radioattivi prodotti dall’Enel, sotto la supervisione dell’Enea, la cui destinazione sarebbe stata ignota. L’ingegner Giglio, in quell’occasione, rese una serie di dichiarazioni attinenti ad una presunta attività di fornitura da parte dell’Italia all’Iraq di armi da guerra (comprese navi) e di tecnologie nucleari. Particolarmente significative si rivelarono le dichiarazioni relative al traffico clandestino di materiale nucleare: “(…) la scelta di Palermo come punto di riferimento per il traffico clandestino di materiale nucleare non è occasionale, ma mirato, in quanto è logico ritenere che solo la Mafia o le altre organizzazioni criminali operanti al sud potevano garantire quella attività di copertura necessaria per detti traffici. (…). Altro aspetto inquietante del traffico illecito di materiale radioattivo concerne lo smaltimento effettuato, con la supervisione dell’Enea, da parte dell’Enel di rifiuti radioattivi la cui destinazione è a tutt’oggi ignota. Mentre la conferma che la Calabria è stata utilizzata come deposito illecito di materiale radioattivo è data dalla scoperta di una discarica abusiva di un tale Pizzimenti. L’ing. Giglio fa inoltre presente come la persecuzione subita nell’ambito del suo ente sia dipesa essenzialmente dall’avere adempiuto ai suoi doveri denunciando alla magistratura, al suo ente ed alle varie Commissioni di inchiesta i fatti sin qui narrati (…)”.
In seguito, l’ingegner Giglio, per la delicatezza delle dichiarazioni rilasciate, fu chiamato dagli investigatori con lo pseudonimo “Billy”. Nacque, quindi, l’esigenza di coordinare le indagini con quelle svolte dalla procura circondariale di Matera, in particolare dal procuratore Nicola Maria Pace, dal momento che questi, sin dai primi anni ‘90, stava svolgendo indagini in merito ad un presunto traffico di rifiuti radioattivi provenienti dal Centro Trisaia Enea di Rotondella (procedimento penale n. 254/93 R.G.N.R.). Secondo quanto riferito dal dottor Pace alla Commissione era stato ipotizzato un interesse dell’Enea nell’attività di smaltimento in mare attraverso le navi. Questa ipotesi aveva portato al coordinamento investigativo con le attività svolte sul territorio limitrofo dagli investigatori operanti in Calabria, guidati dal dottor Neri. Ed, in effetti, Carlo Giglio venne successivamente sentito, in data 10 maggio 1995, dal dottor Neri e dal dottor Pace, questa volta presso gli uffici del Corpo forestale dello Stato di Brescia (alla presenza dei marescialli Moschitta e Scimone). In tale occasione fornì talune precisazioni in merito a quanto già riferito in precedenza: “i controlli da me effettuati in presenza dei rappresentanti Enea presso i centri sono stati sempre oggetto di verbali di sopralluogo firmati dal sottoscritto e dalla stessa direzione Enea (…) tali verbali sono stati sempre trasmessi all’autorità giudiziaria competente per le gravissime deficienze riscontrate nei sistemi di monitoraggio e di misura della radioattività e per quanto riguarda specificatamente il Centro di Rotondella”. Precisò, poi, che il processo avviato in merito a tali fatti si era concluso con una sentenza emessa dal tribunale di Matera in data 28 maggio 1984 con la quale furono assolti sia gli ispettori dell’Enea sia il direttore dell’impianto. In sintesi, le dichiarazioni di Carlo Giglio hanno fatto riferimento a presunti fatti di particolari gravità, quali:
- la non corretta tenuta della contabilità all’interno del centro Enea di Rotondella tale da consentire l’uscita di rifiuti radioattivi erroneamente definiti “scarti”;
- l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti radioattivi (negli anni ‘80/’90) destinati ai paesi del terzo mondo, in particolare Irak, Pakistan e Libia, ove sarebbero stati utilizzati per la produzione di ordigni atomici;
- l’insussistenza di un’effettiva ed efficace attività di controllo tra Enea ed Enel, nonchè la totale inefficienza della Nucleco, società costituita tra Enea ed Agip, per il trattamento dei rifiuti radioattivi. Il successivo 16 giugno 1995, sempre innanzi ai pubblici ministeri Neri e Pace e alla presenza del colonnello Martini e del maresciallo Scimone, Carlo Giglio rese ulteriori dichiarazioni (questa volta presso la sede di Roma del Corpo forestale dello Stato). In sostanza, secondo quanto affermato dal Giglio, sarebbero state violate numerose norme penali (ma non sono specificate né le norme violate né le modalità attraverso le quali sarebbero state violate). Le ultime dichiarazioni rese da Carlo Giglio agli inquirenti, presso la procura della Repubblica di Reggio Calabria, risalgono al 5 dicembre 1995. In quella occasione il teste, in sostanza, evidenziò che:
- da quando aveva iniziato a collaborare con l’autorità giudiziaria, lui e i suoi familiari avevano vissuto strani episodi riconducibili a velate intimidazioni (così come era accaduto nel corso di precedenti indagini riguardanti l’Enea);
- Giorgio Comerio aveva avuto rapporti con l’Enea: “Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l’Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (…) Addirittura nella strategia dell’ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell’Ente. Il Comerio infatti ha offerto all’ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi”;
- anche l’Italia aveva disperso in mare le scorie radioattive: “è noto che anche l’Italia ha disperso in mare scorie radioattive quindi l’Ente (Enea) è in grado di riferire dove, come e quando”;
- l’Enea sarebbe stata infiltrata dalla massoneria: “proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell’ambito dell’Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici”. Sui fatti riguardanti il centro Enea di Rotondella la Commissione ha audito il dottor Pace. Lo stesso era stato, peraltro, già ascoltato sia dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta dall’On. Russo (in data 10 marzo 2005) sia dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (quest’ultima audizione è segretata). Secondo quanto dichiarato nel corso dell’audizione del 10 marzo 2005:
- nel centro Enea di Rotondella era stata riscontrata una situazione di grave pericolo, in quanto giacevano rifiuti radioattivi liquidi ad alta attività all’interno di contenitori che, già all’epoca, avevano esaurito il tempo massimo previsto dal progetto;
- una delle principali anomalie dell’Enea era relativa alla mancanza di controlli esterni. La conservazione di materiali pericolosi all’interno di contenitori inidonei era una regola avallata, attraverso proroghe continue, da parte di due ingegneri i quali, dopo un incidente verificatosi il 14 aprile del 1994, furono costretti a redigere un documento di estremo allarme in merito alla situazione della centrale (documento che il dottor Pace inviò al Presidente della Repubblica dell’epoca);
- nel prosieguo delle indagini il dottor Pace aveva acquisito documenti da cui risultava che l’Italia, nel 1978, aveva ceduto all’Iraq due reattori plutonigeni Cirene; aveva, poi, accertato che presso la centrale Enea di Rotondella vi era la presenza continuativa di personale iracheno (tale ultima circostanza è stata riferita alla Commissione anche dalla dottoressa Genovese, nel corso dell’audizione del 21 ottobre 2009, allorquando ha dichiarato che nel corso delle indagini era emerso da fonti dichiarative che tecnici iracheni e pachistani “andavano e venivano” dall’Enea);
- il dottor Pace cercò di individuare i cosiddetti siroi(cavità, risalenti al IV secolo a.C., scavate nella roccia) che da un manuale dell’Enea risultavano impiegati per il deposito di scorie radioattive. Si rivolse per questo sia al prof. Quilici dell’Università di Bologna – il quale però gli disse che i siroi non erano più localizzabili -, sia ad un professore rumeno, tale Amasteadu, che aveva condotto studi archeologici in Basilicata. Anche quest’ultimo professore disse di non potere localizzare i siroi; aggiunse, però, che era stato pubblicato un testo, ormai introvabile, contenente le mappe dei siroi, testo che lui stesso aveva posseduto in passato, ma che gli era stato trafugato dopo avere ricevuto una strana visita da parte di non meglio identificati cittadini iracheni che gli avevano fatto numerose domande. Nel corso dell’audizione resa avanti a questa Commissione, avvenuta in data 20 gennaio 2010, il dottor Pace ha, sostanzialmente, confermato le dichiarazioni precedentemente rese, aggiungendo ulteriori particolari. Alla domanda posta dal Presidente, on. Gaetano Pecorella: “vorrei sapere se al centro Enea giungessero anche materiali radioattivi esterni, cioè provenienti da altri paesi o da altre fonti di produzione. Vorrei chiederle inoltre se il sistema di controllo dell’entrata e dell’uscita di questi materiali fosse in grado di garantire almeno che ciò che usciva fosse verificato, cioè risultasse in modo documentale. Uno dei punti sostenuti da Fonti, che stiamo verificando, è che questo materiale radioattivo provenisse dall’Enea di Rotondella attraverso camion che uscivano durante la notte. Vorremmo quindi capire se la situazione contabile potesse offrire una qualche garanzia di ciò che entrava e di ciò che usciva”, il dottor Pace ha risposto di avere attentamente valutato la contabilità dell’Enea, che presentava delle anomalie, ma non tali da indurre a ritenere che camion di materiali potessero uscire in modo incontrollato. E, tuttavia, secondo il confronto tra i dati di contabilità e il magazzino nucleare mancava il plutonio: “la contabilità risultava inveritiera soltanto per quanto riguarda il plutonio, fatto di non poco conto, tanto che su questo tema c’è stata una notevole dialettica con i massimi esponenti dell’Enea”. Con riferimento, invece, alla contabilità concernente i materiali esterni (quelli provenienti dagli ospedali e che dovevano avere la caratterizzazione, il registro di carico e scarico) tutta la documentazione dei rifiuti trasportati avrebbe dovuto essere custodita in un armadio, che invece fu trovato vuoto. Sul coordinamento investigativo tra la procura di Reggio Calabria e quella di Matera ha riferito alla Commissione anche il maresciallo Moschitta, in data 11 maggio 2010: “ (..) l’attenzione cadde sull’Enea nel momento in cui il dottor Pace di Matera ci telefonò e ci chiese se stavamo indagando sui materiali radioattivi. Alla nostra risposta affermativa, ci propose di lavorare insieme, dal momento che lui aveva una centrale – così disse – che stava esplodendo. Ci disse che era solo, che non aveva le strutture e che quindi aveva paura a procedere nell’attività. Invece, unendosi a noi e lavorando sullo stesso terreno, avremmo potuto raggiungere qualche risultato. A seguito di questa collaborazione, il dottor Pace ci disse che Matera viveva una situazione molto pericolosa, perché nella centrale nucleare della città, dentro una piscina, vi erano 64 barre di uranio, acquistate prima della moratoria dalle centrali Elk River degli Stati Uniti. La piscina era stata realizzata nel 1960, quando ancora la normativa antisismica non esisteva. Matera è una zona sismica. Quindi, ci mostrò la gravità della situazione e ci chiese come avremmo potuto prenderla in mano. Ci disse che il personale dell’Enea gli faceva muro davanti, che avrebbe voluto fare degli accertamenti e proseguire le operazioni, che lo invitavano a fare delle verifiche personalmente, ma che lui non sapeva dove andare a controllare. La situazione era incresciosa, se pensiamo – queste sono le parole che sono state pronunciate allora – che il problema di Chernobyl è nato da mezza barra di uranio e che a Matera ve ne erano 64. Apprese queste notizie, acquisita da Giglio l’informazione che dalla centrale di Saluggia non erano stati vetrificati i liquidi radioattivi e tante altre notizie che già erano a conoscenza del dottor Pace, si rese necessario fare una relazione al capo del Governo dell’epoca. Vi si recò il dottor Cordova personalmente”. In sostanza, le indagini avviate a Reggio Calabria sugli interramenti di rifiuti in Aspromonte si estesero rapidamente ai traffici di rifiuti radioattivi e agli smaltimenti illeciti degli stessi effettuati in mare o destinati verso paesi esteri. Inevitabile fu, quindi, il coordinamento investigativo con la procura di Matera che già indagava in merito a presunte irregolarità concernenti il centro di ricerche Enea Trisaia di Rotondella.
1.4 – L’inserimento nelle indagini del Corpo forestale dello Stato di Brescia. Giorgio Comerio e il progetto O.D.M.
I procuratori Neri e Pace, dunque, unirono le loro risorse e conoscenze investigative per proseguire le indagini. Queste, peraltro, ebbero una svolta decisiva in conseguenza del contributo fornito dai militari appartenenti al Corpo forestale dello Stato di Brescia, coordinati dal colonnello Rino Martini, il quale si rivelò da subito un elemento chiave, sia per la sua specifica competenza nella materia del traffico illecito di rifiuti radioattivi, sia per le indagini che da tempo stava svolgendo sull’argomento. Nella primavera del 1995 gli accertamenti svolti dal Comando di Brescia avevano, infatti, consentito di acquisire notizie di estrema rilevanza in relazione ad un imponente traffico di rifiuti radioattivi destinati ad essere smaltiti in mare. In particolare, con nota informativa del 3 aprile 1995 (doc. 277/2), il colonnello Rino Martini informò il dottor Neri circa l’esistenza di una holding, denominata O.D.M. (Oceanic Disposal Management inc.), che si occupava dell’inabissamento in mare di rifiuti radioattivi. A capo dell’organizzazione vi era tale Manfred Convalexius, titolare della Convalexius trading con sede a Vienna (personaggio definito nella nota come conosciuto in Austria ed in altri Paesi nord-europei per il traffico di rifiuti e di rottami ferrosi), mentre il referente italiano era un certo Giorgio Comerio, nato il 3 febbraio 1945 a Busto Arsizio (VA), titolare della Comerio industry ltd., con sede legale a La Valletta(Malta). La scoperta della società O.D.M. era scaturita dal controllo – effettuato il 23.5.94 dal Corpo forestale dello Stato di Brescia – nei confronti di tale Ripamonti Elio alla frontiera di Chiasso, all’esito del quale erano stati sequestrati una serie di documenti che il Ripamonti portava con sé, riguardanti il progetto della O.D.M. di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi (cosiddetto progetto DODOS), corredato dalle relazioni tecniche e da documentazione dalla quale si ricavava che il progetto interessava nazioni come l’Italia, l’Austria, la Cecoslovacchia, la Germania e la Lettonia (doc. 362/3 allegato). In realtà risulta che, già nell’anno 1993, Ripamonti era stato controllato al confine dalla Guardia di finanza di Vigevano e trovato in possesso di documentazione relativa a traffici illeciti riguardanti lo smaltimento di rifiuti radioattivi. L’analisi dei documenti (in particolare di una proposta di contratto trasmessa via fax dall’abitazione di Garlasco di Giorgio Comerio) portò a ritenere che quest’ultimo, con la O.D.M., avesse proposto lo smaltimento di rifiuti radioattivi tramite i cosiddetti penetratori, da effettuarsi in paesi baltici, come l’ex Urss. Da ciò era scaturita una perquisizione, ordinata dalla procura della Repubblica di Lecco, che aveva aperto un procedimento nei confronti del Ripamonti e di Comerio (doc. 1180/1 e 1180/2). DODOS è l’acronimo di Deep Ocean Data Operative. Si trattava di un progetto studiato ad Ispra sul lago Maggiore, presso il centro di ricerca della Comunità europea, al quale avevano lavorato soggetti appartenenti a diversi Stati compreso Giorgio Comerio nella sua qualità di ingegnere e di responsabile di una società che originariamente avrebbe dovuto partecipare al progetto. Il progetto riguardava le modalità di smaltimento dei rifiuti radioattivi attraverso il loro inabissamento in mare. In sostanza, i rifiuti radioattivi avrebbero dovuto essere inseriti in contenitori di acciaio e carbonio chiamati cannister, a loro volta inseriti in un cilindro di 25 metri a forma di siluro (cosiddetto penetratore). Infine, il siluro avrebbe dovuto essere buttato in mare su un fondale marino adeguato, alla profondità di qualche migliaio di metri, piantandosi in tal modo nel fondale stesso. Il progetto non fu, però, portato avanti in ragione della opposizione manifestata da taluni Paesi che avevano aderito a trattati internazionali che vietavano lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi. Dalla documentazione sequestrata al Ripamonti emerse che questi avrebbe dovuto individuare clienti svizzeri per lo smaltimento in mare di rifiuti radioattivi per il tramite dell’avvocato Forni di Lugano. Emerse, altresì, che un primo ordine da parte di qualche governo estero era stato già emesso (verosimilmente l’Austria per il tramite del Convalexius). Ripamonti Elio venne sentito dal dottor Neri e dal colonnello Martini in data 11 maggio 1995 (doc. 277/12). In tale occasione confermò le circostanze emerse dalla documentazione sequestratagli, precisando:
- di essere stato incaricato da Giorgio Comerio di portare la documentazione relativa al progetto DODOS all’Avv. Forni di Lugano per siglare un contratto in esclusiva conla Svizzera;
- che nel caso fosse stato concluso il contratto, sarebbe stata versata la somma di 200.000 franchi svizzeri su un conto corrente intestato a Giunta Giuliana (legata sentimentalmente a Comerio);
- che i rifiuti radioattivi svizzeri avrebbero dovuto essere depositati su fondali marini del nord Europa;
- che il Comerio gli aveva confidato di avere conoscenze all’interno dell’Enea e che si era riservato l’esclusiva per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi italiani;
- che il progetto di smaltimento in mare adottato dal Comerio (penetratori) era stato elaborato anche dall’Enea in collaborazione con altri Stati esteri.
Sempre le indagini svolte dal Corpo forestale dello Stato di Brescia, riportate nell’informativa del 3 aprile 1995 (doc. 277/2), permisero di individuare un’altra figura di rilievo, tale Renato Pent, rappresentate della società Jelly Wax con sede in Opera, definito nell’informativa come un personaggio noto nell’ambiente degli smaltitori per avere organizzato nel 1986-1987 le navi dei veleni insieme allo svizzero Ambrosini. Tali affermazioni, successivamente, non sono state supportate da elementi concreti di riscontro. Come risulta dalla successiva annotazione dell’8 maggio 1995del Corpo forestale dello Stato di Brescia (doc. 277/3), da una fonte confidenziale si apprese che:
- Giorgio Comerio aveva il domicilio in Malta;
- manteneva, in ogni caso, un ufficio della Comerio Industry ltd. in via Colonna 9 a Milano;
- la sede legale della Comerio Industry ltd.. era a La Valletta (Malta);
- il porto di Reggio Calabria era il luogo di transito per l’imbarco di containers di materiale radioattivo diretto a Malta e negli stati del Medio Oriente. Si ipotizzò, pertanto, che il domicilio in Malta potesse servire al Comerio per seguire direttamente i suoi affari attinenti al traffico di rifiuti nonché per evitare controlli quali quello subìto precedentemente (in data 1993) ad opera della Guardia di finanza di Vigevano (PV) su delega della procura di Lecco (nell’ambito del procedimento penale n. 6356/93). Venne precisato, infine, nell’annotazione che Giorgio Comerio intratteneva rapporti commerciali con la Nucleco (Enea-Agip Nucelare) di Roma per la gestione e/o smaltimento di rifiuti radioattivi. Particolarmente importante è apparsa alla Commissione l’annotazione – redatta dal colonnello Rino Martini, dal brigadiere Gianni De Podesta’ e dal brigadiere Claudio Tassi – del 13 maggio 1995, trasmessa al procuratore F. Neri, nella quale vennero riportate le dichiarazioni rese da una fonte confidenziale di sesso maschile chiamata “Pinocchio”. Tali dichiarazioni riguardavano vari personaggi coinvolti nel traffico di rifiuti pericolosi nonché l’affondamento di una nave carica di rifiuti (doc. 118/7 e 277/5).
In sintesi, la fonte dichiarò agli investigatori che:
1) tale Noè, funzionario Enea a La Spezia, aveva la supervisione (non ufficiale) all’interno dell’Enea delle boe elettroniche per la segnalazione, localizzazione e guida sottomarina spaziale e navigazione in superficie. Si trattava, pertanto, di un soggetto che conosceva perfettamente i fondali antistanti la rada di La Spezia, figurando per tale motivo quale possibile uomo chiave per la criminalità organizzata. In sostanza, veniva indicato come un personaggio che aveva la possibilità di far entrare e uscire dal porto imbarcazioni di media grandezza, eludendo i controlli;
2) era a conoscenza di un caso specifico di affondamento di nave con carico di materiale radioattivo. Testualmente: “La nave affondata a Capo Spartivento, luogo della regione Calabria-provincia di Reggio Calabria, di una portata di tonnellate 4-6000 caricata con materiale nucleare (uranio additivato), altri rifiuti e carico vario, prima di giungere in Calabria, dove viene affondata volontariamente per riscuotere il premio assicurativo e nel contempo gettare a mare ogni sorta di rifiuti, ha come luogo di provenienza la Grecia, successivamente tocca altri porti in Albania e nel nord Africa e poi entra definitivamente nel mar Ionio. Qui viene affondata al largo di capo Spartivento su un fondale di circa 400 metri. Tale punto d’affondamento viene scelto per condizioni climatiche che, quasi sempre avverse, non permetterebbero un futuro recupero”;
3) altri personaggi erano legati al traffico di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi nel tratto La Spezia/Napoli/Reggio Calabria e oltremare, quali Duvia Orazio, Di Francia Giorgio, Conte Angelo, Mastropasqua Domenico, Bini Renzo, Monducci Eros e Messina Ignazio, quest’ultimo titolare dell’omonima compagnia di navigazione. Indicava, poi, tale Motta Giancarlo (amministratore della Sistemi Ambientali) descritto come una persona a conoscenza (per interesse diretto) dei vari passaggi di materiale di scarto nucleare (possibile uranio) avvenuti via mare fra il Nord Africa, i paesi meridionali balcanici e le coste Ioniche, passaggi che sarebbero avvenuti tramite una compagnia di navigazione il cui titolare era Ignazio Messina di La Spezia. Sin d’ora si deve precisare che gli spunti investigativi forniti dalla fonte confidenziale non sono stati supportati da elementi di prova. Dunque, il panorama investigativo, originariamente circoscritto a verificare se in Calabria fossero state costituite abusive discariche di rifiuti radioattivi o pericolosi (all’interno delle caverne naturali presenti in Aspromonte), si estese notevolmente, profilandosi l’ipotesi che l’occultamento illecito di rifiuti radioattivi venisse attuato anche mediante l’affondamento in mare degli stessi, attraverso organizzazioni di respiro internazionale che agivano anche sulla base di contatti con organi istituzionali e in accordo con gli stessi.
1.5 – La perquisizione presso l’abitazione di Giorgio Comerio e le indagini conseguenti. Giovandosi delle attività investigative avviate dal colonnello Martini sul traffico illecito di rifiuti radioattivi, le indagini dei magistrati di Matera e Reggio Calabria si incentrarono su Giorgio Comerio. Venne, pertanto, emesso un decreto di perquisizione della sua abitazione sita in Garlasco e dei luoghi nella disponibilità dello stesso. I documenti acquisiti all’esito della perquisizione fornirono agli investigatori dell’epoca uno spaccato decisamente inquietante in merito all’attività svolta dal Comerio, a suoi interessi nello smaltimento dei rifiuti radioattivi, alle connessioni tra il traffico di armi e il traffico di rifiuti. All’esito della perquisizione, eseguita il 12 e il 13 maggio 1995dalla sezione polizia giudiziaria CC procura circondariale di Reggio Calabria, dal reparto operativo CC Reggio Calabria, dal reparto operativo CC Matera e dal Corpo forestale dello Stato-settore di polizia regionale di Brescia, venne sequestrata una mole imponente di documentazione che permise agli inquirenti di far luce sull’esistenza di progetti finalizzati allo smaltimento in mare di rifiuti radioattivi. Secondo quanto riferito dal dottor Neri al suo procuratore, con la nota sopra citata, l’importanza della documentazione sequestrata “consentiva di incaricare le forze di polizia giudiziaria impegnate nell’indagine di avvalersi dell’ausilio del Sismi che peraltro ha fornito ben 277 documenti sul Comerio a conferma della pericolosità di detto soggetto e a riprova della bontà della ipotesi investigativa seguita” (doc. 362/3 allegato). Sempre nella medesima nota a firma del dottor Neri si legge che nell’abitazione di Comerio furono trovati: “Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (…) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l’autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi. Si accertava così che soci nell’affare erano tale Paleologo Mastrogiovanni (presunto principe dell’Impero di Bisanzio) e tale Dino Viccica, uomo ricchissimo che avrebbe dovuto finanziare l’operazione “Sierra Leone” (…) Al riguardo il Console Onorario della Sierra Leone sentito in merito ha confermato che il Comerio ha concluso l’affare con i governanti di detti Stati corrompendo un ministro. (…)” (doc. 362/3 allegato). E’ proprio in questa fase che emerge chiaramente la partecipazione del capitano De Grazia alle indagini, avendo lo stesso contribuito ad analizzare i documenti con riferimento a tutti gli aspetti di sua specifica competenza nonchè a redigere l’informativa sugli esiti della perquisizione e sulle attività investigative conseguenti. Gli elementi raccolti sulla base della documentazione sequestrata e della successiva attività di indagine, infatti, vennero riportati nell’informativa del 25 maggio 1995 n. 399/41 di prot. (a cura del capitano di fregata Natale De Grazia e del maresciallo Moschitta) trasmessa alla procura di Reggio Calabria (doc. 118/5). Vennero deferiti all’autorità giudiziaria procedente ed iscritti nel registro indagati, per i reati previsti dal decreto del presidente della Repubblica n. 185 del 1964, dal decreto del presidente della Repubblica n. 915 del 1982, oltre che per il reato di ricettazione:
- Giorgio Comerio
- la compagna Giuliana Giunta
- il socio Gabriele Molaschi
- altri personaggi, quali Gerardo Viccica (aliasDino), Pietro Pagliariccio (alias Giampiero), Jack Mazreku, Giuseppe Barattini, Mastrogiovanni Paleologo e Ezio Piero Toppino.
I principali elementi evidenziati nell’informativa in questione e posti all’attenzione dei magistrati inquirenti furono:
- all’interno dell’abitazione di Comerio, sita in Garlasco, era stata rivenuta documentazione attinente al progettoDODOS (Deep Ocean Data Operating System) che prevedeva il lancio sui fondali marini, attraverso i cosiddetti penetratori, di scorie radioattive, progetto in parte già realizzato in zone africane e del nord Europa in violazione della Convenzione di Londra;
- erano stati, poi, sequestrati un progetto relativo alla costruzione ed alla vendita di telemine, strumento bellico subacqueo, nonché documenti dai quali emergevano contatti con paesi arabi e indiani e transazioni bancarie in dollari su banche svizzere che rendevano concretamente ipotizzabile l’avvenuta vendita delle telemine;
- da alcuni disegni di navi sequestrati era evidente che il Comerio avesse intenzione di modificare una nave Ro-Ro per la costruzione delle telemine. I disegni si riferivano alla Jolly Rosso (spiaggiatasi il 14 dicembre 1990 ad Amantea) ed alla nave Acrux, poi denominata Queen Sea (all’epoca sotto sequestro presso il porto di Ravenna);
- erano stati sequestrati, inoltre, atti relativi a navi aventi scarso valore commerciale e in degrado strutturale, sulle quali erano stati abbozzati preventivi di spesa per la riparazione e per la documentazione di cambio di bandiera;
- tutta la documentazione sequestrata a Comerio portava a ritenere che lo stesso si occupasse dell’acquisto delle navi per il loro successivo utilizzo a fini illeciti;
- conseguentemente, era stato effettuato un accertamento presso i Lloyds di Londra – sede di Genova – ed erano state acquisite le copie dei sinistri marittimi intervenuti dall’anno 1987 al 1993, al fine di verificare quelli di natura eventualmente dolosa avvenuti nelle acque territoriali calabresi;
- da tale attività era emerso che ben 23 navi erano affondate nel mare antistante le coste calabresi;
- le risultanze delle indagini trasmesse dal Corpo forestale dello Stato di Brescia relative al possibile affondamento di una nave a capo Spartivento trovavano un primo riscontro nella documentazione acquisita, dalla quale risultava l’affondamento della nave da carico Rigel di bandiera Maltese, inabissatasi il 21 settembre 1987, a20 miglia Sud-Est da capo Spartivento. La citata nave proveniva da Marina di Carrara ed era diretta a Limassol e, prima della partenza, risultava avere avuto problemi giudiziari per il carico a bordo;
- i punti di affondamento delle navi Anni ed Euroriver, entrambe battenti bandiera maltese, trovavano riscontro con i punti di dispersione delle scorie pericolose previste dal progetto O.D.M. di Comerio, nella parte indicata dal punto C. Aree Nazionali Italiane, sequestrato nel corso della perquisizione;
- era stato accertato che la Capitaneria di porto di Vibo Valentia aveva richiesto ai locali Vigili del Fuoco accertamenti radiometrici sulla motonave Jolly Rosso e sulla spiaggia circostante;
- il comandante Bellantone, della Capitaneria di porto di Vibo Valentia, aveva riferito di avere richiesto lui stesso gli accertamenti in quanto a bordo della nave erano stati reperiti sia documenti con strani cenni a materiale radioattivo, sia documenti che lo stesso non aveva saputo interpretare (gli erano sembrati un “piano di battaglia navale”) e che poi riconosceva nei progetti O.D.M. sequestrati presso l’abitazione di Comerio. Il comandante, in quell’occasione, aveva fornito copia del verbale di consegna della citata documentazione al comandante della Rosso nonché copia dell’istanza con la quale il capitano Bert M. Kleywegt – in rappresentanza della società olandese Smit Tak – aveva chiesto l’autorizzazione al recupero della nave;
- il Comerio, per la realizzazione dei suoi programmi, aveva creato una serie di società quali: Oceanic Disposal Management Inc. (O.D.M.); Acquavision s.r.l.;Comerio Industry Ltd.; Georadar Ltd.; Mei ltd Ltd., tutte società strumentali alla realizzazione di telemine, di boe di rilevamento nonché al reperimento e alla modifica di navi destinate ad utilizzi illeciti. Nell’informativa citata vennero riportate le dichiarazioni rese, rispettivamente l’11 e il 12 maggio 1995, da Maria Luigia Nitti (legata sentimentalmente a Giorgio Comerio dal 1986 al 1993) e da Renato Pent: La prima dichiarò: “ho sentito parlare il Comerio di un altro suo progetto ossia quello di creare dei depositi marini di rifiuti radioattivi e ricordo che voleva coinvolgermi in questo suo affare e per ovvi motivi io non accettai avendo avuto perdite in altre società. Preciso che il Comerio ha diverse società sparse in varie citta’ del mondo e ricordo in particolare la Mei ltd (Marine Electronic Industryes) che operava nella costruzione di boe di rilevamento marino o boe di segnalazione. Detta società dovrebbe avere sede in Inghilterra. (…) io sapevo che il suo progetto O.D.M. era ufficiale tant’e’ che aveva accordi con diversi governi anche dell’est tra cui sicuramente quello russo. Preciso che non erano accordi conclusi ma di trattative avviate. La mia collaborazione secondo la richiesta fattami dal Comerio doveva consistere nella elaborazione al computer di dati relativi al trasferimento dei materiali nella struttura da immergere in mare. Difatti le operazioni prevedevano l’inabissamento di materiali radioattivi di varia provenienza mediante l’impiego di un natante. Preciso che nel 1993 il Comerio mi chiari’ che il progetto Euratom prevedeva l’affondamento in mare di contenitori con scorie radioattive e che la O.D.M. era una sua società. Ricordo di avere sentito il nome di tale Convalexius Manfred anche se non l’ho mai conosciuto. (…) Le uniche volte che sentii parlare il Comerio di materiale nucleare o radioattivo, riguardava il progetto O.D.M.. Ne parlava in termini tali da far intendere che l’operazione doveva essere fatta in maniera legale, tant’è che nell’affare era coinvolto anche l’avv. Gaspari-Vaccari. Tale progetto di deposito del materiale radioattivo nelle profondità marine faceva seguito ad attività di ricerca fatte presso il centro Euratom di Ispra, attività nella quale aveva preso parte anche Comerio richiesto dal centro di fornire un apporto esterno con la costruzione della BOA di rilevamento”. La Nitti riferì, inoltre, che Comerio le aveva confidato di far parte dei servizi segreti (“il Comerio mi esterno’ di appartenere ai servizi segreti tant’e’ che era ossessionato dall’idea di avere i telefoni sotto controllo al punto che effettuava le sue telefonate da cabine telefoniche. A seguito di attentati terroristici avvenuti in quel periodo il Comerio si assento’ dicendo che era stato convocato per collaborare nelle indagini….preciso che si trattava di attentati dinamitardi primavera del 1993. Mi pare si trattasse del’attentato all’accademia dei Georgofili di Firenze.”). Renato Pent, confermando quanto dichiarato dalla Nitti, affermò (doc. 277/17):
- di avere conosciuto Giorgio Comerio il quale nel 1989/1990 gli aveva proposto di entrare in affari con lui nell’ambito di un progetto finalizzato allo smaltimento in mare di sostanze radioattive (si tratta del noto progetto elaborato presso il centro Euratom di Ispra). La collaborazione richiestagli da Comerio riguardava la messa a disposizione da parte sua di automezzi idonei per la fase relativa al prelievo del materiale presso il produttore e al successivo trasporto su imbarcazioni del tipo RO-RO, che avrebbero poi operato nella fase di affondamento del siluro (l’impiego di imbarcazioni del tipo RO-RO si spiegava con l’esigenza di permettere agli automezzi di entrare direttamente nella stiva evitando la fase di trasbordo e la pubblicità che ne sarebbe derivata col rendere l’operazione visibile agli estranei);
- di avere visto il filmato relativo alla sperimentazione della fase di lancio in mare;
- di avere appreso da Comerio che il progetto non era ancora operativo, ma che avrebbe potuto partire non appena avesse ricevuto l’acconto da parte di un committente;
- Comerio non gli aveva mai parlato del mare Mediterraneo, ma del mare prospiciente uno dei paesi dell’Unione sovietica, sul quale avrebbe iniziato ad operare non appena avesse avuto tutte le autorizzazioni governative;
- che l’operazione che il Comerio diceva di essere pronto ad effettuare era relativa al Mar Baltico e sarebbe stata portata avanti in società con Convalexius;
- di essersi recato a Vienna unitamente a Comerio e di aver incontrato, per il tramite di Convalexius, alcuni ministri austriaci, ai quali venne esposto il progetto di Comerio. Comerio aveva preso contatti anche con il governo svizzero. Entrambi i paesi, pur essendo interessati all’operazione subordinarono la loro adesione alla preliminare adesione di altri paesi;
- che, verso la fine del 1994, Comerio gli aveva riferito che un primo ordine era stato effettuato, ma non gli disse da parte di quale paese;
- di non conoscere le navi che Comerio aveva acquistato per effettuare lo smaltimento dei rifiuti radioattivi;
- che Comerio aveva dei referenti molto importanti presso il centro Enea, e ciò lo desumeva dalla gran massa di materiale progettuale non solo cartaceo, ma anche magnetico proveniente dall’Enea o comunque da strutture con le quali aveva collaborato l’Enea. Secondo quanto riferito dal dottor Neri al procuratore capo Scuderi, con la nota più volte citata (doc. 362/3 allegato), Comerio, subito dopo la perquisizione, trasmise alla procura una lettera con la quale, dichiarandosi disponibile per ogni chiarimento, riferiva che:
a) non erano stati acquisiti elementi utili alle indagini;
b) i progetti e i documenti sequestrati erano proposte di carattere commerciale;
c) non era stato concluso alcun contratto;
d) si era sempre impegnato per conto della giustizia nel settore ambientale;
e) quale consulente navale nell’ambito della difesa aveva sempre lavorato per società estere e solo “per la promozione di attività fra governo e governo”.
Qualche tempo dopo, precisamente in data 12 luglio 1995, Giorgio Comerio si presentò spontaneamente in procura. In quella occasione ebbe a dichiarare:
- quanto al progetto O.D.M., che si trattava di un progetto legale che aveva propagandato presso vari governi per lo smaltimento di rifiuti radioattivi;
- quanto alla Jolly Rosso, che le carte rinvenute presso la sua abitazione e relative alla nave si giustificavano con pregresse trattative finalizzate all’acquisto che lui aveva cercato di concludere per conto del governo iraniano;
- di avere conosciuto Convalexius perché gli era stato presentato da Renato Pent;
- di avere conosciuto Marino Ganzerla che aveva acquistato, attraverso la società Soleana, quote della società O.D.M., e di non avere avuto con lui proficui rapporti di lavoro, in quanto Ganzerla riteneva che i penetratori dovessero essere realizzati in cemento. Alla perquisizione dell’abitazione di Giorgio Comerio seguì quella a casa di Molaschi Gabriele, conclusasi positivamente con il sequestro di copiosa documentazione che venne attentamente esaminata dalla polizia giudiziaria procedente. L’esame portò a ritenere che il Molaschi, così come il Comerio, fosse coinvolto in un complesso traffico internazionale di armi nonché in attività di smaltimento dei rifiuti radioattivi. Ritennero gli investigatori che Molaschi avesse contatti con personaggi di alto livello politico all’estero e riuscisse a a muovere ingenti flussi di danaro per il continuo rifinanziamento delle sue attività illecite. Così si legge nell’informativa del 9 giugno 1995, a firma del maresciallo Moschitta e del carabiniere Francaviglia (doc. 681/15). Si riportano di seguito alcuni stralci tratti dalla predetta informativa, utili a comprendere in quante e, soprattutto, in quali delicate direzioni stesse volgendo l’indagine nata dalla denuncia di Legambiente: “con riferimento al progetto O.D.M., vale a dire il programma di smaltimento dei rifiuti radioattivi, emerge dalla documentazione del Molaschi che uno dei siti e’ stato localizzato in una zona africana per come risulta da un fax che Giorgio Comerio trasmette a Giannantonio Gaspari-Vaccari e allo stessoMolaschi, in data 30.12.1994, dal seguente tenore (testuale): “AUGURI DI BUON 1995 – SITO LOCALIZZATO – FIRMA ACCORDI DAL 5 AL 10 GENNAIO A S. BIAGIO (Comune di Garlasco, n.d.r.) RATIFICA FRA IL 15 ED IL 20 GENNAIO IN AFRICA (DATE PREVISTE E CONFERMABILI ENTRO IL5.01.1995) CONTRATTI CON CLIENTI NEGOZIABILI DA 1 FEBBRAIO SALUTI ” segue firma. La stessa documentazione consente di appurare che la O.D.M. e’ in fase di trattative, collocabili agli inizi del 1994, con l’Ucraina, e precisamente con 4 suoi ministri, in quanto quest’ultimo paese e’ alla ricerca disperata di smaltire un ingente quantitativo di rifiuti radioattivi. Nel contesto O.D.M. non vanno dimenticate le vicende delle navi utilizzate come veicoli per l’inabissamento dei rifiuti radioattivi in mare e anche il Molaschi sembra essere coinvolto (…) presso la sua abitazione questo Comando ha rinvenuto fotocopia della documentazione della motonave “Jolly Rosso” (…) La “Jolly Rosso” è così importante anche per MOLASCHI che di essa se ne trova traccia anche nella sua agenda del 1992 e precisamente nel giorno indicante il 31 marzo. Il nominativo di detta nave era accomunato a quello della “ZANUBIA” e “CAREN B” ed a fianco ad ognuno di essi, rispettivamente, vi era indicata una società’: per la”Jolly Rosso”, Acqua; per la “Zanubia”, Castalia e per la “Caren B”, Eco-Servizi. (…) Ma, per ritornare al Molaschi, le sue “carte” aprono, o confermano, altri scenari interessanti quali, per esempio, i depositi abusivi in Italia di rifiuti radioattivi, di cui vi sono in corso altre indagini della procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Matera, collegate con le presenti. Il documento, che in sostanza è un appunto manoscritto datato24.04.1994, fa riferimento alla società’ Nucleco, costituita dall’Agip e dall’Enea per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, che avrebbe del materiale accumulato in magazzino. Evidentemente si riferisce al fatto che detta società ha problemi di smaltimento di rifiuti radioattivi e ciò interessa l’organizzazione del Comerio.
Tale assunto trova conferma in uno scambio epistolare tra la Nucleco e la O.D.M., una delle quali datata 20.12.1993, con la quale la Nucleco, in risposta ad un fax del 23.08.1993 della O.D.M., trasmette i propri depliants illustrativi sul tipo di attività che svolge. Appare evidente che alla O.D.M. serviva (alla data odierna non si è a conoscenza dell’esito dei contatti) la struttura tecnica della Nucleco per coinvolgerla nello smaltimento a mare dei rifiuti radioattivi (…)”.
Deve tenersi presente che già nel 1985 l’Enea aveva pubblicato un opuscolo nel quale (alle pagine 8 e 9) si rappresentava la possibilità di smaltimento di rifiuti radioattivi nei siti marini. Con nota del 4 novembre 1995 il comandante del nucleo oeprativo dei CC, A. Greco, trasmise tale opuscolo ai magistrati titolari delle indagini (dottor Neri e dottor Pace) evidenziando che il metodo di inabissamento dei rifiuti illustrato era identico a quello previsto dal noto progetto O.D.M. di Comerio (doc. 681/31). Nel corso delle indagini venne sentito un altro socio di Giorgio Comerio, Marino Ganzerla; anche Ganzerla si presentò spontaneamente, in data 14 luglio 1995, a seguito della perquisizione che aveva subito il giorno precedente (doc. 277/13). Ganzerla dichiarò in quella occasione:
- di avere acquistato, quale procuratore della società Soleana autorità giudiziaria di Vaduz, per la somma di lire 20 milioni, il 3% di azioni della O.D.M. (società di Comerio), nonché’ il 50% della società NTM (società di trasporto di rifiuti radioattivi) con sede in Ticino (Svizzera) al prezzo di 29.000 dollari consegnati a Comerio in Lugano;
- che Comerio gli aveva parlato del suo progetto di effettuare lo smaltimento dei rifiuti radioattivi in mare attraverso i penetratori, ma lui si era subito reso conto dell’inattuabilità del progetto sia perché non sarebbero riusciti a trovare siti idonei, sia perché i penetratori in acciaio-cemento non sarebbero stati mai omologati perché non erano idonei a resistere per migliaia di anni in fondo al mare;
- che Comerio non gli aveva mai comunicato punti di affondamento dei penetratori nel Mediterraneo;
- che con la società O.D.M. non erano mai stati effettuati smaltimenti di rifiuti radioattivi con i penetratori;
- “per quanto riguarda l’affondamento delle navi devo dire che circa 10 anni fa venni a conoscenza di progetti di affondamenti di navi cariche di rifiuti chimici, il cosiddetto sistema delle navi “a perdere,” truffando così anche le assicurazioni. Se ricordo bene il porto più sospetto era quello di La Spezia. E ricordo che anche che si diceva che le coste dello Ionio erano preferite non solo perché gestite dalla ‘ndrangheta ma anche perché i marinai una volta arrivati a terra con le scialuppe affidavano detti mezzi di salvataggio a soggetti del luogo e provvedevano ad affondarle o comunque ad occultarle in maniera definitiva per far sparire ogni traccia dell’affondamento ed evitare così l’indagine giudiziaria. Mi risulta anche che dette navi facevano capo ad armatori del Pireo. Nessuna rilevanza hanno le bandiere perché possono essere cambiate con facilità. Aggiungo che i marinai potevano essere recuperati anche da altre navi amiche che transitavano appositamente vicino al punto di affondamento e trasportavano gli stessi in paesi esteri anche perché trattavasi di marinai stranieri, anche se a volte il comandante o il direttore di macchine erano italiani o comunque gente fidata degli spedizionieri. Ciò mi fu riferito se ben ricordo da un greco nel corso di una cena avvenuta circa 10 anni fa a Genova. Era preferito lo Ionio perché molto profondo. Mi risulta che il Comerio trattava compravendita di navi”. E’ evidente che le testimonianze acquisite in quella fase e i documenti sequestrati dagli investigatori fossero estremamente preziosi al fine di ricostruire, al di là di quanto riferito dalle fonti confidenziali, la figura e l’attività di Giorgio Comerio nonché di verificare l’esistenza e – soprattutto – la concreta attuazione dei progetti di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi. La Commissione, nell’ambito degli approfondimenti svolti nel corso della missione effettuata a Bologna nel febbraio 2010, ha audito Renato Pent e Marino Ganzerla. Il Pent ha, innanzi tutto, dichiarato di essere amministratore della Jelly Wax, che produce paraffine, con sede in Opera, società attiva già nel 1987. Parte dei rifiuti prodotti nell’ambito dell’attività venivano smaltiti attraverso l’esportazione degli stessi a mezzo di navi. In particolare, ha riferito in merito all’esportazione di rifiuti avvenuta a mezzo della nave Links (citata dall’ex collaboratore Francesco Fonti in un memoriale pubblicato sul settimanale l’Espresso nel mese di giugno 2005), nonchè della trattativa con il Governo venezuelano per la realizzazione di una discarica di rifiuti industriali in Venezuela (per il dettaglio si rimanda al resoconto stenografico relativo all’audizione del 17 febbraio 2010). Riguardo al tema dell’affondamento di navi e di rifiuti, il Pent ha dichiarato: “Conosco Comerio, ma non mi risulta che abbia partecipato. Delle navi affondate ho appreso dai giornali (…). Mi chiedo perché sia necessario affondare una nave con i rifiuti. (…)”. Il Pent ha proseguito parlando dei rapporti intrattenuti con l’armatore della motonave Zanoobia. Alla domanda circa il luogo ove fossero stati depositati i rifiuti della Zanoobia, il Pent ha risposto che: “I rifiuti sono stati sbarcati a Genova, dove la nave era stata portata da Marina di Carrara, e smaltiti dalla Castalia (…) Come sono stati smaltiti non mi è dato di sapere.(…)”. Con riferimento alle vicende che hanno interessato le motonavi Links e Zanoobia, il Pent ha fatto riferimento al procedimento penale avviato dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Massa Carrara, conclusosi in primo grado con sentenza di condanna, acquisita in copia dalla Commissione. I fatti oggetto del processo attengono all’estorsione denunciata da Renato Pent ed imputata, tra gli altri, all’armatore della motonave Zanoobia. A prescindere dalla specifica fattispecie estorsiva, peraltro riconosciuta esistente, la sentenza è importante perché ricostruisce le vicende originate dall’invio in Venezuela di 2.000 tonnellate di rifiuti industriali caricati sulla motonave Links (doc. 289/2). Se ne riportano i passaggi fondamentali: “La Jelly Wax s.p.a. di cui Pent Renato era il legale rappresentante, aveva stipulato in data 21/1/87 con la società Ambrosini e con la Intercontract un contratto di smaltimento di 2.000 tonnellate di residui industriali. I rifiuti erano stati caricati sulla nave Lynx nel porto di Marina di Carrara e dovevano essere trasportati a Gibuti ma, a causa di un inadempimento contrattuale da parte della Ambrosini, non vi erano mai arrivati.La Jelly Wax, preso atto dell’inadempimento (per il quale aveva sporto querela per truffa), aveva stipulato in data 18/3/87 un nuovo contratto di smaltimento con la società Mercanti Lemport in esecuzione del quale i rifiuti erano stati sbarcati in Venezuela. Tuttavia, dopo circa sei mesi, a seguito di una campagna di stampa contraria allo smaltimento di quei rifiuti in Venezuela, la Jelly Wax era stata di fatto costretta a riprendersi i rifiuti ed a provvedere in altro modo al loro smaltimento. Il carico di rifiuti era stato allora imbarcato sulla nave Makiri, che aveva fatto rotta verso il Mediterraneo. (…) la nave si era diretta a Tartous (Siria). In quella località, aveva tentato di sbarcare e smaltire il carico di rifiuti, ma non essendo riuscita l’operazione, i rifiuti erano stati imbarcati sulla nave Zanoobia, al comando dell’imputato Tabalo Ahmed. La Zanoobia si era quindi diretta in un primo momento a Salonicco, dove però non era riuscita a scaricare il carico di rifiuti, e successivamente aveva fatto rotta verso l’Italia, concludendo il suo viaggio a Marina di Carrara. (…) è emerso che, a seguito delle pressioni del governo venezuelano, (…) la Jelly Wax (…) aveva stipulato con la ditta Samin un (secondo) contratto di presa in consegna ed assunzione di proprietà dei rifiuti. L’accordo era stato concluso in data 10/11/87 tra la Jelly Wax e Tabalo Mohfimed (…) proprietario della Makiri e della Zanoobia. (…) Successivamente, dopo circa due mesi, l’imputato Tabalo Mohamed ed il suo legale avv. Rizzuto avevano comunicato alla Jelly Wax che, per ordine del governo siriano, la merce era stata caricata sulla nave Zanoobia e doveva essere trasportata fuori dal territorio siriano perché era stato accertato che il carico era radioattivo. Pertanto, il Tabalo ed il Rizzuto avevano chiesto al Pent (…) il pagamento di una somma di 2-300mila dollari per lo smaltimento dei rifiuti, facendo presente che, in caso di mancata accettazione della proposta, avrebbero rimesso forzatamente a disposizione della Jelly il carico di rifiuti riportandolo a Marina di Carrara, con le prevedibili ricadute a danno dell’immagine della Jelly Wax (…). Quest’ultima non aveva accettato e perciò la Zanoobia, guidata dal comandante Tabalo Ahmed (fratello di Tabalo Mohamcd), aveva riportato il carico di rifiuti a Marina di Carrara”. Sono stati riportati i passaggi della sentenza, depositata il 20 giugno 2003, in quanto le indagini effettuate dalla procura circondariale di Reggio Calabria avevano riguardato anche le vicende della nave Zanoobia e, più in generale, l’attività svolta dalla Jelly Wax nonché i rapporti intercorrenti tra Renato Pent e Giorgio Comerio. La Commissione, sempre in data 17 febbraio 2010, ha audito Marino Ganzerla, il quale ha di fatto negato quanto affermato innanzi al pubblico ministero Neri con riferimento al fenomeno delle navi a perdere. In riferimento a Comerio, Ganzerla ha ammesso di avere acquisito una partecipazione nella società O.D.M.. Ha, tuttavia, negato di aver acquistato, per conto della Soleana (società che a suo dire non avrebbe mai operato), il 50 per cento della NTM, società di trasporto dei rifiuti radioattivi con sede in Svizzera, nel Ticino, versando al Comerio 29.000 dollari USA. (Tale ultima circostanza, peraltro, era stata dallo stesso Ganzerla riferita al dottor Neri, come risulta dal verbale di spontanee dichiarazioni del 14 luglio 1995, acquisito in copia dalla Commissione – cfr. doc. 277/13). Con specifico riferimento alla possibilità di smaltire rifiuti radioattivi tramite penetratori, il Ganzerla ha precisato di avere sempre nutrito dubbi sulla legittimità dell’operazione e di essersi rivolto ad un esperto di diritto internazionale per capire se i rifiuti radioattivi potessero essere scaricati sotto il fondo marino. L’esperto gli comunicò che, in base alla normativa del tempo si sarebbe potuto fare, ma che la normativa stessa, di lì a poco sarebbe cambiata, rendendo illegittime le operazioni in parola. Conseguentemente, a cavallo tra il 1995 e il 1996, Ganzerla contattò Comerio per comunicargli di non voler più proseguire l’affare. Ha aggiunto alla Commissione: “Da quanto so, la società non ha mai operato. Non so se sia andato avanti per conto suo. Non ha mai fatto niente. Io ho rinunciato a tutto, non gli ho fatto causa per truffa, mi sono tenuto la perdita e non l’ho più visto”. Con riferimento all’affondamento di navi finalizzato allo smaltimento di rifiuti, Ganzerla ha dichiarato di averne sentito parlare solo perché qualcuno (il cui nome non è stato rivelato) venne a proporgli un affare su questo tipo di attività.
La Commissione ha tuttavia contestato al Ganzerla di aver reso al dottor Neri dichiarazioni parzialmente diverse. Allorquando poi la Commissione ha chiesto al Ganzerla il nominativo del personaggio greco dal quale avrebbe avuto notizia dell’affondamento doloso di navi cariche di rifiuti tossici nel mediterraneo, il Ganzerla non ha saputo o voluto fornire elementi utili alla sua identificazione. In generale, può affermarsi che, nel corso dell’audizione, il Ganzerla si è limitato a rendere informazioni alquanto generiche e comunque già in possesso della Commissione, ripetendo, in risposta alle insistenti domande dei commissari, di non ricordare. Dunque le indagini svolte all’epoca dalla procura di Reggio Calabria, proprio sulla base degli elementi acquisiti nel corso della perquisizione a carico di Giorgio Comerio, si incentrarono su tale figura e sui personaggi che gravitavano intorno a lui.
1.6 – Gli affondamenti sospetti di navi nel Mediterraneo. Gli approfondimenti investigativi svolti dal capitano Natale De Grazia. L’interesse investigativo si concentrò via via sempre più sugli affondamenti sospetti di navi avvenuti nel mare Mediterraneo, avendo preso concretamente piede l’ipotesi che navi cariche di rifiuti radioattivi, o comunque pericolosi, venissero inabissate dolosamente in modo tale da potere ricavare il duplice vantaggio rappresentato, da un lato, dall’indebito risarcimento ottenuto dalla compagnia assicurativa, dall’altro, dal guadagno derivante dall’attività di illecito smaltimento. Come si è già sottolineato, all’interno del gruppo investigativo creato dal sostituto procuratore dottor Neri, un ruolo fondamentale ebbe il capitano di fregata Natale De Grazia, il quale, a detta di tutti quelli che lavorarono con lui, profuse in questa indagine un impegno straordinario. Il 30 maggio 1995 il capitano trasmise al magistrato un appunto, riassuntivo degli elementi fino a quel momento acquisiti. Se ne riporta il testo (doc. 681/32):
“Appunto per il dottor F. Neri del 30 maggio 1995: A riepilogo dell’attività investigativa svolta, relativamente allo smaltimento di rifiuti tossico nocivi e/o radioattivi in mare, si riferisce che da informazioni confidenziali acquisite dal coordinamento regionale di Brescia del Corpo forestale dello Stato, si è avuta notizia che era stata affondata al largo di capo Spartivento una nave carica di materiale nucleare (uranio additivato). Successivamente durante la perquisizione effettuata presso il signor Giorgio Comerio si è acquisita documentazione relativa al progetto O.D.M che prevedeva l’affondamento di rifiuti radioattivi nel sottofondo marino con penetratori lanciati da navi. Nella documentazione sequestrata, inoltre, vi erano dei progetti relativi a siluri a lenta corsa denominati “telemine”. Tra gli altri documenti rinvenuti in casa del Comerio vi erano anche degli appunti/ progetti preventivi relativi a navi che dovevano essere attrezzate per la realizzazione e il trasporto delle citate telemine, nonché per l’affondamento dei penetratori del progetto O.D.M.; inoltre vi erano alcuni appunti con documentazione tecnica fotografica relativi a navi generalmente vecchie ed in disuso. Tra questi vi erano gli appunti per l’acquisto del mototraghetto Guglielmo Mazzola, della motonave SAIS, del f/b Transcontainer I , della motonave Acrux e della motonave Jolly Rosso. Gli appunti in questione contenevano anche dei progetti di modifica di una nave RO-RO per la costruzione degli ordigni, riferiti in particolare alle navi Jolly Rosso e Acrux ora denominata Queen Sea I. Gli atti sequestrati ed informazioni di polizia giudiziaria hanno fatto nascere il sospetto che il Comerio avesse individuato le navi in questione per l’acquisto ed il successivo utilizzo per attività illecite quali la costruzione e posa delle telemine nonché il traffico e l’affondamento con a bordo rifiuti radioattivi. Onde effettuare riscontro dei sospetti e delle informazioni confidenziali si è acquisita copia dei registri Lloyd’s relativi agli incidenti accorsi alle navi in genere, nelle varie parti del mondo. La documentazione è stata acquisita presso l’ufficio Lloyd’s Register di Genova. Da un esame di detti registri si ha avuto riscontro in prima analisi dell’affondamento di una nave a venti miglia a Sud-Est da capo Spartivento il 21 settembre1997. Il sinistro non risulta dai registri delle Autorità Marittime e le caratteristiche della nave e la tipologia dell’evento davano una prima conferma delle informazioni confidenziali. La nave affondata, denominata “Rigel”, di bandiera Maltese è andata perduta durante il viaggio da Marina di Carrara a Limassol e l’equipaggio fu tratto in salvo da una nave Jugoslava denominata “Kral” che sbarcò i naufraghi in un porto della Tunisia. Da ulteriori informazioni si accertava che la procura della Repubblica di La Spezia aveva in corso un procedimento a carico di numerosi imputati per l’affondamento doloso della nave, per truffa all’assicurazione. Per gli imputati di quel processo è stato richiesto dal tribunale di La Spezia il rinvio a giudizio con ordinanza in data 20 novembre 1992. Dagli atti dell’ordinanza stessa emerge che non si ha conoscenza dei carico effettivo della motonave “Rigel” tanto che viene richiesto il rinvio a giudizio della funzionaria doganale di Marina di Carrara per aver ricevuto una somma di danaro affinché omettesse di controllare il carico destinato alla nave. La situazione poco chiara circa la tipologia del carico è inoltre confermata da una richiesta di compenso all’assicurazione esosa rispetto al valore della merce dichiarata dai caricatori. La tesi accusatoria e gli accertamenti successivi dell’autorità giudiziaria. di La Speziafanno perno su una telefonata tra il signor Gino ed il signor Vito Fuiano, ambedue imputati, nel corso della quale veniva annunciata la mattina del 21 settembre 1987 la nascita di un bambino, poi chiarito come allusione all’affondamento della nave. Nelle agende del Giorgio Comerio sequestrate presso i propri uffici il giorno 21 settembre 1987 si rileva un’annotazione in lingua inglese relativa alla “perdita della nave” come indicato nell’informativa del 25 maggio 1995; si è proceduto ad estrarre dai registri Lloyd’s'citati in precedenza numero 23 navi che nei vari anni sono affondate nel Mediterraneo e delle quali per la maggior parte non si ha certezza degli eventi. Di questi potrebbero ritenersi dubbiosi, oltre alla Rigel i seguenti affondamenti:
-M/N “ASO” affondata il 16.05.1979 al largo di Locri carica con 900 Tonn. di solfato ammonico e da considerarsi un affondamento a rischio per il tipo di carico e per le circostanze poco chiare emerse nell’inchiesta sommaria;
- M/N “MIKIGAN” affondata il 31 ottobre 1986 nel Tirreno in posizione 38:35′ N / 15° 42′ E con un carico di granulato di marmo era partita dal porto di Marina di Massa lo stesso porto di origine della “Rigel” dove i controlli sul carico potrebbero essere stati non effettuati;
- M/NA ‘FOUR STAR I” di bandiera Sry Lanka con carico generale affondata il 9 dicembre1988 in, un punto non noto dello Jonio Meridionale durante il viaggio da Barcellona ad Antolya (Turchia). Da una ricostruzione stimata del punto di affondamento la nave in questione potrebbe essere affondata al ‘largo di capo Spartivento, nei pressi del punto di affondamento della”Rigel”.La nave potrebbe essere ritenuta sospetta in quanto non risultano chiamate di soccorso alle Autorità Marittime né denunce di Sinistro nonostante questo sia avvenuto nella ZEE italiana. La tecnica quindi potrebbe collegarsi a quella della nave ‘”Rigel”, più volte citata, che non emesse nessuna richiesta sulle frequenze di soccorso;
- M/N Anni di bandiera Maltese affondata il 01 agosto1989 in alto Adriatico;
- M/N Euroriver di bandiera Maltese affondata anch’essa in Adriatico il 12 novembre 1991. Queste due navi. di bandiera Maltese sono affondale in due punti dell’Adriatico che nel progetto O.D.M. reperito tra i documenti di Comerio sono indicati quali punti previsti nel programma di dispersione delle scorie nelle aree nazionali italiane e degli affondamenti si ha notizia dai registri Lloyd’s;
- M/N “ROSSO” di bandiera Italiana arenatasi a capo Suvero di Vibo Valentia il 14 dicembre 1990 durante il viaggio da Malta a La Spezia. In merito al sinistro occorso a questa motonave si è riferito ‘nell’informativa del 25 maggio 1995 dove appunto si faceva rilevare la richiesta di misurazione della radioattività fatta eseguire dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia Marina per il ritrovamento di documenti che come riferito dal Comandate di quell’Ufficio Marittimo sarebbero i progetti O.D.M.. Inoltre dell’unità in questione furono trovati presso il Comerio i progetti di trasformazione per la costruzione delle ‘telemine”. Circa le navi affondate elencate nell’informativa inizialmente citata sospetti sul carico sono basati sulla bandiera delle navi, quasi sempre di comodo e dal fatto che non si é a conoscenza degli sviluppi del sinistro. Si fa riserva di comunicare tutte le ulteriori informazioni necessarie qualora scaturissero ulteriori elementi dalle indagini in corso. Reggio Calabria, li 30 maggio 1995 capitano De Grazia”. Gli elementi riassunti nell’appunto del capitano De Grazia spinsero gli investigatori a concentrarsi sull’ipotesi investigativa relativa all’affondamento doloso di navi partendo dall’individuazione di tutti gli affondamenti che parevano “sospetti” o per le circostanze dell’affondamento o per la natura del carico. Il gruppo di lavoro si dedicò, innanzitutto, all’affondamento della motonave Rigel, avvenuto il 21 settembre 1987 di fronte a capo Spartivento, nonchè allo spiaggiamento della motonave Rosso, avvenuto di fronte alle coste di Amantea il 14 dicembre 1990. Altri accertamenti furono delegati in ordine ad altri sospetti affondamenti, come si evince dalla delega, del 17 luglio 1995, emessa dal sostituto procuratore F. Neri ed indirizzata al capitano De Grazia ed al maresciallo Moschitta, i quali avrebbero dovuto accertare:
“a) i motivi del trasporto del materiale radioattivo da parte della nave Acrux e quindi acquisire in copia tutta la documentazione utile alle indagini;
b) richiedere alla Capitaneria di porto di Genova quali siano le navi che normalmente caricano o scaricano materiale tossico nocivo o radioattivo dalle banchine del Ponte Libia di Genova;
c) accertare in La Spezia presso gli uffici competenti quali merci pericolosi siano transitate (tossico nocive o radiattive) dalle banchine della Cont Ship italia;
d) vorranno contattare le forze di polizia giudiziaria di La Spezia che possano fornire elementi utili di indagine sul procedimento in corso. dato in Brescia 13.07.95”. Gli approfondimenti relativi alla Rigel e alla Rosso verranno di seguito trattati in paragrafi separati in quanto, in riferimento a ciascuna delle due vicende, gli investigatori svolsero attività consistite nel ricostruire – partendo dagli atti di indagine già svolti dalla procura di La Spezia e dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia – tutte le circostanze relative all’affondamento, al carico delle navi, alla formazione dell’equipaggio. Le due vicende, apparentemente separate, avevano in realtà dei punti di connessione che furono individuati proprio nel corso delle indagini.
1.7 – L’affondamento della motonave Rigel: l’indagine della procura della Repubblica presso il tribunale di La Spezia e le successive attività investigative della procura di Reggio Calabria. La motonave Rigel, di proprietà della Mayfair Shipping Company Limited di Malta, affondò, secondo la versione ufficiale, a 20 miglia al largo di capo Spartivento – promontorio situato nel Comune di Brancaleone (RC) – in acque internazionali, il 21 settembre 1987, dopo essere partita dal porto di Marina di Carrara il 2 settembre 1987, diretta a Limassol, Cipro. Secondo le indagini svolte dalla procura della Repubblica di La Spezia nell’ambito del procedimento penale n. 814/1986RGNR, la Rigel fu affondata dolosamente. I responsabili, rinviati a giudizio il 20 novembre 1992 per aver cagionato il naufragio della nave al fine di truffare la società di assicurazioni, furono condannati con sentenza confermata nei successivi gradi di giudizio. Appare opportuno ripercorre i passaggi fondamentali della sentenza-ordinanza del 20 novembre 1992 in quanto furono poi ripresi dal procuratore Neri e dal capitano De Grazia al fine di approfondire il tema concernente il carico della nave e l’eventuale utilizzo della stessa per lo smaltimento illecito di rifiuti radioattivi, aspetto questo non affrontato nell’inchiesta di La Spezia. Secondo quanto si legge nel provvedimento giudiziario citato, l’accordo per l’affondamento della nave intervenne tra Luigi Divano (titolare della Trade Centre s.r.l.), Vito Bellacosa (di professione agente marittimo, titolare dell’agenzia marittima “Spediamar” corrente in la Spezia), Fuiano Gennaro (di professione funzionario doganale), Cappa Giuseppe e Figliè Carlo, quest’ultimo titolare di un’agenzia marittima in Marina di Carrara (quali organizzatori in Italia e ricercatori delle persone da indurre ad effettuare un fittizio trasporto di merce destinata all’affondamento), Khoury e Papanicolau (il primo quale fittizio acquirente della merce caricata sulla Rigel, e il secondo quale fornitore del mezzo da far naufragare), il capitano Vassiliadis come esecutore materiale nonché capitano della Rigel. Nel corso dell’indagine erano state intercettate le utenze in uso a Gennaro Fuiano, funzionario di dogana già sospeso, e a Luigi Divano, intermediatore di affari di Rapallo. Particolarmente interessante per gli investigatori calabresi si rivelò la conversazione telefonica del 24 marzo 1987 tra Gennaro Fujano e Vito Bellacosa (il quale si trovava a Limassol, Cipro, presso la sede della società di Khoury) nella quale si parlava di un carico da spedire “colà”, con un “carico buono e meno buono” (definito testualmente “merda” da Bellacosa). Poiché in quel periodo i soggetti erano impegnati nell’organizzazione della truffa assicurativa, il riferimento al carico della nave apparve di sicuro interesse investigativo, tenuto conto del fatto che il carico “buono” non poteva essere inteso come la parte del carico da far arrivare a destinazione (atteso che tutta la nave era destinata ad affondare). Dunque, gli investigatori interpretarono le espressioni utilizzate come riferite ai rifiuti, in parte definiti buoni (cioè non pericolosi) e in parte non buoni (quindi tossici). L’altra conversazione di interesse fu quella del 21 settembre 1987, sempre tra Gennaro Fujano e Vito Bellacosa, nella quale venne pronunciata l’espressione: “il bambino è nato”, con ciò indicandosi, secondo l’ipotesi investigativa, con una metafora, il buon esito della operazione di affondamento, che infatti avvenne proprio in quella data. Gli atti del processo di La Spezia offrirono agli investigatori coordinati dal dottor Neri elementi di conferma di estrema importanza alle ipotesi investigative formulate, spingendoli ad approfondire sempre di più l’aspetto che invece non era stato oggetto delle indagini dell’autorità giudiziaria di La Spezia, ossia quello della natura del carico della nave.
Nel processo di La Spezia, infatti, venne definitivamente accertata la natura dolosa dell’affondamento della Rigel e la truffa ai danni dell’assicurazione. Gli imputati vennero giudicati in relazione ai reati di associazione a delinquere, truffa ai danni della società assicurativa, corruzione ed altri reati connessi e finalizzati a conseguire il premio assicurativo, ma nulla venne accertato in merito all’effettivo carico della nave. In sostanza, nel processo di La Spezia non venne neppure ipotizzato che la nave Rigel fosse stata caricata con rifiuti tossici e pericolosi: ed, infatti, nessun elemento era emerso in questo senso né dalle testimonianze né dai documenti, appositamente falsificati per far risultare un carico diverso da quello effettivo. Gli atti del procedimento furono, pertanto, riesaminati dal capitano De Grazia, al fine verificare quale fosse il carico della motonave affondata, sospettandosi che unitamente alla stessa fossero stati inabissati rifiuti radioattivi. Indicazioni precise in questo senso erano state fornite dalla fonte confidenziale denominata “Pinocchio” (di cui all’informativa citata del 13 maggio 1995 del Corpo forestale dello Stato, doc. 118/7), che aveva fatto riferimento ad una nave affondata in Calabria, a largo di capo Spartivento, a venti miglia circa dalla costa, nave che – secondo gli investigatori – poteva appunto identificarsi con la Rigel (cfr. par. 1.4). Due importanti elementi di riscontro, considerati unitariamente, convinsero gli investigatori a ritenere più che fondate le dichiarazioni della fonte confidenziale anzidetta e li spinsero a ricercare ulteriori prove. Posto che la motonave Rigel era affondata il 21 settembre 1987 a largo di capo Spartivento, come accertato dal processo di La Spezia, il primo elemento di riscontro fu ricavato dall’annotazione “lost the ship” rinvenuta sull’agenda sequestrata a Giorgio Comerio proprio sulla pagina corrispondente alla data 21 settembre 1987. Il secondo elemento proveniva direttamente dalle informazioni acquisite dal capitano De Grazia presso i registri Lloyds di Londra, che coprono il 90% della situazione mondiale di tutte le navi affondate, e presso l’IMO, secondo cui l’unica nave affondata il 21 settembre 1987 era la motonave Rigel. Dunque, secondo gli investigatori, l’annotazione di Comerio non poteva che riferirsi alla Rigel e, tenuto conto della documentazione trovata in possesso del Comerio attinente al progetto Dodos e alla società O.D.M., era legittimo ritenere che l’interesse del Comerio alle sorti della Rigel potesse essere legato al carico di rifiuti tossici. Gli investigatori cercarono – tra gli atti del processo di La Spezia – altri elementi utili a rafforzare il quadro che velocemente si andava delineando. Da subito si comprese che fondamentale era il ritrovamento della nave e del suo carico. In particolare, il capitano De Grazia si concentrò in tale direzione, cercando di individuare il punto esatto di affondamento della motonave Rigel. Significative in merito sono alcune informative che il capitano De Grazia trasmise al sostituto dottor Francesco Neri nel mese di giugno 1995, riportate di seguito, nelle quali vengono riassunti gli elementi fino a quel momento acquisiti, evidenziandosi che (cfr. inf. del 16, del 22 e del 26 giugno 1995 – doc. 681/32, 681/18, 681/21):
- la procura della Repubblica di La Spezia aveva accertato l’affondamento doloso della Rigel, finalizzato a truffare la compagnia assicuratrice;
- nell’ambito del procedimento di La Spezia era emerso che due degli indagati – in una telefonata del 21 settembre 1987 – avevano fatto riferimento alla nascita di un bambino, poi chiarita dagli stessi come allusione all’affondamento della nave;
- Giorgio Comerio aveva annotato sulla sua agenda l’evento dell’affondamento, scrivendo alla data del 21 settembre 1987: “lost the ship”;
- una copia dei progetti O.D.M. di Giorgio Comerio era stata trovata sulla plancia della motonave Jolly Rosso, spiaggiatasi ad Amantea il 14 dicembre 1990, dal comandante della Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Bellantone;
- per individuare il relitto della nave al largo di capo Spartivento, stante la disponibilità dei mezzi offerta dal Comando generale delle Capitanerie di porto, occorreva individuare la tipologia del mezzo nautico da impiegare, quindi, acquisire notizie tecniche circa le apparecchiature e le modalità d’impiego di sonar per l’individuazione dei relitti, nonché di strumenti idonei alla misurazione della radioattività;
- per tale attività si chiedeva all’autorità giudiziaria l’autorizzazione a recarsi a Roma per prendere contatti diretti con l’ingegner Bertone del centro ricerche nucleari di Roma e con il reparto pperazioni del comando generale delle Capitanerie di porto per la pianificazione delle attività da porre in essere. Conclusivamente, con riferimento alla Rigel, le attività del capitano De Grazia si concentrarono essenzialmente nell’esame della documentazione sequestrata a Comerio, nell’individuazione di elementi di collegamento con l’affondamento della Rigel e nella ricerca del punto esatto di affondamento della motonave, condizione questa indispensabile per avviare proficue attività di ricerca del relitto. Sebbene fosse stato ritenuto necessario procedere ad una nuova escussione dei soggetti coinvolti nell’inchiesta di La Spezia, con particolare riferimento alla natura del carico e alle relative operazioni, tuttavia, il capitano De Grazia non ebbe la possibilità di parteciparvi personalmente in quanto deceduto prima che venissero svolte queste attività.
Successivamente, fu il maresciallo Scimone ad effettuare le attività predette, di cui si renderà conto nel prosieguo della relazione. Va detto, fin da subito, che – secondo la testimonianza del magistrato Nicola Maria Pace – il capitano De Grazia sarebbe riuscito ad individuare le coordinate relative al punto di affondamento, tanto che insistette, proprio la mattina della sua partenza per La Spezia, per portarvi lo stesso magistrato. Si riporta il passo dell’audizione del dottor Pace, avvenuta avanti alla Commissione in data 12 gennaio 2010: “Quando è giunta la notizia della morte di De Grazia io, Neri ed altri non abbiamo avuto dubbi sul fatto che quella morte non fosse dovuta a un evento naturale. Avevo sentito De Grazia alle 10,30 di quella mattina, mi aveva detto che con una delega di Neri si sarebbe recato prima a Massa Marittima e poi a la Spezia, mi avrebbe aspettato a Reggio Calabria per portarmi con una nave sul punto esatto in cui è affondata la Rigel. Alle 10,30 del 13 dicembre, giorno in cui è morto, ricevetti questa sua telefonata in ufficio, ma non sono in grado di fornire elementi obiettivi”.
1.8 – Lo spiaggiamento della Jolly Rosso e Giorgio Comerio. Gli approfondimenti svolti dal capitano De Grazia. Particolare attenzione suscitò la vicenda della motonave Rosso, della compagnia di Ignazio Messina. Tale nave naufragò al largo di capo Suvero, in Calabria, in data 14 dicembre 1990 (con immediato abbandono della stessa da parte di tutto l’equipaggio), per arenarsi sulla costa di Amantea (CS) nella stessa giornata (doc. 695/1). Sullo spiaggiamento, inzialmente, non venne avviata alcuna indagine di carattere penale, ma solo un’indagine amministrativa da parte della compagnia di assicurazione e un’inchiesta da parte della Capitaneria di porto di Vibo Valentia di cui si dà atto nel rapporto riassuntivo a firma del comandante Giuseppe Bellantone (doc. 695/19). Nel 1994 la vicenda della Rosso fu oggetto di ulteriore approfondimento nell’ambito dell’indagine condotta da dottor Francesco Neri. Il motivo dell’approfondimento era da collegarsi ad una serie di circostanze sospette, prima fra tutte quella relativa al rinvenimento presso l’abitazione di Comerio, in Garlasco, di documentazione attinente alla motonave Jolly Rosso.
Particolarmente importanti furono le dichiarazioni rese dal comandante Bellantone al capitano De Grazia, assunte da quest’ultimo informalmente, delle quali si dà conto nell’informativa del 30 maggio 1995 (doc. 681/32): “(…) dall’indagine sommarla esperita dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia Marina emerge che il comandante di quella Capitaneria ha richiesto, a seguito dell’incaglio, degli accertamenti radiometrici sulla nave semi sommersa. Data l’inusualità dell’accertamento si è contattato il comandante di quella Capitaneria di porto Bellantoni il quale riferiva di avere lui stesso richiesto detti accertamenti in quanto in alcuni documenti reperiti a bordo della nave vi erano strani cenni a materiale radioattivo. Successivamente, il preddetto comandante riferiva oralmente che sulla nave aveva rinvenuto della documentazione che non aveva saputo interpretare ma che comunque gli sembravano dei piani di “battaglia navale” che poi riconosceva nei progetti O.D.M. sequestrati presso l’abitazione-laboratorio del Comerio.
Il citato Ufficiale in quella occasione forniva copia del verbale di consegna della succitata documentazione al comandante della “Rosso”, nonché copia dell’istanza con la quale il Capitano Bert M. Kleywegt in rappresentanza della società Smit Tak, olandese, aveva chiesto- l’autorizzazione al recupero della suddetta nave. Viene riferito ciò in quanto la ditta, pur avendo operato per circa 30 giorni, non ha effettuato alcuna attività di recupero nonostante abbia operato con dei subaquei, alcuni gommoni e un grosso Tir”. Successivamente il comandante Bellantone fu sentito a sommarie informazioni dai procuratori Scuderi e Neri (in data29 febbraio 1996) ed anche in tale circostanza confermò quanto dichiarato informalmente al capitano De Grazia sulla presenza – a bordo della Rosso – di documenti con strani cenni a materiale radioattivo. Precisò ancora che, all’epoca, il capitano De Grazia gli mostrò un opuscolo con uno stemma triangolare della società O.D.M. uguale a quello dallo stesso notato a bordo della nave (doc. 695/7). Al verbale di sommarie informazioni vi è il documento citato, di cui si riporta il frontespizio: E’ importante sottolineare che il comandante Bellantone è stato successivamente sentito sia dal pubblico ministero di Paola, Francesco Greco, nell’anno 2004, sia dalla Commissione in data 8 marzo 2011. Le dichiarazioni fornite in tale occasioni sono risultate contrastanti tra di loro nonché con quanto precedentemente dichiarato ai magistrati e al capitano De Grazia. In particolare, nel verbale di sit del 15 luglio 2004 (doc. 695/7), il comandante ha dichiarato, quanto ai documenti rinvenuti sulla Rosso, di avere visto su qualche documento uno stemma a forma di triangolo con la scritta O.D.M. nonché di non conoscere all’epoca dello spiaggiamento il significato della scritta O.D.M.. Tuttavia il comandante ha in qualche modo modificato le dichiarazioni già rese ai magistrati di Reggio Calabria affermando: “Non ricordo di aver visto sulla nave una cartografia raffigurante i siti di affondamento di navi che possa raffigurare una battaglia navale. Ricordo però che la stessa mi fu mostrata dal magistrato Neri di Reggio Calabria e o dal suo collaboratore Natale De Grazia.” Nel corso dell’audizione dinnanzi alla Commissione il comandante Bellantone ha oscillato tra smentite, parziali conferme e dichiarazioni di non ricordare, palesando finanche la possibilità che le sue dichiarazioni avanti ai magistrati di Reggio Calabria non fossero state fedelmente riportate. Risulta, quindi, allo stato incerto quello che effettivamente fu rinvenuto a bordo della motonave Rosso, in mancanza di verbali di sequestro redatti in quell’occasione. Non può essere ignorato il fatto che le iniziali dichiarazioni rese dal comandante Bellantone al Capitanto De Grazia, riportate nell’annotazione citata e successivamente confermate ai magistrati di Reggio Calabria, sono quelle rese in epoca più prossima ai fatti e, quindi, da ritenere, secondo criteri di comune esperienza, più attendibili. Come si avrà modo di evidenziare, il capitano De Grazia, pur incaricato di sviluppare questi aspetti, non ebbe la possibilità di portare a termine l’attività per le ragioni che di seguito si andranno ad esporre. 1.9 – Le verifiche effettuate dal capitano De Grazia in merito agli ulteriori affondamenti sospetti. Come già evidenziato, il capitano De Grazia, in ragione delle sue specifiche competenze, operò una verifica – presso la compagnia di assicurazione Lloyd di Londra – in ordine agli affondamenti sospetti di navi, stilando un elenco che avrebbe dovuto costituire la base di ulteriori approfondimenti. E, pertanto, si può sostenere, senza timore di smentita, che il capitano approfondì proprio l’aspetto attinente all’utilizzo di navi per lo smaltimento illecito dei rifiuti radioattivi sia attraverso il loro affondamento sia, più in generale, attraverso il loro utilizzo per il trasporto verso paesi esteri. Ed è proprio in questo ampio contesto investigativo che va esaminata la vicenda, dai contorni poco chiari, relativa alla motonave Latvia, ormeggiata presso il porto di La Spezia, di cui si ha traccia in due informative del Corpo forestale dello Stato di Brescia indirizzate al procuratore Neri. Dell’esistenza di questa nave si dà conto per la prima volta nell’annotazione di polizia giudiziaria redatta dal Corpo forestale dello Stato di Brescia in data 26 ottobre 1995 (doc. 277/8), nella quale si evidenzia che la nave, venduta ad un prezzo superiore al valore reale, avrebbe potuto essere destinata al trasporto di rifiuti nucleari e/o tossico-nocivi. Si riportano i passi di interesse dell’informativa, redatta previaassunzione di informazioni di cui all’articolo 203 del codice di procedura penale:
“(…) Motonave Latvia. Nell’area portuale di La Spezia è presente la motonave Latvia. adibita al trasporto passeggeri, ex-sovietica, giunta nei cantieri ORAM prima della caduta del blocco orientale. Nave ritenuta come appartenente ai servizi segreti sovietici (KGB) (…). Attualmente è ormeggiata alla diga di La Spezia, è stata messa in vendita (forse dal tribunale) ed acquistata da una società Liberiana con sede in Monrovia, tramite un ufficio legale di La Spezia. Da fonte attendibile risulta che il prezzo pagato è superiore di quello del valore reale, e questo fa supporre che potrebbe essere utilizzata come “bagnarola“ per traffici illegali di varia natura, in particolare di rifiuti nucleari e o tossico-nocivi, (esempi pratici sono le cosiddette navi dei veleni) (…)”. Ancora, la Latvia viene menzionata nell’annotazione di polizia giudiziaria redatta, in data 10 novembre 1995, con la quale il brigadiere Gianni De Podestà comunicò alle procure di Reggio Calabria e di Napoli che fonte confidenziale attendibile aveva di recente riferito in merito al coinvolgimento di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate nei traffici di rifiuti radioattivi e tossico nocivi interessanti la zona di La Spezia e l’interland napoletano. Nell’annotazione si dava atto che la Latvia, così come già era stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso, avrebbe dovuto essere preparata per salpare nell’arco di 4 giorni con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la rotta La Spezia-Napoli (per un ulteriore carico, come accertato per la Rosso) – Stretto di Messina-Malta – ritorno sulle coste joniche (per affondamento). Dall’annotazione in parola si evince che la fonte confidenziale cui si fa riferimento è la stessa di cui all’informativa del 13 maggio 1995 richiamata espressamente, e dunque la fonte denominata “Pinocchio”. Si riporta parte del testo dell’annotazione del 10 novembre 1995 (doc. 681/32): “Fonte confidenziale attendibile ha qui riferito, in epoca recente, del traffico di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi che interessano in particolar modo la zona di La Spezia e l’interland napoletano e quindi il coinvoglimerito di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate. Nella prima annotazione di p.g. redatta in data 13.5.95 in questo ufficio, l’informatore riferiva di personaggi legati al traffico La Spezia~Napoli-Reggio Calabria e oltremare (…). In merito all’annotazione di p.g. prot. 1045 del. 26 ottobre u.s., ove la fonte confidenziale (rimane tale per ragioni disicurezza personale, familiare e per la p.g.. che lavora all’indagine) ha riferito che nell’area portuale di La Spezia vi è presente la motonave Latvia (ex KGB russo) e che tale imbarcazione dovrebbe essere preparata come è stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso e quindi destinata sui fondali marini come quest’ultime. Ancora la Latvia, se vengono rispettati i tempi di allestimento e caricamento della Jolly Rosso (dal 4.12.90all’8.12.1990) nell’arco di 4 giorni, risulterà pronta a salpare daLa Spezia, con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la seguente rotta marittima : — La Spezia >Napoli- (porto) —>Stretto di Messina >Malta >ritorno sulle Coste Joniche (per affondamento). Risulta tappa importante il porto di Napoli, dove al carico di La Spezia dovrebbe essere aggiunto dell’altro (come accertato per la Jolly Rosso poi Rosso) e seguito in via strettamente riservata da persone di fiducia (uomini di fiducia del camorra napoletana legata al Di Francia e alla mafia sici1iana, che ha una ramificazione in La Spezia con un certo Giarusso)”. Dunque, si iniziò ad indagare anche sulla Latvia, per le ragioni che emergono nelle informative appena riportate. In particolare, oggetto di attenzione fu il carico, la provenienza della nave, la sua destinazione nonché le ragioni della lunga permanenza presso il porto di La Spezia. E’ di tutta evidenza l’importanza che gli approfondimenti sulla Latvia avevano nell’ambito dell’inchiesta. Si trattava, infatti, di una nave che era possibile monitorare per così dire “in diretta” e che consentiva, quindi, di superare i vuoti conoscitivi attinenti alle altre navi delle quali si erano perse le tracce. Appare, quindi, del tutto credibile la circostanza emersa nell’ambito dell’inchiesta svolta dalla Commissione, secondo la quale il capitano De Grazia si sarebbe dovuto recare a La Spezia anche per effettuare indagini con riferimento alla predetta nave e per avere un contatto diretto con la fonte confidenziale che aveva già riferito informazioni in merito alla Latvia (cfr. informative appena riportate nonché paragrafo 1.10 nel quale si tratta delle indagini che a La Spezia avrebbe dovuto effettuare il capitano De Grazia). Tale circostanza, invero, non risulta da alcun documento, ma è stata rappresentata alla Commissione da un soggetto il cui nome è rimasto segretato e che – all’epoca dei fatti – aveva collaborato con il Corpo forestale dello Stato di Brescia. (verificare con il Presidente se si può inserire il racconto fatto da questo soggetto in merito alle indagini fatte sulla Latvia, parte tutta segretata). In data 15 dicembre 1995, due giorni dopo il decesso del capitano De Grazia, l’ispettore Tassi trasmise un fax alla procura circondariale di Reggio Calabria nel quale testualmente riferiva (doc. 634/1): “In data odierna è stata accertata la partenza della Motonave Latvia, avvenuta all’incirca verso la terza decina del Novembre u.s. per raggiungere il porto di ARIGA (Turchia). La Motonaveè stata acquistata tramite il tribunale di La Spezia, da una Soc. Ciberiana la “DIDO STEEL Corporation S.A.” con sede in Brod Street Monrovia Liberia, Il trasporto è avvenuto o sta avvenendo a traino di un rimorchiatore denominato Kerveros di nazionalità greca. Le pratiche sono state curate da una Agenzia Marittima Spezzina”. Lo stesso ispettore Tassi, nel marzo 1996, trasmise, sempre al sostituto procuratore dottor Neri, sette fotografie della motonave in questione (doc. 681/71): Nell’ambito dell’indagine condotta dal dottor Neri gli approfondimenti relativi alla motonave Latvia furono esclusivamente quelli contenuti nelle due informative dell’ispettore De Podestà, sopra riportate, nonché la comunicazione dell’ispettore Tassi relativa all’avvenuta partenza della nave, collocata temporalmente alla fine di novembre (dopo il decesso del capitano De Grazia). Non può non sottolinearsi la peculiarità della vicenda, tenuto conto dei seguenti dati:
- nel pieno di indagini concernenti l’utilizzo di navi per lo smaltimento illecito di rifiuti tossici, vi era la possibilità di monitorare una nave, la Latvia, rispetto alla quale vi erano concreti indizi in merito al suo utilizzo per le predette finalità illecite;
- ebbene, nonostante la preziosissima fonte di informazioni, rappresentata dalla motonave in questione, non solo non risultano effettuate verifiche approfondite da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria della zona, ma neppure risultano essere stati mai sentiti gli occupanti della nave;
- paradossale è poi che non sia stato predisposto un servizio di osservazione in merito agli spostamenti della nave.
1.10 – Le indagini che il capitano De Grazia avrebbe dovuto compiere a La Spezia. La Commissione ha ritenuto di fondamentale importanza comprendere quale fosse l’oggetto specifico delle indagini che il capitano De Grazia, unitamente al maresciallo Moschitta e al maresciallo Francaviglia, avrebbe dovuto effettuare recandosi a La Spezia dal 12 dicembre 1995. Deve sin d’ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso.
La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell’indagine. Poco chiara è stata anche la vicenda attinente alla valigetta che il capitano De Grazia portava con sé, valigetta che non è stata mai sequestrata, ma solo affidata in custodia al maresciallo Moschitta e restituita, successivamente, al dottor Neri. Il contenuto della valigetta in questione non risulta mai inventariato essendo stata solo riportata genericamente (in un’annotazione di polizia giudiziaria) la presenza al suo interno di documenti attinenti all’indagine di cui al procedimento penale n. 2114/94 RGNR. La Commissione ha acquisito le copie delle sei deleghe di indagine emesse in data 11 dicembre 1995 dai magistrati di Reggio Calabria (sostituto F. Neri e procuratore F. Scuderi). Dall’analisi delle stesse si ricava che la prima era finalizzata all’escussione di Cesare Granchi e all’acquisizione in copia conforme di tutta la documentazione attinente ai rapporti commerciali e societari con Giorgio Comerio, con particolare riferimento a quelli concernenti la realizzazione del progetto O.D.M. (doc. 681/87); la seconda era indirizzata al presidente del tribunale di La Spezia, affinché il capitano di fregata Natale De Grazia e il maresciallo Nicolò M. Moschitta fossero autorizzati a visionare e estrarre copia degli atti del procedimento penale nr. 814/1986 (a carico Fuiano Gennaro + altri – Affondamento M/n Rigel) (doc. 681/87); la terza era indirizzata al procuratore della Repubblica presso il tribunale di La Spezia, affinché il “vice ispettore Claudio Tassi della sezione di polizia giudiziaria del Corpo forestale dello Stato della procura della Repubblica di La Spezia fosse autorizzato a svolgere le indagini delegategli nell’ambito del procedimento penale 2114/94”. (doc. 681/87); con la quarta si chiedeva al vice ispettore Tassi di voler svolgere tutte le indagini già concordate nell’ambito del procedimento penale 2114/94 anche fuori sede (doc. 695/16). Con le ultime due, indirizzate ai procuratori della Repubblica presso la pretura circondariale e presso il tribunale di Salerno, si richiedeva di consegnare al maresciallo Moschitta copia di tutti gli atti relativi agli accertamenti effettuati in merito allo spiaggiamento di un container, avvenuto a Positano nell’aprile del 1994, avente tracce di radioattività (Torio) e riferibile all’affondamento della motonave Marco Polo (doc. 681/87). Dunque, le attività delegate sarebbero dovute consistere in parte nell’esame di atti processuali, in parte nel compimento di attività concordate precedentemente e non esplicitate nelle deleghe. Come già evidenziato, la Commissione ha ritenuto di audire tutti coloro in grado di fornire precisazioni in merito alle indagini da compiersi a La Spezia.
In particolare, sono stati sentiti il maresciallo Moschitta, il carabiniere Francaviglia, il maresciallo Scimone, l’ispettore Tassi e un soggetto del quale non possono essere fornite le generalità per ragioni di segretezza. A fronte dell’importanza della missione, così come rappresentata dai magistrati e dagli stessi ufficiali di polizia giudiziaria, nessuno di essi è stato in grado di specificare in modo puntuale quali fossero effettivamente le attività da svolgere e per quale motivo il capitano De Grazia fosse diretto a La Spezia. Peraltro, a bene esaminare le dichiarazioni, le stesse risultano non solo generiche, ma anche in alcuni punti contraddittorie tra di loro. Formalmente, dalla delega acquisita il capitano De Grazia avrebbe dovuto esaminare gli atti processuali attinenti all’affondamento della motonave Rigel. Stando però le dichiarazioni rese alla Commissione dalle persone sopra indicate, il capitano De Grazia avrebbe dovuto:
- sentire a sommarie informazioni alcuni componenti dell’equipaggio della Rosso;
- effettuare ulteriori approfondimenti in merito agli affondamenti sospetti di navi rilevati dai registri Lloyd’s Adriatico;
- incontrare una fonte confidenziale già utilizzata dall’ispettore Tassi al fine di apprendere notizie in merito alla motonave Latvia, ormeggiata presso il porto di La Spezia.
Anche il pubblico ministero Neri, nel verbale di sommarie informazioni rese al pubblico ministero Russo in data 9 aprile 1997 nell’ambito dell’indagine avviata in ordine al decesso del capitano De Grazia, ha affermato genericamente che “la missione a La Spezia aveva lo scopo di sentire testi presenti sulle navi affondate”. In particolare: ”il capitano era partito per La Spezia e Massa Carrara per sentire testi delle navi oggetto delle indagini. Lui stesso ci spiegò che vi era l’urgenza di fare questi accertamenti per evitare anche inquinamenti probatori e che completata questa fase investigativa fuori sede nel corso delle vacanze di Natale avrebbe avuto tutto il tempo di studiarsi le carte ed arrivare a punti conclusivi dell’indagine. I carabinieri che lo accompagnavano, Moschitta e Francaviglia, lo coadiuvavano in modo assiduo e costante essendo a conoscenza di ogni aspetto della indagine, trattandosi di un nucleo investigativo interforze appositamente da me costituito”. In relazione alla missione a La Spezia, il maresciallo Scimone è stato l’unico a dichiarare che originariamente alla missione avrebbe dovuto partecipare lui e non il capitano De Grazia. Nessun’altro tra gli inquirenti ha, infatti, accennato a tale circostanza. In particolare, nel corso dell’audizione del 18 gennaio 2011, in merito alla suddivisione dei compiti ha dichiarato: “Sul viaggio a La Spezia c’erano due programmi: il mio di acquisire documentazione presso la dogana e quello di Moschitta, che avrebbe dovuto svolgere un’attività che stava seguendo lui e che in questo momento non ricordo di preciso. Doveva sentire forse qualcuno…(…) Se non ricordo male, doveva sentire delle persone in merito a un aspetto della vicenda che stava curando lui come Nucleo operativo. Io mi ero occupato invece della ricostruzione della Jolly Rosso e di un’altra nave, per cui era necessario acquisire queste bolle di carico, tra cui anche quelle della Rigel, come è stato fatto successivamente, perché dopo la morte di De Grazia sono andato a prendere questa documentazione”. Secondo la versione del maresciallo Scimone fu lo stesso De Grazia a chiedere di recarsi a La Spezia al posto del maresciallo Scimone per l’esame della documentazione marittima presso la dogana, in quanto munito di competenze specifiche che avrebbero agevolato l’esecuzione della delega. In realtà, dopo la morte del capitano fu proprio il maresciallo Scimone ad acquisire la documentazione in questione presso la dogana di La Spezia, il che, evidentemente, dimostra che lo stesso disponeva delle competenze adeguate per svolgere questo tipo di attività. Il maresciallo non ha fatto alcun riferimento ad indagini interessanti la motonave Latvia. Partendo proprio da quest’ultimo dato si deve evidenziare come anche il procuratore di Paola, Francesco Greco, nel 2004 abbia cercato di comprendere quale fosse l’oggetto delle indagini che avrebbero dovuto essere compiute in quel periodo a La Spezia, senza riuscirvi compiutamente. In primo luogo va esaminata la posizione dell’ispettore Tassi, appartenente al Corpo forestale dello Stato ed applicato presso la sezione di polizia giudiziaria della procura di La Spezia. Il pubblico ministero Greco aveva convocato l’ispettore Tassi proprio per sapere se avesse portato a compimento la delega sopra indicata e l’oggetto della stessa. Sul punto l’ispettore Tassi ha risposto in primo luogo precisando di avere avuto la delega via fax in data 15 dicembre 1995 (dunque successivamente al decesso del capitano De Grazia) e, in secondo luogo, dichiarando di aver effettuato alcuni accertamenti, poi riassunti nell’annotazione del 29 febbraio 1996 (doc. 695/22). L’annotazione fu prodotta al pubblico ministero Greco in occasione dell’escussione dell’ispettore. Dalla lettura dell’annotazione, si evince che le attività richieste all’ispettore Tassi erano relative all’accertamento di utenze telefoniche riferibili alla compagnia di navigazione Ignazio Messina. Tuttavia nell’annotazione si fa riferimento espresso alla delega della procura di Reggio Calabria nella quale era stati disposti accertamenti in Livorno, Arezzo e Casale Monferrato. Di talchè l’annotazione prodotta al dottor Greco non sembra riconducibile alla delega dell’11 dicembre 1995, bensì ad altra delega contenente richieste di accertamenti specifici relative ad utenze telefoniche da eseguirsi anche nelle città menzionate. Peraltro, lo stesso Tassi, nel verbale di sommarie informazioni reso davanti al pubblico ministero Greco il 24 maggio 2005(doc. 695/22), nel produrre l’annotazione in parola, ha specificato di “ritenere” che quella annotazione contenesse la risposta alla delega dell’11 dicembre 1995, senza esprimersi in termini di certezza. Pare strano, in ogni caso, (laddove la delega dell’11 dicembre si fosse riferita effettivamente ad accertamenti su utenze telefoniche in vista di eventuali operazioni di intercettazione) che le attività siano state compiute in un lasso di tempo così ampio (due mesi e mezzo). L’ispettore Tassi, a differenza di quanto ha voluto far credere nel corso delle audizioni in Commissione, era pienamente coinvolto nelle indagini, tanto che il procuratore Neri aveva richiesto per iscritto l’11 dicembre 1995 al procuratore della Repubblica presso il tribunale di La Spezia che fosse autorizzato a svolgere le indagini delegategli nell’ambito del procedimento penale 2114/94. (doc. 681/87). La richiesta di autorizzazione, come sopra evidenziato, rientra fra le sei deleghe che Neri aveva consegnato al capitano De Grazia, il giorno prima della sua partenza per La Spezia. Ad ulteriore sostegno di quanto esposto, vi è l’altra delega, tra le sei consegnate a De Grazia, indirizzata specificatamente al vice ispettore Tassi nella quale gli si chiedeva espressamente “di voler svolgere tutte le indagini già concordate nell’ambito del procedimento penale 2114/94 anche fuori sede” (doc. 695/16). Il riferimento alle indagini già concordate sul procedimento penale presuppone inequivocabilmente l’esistenza di pregressi rapporti investigativi nonché l’esigenza di non rendere esplicito l’oggetto della delega per ragioni di riservatezza e anche di tutela delle persone che si occupavano delle indagini (cfr. capitolo due). Nel corso dell’inchiesta la Commissione ha verificato che il Corpo forestale dello Stato di Brescia si avvaleva di fonti confidenziali, una delle quali aveva come immediato riferente – secondo quanto dichiarato dagli stessi ufficiali del Corpo forestale dello Stato di Brescia – l’ispettore Tassi. Nel corso delle audizioni in Commissione quest’ultimo ha riferito che le indagini che avrebbero dovuto compiere il capitano De Grazia a La Spezia erano costituite dall’assunzione di informazione di alcuni componenti dell’equipaggio della motonave Rosso, in particolare gli ufficiali Zanello e Zembo, che lo stesso tassi avrebbe dovuto escutere unitamente al capitano. Nessun riferimento è stato fatto dal Tassi alla vicenda della motonave Latvia della quale ha parlato in Commissione una fonte confidenziale affermando: “(…) sulla nave di capo Spartivento il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con Tassi con riferimento ad un’altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell’area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. (…) Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, (…) E’ stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. (…) questa nave era rimasta ormeggiata prima ad un molo prospiciente il comando NATO dell’Alto Tirreno a La Spezia, quindi nell’area del San Bartolomeo proprio sotto la discarica Pitelli ed era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia (…). Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia. Questo era uno dei lavori che abbiamo fatto io e l’ispettore Tassi del Corpo forestale dello Stato”. La nave probabilmente era stata caricata con del mercurio rosso radioattivo e il sospetto era che i rifiuti fossero stati buttati in mare. La nave pare l’abbiano poi demolita ad Ariga. Il Presidente nel corso dell’audizione ha richiesto insistentemente all’audito da chi avesse appreso quelle notizie. L’audito ha risposto che si trattava di “voci” acquisite nell’ambiente dei trasportatori e di tutti coloro che ruotano nel mondo dei rifiuti. si è trattato evidentemente di una risposta evasiva soprattutto alla luce di quanto successivamente riferito dall’audito in merito all’attività che lui personalmente svolse con riferimento alla Latvia. In particolare ha dichiarato di essere salito sulla nave, di averla visionata, di avere pagato per questo un membro dell’equipaggio. Ha poi affermato che il capitano De Grazia avrebbe dovuto visionare la Latvia ma l’incontro non è avvenuto per la prematura morte del capitano De Grazia. Testualmente ha dichiarato: “Questo è un periodo che mi ricordo abbastanza bene in quanto eravamo rimasti piuttosto allibiti sul fatto che il capitano – che era anche uno sportivo da quello che mi veniva detto, perché io non l’ho mai conosciuto il personaggio- fosse morto e la cosa non mi era piaciuta assolutamente. Già questo aveva dato un forte rallentamento a quello che si poteva fare, parlo dei rapporti fra me e Tassi: Poi credo che Tassi abbia avuto dei problemi con Brescia, con la struttura del Corpo forestale dello Stato di Brescia, per questioni loro sulle quali non sono mai andato ad indagare perché non erano fatti che riguardavno me. Io ho continuato a sentire De Podestà (…) ho rivisto Tassi, mi aveva detto lui, questo credo lo possa confermare, che la nave era arrivata ad Ariga in Turchia e addirittura c’era il gruppo sommergibili di La Spezia – due sommergibili della classe costiera che dovevano seguire la nave per un certo percorso per vedere se aveva contatti con l’esterno con mezzi di superficie o se buttasse qualcosa a mare. Tuttavia per un disguido, che non ho mai capito quale fosse stato, non ero io che tenevo i rapporti tra gruppo di sommergibili e tutta la struttura di intercettazione ma era evidentemente il corpo forestale. La nave è praticamente scappata, il rimorchiatore è arrivato ed in sei ore ha agganciato…. Ha ancorato la nave con i cavi, la nave miracolosamente si è raddrizzata dallo sbandamento ed è uscita”. Evidenti sono le discrepanze tra quanto dichiarato da Tassi e quanto riferito invece dalla fonte confidenziale. Deve, infatti, sottolinearsi che la motonave Latvia era effettivamente oggetto di indagini da parte della procura circondariale di Reggio Calabria, tenuto conto delle informative già redatte dagli ufficiali del Corpo forestale dello Stato di Brescia nelle quali si dava conto di una serie di evidenti anomalie che suscitavano l’interesse investigativo sulla motonave. Di sicuro rilievo è che la fonte audita abbia avuto la possibilità, secondo quanto dichiarato, di salire sulla motonave versando denaro a membri dell’equipaggio non meglio identificati. Non è stato chiarito in alcun modo quali soldi fossero stati impiegati per questa operazione e dunque se sia stato utilizzato denaro personale della fonte o denaro messo a disposizione dagli investigatori. Nessun riferimento ad accertamenti riguardanti la motonave Latvia è stato fatto dal maresciallo Moschitta nel corso delle due audizioni del 2010 avanti alla Commissione. Lo stesso, infatti, ha riferito: “Stavamo andando a La Spezia ad acquisire la documentazione in merito alla Rigel, la nave affondata a capo Spartivento. Tale documentazione era di interesse perché il processo di La Spezia aveva sancito che sul trasporto di quella nave erano state pagate dazioni ed era stato coinvolto personale della dogana e della Rigel circa il carico. Era necessario e importante avere con noi questi documenti per poi proseguire, se non erro, per Como o per un’altra destinazione per sentire altri eventuali testimoni, con tanto di delega del magistrato”. Ancora più generiche sono state le dichiarazioni sul punto da parte del carabiniere Rosario Francaviglia, rese in data 1 agosto 2012: “In data 12 dicembre 1995, insieme al maresciallo Moschitta e al capitano di corvetta Natale De Grazia, alle ore 18.50 siamo partiti a bordo di un’autocivetta per portarci a La Spezia, dove dovevano essere sentite delle persone per l’indagine. (…) Ricordo che si trattava di persone che facevano parte dell’equipaggio di una nave che era stata affondata, della Rigel se non ricordo male. (…) Quello che veniva deciso era condiviso soltanto da noi del pool; nessuno veniva informato. In quel periodo, avevamo anche la delega nominativa con divieto di riferire, anche gerarchicamente, sulle indagini e su ciò che facevamo, tanto che sui fogli di viaggio mettevamo varie regioni d’Italia, come destinazione, non dichiaravamo che stavamo andando a La Spezia o altrove”.
1.11 – Gli sviluppi investigativi in relazione alla Somalia. Il mese di novembre 1995 fu denso di attività investigative in quanto:
- erano in corso gli accertamenti sulla Rigel e sulla Jolly Rosso. In particolare, per quanto riguarda la Rigel, è stato riferito che il capitano De Grazia avesse individuato le coordinate precise del luogo di affondamento della nave (cfr. quanto dichiarato dal magistrato Nicola Maria Pace nel corso dell’audizione del 20 gennaio 2011);
- con riferimento alla Jolly Rosso erano state programmate attività finalizzate ad identificare e a sentire a sommarie informazioni componenti dell’equipaggio nonché a ricostruire le varie fasi dello spiaggiamento e dello smantellamento del relitto;
- con riferimento alla motonave Latvia erano state acquisite informazioni di notevole rilevanza nel contesto investigativo tanto che (secondo quanto emerso nel corso dell’inchiesta svolta alla Commissione) il capitano De Grazia, una volta giunto a La Spezia, avrebbe dovuto acquisire direttamente informazioni;
- sempre nello stesso periodo gli investigatori iniziarono a trovare sempre più riscontri agli elementi ricavati dalla documentazione sequestrata a Giorgio Comerio nel maggio 1995, con riferimento anche alla Somalia, che già da tempo figurava quale luogo di destinazione di rifiuti tossici provenienti da diversi paesi. Il raccordo tra lo smaltimento di rifiuti tossici e la Somaliaemerse ufficialmente, per quanto risulta alla Commissione, in data 2 dicembre 1995, allorquando il Corpo forestale di Brescia informò la procura circondariale di Reggio Calabria che, in data 11 novembre 1995, Ali Islam Haji Yusuf, membro dell’Autorità’ del servizio mondiale per i diritti umani di Bosaaso aveva segnalato che “al largo della citta’ di Tohin, del distretto di Alula, nella Regione del Bari, due navi sconosciute stavano effettuando una operazione insolita, vale a dire che mentre una scavava sui fondali del mare, l’altra seppelliva in dette buche dei containers dal contenuto sconosciuto. Tale operazione stava creando tensione fra la popolazione locale”. Tale documento era pervenuto al Corpo forestale dello Stato da Greenpeace. La comunicazione del Corpo forestale dello Stato era di sicuro rilievo in quanto tra i documenti sequestrati a Comerio ve ne erano alcuni attinenti in modo specifico alla Somalia, contenuti in apposita cartellina recante la scritta “Somalia”. Tali dati risultano compendiati nell’informativa 22 gennaio 1996 (cui si rimanda), redatta dal comandante provinciale – R.O.N.O. di Reggio Calabria, Antonino Greco (doc. 681/62), nella quale si fa riferimento a documentazione sequestrata a Comerio dalla quale si desumeva l’esistenza di trattative avviate per operazioni di smaltimento di rifiuti da realizzarsi in zone coincidenti con quelle in cui stavano operando le navi segnalate da Ali Islam Haji Yusuf. L’informativa, sebbene trasmessa dopo la morte del capitano De Grazia, dà conto di informazioni già acquisite precedentemente e, quindi, va intesa come riferita ad attività di indagine effettuate prima del decesso del capitano De Grazia. Pare doveroso evidenziare anche in questa sede che gli elementi complessivamente raccolti in ordine ai singoli indagati ed in particolare a Giorgio Comerio evidentemente non sono stati ritenuti sufficienti a formulare precise accuse né nei confronti di Comerio né nei confronti degli altri indagati, tanto che il procedimento si è concluso con una richiesta di archiviazione accolta dal Gip. Il tema relativo alla Somalia, come è noto, è stato ed è ancora oggi oggetto di numerosi approfondimenti in quanto le regioni del nord Africa – sulla base di dati investigativi anche recenti – sembrano essere la sede privilegiata di destinazione di rifiuti altamente tossici. Tuttavia, l’ipotesi secondo la quale in Somalia sarebbero giunti in quegli anni navi cariche di rifiuti radioattivi ed interrati in loco non ha avuto sinora un riscontro probatorio in ambito giudiziario. Con riferimento alla documentazione sequestrata a Comerio, occorre evidenziare un altro dato emerso nel corso dell’inchiesta: nella cartellina riportante la scritta “Somalia” erano contenuti una serie di documenti tra cui anche uno concernente la morte di Ilaria Alpi. Il procuratore Neri, nel corso dell’audizione avanti alla Commissione ha ribadito di aver visto – tra gli atti sequestrati a Comerio – il certificato di morte di Ilaria Alpi. Tale certificato, peraltro, non è stato mai ritrovato all’interno del fascicolo e quindi – secondo quanto dichiarato dal magistrato – sarebbe stato verosimilmente trafugato.
Questa specifica vicenda ha avuto già sviluppi processuali, non essendo stata confermata la notizia che effettivamente nel fascicolo vi fosse tale documento (vi è stato un procedimento penale a carico dello stesso magistrato per falsa testimonianza). Il dato incontroverso è che all’interno della cartellina in questione, dedicata alla Somalia, vi fosse un documento in qualche modo attinente alla morte di Ilaria Alpi, documento che secondo il maresciallo Scimone sarebbe consistito in una notizia Ansa. Resta in ogni caso significativo che all’interno di una cartella intitolata “Somalia”, nella quale erano contenuti documenti concernenti lo smaltimento di rifiuti tossici e contatti con esponenti somali, vi fosse un atto riguardante la morte della giornalista, in un’epoca in cui ancora nessun potenziale collegamento era stato ipotizzato tra la morte della stessa e il traffico di rifiuti. Si riportano le dichiarazioni del maresciallo Scimone sul punto: “Ho anche sentito dire una cosa stranissima: che il comandante De Grazia avrebbe trovato tra gli atti di Comerio il certificato di morte di Ilaria Alpi. Non mi risulta. (…) Non era il certificato di morte di Ilaria Alpi perché sapete bene che il certificato di morte non è stato redatto in Somalia: Ilaria Alpi fu portata su una nave italiana e il primo certificato di decesso è stato fatto dal medico della nave. Credo che poi il comune di Roma abbia redatto l’ultimo certificato. Comerio aveva una «fascetta», la notizia Ansa della morte di Ilaria Alpi, che De Grazia aveva trovato mentre cercavamo nelle carte e che mi aveva fatto vedere. Era una notizia Ansa, non un certificato di morte. (…) Era un fascicolo della Somalia. Lui aveva dei fascicoli tra cui questo, Somalia, in cui c’erano tutte le proposte di smaltimento dei rifiuti, i suoi progetti, i contatti con i vari ministri, roba di questo genere e c’era questa striscia”. Va sottolineato che, man mano che l’indagine acquisiva maggiore consistenza, sarebbe stata naturale un’intensificazione ed accelerazione delle attività investigative, che, peraltro, fino a quel momento, si erano svolte regolarmente. Viceversa, deve prendersi atto che fu proprio quello il momento in cui si assistette, non solo ad un rallentamento dell’attività di indagine, ma anche al disfacimento del gruppo investigativo costituito dagli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti a diverse forze dell’ordine, che fino a quel momento avevano collaborato con il dottor Neri. Il decesso del capitano De Grazia deve essere inserito in questo preciso contesto investigativo ed analizzato unitamente agli eventi immediatamente precedenti e successivi al decesso. Prima di approfondire la fase regressiva dell’indagine occorre necessariamente soffermarsi sul rapporto di collaborazione tra la procura di Reggio Calabria e i servizi segreti, di cui il dottor Neri ha dato ampiamente conto anche nel corso delle audizioni.
1.12 La collaborazione tra la procura di Reggio Calabria e i servizi segreti. Una delle peculiarità dell’indagine condotta dal dottor Neri fu certamente quella della costante interlocuzione con il Sismi al quale vennero richieste informazioni e documenti sia su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta (traffico di rifiuti radioattivi, traffico di armi, affondamenti di navi). Come si legge nella relazione sullo stato delle indagini inviata dal dottor Neri al procuratore capo in data 26 giugno 1995(doc. 362/3 allegato), l’importanza della documentazione sequestrata a Giorgio Comerio (nella quale figuravano soggetti come Galli, Pazienza e Kassoggi) consentì alla procura di autorizzare la polizia giudiziaria impegnata nell’indagine ad avvalersi dell’ausilio del Sismi, che fornì “ben 277 documenti sul Comerio a conferma della pericolosità di detto soggetto e a riprova della bontà della ipotesi investigativa seguita”.
La documentazione acquisita venne studiata sia dalle forze di polizia giudiziaria che dal Sismi. Riguardo l’inizio della collaborazione, il dottor Neri riferì al pubblico ministero Russo, nell’aprile 1997: “Ricordo che unitamente al collega Pace della procura circondariale di Matera comunicammo al capo dello Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell’ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiese al direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi. A dire il vero il Servizio molto correttamente mi trasmise degli atti tramite la polizia giudiziaria. In particolare il passaggio degli atti avvenne tramite il maresciallo Scimone appositamente delegato a ciò da me. Il maresciallo Scimone faceva parte del gruppo investigativo da me diretto e teneva i contatti con il Sismi. Il capitano De Grazia era a conoscenza di ciò, cioè sapeva dei contatti istituzionali di Scimone con il Sismi per la acquisizione delle notizie che chiedevamo. Ogni attività di rapporto con il Sismi è formalizzata in specifici atti reperibili nel processo.” Sui rapporti con il Sismi ha riferito anche il maresciallo Moschitta nel corso delle due audizioni rese avanti alla Commissione (l’11 marzo e l’11 maggio 2010): “Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (…) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l’evaso Licio Gelli. Da lì comincia il nostro rapporto con i servizi segreti, i quali ci hanno veramente fornito molto materiale. Si è sempre collaborato benissimo, apertamente e senza problemi, tanto che nell’edificio della procura distrettuale di Reggio Calabria avevano approntato per loro anche un piccolo ufficio per esaminare documentazioni nostre ed eventualmente integrarle (…) i servizi segreti, il Sismi, hanno lavorato con noi. Il primo impatto che ho avuto con i servizi segreti è stato a seguito di un decreto di acquisizione di documenti presso il Sismi. Sono andato personalmente ad acquisire un documento a carico di Giorgio Comerio, titolare della O.D.M., oramai noto nell’inchiesta. In modo particolare, si trattava della fuga di Licio Gelli da Lugano fino al suo rifugio segreto nel principato di Monaco. Ci risulta che la casa in cui era ospitato Licio Gelli era di Giorgio Comerio. In seguito, i servizi segreti sono entrati ufficialmente con noi nell’indagine perché esaminavano la documentazione, d’accordo con la magistratura. In effetti, è stata una collaborazione corretta, leale e senza problemi”.
La collaborazione tra procura e Sismi proseguì anche dopo che il fascicolo fu trasmesso alla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, come si evince dal provvedimento con il quale il sostituto procuratore dottor Alberto Cisterna, divenuto titolare dell’indagine, autorizzò la polizia giudiziaria “ad avvalersi dell’ausilio informativo del Sismi” per il tramite di persone nominativamente indicate appartenti all’ottava divisione (doc. 681/39). Quello sopra descritto fu il rapporto “formale” tra procura e servizi segreti, in merito alle indagini sulle “navi a perdere”. E’ emerso, però, un ulteriore profilo di intervento dei servizi segreti nella materia riguardante il traffico dei rifiuti radioattivi e tossico nocivi e il traffico di armi, come emerge dalla documentazione acquisita dalla Commissione riferita al medesimo periodo in cui erano in corso le indagini del dottor Neri. In particolare il documento proveniente dal Copasir, archiviato dalla Commissione con il n. 294/55, riguarda una comunicazione del Sismi al Cesis in merito alle spese sostenute nell’anno 1994 per i servizi di intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi, indicati nella misura di 500 milioni di lire. Si tratta di un documento desecretato dalla Commissione particolarmente interessata a comprendere in che modo fossero stati utilizzati i 500 milioni di lire nelle operazioni di intelligence relative al traffico di rifiuti e di armi. Non è stato però possibile, nonostante le numerose audizioni effettuate sul punto, sapere in che modo sia stata spesa la somma di cui sopra, per lo svolgimento di quali attività e, ancor prima, per quali ragioni i servizi, all’epoca, fossero interessati al tema dei rifiuti radioattivi. E’ stato, inoltre, prospettato alla Commissione, ma non è stato acquisito alcun riscontro al riguardo, un ulteriore ipotetico interessamento dei servizi all’indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria. Proprio con riferimento a quest’ultimo punto si evidenziano le dichiarazioni rese da Rino Martini alla Commissione, in data 17 febbraio 2010, allorquando ha dichiarato: “In quel periodo, si verificarono due episodi, uno dei quali ricordato dal procuratore Pace. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un’altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent’anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell’autovettura siamo risaliti al proprietario: il SISDE di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c’era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo.” Come specificato dall’ex colonnello, su domanda della Commissione, riguardo a questa presunta attività di controllo, lo stesso aveva semplicemente formulato un’ipotesi, senza avere alcun riscontro.
Riguardo poi alla vicenda del camper, il colonnello ha specificato che le verifiche effettuate non hanno portato a risultati di alcun tipo: “Dal pubblico registro automobilistico non abbiamo trovato nulla di interessante e abbiamo preferito mantenere un basso profilo per cercare di capire come avvenissero questi controlli. Sicuramente, non apparteneva a nessuno degli abitanti del posto, perché di fronte ci sono ville residenziali. All’interno comunque non c’era nessun operatore, ma era piazzata una telecamera.(…) puntata verso l’ingresso”. Circa 20 giorni dopo la sua audizione, il colonnello Martini ha trasmesso alla Commissione un appunto relativo al secondo dei due episodi sopra riferiti, aggiungendo ulteriori dettagli. Si riporta il contenuto del documento trasmesso (doc. 304/1): “Con riferimento alla lettera sopracitata riguardante l’episodio della presenza delle due persone come riferito nell’audizione, preciso quanto segue. Il punto di ritrovo serale per un certo periodo è stato l’Antica Birreria alla Bornata di V.le Bornata, 46 Brescia (ex Wurer), ma per la presenza di soggetti che frequentavano la trattoria alla stessa ora (mai la stessa) avevamo deciso di individuare un altro punto di ritrovo. A questo posto si arriva attraverso una strada sterrata di qualche centinaio di metri all’interno del bosco della Maddalena (collina adiacente alla città di Brescia) e dopo aver lasciato l’autovettura in un parcheggio si percorrono a piedi 200-300 metri. A quel tempo l’Osteria era denominata Briscola (Via Costalunga 18/4) ed alla sera era aperta su prenotazione. Dopo circa 30 minuti sono arrivate due persone ben vestite e di età sui 35 anni. Naturalmente io e gli altri presenti siamo usciti dopo pochi minuti ed abbiamo così potuto prendere la targa della seconda autovettura parcheggiata. Per poter ricostruire l’episodio ho chiesto al Coordinamento del Corpo forestale dello Stato di Brescia di verificare se i fogli di viaggio di quel periodo erano ancora in loro possesso per determinare la data del fatto. Ho poi contattato il Dr. Nicola Pace, procuratore della procura di Brescia, che mi ha riferito che probabilmente non era presente in quel periodo quindi mi sono messo in contatto col Dr. Francesco Neri, consigliere della procura generale di Reggio Calabria. Il contatto è avvenuto il 1/03/2010 in tarda mattinata. II Dr. Neri invece ricorda perfettamente l’episodio e lui stesso all’epoca aveva chiesto ai suoi collaboratori, sottoufficiali dei Carabinieri di verificare l’appartenenza dell’autovettura. Dopo due giorni mi è stato riferito che l’autovettura era in carico ai Servizi Civili di Milano. Alla fine dell’anno 1995 tutta la documentazione riguardante l’indagine è stata trasferita alla procura della Repubblica di Reggio Calabria ed a Brescia presso il Nucleo sono rimaste le pure annotazioni senza allegati”.
2. IL CLIMA DI INTIMIDAZIONE NEL CORSO DELLE INDAGINI. Nel corso dell’inchiesta alla Commissione sono state rappresentate – sia dai magistrati che dagli ufficiali di polizia giudiziaria impegnati nell’indagine – talune difficoltà operative legate, in taluni casi, a problemi burocratici e organizzativi, in altri, all’esistenza di un clima di intimidazione percepito nitidamente dagli investigatori in più di un’occasione. Sotto il primo profilo, si segnala che il capitano De Grazia, dopo essere stato applicato presso la procura di Reggio Calabria per collaborare con il dottor Neri nelle indagini sulle navi a perdere, era andato incontro a difficoltà operative, non essendo stato dispensato dallo svolgimento delle ordinarie incombenze del suo ufficio e ciò nonostante l’impegno particolarmente intenso che l’indagine giudiziaria richiedeva. Risulta inoltre che, ad un certo momento, il capitano De Grazia fu richiamato dall’ufficio di appartenenza e che i magistrati dovettero reiterare per iscritto la richiesta di applicazione dell’ufficiale in procura, definendo non solo importante il suo apporto, ma indispensabile. Sul punto si è espresso il maresciallo Moschitta, audito dalla Commissione in data 11 marzo 2010: “(…) quando le indagini arrivavano a un picco, e quindi stavamo mettendo le mani su fatti veramente gravi, coinvolgenti anche il livello della sicurezza nazionale…(…) A un certo punto De Grazia non venne più a effettuare le indagini con noi, perché il suo comandante l’aveva bloccato.(…) Se non erro, era il colonnello Maio o De Maio, non ricordo bene. Era il comandante della Capitaneria di porto di Reggio Calabria. De Grazia mi chiamò e mi riferì che non poteva più venire, perché il suo comandante gli aveva mostrato un foglio matricolare… (…) Mi chiese se potevo parlare col giudice in modo che scrivesse un’altra lettera per poterlo reinserire nelle indagini. Accettai e promisi di parlarne col dottor Neri. Quest’ultimo scrisse un’altra lettera di incarico di indagini affermando che De Grazia non era solo necessario, ma indispensabile per la prosecuzione delle indagini. Solo così è ritornato con noi a lavorare. (…) Una volta morto lui, ci siamo un po’ fermati. Io sono stato male e anche il giudice Neri ha avuto problemi pressori”. A parte questo, devono essere richiamati altri episodi percepiti dagli inquirenti quali presunte forme di controllo e di intimidazione nel’ambito delle indagini.
2.1 – Le dichiarazioni rese dagli ufficiali di polizia giudiziaria del gruppo investigativo coordinato dal dottor Neri e dal dottor Pace. E’ stato riferito alla Commissione che nel corso delle indagini si sarebbero verificati diversi episodi (in particolare pedinamenti) che avevano destato preoccupazione e che erano stati interpretati dagli inquirenti come tentativi di intimidazione diretti sia nei confronti dei magistrati titolari delle indagini sia nei confronti della polizia giudiziaria delegata. In proposito, sono state raccolte le testimonianze dei diretti interessati nonché le annotazioni di servizio redatte dall’epoca dei fatti. Sia il maresciallo Moschitta che il Carabiniere Francaviglia, sentiti il 9 aprile 1997 dal pubblico ministero Russo (titolare dell’indagine avviata in riferimento al decesso del capitano De Grazia), hanno riferito in merito al clima che si respirava nel corso delle indagini ed al fatto che, nel corso di alcune missioni alle quali avevano partecipato, erano stati seguiti. Il maresciallo Moschitta, in particolare, ha dichiarato: “confermo le relazioni di servizio anche a mia firma in merito a pedinamenti effettuati da ignoti nei nostri confronti in particolare durante il viaggio a Savona, a Firenze e a Roma nel mese di febbraio 1995, all’inizio delle indagini. Oltre a questi episodi ci sono state anche altre circostanze che ci hanno fatto credere seriamente di essere sotto controllo da parte di qualcuno per le indagini che stavamo svolgendo. In particolare, ricordo che vi fu uno strano episodio relativo alla forzatura della porta dell’ufficio del dottor Neri e vi sono altresì state delle occasioni nelle quali il personale della scorta e della tutela ha avuto l’impressione che alcune persone ci seguissero”. Negli stessi termini si è espresso il carabiniere Francaviglia nel verbale di sommarie informazioni testimoniali effettuato il medesimo giorno. Il maresciallo Moschitta ha poi riferito a questa Commissione, nel corso delle audizioni dell’11 marzo e dell’11 maggio 2010, ulteriori episodi che avevano destato preoccupazione, verificatisi fin dall’inizio delle indagini. Si riportano alcuni passi delle dichiarazioni rese:
“il muro di gomma su cui inevitabilmente andava a cozzare l’attività degli inquirenti e della polizia giudiziaria ha rappresentato il principale ostacolo da abbattere per poter entrare nei meandri del fenomeno in esame. È sembrato che forze occulte di non facile identificazione controllassero passo passo gli investigatori nel corso delle diverse attività svolte. In effetti, sentivamo che c’era qualcosa. Qualcuno ci pedinava, però nessuno si manifestava. L’unico dato certo è emerso a Roma (…)”. “Dopo aver interrogato un funzionario dell’Enea, che in quel momento avevamo chiamato Billy per evitare la divulgazione del suo nome, siamo andati ad alloggiare presso l’albergo Ivanhoe di Roma. Ebbene, stranamente le nostre schede – la mia, quella del giudice Neri, dell’autista e di altri colleghi, eravamo in cinque – non erano ritornate, come accadeva di solito, dal visto del commissariato. Io stesso sono stato chiamato dall’allora addetto alla reception che mi chiese ragione di questa circostanza. Risposi che non ne sapevo nulla e chiesi se fosse normale. L’addetto disse che non era normale, ma che poteva esserlo data l’occasione. A quel punto, noi che avevamo svolto quell’attività ci siamo preoccupati, intanto di preservare il magistrato che era con noi (Francesco Neri) (…) ad un certo punto lo abbiamo accompagnato di peso, perché lui non voleva andarsene, presso l’aeroporto di Ciampino e lo abbiamo fatto imbarcare alla volta di Reggio Calabria. Il dottor Neri non ci voleva lasciare. Mi ha fatto promettere che nel viaggio di ritorno – avevamo altre attività da svolgere, ma considerata la situazione abbiamo interrotto le operazioni e ce ne siamo andati – avremmo seguito un itinerario diverso da quello di andata. (…). In quel momento eravamo molto preoccupati (…). In seguito, non abbiamo avuto più notizie di questa vicenda. A Savona o a Firenze abbiamo avuto la sensazione che delle persone con degli automezzi ci stessero sempre vicino. Una volta me ne accorgevo io, una volta se ne accorgeva la tutela del dottor Neri, una volta se ne accorgeva l’autista. In pratica, ci sembrava di essere all’attenzione di persone che non conoscevamo. In quei casi, cercavamo di sottrarci alla loro vista, al loro controllo e adottavamo le misure più elementari possibili per sfuggire. A parte l’episodio di Roma, le altre situazioni sono derivate da nostre impressioni. Tuttavia – attenzione – parlo di impressioni di investigatori, non di falegnami o baristi. Capivamo che qualcosa attorno a noi non quadrava. Infatti, appena arrivati a Savona, che è stata la nostra prima meta, il dottor Landolfi, sostituto procuratore della procura della Repubblica, ci disse che i telefoni già riferivano che il dottor Neri era in Liguria. In pratica, egli aveva dei telefoni di mafiosi calabresi sotto controllo, dunque sapeva che questi signori parlavano della presenza del dottor Neri a Savona. Nel corso del tempo, al dottor Neri è stato assegnato un ufficio alla procura circondariale, la cui porta venne forzata, anche se non fu sottratto nulla. Inoltre, sono successi tanti altri avvenimenti, di cui la sua tutela, l’agente Luigi Bellantone, può riferire. Vi riporto l’esempio più recente. Ad un certo punto, siamo stati convocati dal GIP di Roma per la querela sporta nei nostri confronti da parte di Ali Mahdi, il signore della guerra ed ex presidente della Somalia. Egli affermava che non era vero quanto da noi riferito alla I Commissione circa i rapporti tra Comerio ed Ali Mahdi. Invece, vi era una gran quantità di documentazioni ufficiali in merito che abbiamo sequestrato a Comerio e prodotto in tutte le sedi. In occasione di questo viaggio, all’aeroporto di Ciampino, all’uscita del volo per Reggio Calabria, abbiamo notato due persone. Io ero già in pensione, non avevo nulla in mano, solo un portavaligie e ho pensato che all’occorrenza sarei potuto intervenire servendomi di quello. Come ho detto, abbiamo notato la presenza di due persone che fissavano sia il dottore Neri che il suo legale di fiducia, l’avvocato Gatto Lorenzo. Abbiamo segnalato alla tutela data da Roma al dottor Neri la presenza di questi due soggetti che non ci piacevano in modo particolare e abbiamo fatto intervenire la polizia dell’aeroporto, che li ha identificati. Erano due marocchini che stranamente si trovavano all’uscita per Reggio Calabria, mentre avrebbero dovuto prendere l’aereo per Ancona che era nella parte di fronte, ma distante dalla nostra uscita. Peraltro, era quasi l’ora di partenza dell’aereo per Ancona, tant’è vero che i due soggetti sono partiti qualche minuto prima di noi. La situazione ci ha insospettito. Successivamente, sono venuto a sapere che le Marche sono un punto di concentramento di persone sospette provenienti dall’est europeo. Non voglio dire altro perché non ho elementi su cui basarmi. Mi sembra, tuttavia, che la questura abbia accertato che la zona di provenienza di questi due soggetti era molto frequentata da personaggi poco raccomandabili, provenienti dall’Europa dell’est”. Il maresciallo Moschitta, ha specificato che – in occasione dell’esame del dipendente Enea – erano in cinque ossia il magistrato Neri, due autisti, la tutela e lui stesso. Richiesto di far conoscere il nome del soggetto audito, ha così risposto: “Era l’ingegnere Carlo Giglio, il quale ha rilasciato delle dichiarazioni, con riferimento alla situazione delle centrali nucleari in Italia. A detta dell’ingegnere, si trattava di una circostanza molto delicata, critica, per non dire esplosiva. Queste sono state le sue parole. Basta leggere il suo verbale, per capire effettivamente quello che si nascondeva dietro l’affare nucleare. Avevamo un verbale molto importante e nel momento in cui non sono ritornate le schede ci siamo molto preoccupati”. Riguardo gli eventuali accertamenti sui motivi per i quali le schede non fossero rientrate, il maresciallo ha dichiarato: “Non ho saputo più nulla di questa storia. In tutto eravamo in cinque a svolgere le indagini e abbiamo scardinato tutta questa storia. Era stata segnalata alla questura di Roma. La sera stessa in cui siamo partiti è stato inviato un fax per la questura di Reggio. Quindi, la questura era interessata a questo tipo di discorso. Com’è andata a finire non lo so”.
2.2 – Le dichiarazioni rese dal dottor Neri e dal dottor Pace. Le circostanze rappresentate nel 1997 dai militari menzionati sono state confermate e specificate ulteriormente dal dottor Neri, sentito dal pubblico ministero Russo sempre in data 9 aprile 1997. Testualmente, lo stesso ha dichiarato: “sin dall’inizio delle indagini e in particolar modo allorché fui costretto col nucleo investigativo da me coordinato a recarmi fuori sede sono stato oggetto di intimidazioni di varia natura ed in particolare con autovetture e persone munite di radiotrasmittenti che, a mio giudizio, avevano l’evidente scopo di scoraggiare la mia attività di indagine (…)”. Nel corso della testimonianza il dottor Neri ha riferito di alcune preoccupazioni del capitano De Grazia in merito alla sua carriera, in quanto, successivamente all’esecuzione di un decreto di perquisizione a carico di un indagato, tale Gerardo Viccica, erano emersi elementi circa un presunto coinvolgimento dei vertici militari della Marina in fatti di corruzione legati alla realizzazione di Boe. Il Viccica avrebbe detto a De Grazia in modo minaccioso che conosceva molte persone nell’ambito della Marina, e che, quindi, in qualche modo, avrebbe potuto danneggiarlo. Il De Grazia, inoltre, in qualche occasione aveva espresso al dottor Neri le preoccupazioni che aveva per la sua incolumità e per l’incolumità del magistrato. Nel corso dell’audizione del dottor Nicola Maria Pace, tenutasi il 20 gennaio 2010 avanti a questa Commissione, lo stesso, richiesto di riferire in merito ad eventuali episodi di intimidazione subìti all’epoca in cui era titolare di indagini collegate con quelle condotte dal sostituto Neri, ha dichiarato: “ …vi espongo alcuni fatti oggettivi. Gli episodi più gravi si sono verificati nell’ambito di 15 giorni: nell’arco di due settimane muore De Grazia, si dimette il colonnello Martini, regista delle indagini e delle attività strettamente investigative. Per sviare gli antagonisti con Neri decidiamo di vederci non a Matera o a Reggio Calabria, ma a Catanzaro e durante la trasferta, mentre personalmente non mi accorsi di niente perché nella mia macchina non avevo scorta e durante il viaggio sonnecchiavo, Neri che aveva una scorta si accorse con i suoi e verificò con i computer di bordo di essere seguito da una macchina della ‘ndrangheta. Fece scattare l’allarme, mi telefonò, prendemmo direzioni diverse e riuscimmo a tornare. Riferisco il fatto nella sua oggettività, senza averlo mai interpretato in chiave di paura. Per quanto riguarda l’essere filmati, sono invece testimone diretto, perché fui proprio io a Brescia, mentre fervevano le attività, a scoprire che qualcuno ci stava filmando da un camper parcheggiato a poca distanza dalla sede del Corpo forestale dello Stato di Brescia. Proposi al team investigativo di perquisire il camper, ma si considerò più opportuno far finta di niente. Proprio il colonnello Martini, uomo di poche parole, al quale ho sempre riconosciuto una grande capacità di strategie, disse di non preoccuparsi. Lavoravamo giorno e notte nel periodo in cui effettuammo le 16 perquisizioni a Comerio e agli altri, fatto che poi ha portato alla definitiva scoperta del progetto O.D.M. e al suo collegamento con il progetto di partenza DODOS, che credo sia ancora negli scaffali della procura di Matera, perché ho disposto l’acquisizione di questi otto volumi del progetto DODOS, che, impressionante per lo spessore scientifico, aveva tutta la dignità per rappresentare una validissima alternativa al sistema dell’interramento dei rifiuti in cavità geologiche. Questi sono gli episodi che posso riportare”.
2.3 – Annotazioni di servizio della scorta del dottor Neri. Nelle relazioni di servizio redatte dall’agente scelto Giovanni Bellantone, addetto alla tutela del magistrato titolare delle indagini, dottor Neri, si fa riferimento, oltre che a pedinamenti subìti ad opera di ignoti in diverse città d’Italia ove gli inquirenti si erano recati per ragioni investigative, anche ad intercettazioni telefoniche tra ignoti interlocutori nelle quali si parlava della necessità di far “saltare” anche la scorta del magistrato. Si riporta un estratto della relazione di servizio del 20 marzo 1995: “durante il nostro soggiorno nella città di Savona, ci accorgevamo della presenza insistente di alcuni individui nei vari percorsi che facevamo nelle vie della città. Le persone di cui sopra si contattavano tra di loro tramite cellulare, e indicavano come “cellule” gli uomini che erano di “scorta”. Venivamo comunque notiziati che vi era stata un’intercettazione telefonica dove si parlava di far saltare pure la “scorta” e un’altra dove si parlava della presenza del giudice (dottor Neri) in città: inoltre la stampa locale pubblicava e veniva a conoscenza di cose che nessuno di noi aveva comunicato loro. Stesso controllo nei nostri confronti veniva notato nella città di Firenze, ed ancora più insistentemente nella città di Roma dove persone non identificate prendevano posto anche in ristoranti dove noi eravamo intenti a consumare i pasti”. Si riporta poi un estratto della relazione di servizio del 18 maggio 1995: “in data odierna unitamente al dottor Neri ci recavamo alla procura circondariale di Catanzaro, durante il tragitto sull’autostrada A3 SA-RC corsia nord ci accorgevamo della presenza insistente di una BMW 520 nei pressi dello svincolo di Vibo-Pizzo, rallentavamo la corsa e l’autovettura di cui sopra era costretta a superarci cosicchè per motivi di sicurezza decidevamo di uscire allo svincolo e di proseguire dalla statale per Catanzaro. Dopo qualche chilometro venivamo agganciati da un’altra autovettura: trattasi di una Fiat Croma che con fare sospetto ci ha dapprima superato e successivamente si è posizionata dietro la nostra autovettura. Anche in questo caso eravamo costretti a rallentare la corsa per cercare di farci superare, e facevamo una sosta di qualche minuto presso un’area di servizio. Arrivati sul posto cui eravamo diretti e preoccupati per queste vicende, decidevo di telefonare al mio ufficio di appartenenza per effettuare accertamenti, ed il collega Bosco, in maniera tempestiva, mi faceva pervenire i dati qui sotto riportati:
- Bmw 520 tg. RC 476645 intestata ad Alvaro Antonio, nato a Siderno il 15 dicembre 1947 ivi res. in via Palermo, pregiudicato per reati finanziari;
- Fiat Croma tg. SV 413337 risultata rubata il 26 marzo 1993. Faccio inoltre presente che la persona sul sedile posteriore della bmw era munita di una radio portatile e di queste situazioni ci siamo resi conto immediatamente tutti gli abitanti dell’autovettura blindata (dottor Neri, comandante De Grazia della Capitaneria di porto di Reggio Calabria, autista Barberi)”.
2.4 – Le dichiarazioni dell’ex colonnello Rino Martini. Il colonnello del Corpo forestale dello Stato Rino Martini, è stato audito dalla Commissione in data 17 febbraio 2010. In tale occasione ha reso dichiarazioni anche in merito agli episodi di intimidazione di cui sopra. Tali dichiarazioni sono state riportate già nel paragrafo relativo ai rapporti con i servizi (cfr. cap. 1, par. 1.12).
2.5 – Le dichiarazioni dell’Ispettore De Podestà. In data 17 febbraio 2010 è stato audito dalla Commissione l’ispettore De Podestà, appartenente al Corpo forestale dello Stato di Brescia. Alla domanda, posta dalla Commissione se lo “smantellamento” del gruppo investigativo fosse stato determinato anche dal fatto “che stavate pestando piedi importanti” , lo stesso ha risposto in questi termini: “Come sensazione sì, come riferimenti precisi no. I rapporti, finché c’è stato il colonnello Martini, li teneva lui con gli uffici superiori, sia con il comando regionale sia con il comando centrale di Roma. Quanto al fatto che, mentre si svolgeva attività investigativa, sorgevano incombenze ingiustificate a livello amministrativo, se n’é occupata anche la stampa e se ne occupò addirittura la magistratura, specificando che stavamo svolgendo delle indagini in campo nazionale e internazionale, quindi sembrava improprio che l’ufficio fosse smembrato per occuparsi anche dei compiti di carattere amministrativo”.
2.6 – Accertamenti svolti in conseguenza degli episodi denunciati. A fronte degli episodi sopra descritti non pare che siano state avviate specifiche indagini finalizzate ad accertare se gli episodi medesimi fossero effettivamente intimidatori nei confronti degli inquirenti né risultano svolti accertamenti finalizzati ad individuarne gli autori. Peraltro deve evidenziarsi che gli inquirenti hanno più volte dichiarato di sentirsi controllati e seguiti nel corso delle attività investigative fuori sede. Ebbene, data l’importanza delle indagini e la gravità dei fatti esposti, sfugge la ragione per la quale non siano state avviate immediatamente indagini mirate. Quando è stato chiesto al dottor Pace (nel corso dell’audizione avanti alla Commissione) per quale motivo non furono immediatamente effettuate verifiche sul camioncino che ritenevano li seguisse e costituisse una sorta di postazione di controllo della loro attività, lo stesso ha risposto che non si intervenne immediatamente onde evitare che ciò potesse pregiudicare l’esito di ulteriori successivi accertamenti. Tuttavia, deve osservarsi come, per quanto risulta alla Commissione, neanche in seguito sia stata avviata alcuna indagine sul punto. Ad oggi, in mancanza di elementi di supporto, non è possibile sostenere nulla di più di quanto già all’epoca affermato dai magistrati e dai soggetti coinvolti nella vicenda in esame.
3. LO SFALDAMENTO DEL GRUPPO INVESTIGATIVO E L’ESITO DELLE INDAGINI. Come evidenziato, la morte del capitano De Grazia segnò, obiettivamente, un forte rallentamento nelle indagini. Nello stesso periodo di tempo, il colonnello Rino Martini assunse altro incarico presso un’azienda municipalizzata, il maresciallo Moschitta andò in pensione, il carabiniere Francaviglia fu trasferito, l’ispettore Tassi cessò di prestare la sua collaborazione.
Lo stesso magistrato che aveva fin dall’inizio assunto la direzione delle indagini, il dottor Neri, appena sei mesi dopo la morte di De Grazia si spogliò del procedimento, trasmettendolo per competenza alla procura presso il tribunale di Reggio Calabria, avvendo ipotizzato reati di competenza del tribunale. In merito agli avvenimenti successivi alla morte del capitano De Grazia, il maresciallo Scimone, nel corso dell’audizione del18 gennaio 2011 avanti alla Commissione, ha dichiarato: “In seguito alla morte di De Grazia c’è stato praticamente un terremoto (…) C’è stato un momento di sbandamento e sei o sette mesi dopo la morte di De Grazia fu diffusa questa notizia dei Morabito e a quel punto abbiamo dovuto alzare le mani. Io mi sono offerto anche di collaborare con la DDA in qualità di polizia giudiziaria per conoscere il fascicolo, che ho catalogato e consegnato personalmente”.
3.1 – L’incarico assunto dal colonnello Rino Martini presso la società municipalizzata di Milano per lo smaltimento rifiuti. Il 1° dicembre 1995, pochi giorni prima della morte del capitano De Grazia, il colonnello Martini lasciò l’incarico di colonnello del Corpo forestale dello Stato per assumere il ruolo di direttore operativo della società municipalizzata di Milano impegnata a fronteggiare l’emergenza rifiuti. In merito alle ragioni che determinarono tale scelta, l’ex colonnello ha dichiarato alla Commissione in data 17 febbraio 2010: “Era un salto di qualità dal punto di vista professionale e anche uno stimolo, quindi ho deciso di accettare (…) Mi sono dimesso il 16 ottobre 1995, e il 17 ottobre avevo già il decreto del Ministero dell’agricoltura firmato che accettava le mie dimissioni, quindi era già passato all’Ufficio regionale, era già andato al Ministero dell’agricoltura, ove era già stato accettato (…) È stata una scelta consapevole. Se avessi ricevuto pressioni esterne tali da portarmi ad accettare un posto migliore, non avrei mai dato le dimissioni. Alcune componenti ambientali quell’anno mi hanno un fatto capire che stavamo toccando interessi che andavano ben oltre le nostre possibilità, in particolare quelle di un Corpo forestale che non gode di protezioni di servizi o di altri apparati dello Stato, perché fra le cinque Forze di polizia è la struttura più debole da questo punto di vista.
Si sono verificate situazioni delicate come i controlli cui siamo stati oggetto durante l’attività investigativa, ma si percepiva tutti i giorni un’atmosfera molto difficile e delicata.” Deve, peraltro, essere sottolineata una circostanza che suscita qualche perplessità in ordine alle risposte fornite dal colonnello Martini. Lo stesso, invero, venne sentito a sommarie informazioni dal magistrato dottor Neri in data 7 marzo 1996, sempre nell’ambito del procedimento 2114/94 RGNR. Alla domanda – subito posta dal magistrato – circa le ragioni che lo avevano indotto a lasciare l’incarico all’interno del Corpo forestale dello Stato, il colonnello Martini rispose di averlo fatto per motivi personali e “per altri motivi che al momento mi riservo di comunicare in seguito (…) Non appena mi sarà possibile chiarirò eventualmente ed in dettaglio i motivi che mi hanno indotto a lasciare il mio Corpo. Non escludo di poter rientrare nuovamente in servizio” (doc. 681/33). E’ evidente, allora, che vi fossero motivazioni di ordine non personale che – né all’epoca né successivamente – il colonnello Martini ha voluto riferire.
3.2 – Il decesso del capitano De Grazia. Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1995 il capitano De Grazia partì, unitamente al maresciallo Moschitta e al Carabiniere Francaviglia, con autovettura di servizio, alla volta di La Spezia per dare esecuzione alle deleghe di indagine, firmate dal procuratore Scuderi e dal sostituto Neri, finalizzate ad acquisire maggiori elementi di conoscenza in merito all’affondamento di alcune navi. Durante il viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre 1995, il capitano De Grazia venne colto da malore e, quindi, trasportato, dall’ambulanza nel frattempo intervenuta, presso il pronto soccorso dell’ospedale di Nocera Inferiore, ove giungeva cadavere. In data 22 dicembre 1995 il capitano Antonino Greco, comandante del nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria, rimise al procuratore della Repubblica presso la pretura di Reggio Calabria, dott. Scuderi, le sei deleghe di indagine datate 11 dicembre 1995 “non potute evadere a causa del decesso del capitano di corvetta Natale De Grazia”.
3.3 – Il pensionamento del maresciallo Moschitta e il trasferimento del carabiniere Francaviglia. Il 14 ottobre 1996 (all’età di 44 anni), il maresciallo Moschitta andò in pensione, su sua domanda avanzata nel giugno 1996, come dallo stesso dichiarato al pubblico ministero Russo, in data 9.4.97. Nel corso dell’audizione dell’11 marzo 2010 avanti alla Commissione, il maresciallo ha spiegato le ragioni della sua scelta: “Dopo aver depositato l’ultimo atto in merito alle indagini sui radioattivi, sono andato in pensione. Era il 14 ottobre 1996, due giorni dopo aver depositato l’informativa che avevo promesso alla buonanima di Natale De Grazia. Anche se lui in quel momento non c’era più, gli avevo promesso che, anche se fosse stato l’ultimo atto della mia carriera, avrei portato avanti le sue indagini fino a quando avessi potuto. Dopo la sua morte mi sono sentito male, i miei valori si sono sballati, tanto che successivamente ho avuto un infarto e mi sono stati applicati due by-pass” . Nella successiva audizione del 10 maggio 2010 il maresciallo Moschitta ha precisato di essere stato collocato in pensione con la dicitura «per massimo periodo previsto» in quanto all’epoca, la normativa prevedeva, quale periodo massimo per il pensionamento, venticinque anni di servizio effettivi, più cinque di abbuono. Il maresciallo si è così espresso: “Sarei potuto rimanere, ma mi sentivo stanco. Dopo la morte di De Grazia, i miei valori sono sballati. Non mi sentivo bene, tanto che, a distanza di un anno, ho avuto un infarto e, a distanza di un altro anno, ho dovuto fare un’operazione per impiantare due bypass al cuore. Questa indagine mi ha effettivamente stressato oltre il consentito”. L’altro compagno di viaggio del capitano De Grazia, il carabiniere Rosario Francaviglia, ha dichiarato, in sede di audizione avanti alla Commissione, di aver chiesto il trasferimento a Catania, vicino casa, subito dopo la morte del capitano. Ha specificato che già in precedenza aveva avanzato diverse richieste di trasferimento, ma tutte avevano avuto esito negativo. Secondo quanto riferito, per l’ultima domanda “stavano ritardando il trasferimento proprio perché avevamo l’indagine in corso. Mi era già arrivato esito negativo, dopodiché ho ripresentato domanda e il trasferimento è avvenuto nel 1996”. La Commissione ha domandato al carabiniere Francaviglia cosa avesse fatto successivamente e lui ha risposto: “ Ho smesso, anzitutto perché l’indagine era passata al dottor Cisterna, se non erro, in procura. Ero stato interpellato per continuare a partecipare all’indagine e ho rifiutato, perché non ne avevo più intenzione, non ero più interessato. Avevo perso interesse per quell’indagine, non so se a causa di quell’episodio ”.
3.4 – La cessata collaborazione da parte dell’ispettore superiore del Corpo forestale dello Stato Claudio Tassi. Nel corso dell’audizione avanti alla Commissione avvenuta in data 24 febbraio 2010, l’isp. Tassi (il quale aveva avuto un ruolo importante nelle indagini, soprattutto per i suoi contatti con la fonte confidenziale “Pinocchio”) ha confermato la circostanza di non essersi più occupato delle indagini dopo qualche mese dal decesso del capitano De Grazia. Alla domanda se si fosse trattato di una sua iniziativa, l’ispettore ha risposto negativamente. Testualmente, ha dichiarato (pag. 6): “non posso dire di essere stato escluso dall’attività investigativa, ma era un filone di Brescia, quindi può anche darsi che chi seguiva quel filone abbia deciso di proseguire da solo”.
3.5 – La trasmissione del procedimento n. 2114/94 per competenza alla procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria. In data 27 giugno 1996 il dott. Francesco Neri trasmise alla procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria il procedimento penale n. 2114/94 iscritto a carico di Giorgio Comerio + altri, ipotizzando la sussistenza dei reati di competenza del tribunale di cui agli articoli 110, 428 e 110, 434 del codice penale. Dal procedimento trasmesso nacquero, presso la procura presso il tribunale di Reggio Calabria, i seguenti procedimenti, affidati entrambi al dottor Alberto Cisterna:
- il primo, recante il n. 100/1995 R.G.N.R., volto a verificare l’ipotesi di traffico di armi;
- il secondo, recante il n. 1680/96 R.G.N.R., volto a verificare l’ipotesi del traffico di rifiuti radioattivi tramite affondamenti di navi (in particolare la Rigel e la Rosso) nonché la riconducibilità di tali azioni a Giorgio Comerio ed altri indagati. In data 9 ottobre 1996 venne depositata l’informativa riassuntiva delle indagini sino a quel momento svolte dalla procura circondariale di Reggio Calabria, informativa firmata dal comandante Greco, ma redatta dal maresciallo Nicolò Moschitta pochi giorni prima del suo pensionamento (doc. 319/1). Entrambi i procedimenti menzionati furono definiti con decreto di archiviazione. Nel procedimento n. 1680/96, peraltro, alcune ipotesi di reato non furono archiviate ed i relativi atti vennero trasmessi alle procure di La Spezia e di Lamezia Terme, ritenute competenti territorialmente.
PARTE SECONDA – LE CAUSE DELLA MORTE DEL CAPITANO DE GRAZIA E L’INCHIESTA DELLA MAGISTRATURA
1.
1.1 – Il decesso del capitano De Grazia. Il 13 dicembre 1995, a soli 39 anni, il capitano De Grazia è deceduto per cause che a molti, compresi i pubblici ministeri titolari dell’indagine allora in corso, apparvero quanto meno sospette e che ancora oggi, a distanza di anni, continuano ad essere considerate tali (in questi termini si sono espressi sia il dottor Neri che il dottor Pace nel corso dell’audizione innanzi a questa Commissione parlamentare). Il dottor Pace, in particolare, nell’audizione del giorno 20.1.10, ha dichiarato: “Quando è giunta la notizia della morte di De Grazia io, Neri ed altri non abbiamo avuto dubbi sul fatto che quella morte non fosse dovuta a un evento naturale. Avevo sentito De Grazia alle 10,30 di quella mattina, mi aveva detto che con una delega di Neri si sarebbe recato prima a Massa Marittima e poi a la Spezia, mi avrebbe aspettato a Reggio Calabria per portarmi con una nave sul punto esatto in cui è affondata la Rigel. Alle 10,30 del 13 dicembre, giorno in cui è morto, ricevetti questa sua telefonata in ufficio, ma non sono in grado di fornire elementi obiettivi”. Cosa accadde quel giorno? Ciò che accadde è stato ricostruito dagli inquirenti esclusivamente sulla base della relazione di servizio e delle testimonianze rese dal maresciallo Nicolò Moschitta e dal carabiniere Rosario Francaviglia, i quali il 12 dicembre 1995 si trovavano con il capitano De Grazia, diretti al porto di La Spezia, ove avrebbero dovuto dare esecuzione ad alcune deleghe dell’autorità giudiziaria cui si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti. Si trattava di un’attività alla quale avrebbe dovuto necessariamente partecipare il capitano De Grazia, in ragione di una competenza specifica nella materia marittima, tale da renderlo elemento insostituibile nello svolgimento delle indagini. Sono state acquisite dalla Commissione le copie delle deleghe di indagini emesse dal magistrati di Reggio Calabria in data 11 dicembre 1995 (di cui si è trattato nella parte prima, capitolo 1, paragrafo 1.10).
Dunque, il capitano De Grazia partì, unitamente al maresciallo Moschitta e al carabiniere Francaviglia, alla volta di La Spezia, in data 12 dicembre 1995, nel tardo pomeriggio. Secondo quanto emerso dalle indagini, durante il viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre 1995 il capitano venne colto da malore e, quindi, trasportato in ambulanza presso l’ospedale civile di Nocera Inferiore, ove giunse cadavere. Come già evidenziato, il decesso del capitano De Grazia ha coinciso con una fase di rallentamento (e successivamente) di vero e proprio arresto delle indagini che lo stesso stava portando avanti. Dal momento della sua morte in poi vi è stato un progressivo sfaldamento dell’attività investigativa concomitante a quello del pool che fino ad allora aveva profuso impegno ed energie negli accertamenti connessi al traffico di rifiuti radioattivi.
1.2 – Il procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore. A seguito del decesso del capitano De Grazia venne aperto un procedimento dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore, territorialmente competente in relazione al luogo del decesso. Gli atti del procedimento sono stati acquisiti in copia dalla Commissione (doc. 321/1 e 321/2). E’ importante seguire la scansione temporale degli atti procedimentali compiuti nell’ambito della suddetta indagine, per poi entrare nel merito delle risultanze processuali. In sostanza, le indagini si sono articolate in due fasi: 1) la prima fase è consistita essenzialmente nell’espletamento dell’autopsia sul corpo del capitano De Grazia (effettuata per rogatoria dalla procura di Reggio Calabria) nonché nell’acquisizione dell’annotazione redatta dai carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti sul posto e della relazione di servizio redatta dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francavilla nei giorni successivi al decesso. In questa fase non sono stati svolti ulteriori accertamenti né presso il ristorante “Da Mario”, ove il capitano De Grazia cenò per l’ultima volta unitamente ai suoi compagni di viaggio, né presso altri luoghi. E neppure sono state sentite a sommarie informazioni le persone che avevano assistito ai fatti, come il maresciallo Moschitta, il carabiniere Francaviglia, i medici del pronto soccorso, il personale dell’ambulanza e gli appartenenti al nucleo mobile della stazione Carabinieri intervenuti sul posto. Nessuna informazione dettagliata è stata, poi, acquisita formalmente in merito alle indagini che il capitano De Grazia si accingeva a svolgere a La Spezia. Sulla base, dunque, dei risultati dell’autopsia contenuti nella relazione depositata nel marzo 1996 dal medico legale nominato dal pubblico ministero è stata richiesta ed ottenuta l’archiviazione del procedimento. La seconda fase del procedimento è stata avviata un anno dopo, a seguito della istanza di riapertura delle indagini presentata dai congiunti del capitano De Grazia. Seguendo in parte le indicazioni contenute in detta istanza, il pubblico ministero titolare del procedimento (sostituto procuratore Giancarlo Russo) si recò a Reggio Calabria per sentire personalmente a sommarie informazioni il sostituto Francesco Neri, i carabinieri Moschitta e Francaviglia, la signora Vespia e il signor Pontorino (rispettivamente moglie e cognato del capitano De Grazia) ed, infine, il dottor Asmundo (consulente medico legale di parte) e la dottoressa Del Vecchio. Dispose, quindi, una nuova consulenza medico legale, affidandosi allo stesso consulente che aveva espletato la prima, ossia alla dottoressa Simona Del Vecchio, successivamente risentita a sommarie informazioni dal magistrato. Delegò, infine, i Carabinieri per effettuare accertamenti presso il ristorante “Da Mario”. Anche in questa seconda fase delle indagini si è rivelata dirimente, ai fini della successiva archiviazione, la relazione di consulenza tecnica medico legale con la quale si è ribadito che il decesso era riconducibile a cause naturali, non essendo state riscontrate anomalie neanche a seguito degli ulteriori esami tossicologici e istologici effettuati sui tessuti prelevati.
1.3 – Gli atti del procedimento. Si riporta, di seguito, la cronologia degli atti contenuti nel fascicolo aperto dalla procura di Nocera inferiore, utili alla ricostruzione degli eventi e delle indagini che furono compiute:
- alle ore 00:15 del 13 dicembre 1995 la centrale operativa dei Carabinieri ordinò all’aliquota radiomobile della Compagnia di Nocera Inferiore di recarsi presso l’autostrada A/30, un chilometro prima della barriera autostradale di Mercato San Severino (SA), in quanto all’uscita di una galleria vi era un’autovettura con a bordo persona colta da malore. Contestualmente venne allertata l’autoambulanza;
- dall’annotazione di servizio redatta in data 13 dicembre 1995 alle ore 6:30 dai Carabinieri dell’aliquota radiomobile risulta che i Carabinieri e l’autoambulanza arrivarono contemporaneamente sul posto ove trovarono sulla corsia di emergenza, di fianco allo sportello posteriore destro di una Fiat Tipo, un uomo (poi identificato con il capitano De Grazia) posto sul manto stradale, in posizione supina, subito soccorso e trasportato presso l’ospedale di Nocera Inferiore. Giunti presso il nosocomio, i militari appurarono, tramite il sanitario di guardia, dottor Amodio, che il capitano era deceduto durante il tragitto verso l’ospedale (come da referto 2618 del 13 dicembre 1995). Vennero avvisati i familiari. La borsa e gli effetti personali del capitano De Grazia vennero consegnati ad un militare in caserma, mentre la valigetta 24 ore contenente gli atti di cui al procedimento n. 2114/94 R.G.N.R. venne consegnata al maresciallo Moschitta;
- alle ore 11.40 del 13 dicembre 1995, i carabinieri della stazione CC Nocera Inferiore trasmisero un fax alla locale procura della Repubblica, comunicando che alle ore 0.50 era giunto, presso il Pronto soccorso dell’ospedale civile di Nocera Inferiore, il corpo del cap. De Grazia e che il medico di guardia aveva accertato come causa della morte “infarto del miocardio” con conseguente arresto cardio-circolatorio;
- il referto 2618 del 13 dicembre 1995, sottoscritto dal medico di guardia dottor Amodio, risulta acquisito dai CC di Nocera Inferiore: in esso si attesta che il Capitanto giunse cadavere al pronto soccorso (doc. 1245/3);
- venne iscritto, presso la procura circondariale di Reggio Calabria, il procedimento modello 45 (da riferire ad atti non costituenti notizia di reato) avente n. 1611/95;
- sempre in data 13 dicembre 1995 venne rilasciato dal pubblico ministero titolare del procedimento, dottor Giancarlo Russo, il nulla osta al seppellimento, ove venne indicata, quale causa della morte, “infarto miocardico – arresto cardiocircolatorio” e, quale medico legale intervenuto, il dottor Contaldo;
- il giorno seguente, il procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, segnalò, con una nota scritta alla procura di Nocera Inferiore, l’opportunità di disporre l’esame autoptico sulla salma del capitano De Grazia;
- a seguito di tale nota, il 15 dicembre 1995 il pubblico ministero di Nocera Inferiore delegò la procura della Repubblica di Reggio Calabria ad effettuare per rogatoria il disseppellimento del cadavere, nel frattempo trasportato a Reggio Calabria, e l’esame autoptico; nella medesima delega, il pubblico ministero Russo segnalò, inoltre, l’opportunità di escutere a sommarie informazioni testimoniali i carabinieri che avevano viaggiato con il capitano e ogni altra persona (familiari, investigatori) in grado di riferire circostanze utili alle indagini “volte a chiarire con certezza la causalità del decesso”;
- nella stessa data il pubblico ministero della procura di Reggio Calabria (dottoressa Apicella) dispose il disseppellimento del cadavere del Cap. De Grazia;
- il 18 dicembre 1995 Anna Maria Vespia (moglie del capitano De Grazia) nominò consulente tecnico di parte il dottor Asmundo, primario presso l’Istituto di medicina legale dell’Università di Messina.
- il 19 dicembre 1995 venne conferito l’incarico alla dottoressa Del Vecchio per effettuare l’autopsia nonché l’esame istologico e chimico tossicologico dei tessuti;
- il 22 dicembre 1995 il comandante del reparto operativo – nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria, Antonino Greco, trasmise al procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, una nota con la quale restituiva le sei deleghe ricevute e non potute evadere in ragione del decesso del capitano De Grazia, allegando la relazione redatta dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia in merito ai fatti occorsi in data 12 e 13 dicembre 1995, nonché la relazione di servizio redatta dal nucleo radiomobile dei carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti sull’autostrada su richiesta del maresciallo Moschitta. Nella nota di trasmissione il comandante Greco specificò che la valigetta che De Grazia aveva a con sé il giorno del decesso, consegnata al maresciallo Moschitta dai carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti, era stata riconsegnata al dottor Neri il giorno 21 dicembre 1995;
- in data 8 gennaio 1996 la nota e le relazioni allegate furono trasmesse via fax dal procuratore Scuderi al sostituto procuratore Giancarlo Russo;
- il 12 marzo 1996 il medico legale, dottoressa Del Vecchio, depositò la relazione di consulenza tecnica: il decesso del capitano venne ricondotto “ad una morte di tipo naturale, conseguente ad una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa”;
- vennero, quindi, trasmessi gli atti alla procura della Repubblica di Nocera Inferiore;
- il 9 luglio 1996 il sostituto procuratore dottor Russo richiese l’archiviazione, accolta dal Gip il successivo 28 settembre 1996;
- nessuna altra indagine venne svolta in questa fase: in sostanza, l’archiviazione venne chiesta e disposta sulla base della relazione redatta dai carabinieri Moschitta e Francaviglia e dei risultati dell’autopsia, mentre non ebbero seguito le ulteriori (e pur generiche) attività investigative di cui alla delega del pubblico ministero Russo del 15 dicembre 1995;
- In data 8 marzo 1997 i prossimi congiunti del capitano De Grazia chiesero la riapertura delle indagini (allegando la consulenza tecnica di parte, redatta dal dottor Asmundo, che fino a quel momento non risultava essere stata depositata) sulla base di una serie di considerazioni: la necessità di chiarire per quale motivo i due consulenti (quello d’ufficio e quello di parte) fossero giunti a conclusioni diverse; la necessità di sentire altre persone informate sui fatti (parenti, ufficiali di polizia giudiziaria, magistrati) nonché di identificare gli ufficiali del S.I.O.S. della Marina militare con cui De Grazia avrebbe avuto contatti prima a Messina e poi a Roma;
- negli atti trasmessi alla Commissione non vi è traccia del provvedimento di riapertura delle indagini; in ogni caso, dagli stessi si ricava che venne iscritto un procedimento a carico di ignoti (procedimento penale n. 251/97, mod. 44) per il reato di cui all’articolo 575 del codice penale (omicidio);
- in data 1° aprile 1997 il pubblico ministero conferì una delega ai CC per accertamenti in merito al ristorante “da Mario”, ove si fermarono a cenare De Grazia, Moschitta e Francaviglia;
- l’esito delle indagini, per la verità poco produttive perchè disposte a distanza di tempo dai fatti, venne trasmesso in data 8 aprile 1997;
- in data 8 e 9 aprile 1997 vennero sentiti personalmente dal pubblico ministero di Nocera Inferiore le seguenti persone: il maresciallo Moschitta e il maresciallo Rosario Francaviglia, il dottor Neri, Francesco Postorino (cognato di De Grazia), il dottor Asmundo, Anna Maria Vespia (moglie del capitano De Grazia);
- il 23 aprile 1997 il pubblico ministero dottor Russo sentì a chiarimenti la dottoressa Del Vecchio in merito alle osservazioni formulate dal consulente tecnico di parte dottor Asmundo nonché in merito agli ulteriori possibili accertamenti tossicologici;
- in data 12 giugno 1997 il pubblico ministero dispose il disseppellimento del cadavere del capitano De Grazia;
- il 18 giugno 1997 venne conferito nuovo incarico alla dottoressa Del Vecchio al fine di effettuare ulteriori accertamenti chimico-tossicologici;
- in data 11 dicembre 1997 venne depositata la consulenza medico legale e, nello stesso giorno, fu sentita a chiarimenti la dottoressa Del Vecchio;
- in data 28 luglio 1998 venne nuovamente formulata richiesta di archiviazione, accolta dal Gip a quattro anni di distanza con provvedimento consistente nell’apposizione, in calce alla richiesta di archiviazione, di un timbro recante, in luogo della parte motiva del provvedimento, la dicitura prestampata “letti gli atti, condivisa la richiesta del pubblico ministero”. Il timbro reca la sottoscrizione del Gip, dottoressa Raffaella Caccavela e la data di deposito 26 novembre 2002 (doc. 1276/3).
1.4 – Gli elementi emersi nel corso delle indagini. 1.4.1 – La relazione di servizio e le dichiarazioni del maresciallo Moschitta e del carabiniere Francaviglia. I militari che si trovavano con il capitano De Grazia al momento dell’evento redassero una relazione di servizio il 22 dicembre successivo, descrivendo analiticamente il viaggio, le tappe effettuate e le circostanze che accompagnarono il decesso del loro collega. Nell’aprile 1997 gli stessi vennero sentiti a sommarie informazioni dal pubblico ministero Russo. Dalla relazione e dalle loro dichiarazioni risulta quanto segue: i militari partirono da Reggio Calabria alle ore 18.50 del 12 dicembre 1995 a bordo di autovettura di servizio, una Fiat Tipo con targa di copertura, appartenente al reparto operativo del Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria e nel corso del viaggio vennero effettuate quattro soste:
- la prima, presso l’autogrill di Villa San Giovanni, ove scese dal mezzo solo il capitano De Grazia per acquistare delle sigarette;
- la seconda, presso l’autogrill di Cosenza, ove scesero il maresciallo Moschitta e il carabiniere Francaviglia;
- la terza, presso l’autogrill di Lauria, ove venne effettuato rifornimento di carburante (nessuno scese dall’auto);
- la quarta, in località Campagna, dove i militari decisero di fermarsi intorno alle ore 22.30 per recarsi presso il ristorante “Da Mario”. A detta dei militari, quest’ultima tappa non era stata programmata. Dalla relazione di servizio risulta che i tre militari non furono avvicinati da alcuno durante le soste. Nel ristorante, a parte il cameriere e il titolare, c’erano solo altre due persone che stavano per ultimare la loro cena e che, dopo poco, andarono via salutando il titolare del ristorante amichevolmente (in modo tale da potersi dedurre che ci fosse tra loro un rapporto di pregressa conoscenza o familiarità). Secondo il racconto conforme dei due Carabinieri, presso il ristorante mangiarono tutti le stesse cose, a parte una fetta di torta che fu ordinata solo dal capitano De Grazia, bevvero tutti un po’ di vino e del limoncello e intorno alle 23.30 ripresero il viaggio. Alla guida dell’autovettura si pose il Carabiniere Francaviglia, sul sedile lato passeggero si sedette il capitano De Grazia e sui sedili posteriori il maresciallo Moschitta. Il capitano si addormentò e iniziò a russare rumorosamente. Quando giunsero nei pressi del casello autostradale Caserta-Roma, il capitano chinò la testa in modo anomalo (erano le ore 24:00 circa), tanto che gli altri occupanti dell’autovettura cercarono di svegliarlo; quando gli toccarono il volto si resero conto che era freddo e sudato; quindi, superata la galleria in cui si trovavano, si fermarono nella corsia di emergenza. Il maresciallo Moschitta, resosi conto della gravità della situazione, chiamò il 112 affinché venisse inviata un’ambulanza. Rispose un operatore del 112 di Napoli che allertò – alle 00:15- i Carabinieri di Nocera Inferiore (come risulta dall’annotazione di servizio da questi ultimi redatta). Nel frattempo il Carabiniere Francaviglia provò ad effettuare una serie di massaggi cardiaci e la respirazione bocca a bocca, ciò che determinò una parziale fuoriuscita di cibo dallo stomaco del capitano De Grazia. Dopo circa venti minuti dalla chiamata giunse un’autoradio dei carabinieri del nucleo radiomobile di Nocera Inferiore unitamente ad un’ambulanza che trasportò il capitano presso il pronto soccorso dell’ospedale civile di Nocera Inferiore. Dall’annotazione di servizio redatta dai CC di Nocera Inferiore intervenuti sul posto risulta che, non appena giunsero presso il pronto soccorso (circa alle 00:50), vennero informati dal sanitario di guardia, dottor Amodio, che il capitano era deceduto durante il trasporto verso l’ospedale. I militari riferirono tale notizia ai loro superiori. Nell’annotazione si dà atto che vennero informati i familiari del capitano e che la valigetta “24 ore” appartenente al capitano De Grazia fu consegnata al maresciallo Moschitta.
Solo il mattino seguente il corpo venne esaminato tramite visita esterna dal medico legale dell’ospedale, dottor Contaldo, il quale diagnosticò la morte del capitano De Grazia per “infarto miocardico”. Il maresciallo Moschitta ha riferito di aver sottolineato subito l’opportunità di sottoporre il cadavere ad esame autoptico, circostanza che indusse il medico legale ad interpellare il magistrato di turno, dottor Russo. Questi, peraltro, sentito il parere del medico circa la causa naturale della morte, decise di non disporre l’autopsia, concedendo, poche ore più tardi, il nulla osta al seppellimento. In proposito va evidenziato che – secondo quanto invece riferito al pubblico ministero Russo da Francesco Postorino (cognato del capitano De Grazia, intervenuto presso l’ospedale) – né il maresciallo Moschitta né i congiunti stessi del capitano avanzarono richieste affinché fosse disposto l’esame autoptico. Va rilevato che non c’è nessuna testimonianza in ordine a ciò che accadde dal momento dell’arrivo al pronto soccorso fino al mattino successivo, allorquando giunse il medico legale. Si riporta, di seguito, la relazione di servizio citata, redatta il 22 dicembre 1995, firmata dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia e vistata dal comandante del Nucleo operativo A. Greco (doc. 319/1).
1.4.2 – La decisione di procedere all’accertamento autoptico. L’incarico al medico legale dottoressa Del Vecchio
Come detto, della morte del capitano fu informato anche il procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, il quale, venuto a conoscenza del fatto che il pubblico ministero di Nocera Inferiore aveva dato il nulla osta al seppellimento, inviò, in data 14 dicembre 1995, una nota alla procura della Repubblica di Nocera Inferiore sottolineando l’opportunità di far eseguire l’esame autoptico sulla salma, al fine di sgomberare il campo da ogni sospetto circa le cause della morte. Il procuratore Scuderi motivava la richiesta in ragione delle delicate e complesse indagini che stava seguendo il capitano De Grazia tendenti ad accertare se dietro il naufragio di vecchie navi si celassero episodi di illecito smaltimento di rifiuti radioattivi. Sottolineava, in particolare, “l’enorme rilevanza degli interessi in gioco, l’accertato coinvolgimento di governi, istituzioni, personalità influenti nel campo politico ed economico, il fatto che in passato le attività degli inquirenti hanno registrato inquietanti presenze (pedinamenti) sulle quali ai distanza di mesi, per quanto a conoscenza di questo ufficio, non si è fatta luce, la circostanza che l’attività di indagine che il cap. De Grazia si accingeva a svolgere poteva essere decisiva per l’individuazione di fatti–reato e responsabilità, le gravi conseguenze che sul piano investigativo provocherà il venir meno del contributo della elevatissima professionalità del succitato ufficiale” (doc. 681/87). Dunque, i primi sospetti circa un eventuale collegamento tra la morte del capitano e le indagini che lo stesso stava portando avanti furono sollevati proprio dai titolari dell’indagine sulle “navi a perdere”. La richiesta del procuratore Scuderi venne recepita dal pubblico ministero Russo il quale, il giorno successivo, delegò la procura della Repubblica di Reggio Calabria affinché venisse disposto il disseppellimento del cadavere (nel frattempo trasportato a Reggio Calabria) ed espletato l’esame autoptico; nella delega il pubblico ministero segnalò, inoltre, l’opportunità di escutere a sommarie informazioni testimoniali i carabinieri che accompagnavano il capitano e ogni altra persona (familiari, investigatori) in grado di riferire circostanze utili alle indagini “volte a chiarire con certezza la causalità del decesso”. L’autorità giudiziaria delegata (nella persona del pubblico ministero presso il tribunale di Reggio Calabria, dottoressa Apicella) dispose, quindi, il disseppellimento del cadavere che avvenne lo stesso 15 dicembre 1995, alla presenza del sanitario di polizia mortuaria dell’USL 11, nonché del maresciallo Domenico Scimone atteso che la dottoressa Apicella aveva delegato per il controllo della regolarità delle operazioni proprio gli Ufficiali della sezione di polizia giudiziaria dei CC della procura presso il tribunale di Reggio Calabria, sezione alla quale apparteneva appunto il maresciallo Scimone. L’incarico di eseguire l’autopsia e gli esami tossicologici venne affidato alla dottoressa Simona Del Vecchio (in proposito, il dottor Russo, sentito da questa Commissione in data 22 febbraio 2011, ha precisato che era stata la dottoressa Apicella, pubblico ministero presso il tribunale di Reggio Calabria, a scegliere la dottoressa Del Vecchio quale consulente). Anche i familiari del capitano nominarono un consulente medico legale (il dottor Alessio Asmundo). La scelta del dottor Asmundo avvenne su indicazione del dottor Neri, al quale la famiglia di De Grazia aveva chiesto consiglio. Il dottor Neri, sentito su questa circostanza nell’aprile 1997 dal PM Russo, ha dichiarato: “Effettivamente i familiari del capitano De Grazia mi chiesero a chi avrebbero potuto rivolgersi per una consulenza medico-legale di parte ed io indicai che noi di solito ci rivolgevamo all’Istituto di medicina legale di Messina presso il prof. Aragona o il professor Asmundo, periti di ottima preparazione”. Va evidenziato che le indagini preliminari si sostanziarono, in questa fase, esclusivamente nel conferimento dell’incarico di consulenza tecnica per l’espletamento dell’autopsia e nell’acquisizione della relazione di servizio redatta dai carabinieri Moschitta e Francaviglia. Il 19 dicembre 1995 la dottoressa Apicella, pubblico ministero presso la procura di Reggio Calabria, conferì incarico di consulenza tecnica alla dottoressa Del Vecchio in merito ai seguenti quesiti:
- accerti il consulente, previo esame autoptico della salma del capitano De Grazia la natura, le modalità e i mezzi che ne hanno cagionato il decesso;
- accerti, mediante esame istologico e chimico-tossicologico, l’eventuale presenza di sostanze tossiche o con analoghe caratteristiche, che abbiano cagionato il decesso di cui sopra. Le operazioni di consulenza si svolsero presso la camera mortuaria dell’ospedale di Reggio Calabria, alla presenza del dottor Asmundo. La dottoressa Del Vecchio, nella sua relazione depositata il 12 marzo 1996, concluse nel senso che la morte del capitano De Grazia doveva ricondursi alla cosiddetta “morte improvvisa dell’adulto, che trova origine per lo più in un’ischemia del miocardio con successive gravi turbe del ritmo cardiaco, che si manifestano anche in assenza di segni premonitori e che, dal punto di vista anatomopatologico, addirittura nella metà dei casi circa, sono caratterizzati dall’assenza di segni specifici, non solo macroscopici, ma anche microscopici e ultramicroscopici”. La morte improvvisa viene definita nella relazione come un evento repentino e inatteso caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o, almeno, di assenza di sintomi, alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore. La causa scatenante può essere determinata (oltre che da uno sforzo fisico) anche da una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità (come nel caso del capitano De Grazia) che possono determinare una condizione di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca.
1.4.3 – La relazione del consulente di parte. Differenze rispetto alla relazione del consulente del pubblico ministero
La consulenza tecnica del 18 giugno 1996 redatta dal dottor Alessio Asmundo contiene conclusioni analoghe a quelle della dottoressa De Vecchio per quanto concerne l’individuazione della natura cardiaca della morte. Se ne differenzia, invece, quanto alla descrizione dei reperti obiettivi:
- il consulente d’ufficio aveva descritto “un cuore di forma normale e volume diminuito”, mentre il consulente tecnico di parte lo descrive come un cuore leggermente globoso, con punta formata dal ventricolo sinistro e maggiore prevalenza del destro rispetto alla norma;
- il consulente d’ufficio aveva descritto “il tessuto adiposo sottoepicardico molto rappresentato con colorito grigiastro ed aspetto translucido…… il tessuto adiposo si approfondisce a tratti financo nei piani muscolari; il consulente tecnico di parte definisce, invece, il tessuto adiposo subepicardico quantitativamente e qualitativamente normo-rappresentato;
- il consulente d’ufficio aveva evidenziato un’evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro, che presentano ispessimento sia avventiziale che intimale, con lumi ristretti; mentre il consulente tecnico di parte afferma che le coronarie sono apparse esenti da alterazioni di natura aterosclerotica. In merito poi alle cause della morte, il consulente tecnico di parte conclude nel senso che “la morte di De Grazia Natale rappresenta caratteristico accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardica acuta da miocitosi coagulativa da superlavoro in soggetto affetto da cardiomiopatia dilatativa”. Il dottor Asmundo è stato sentito a sommarie informazioni dal pubblico ministero dottor Russo al fine di fornire chiarimenti in merito alla sua relazione ed, in tale occasione, ha sostenuto che:
- il capitano De Grazia era morto per una causa patologica naturale essendo affetto da cardiomiopatia dilatativa da catecolamine;
- non condivideva quanto sostenuto dalla dottoressa Del Vecchio in merito al volume del cuore ed all’eccesso di grasso, non avendo riscontrato tali anomalie;
- si era trattato, quindi, di una morte improvvisa da causa cardiaca, che però il consulente tecnico d’ufficio ricollegava ad un meccanismo patogenetico diverso, connesso a problemi di trasmissione dell’impulso cardiaco. Il dottor Asmundo, pur non avendo partecipato agli esami tossicologici per non essere stato avvisato, a suo dire, dalla collega, ha però affermato che erano stati effettuati tutti gli accertamenti tossicologici in merito all’eventuale ingestione di sostanze venefiche.
1.4.4 – Gli ulteriori accertamenti disposti su richiesta dei familiari del capitano De Grazia. A seguito del deposito della relazione da parte del consulente tecnico di parte, i familiari della vittima depositarono – nel marzo 1997 – una richiesta di riapertura indagini. In sostanza, lamentavano le carenze investigative dell’inchiesta svolta, non essendo state ascoltate le persone che avrebbero potuto fornire maggiori informazioni sulle circostanze particolari del decesso (ad esempio i carabinieri che viaggiavano con il capitano De Grazia, il dottor Neri, il maresciallo Scimone) e non essendo stato effettuato alcun accertamento in merito al ristorante ove il capitano aveva presumibilmente mangiato il 12 gennaio 1995. Vennero, quindi, effettuati gli ulteriori approfondimenti richiesti a distanza di un anno e mezzo dai fatti. Si accertò che effettivamente in località Campagna era attivo (anche all’epoca dei fatti) il ristorante “Da Mario”, gestito dal titolare Desiderio D’Ambrosio, dalla madre Antonina Adelizzi e dalla convivente Antonina D’Elia, tutti esenti da pregiudizi penali. Si accertò che la conduzione era di tipo familiare e che i titolari si avvalevano di personale esterno solo in occasione di banchetti o cerimonie. Deve, peraltro, rilevarsi che non furono mai sentiti i gestori del ristorante né fu mai effettuato un sopralluogo. Vennero, invece, sentiti a sommarie informazioni i congiunti del capitano De Grazia, il consulente tecnico di parte dottor Asmundo, il sostituto procuratore dottor Neri e i carabinieri Moschitta e Francaviglia, ma non il maresciallo Scimone. Per primo, in data 8 aprile 1997 venne sentito Postorino Francesco, cognato del capitano De Grazia, il quale, oltre a riferire in merito alle preoccupazioni che il capitano aveva per la sua incolumità in relazione alle indagini che stava svolgendo (preoccupazioni che aveva confidato al cognato), parlò dei sospetti che il capitano nutriva sul maresciallo Scimone. Il signor Postorino si espresse in questi termini: “Posso dirle che mio cognato mi ha riferito in qualche occasione di un comportamento strano del maresciallo Scimone del nucleo operativo dei carabinieri di Reggio il quale faceva parte dello stesso gruppo investigativo coordinato dal dottor Neri. In particolare si riferì ad una strana condotta del maresciallo Scimone durante una certa perquisizione o un sopralluogo in Roma o nelle vicinanze senza però chiarirmi altro. Mi disse che in quella occasione la persona che si trovava in casa gli riferiva di essere amico di ammiragli e persone influenti, senza però chiarirmi altro. Qualche giorno prima della morte, sicuramente tra il giorno dell’Immacolata ed il 12 dicembre mi confessò in modo esplicito di essersi accorto che un suo collaboratore nelle indagini passava informazioni riservate ai servizi segreti deviati. Quando sulla base di quei sospetti da lui esplicitati in precedenza io gli feci il nome del maresciallo Scimone lui mi confermò facendo un cenno di assenso. Oltre questo non mi ha mai detto nient’altro che possa essere utile alle indagini. ADR: mio cognato mi ha anche ritento in più di una occasione di aver subito pressioni ma non ha specificato da parte di chi, so soltanto che una volta mi disse che se voleva poteva essere già ammiraglio. Presumo pertanto che lui facesse riferimento a pressioni che in qualche modo riceveva per le indagini che andava svolgendo da ambienti interni alla Marina o ad altri organismi statali (…) ricordo che mio cognato mi riferì, dopo l’inizio della sua partecipazione alle indagini, che era stato chiamato presso lo Stato maggiore della Marina a Roma per riferire sulle indagini. All’inizio delle indagini mi disse che doveva andare a Messina per incontrarsi con una persona dei servizi segreti della Marina, come da sua richiesta, proprio in relazione alle indagini che avrebbe compiuto”. In data 8 aprile 1997 venne sentita anche la moglie del capitano De Grazia, Anna Maria Vespia. La stessa riferì, in sintesi:
- che era a conoscenza delle delicate indagini condotte dal marito sui rifiuti radioattivi, per le quali lo stesso appariva pensieroso e preoccupato;
- che il marito non le aveva mai riferito di aver ricevuto minacce, seppur le aveva fatto capire la delicatezza delle indagini;
- che le sembrava strano il fatto che i carabinieri che accompagnavano il marito, invece di portarlo subito in ospedale, si fossero fermati sulla strada in attesa dei soccorsi;
- che il marito aveva posticipato la partenza per La Spezia di un giorno in quanto lei aveva la febbre;
- che nutriva dei dubbi sulla “causa naturale” della morte del marito, il quale aveva sempre goduto di ottima salute e si sottoponeva, come membro della Marina, ad analisi periodiche (ogni due anni);
- che il maresciallo Moschitta si era contraddetto in quanto da un lato le aveva parlato dei rapporti informali ed amichevoli che lo legavano a suo marito, dall’altro aveva scritto nella relazione di aver fatto accomodare suo marito sul sedile anteriore dell’autovettura per una questione di rispetto;
- che il marito era solito addormentarsi dopo i pasti ed amava mangiare con tranquillità. Il 9 aprile 1997 venne sentito dal pubblico ministero Russo il maresciallo Moschitta. Dal verbale risulta che l’escussione si svolse presso la procura di Reggio Calabria alla sola presenza del magistrato. Moschitta confermò la relazione fatta a suo tempo. Aggiunse che la cena presso il ristorante “Da Mario” non era stata programmata e che era stato proprio il capitano De Grazia a proporre di mangiare con calma e non fugacemente presso un autogrill. Per questo Moschitta aveva proposto di cenare in quel ristorante, presso il quale aveva pranzato già altre volte. Il ristoratore, al termine della cena, aveva rilasciato regolare ricevuta fiscale. Il maresciallo Moschitta precisò che “L’unico cibo che fu ingerito dal capitano De Grazia e non da noi fu un pezzettino di torta, una specie di crostata, che era su un carrello esposto nella sala e che lui stesso richiese e scelse spontaneamente.” Con riferimento al momento in cui lui e il carabiniere Francaviglia si accorsero che il capitano russava in modo insolito e che era freddo e sudato, il maresciallo Moschitta disse al dottor Russo: “All’altezza del casello, credo di Mercato San Severino, la testa si è di nuovo abbassata sulla sinistra, io gli ho dato la solita pacca ma mi sono accorto che era freddo e sudato, mentre Francaviglia trovava lo scontrino. Mi sono allarmato dicendo al Francaviglia che non mi rispondeva. Abbiamo subito capito a quel punto che avesse avuto un malore ed ho detto a Francaviglia di superare la galleria fermarsi subito dopo per prestare i soccorsi del caso, anche perché non conoscevamo i luoghi. Telefonai subito col mio cellullare al 112 e chiesi soccorso immediatamente. Lo abbiamo tirato fuori dall’auto e lo abbiamo disteso per terra prima col dorso a terra, allorché Francaviglia ha tentato di rianimarlo con una respirazione bocca a bocca. Per effetto di questa operazione vedevamo ritornare fuori l’aria e notavamo per ciò un movimento delle labbra che a noi profani sembrò un sintomo di vitalità, il che ci spinse a continuare nella respirazione, notando tra l’altro un rigurgito del cibo ingerito in precedenza. A quel punto lo abbiamo preso e curvato sul guardrail cercando di farlo vomitare pensando che vi fosse una ostruzione alle vie respiratorie a causa del cibo rigurgitato ma il capitano non ha dato segni di vita. Nel frattempo infuriava un temporale con una forte pioggia. E’ arrivata dopo circa 20 minuti l’autoambulanza e l’abbiamo seguita all’ospedale. Ricordo che all’ospedale un infermiere uscendo dalla sala di rianimazione disse che era morto sul colpo per un infarto fulminante. Credo che le escoriazioni sul petto siano state causate dal fatto che lo avevamo messo riverso sul guardarail cercando di trattenerlo ovviamente”. Riguardo alle indagini che stava svolgendo insieme al capitano De Grazia, il maresciallo Moschitta asserì che, pur non avendo (né lui né il capitano) mai ricevuto minacce, tuttavia, sin dall’inizio delle indagini, avevano avuto la sensazione di essere controllati; in particolare avevano notato pedinamenti o strani episodi che li avevano allarmati, spingendoli ad adottare sempre maggiori cautele (su questo si è ampiamente trattato nel capitolo 2 della parte prima). Aggiunse che il capitano gli aveva fatto capire di avere incontrato “difficoltà di movimento all’interno della Capitaneria di Reggio”, in quanto “i superiori non vedevano di buon occhio questa indagine, capiva dunque di non essere appoggiato dalla gerarchia e di dover in sostanza lottare su due fronti”. Immediatamente dopo l’escussione del maresciallo Moschitta (il 9.4.97 alle ore 12:22), il pubblico ministero Russo sentì il Carabiniere Francaviglia. Le dichiarazioni di quest’ultimo combaciano con quella rese dal collega. Lo stesso giorno venne sentito dal pubblico ministero Russo anche il sostituto procuratore Francesco Neri. Il dottor Neri espose in breve l’oggetto delle indagini di cui al procedimento penale n. 2114/94 RGNR, nelle quali era impegnato il De Grazia. Ha, poi, dichiarato: “Unitamente al collega Pace della procura circondariale di Matera comunicammo al capo dello Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell’ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiese al direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi. A dire il vero il Servizio molto correttamente mi trasmise degli atti tramite la polizia giudiziaria. In particolare il passaggio degli atti avvenne tramite il maresciallo Scimone appositamente delegato a ciò da me. Il maresciallo Scimone faceva parte del gruppo investigativo da me diretto e teneva i contatti con il Sismi. Il capitano De Grazia era a conoscenza di ciò, cioè sapeva dei contatti istituzionali di Scimone con il Sismi per la acquisizione delle notizie che chiedevamo. Ogni attività di rapporto con il Sismi è formalizzata in specifici atti reperibili nel processo. (…) II capitano De Grazia era ovviamente molto preoccupato per le indagini come tutti noi, in considerazione della enormità e particolarità delle vicende che emergevano e per le persone ed istituzioni coinvolti a livello internazionale. A parte gli episodi a cui ho fatto cenno in precedenza e di cui alle relazioni predette il capitano non mi ha mai parlato di altre minacce esplicite o intimidazioni fatte personalmente a lui. Lui era preoccupato molto dell’episodio accaduto a Roma nel corso della perquisizione al Viccica. A volte per scherzare e sdrammatizzare mi diceva che comunque prima avrebbero ammazzato me e poi forse lui, senza con ciò smorzare il suo ammirevole ed encomiabile sforzo per le indagini che lo ha distinto fino alla fine.” Questa è stata, dunque, l’attività integrativa svolta dal pubblico ministero con riferimento all’acquisizione di informazioni. Con riferimento, poi, all’aspetto medico legale, le differenze tra le due relazioni depositate, poste in luce dai familiari del capitano De Grazia nella richiesta di riapertura delle indagini, spinsero il pubblico ministero Russo, dapprima, a sentire li consulenti tecnici a chiarimenti e, successivamente, a conferire alla dottoressa Del Vecchio ulteriore incarico, previa riesumazione del cadavere. Dunque, il 23 aprile 1997, la dottoressa Del Vecchio precisò al pubblico ministero che le sue valutazioni conclusive finali coincidevano con quelle espresse dal consulente di parte dottor Asmundo e che, in ogni caso, le valutazioni parzialmente diverse su aspetti anatomoistopatologici non avevano influito minimamente sulla diagnosi causale della morte. La dottoressa chiarì, poi, che gli accertamenti tossicologici già effettuati avevano escluso la presenza di sostanze tossiche e stupefacenti, in particolare l’alcool, gli oppiacei, la cocaina, i barbiturici, le benzodiazepine, le anfetamine, i cannabinoidi e tutte le altre T.L.C, evidenziando che il materiale prelevato per tali accertamenti (bile e sangue) non era in quantitativo tale da rendere possibile una ripetizione di queste analisi, mentre avrebbero potuto essere effettuate analisi tossicologiche più mirate mediante prelievo di capelli, ossa, quote parte di organi di accumulo “per verificare fino in fondo per quanto possibile l’esistenza di eventuali sostanza tossiche e velenose diverse, in particolare la ricerca potrebbe riguardare i veleni metallici”. Le illustrate nuove indagini medico legali furono, pertanto, oggetto del secondo incarico affidato alla dottoressa del Vecchio da parte del pubblico ministero Russo, il quale, in data18 giugno 1997, le pose i seguenti quesiti: “ad integrazione ed approfondimento della consulenza medico-legale già espletata con riferimento al decesso del cap. De Grazia Natale, esegua il CT ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e velenose, nonché approfondisca, con l’allestimento di ulteriori preparati, l’aspetto istologico. Accerti ed approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini volte a verificare la causa del decesso, anche tenendo conto di quanto emerge dagli atti e dalla consulenza di parte depositata”. La dottoressa Del Vecchio, in questa occasione, si avvalse della collaborazione di consulenti tecnici chimici nelle persone del prof. Enrico Cardarelli, della facoltà di Scienze matematiche fisiche e nucleari dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, e della dottoressa Luisa Costamagna, dell’Istituto di medicina legale e delle assicurazioni della medesima Università. Gli ulteriori accertamenti svolti non portarono, peraltro, a risultati diversi da quelli già acquisiti. Nella seconda relazione depositata il consulente ha evidenziato che gli ulteriori esami chimici hanno escluso la presenza di sostanze tossiche di natura esogena nei campioni esaminati. La ricerca era stata condotta con particolare riferimento alle sostanze che possono portare alla morte in tempi brevi con sintomatologie quali quelle descritte (ipnotici, farmaci cardiaci, depressori del sistema nervoso centrale, cianuri). E’ stata inoltre effettuata una ricerca di arsenico nei capelli e nel fegato e la ricerca è risultata negativa. Il mancato rilevamento di tracce di alcool etilico nel sangue (sebbene, secondo quanto dichiarato dai testi, il capitano avesse bevuto un bicchiere di vino e del limoncello) era giustificabile, a detta del consulente, per il fatto che il decesso era avvenuto a poco più di un’ora dall’ingestione dei cibi, e quindi l’alcool non aveva avuto il tempo sufficiente per entrare in circolo e, peraltro, risulta che il capitano De Grazia avesse rigurgitato parte del cibo durante le manovre di rianimazione messe in atto dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia. La dottoressa Del Vecchio, in data 11 dicembre 1997, venne nuovamente sentita a chiarimenti dal dottor Russo, in occasione del deposito della relazione relativa al secondo esame autoptico effettuato (cfr. il prossimo par. 3.2).
1.4.5 – I provvedimenti di archiviazione. Il procedimento avviato in merito alla morte del capitano De Grazia si è concluso, nella prima fase, con un provvedimento di archiviazione emesso il 28 settembre 1996, su richiesta del pubblico ministero del 9 marzo 1996, e basato sui risultati della prima autopsia che riconduceva il decesso ad un evento naturale. (doc. 1276/2). La seconda fase si è conclusa un provvedimento di archiviazione emesso il 26 novembre 2002 dal Gip dottoressa Raffaella Caccavela su richiesta del pubblico ministero formulata nel luglio 1998 sulla base delle seguenti considerazioni (doc. 1276/3):
- il decesso del capitano De Grazia era da ricondurre, secondo quanto accertato dalla consulenza medico legale e autoptica, ad un evento naturale del tipo “morte improvvisa dell’adulto”;
- gli ulteriori esami chimici disposti a seguito della riesumazione della salma avevano escluso la presenza di sostanze tossiche di natura esogena;
- la presunta incompatibilità tra il dato laboratoristico relativo alla negatività per la presenza di alcool etilico nel sangue e la circostanza (acquisita sulla base delle testimonianze assunte) della assunzione di vino e limoncello, appariva spiegata dalle considerazioni medico-legali evidenziate nel verbale di sit dell’undici dicembre 1997.
2 – GLI ELEMENTI ACQUISITI DALLA COMMISSIONE. La Commissione ha approfondito la vicenda relativa alla morte del capitano De Grazia sia attraverso l’acquisizione di copia degli atti del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore sia attraverso numerose audizioni. Sono stati, in particolare, ascoltati:
- i magistrati Francesco Neri, Nicola Maria Pace, Francesco Greco che si occuparono delle inchieste sulle navi a perdere;
- il magistrato che condusse le indagini sulla morte del capitano, Giancarlo Russo;
- il cognato del capitano, signor Postorino Francesco;
- il maresciallo Niccolò Moschitta, il carabiniere Rosario Francaviglia, il maresciallo Domenico Scimone, facenti parte, unitamente al capitano, del gruppo investigativo creato dal dottor Neri;
- i carabinieri Angelantonio Caiazza e Sandro Totaro, appartenenti al nucelo mobile della Stazione CC di Nocera inferiore, intervenuti al momento del decesso del capitano.
Sono stati anche ascoltati:
- l’ex colonnello del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Rino Martini;
- il brigadiere del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Gianni De Podestà;
- il vice ispettore del Corpo forestale dello Stato, Claudio Tassi;
- l’ex collaboratore di giustizia, Francesco Fonti
- il comandante in seconda, ufficiale presso la Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Giuseppe Bellantone.
Si è, poi, ritenuto, di approfondire anche l’aspetto medico legale, sia attraverso l’audizione dei medici che, all’epoca delle indagini, eseguirono gli accertamenti autoptici (dottoressa Del Vecchio e dottor Asmundo) sia affidando al prof. dottor Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica dell’Università di Roma “Tor Vergata” nonchè consulente della Commissione), l’incarico di valutare gli accertamenti medico legali compiuti dai predetti consulenti, al fine di acquisire un parere tecnico anche sotto questo profilo.
2.1 – Le dichiarazioni rese alla Commissione dal maresciallo Domenico Scimone. In data 18 gennaio 2011 è stato audito dalla Commissione il maresciallo Domenico Scimone. Lo stesso, dopo aver specificato di aver preso parte attivamente alle indagini condotte dal sostituto Neri, fin dal loro inizio, insieme al capitano De Grazia, ha parlato anche dei rapporti con quest’ultimo, definendolo amico d’infanzia e compagno di regate. In merito al giorno della morte del capitano, ha dichiarato: “Il giorno della morte di De Grazia che è la cosa più grave ci eravamo visti di mattina, alle 9.00, con De Grazia e Moschitta. Il programma era il seguente: io dovevo andare a La Spezia con Moschitta per acquisire documentazione presso la dogana, De Grazia con la mia macchina della sezione della polizia giudiziaria insieme al mio autista avrebbe dovuto recarsi a Crotone per sentire il signor Cannavale, quello che ha demolito la nave Jolly Rosso. Si doveva quindi occupare della ricostruzione della Jolly Rosso, mettendo a verbale le dichiarazioni di questo signore.
Alle 10.30-11.00 mi telefona De Grazia dicendomi che visto che si trattava di un atto di polizia giudiziaria in cui non era ferrato come me che ne facevo tutti i giorni, preferiva andare con Moschitta perché avendo navigato per tanti anni sapeva dove mettere le mani nelle dogane e leggere le polizze di carico. Ho risposto che non c’erano problemi: lui sarebbe andato a La Spezia mentre io mi sarei recato a Crotone. Intendevo partire verso le cinque del mattino per andare verso Crotone, mentre non so per quale motivo De Grazia decise di partire quella sera, nonostante avessi consigliato loro di partire presto la mattina seguente, arrivando con calma, senza partire di notte. Avevano però ribattuto che tanto avrebbe guidato l’autista, che si sarebbe riposato dopo mentre loro visionavano gli atti. Alle 19.00 ho sentito Moschitta: mi ha detto che stavano partendo e che era tutto a posto. La mattina alle 5.00 sono partito per Crotone. Mentre stavo mettendo a verbale, verso le 8.30-9.00, mi ha chiamato un collega della sezione di polizia giudiziaria di cui facevo parte, che mi chiede: «che è successo a De Grazia, è morto?». Ho pensato a un incidente stradale e ho subito chiamato al telefono. Quando mi ha risposto Moschitta ho sperato che fosse un’invenzione. Ho chiesto se De Grazia fosse morto e lui mi ha chiesto chi me lo avesse detto e mi raccomandò di non preoccuparmi. Continuai quel verbale nonostante ciò e, finito il verbale verso le 19.00, partimmo con la macchina e scoppiò una gomma, per cui alle 19.30 feci aprire un garage per aggiustarla. Partiti da Crotone e arrivati all’autostrada di Lamezia Terme, mi vidi passare davanti il carro funebre e dietro l’autovettura Ritmo del reparto operativo. Avendo riconosciuto la macchina, mi sono messo dietro e siamo andati ad accompagnarlo fino a casa. Questa è la realtà dei fatti. Nessuno poteva conoscere il programma di De Grazia: ha deciso lui quando partire, dove fermarsi a mangiare, per cui non c’è un mistero: è morto, su questo ci sono dubbi, quale sia la causa della morte non lo so perché ho assistito anche all’autopsia effettuata a Reggio Calabria e per un attimo quando hanno aperto la bara non era lui, poi mi sono reso conto che era lui. Questa è la realtà dei fatti.”
Riguardo alla partecipazione del maresciallo Scimone alle operazioni autoptiche, è stato già evidenziato che lo stesso era stato autorizzato a presenziare alle operazioni di disseppellimento dal pubblico ministero dottoressa Apicella.
Tuttavia il maresciallo Scimone ha dichiarato alla Commissione di aver partecipato proprio all’autopsia, che sarebbe stata effettuata dal dottor Aldo Barbaro: “l’autopsia non è stata in grado di stabilire nemmeno la causa della morte. (…) è stata fatta a Reggio Calabria dal dottor Aldo Barbaro. (…) Quando poi la salma è arrivata a Reggio Calabria l’ho portata io in camera mortuaria e ho assistito all’autopsia del dottor Aldo Barbaro”. Tuttavia, da nessun atto processuale emerge che il dottor Barbaro abbia partecipato alle operazioni autoptiche, effettuate solo dalla dottoressa Del Vecchio e dal consulente di parte dottor Asmundo. Le dichiarazioni del maresciallo Scimone destano qualche perplessità sotto vari profili. In primo luogo, come detto, il maresciallo Scimone è l’unico che ha riferito in merito al cambio di programma, avvenuto – a suo dire – all’ultimo minuto, per cui il capitano De Grazia decise solo la mattina del 12 dicembre di non andare più a Crotone, ma di recarsi a La Spezia. Nessun’altro tra gli inquirenti ha, infatti, accennato a tale circostanza, che peraltro sembrerebbe smentita dalle dichiarazioni della moglie del capitano, Anna Maria Vespia. Ulteriore motivo di perplessità riguarda l’indicazione del dottor Barbaro quale medico legale che avrebbe effettuato l’autopsia, dato che contrasta con le emergenze processuali e con gli esiti degli ulteriori approfondimenti effettuati dalla Commissione.
2.2 – Le dichiarazioni del maresciallo Moschitta. Il maresciallo Niccolò Moschitta è stato audito dalla Commissione in due diverse occasioni. La prima, in data 11 marzo 2010 e la seconda in data 2010. Nel corso della prima audizione, lo stesso Moschitta ha fornito indicazioni in merito al motivo della missione a La Spezia, affermando: “Stavamo andando a La Spezia ad acquisire la documentazione in merito alla Rigel, la nave affondata a capo Spartivento. Tale documentazione era di interesse perché il processo di La Spezia aveva sancito che sul trasporto di quella nave erano state pagate dazioni ed era stato coinvolto personale della dogana e della Rigel circa il carico. Era necessario e importante avere con noi questi documenti per poi proseguire, se non erro, per Como o per un’altra destinazione per sentire altri eventuali testimoni, con tanto di delega del magistrato”. Quanto alle circostanze specifiche del decesso del capitano De Grazia, il maresciallo Moschitta, ha rappresentato quanto segue: “Partiamo poco dopo le 19 con la macchina di servizio, con alla guida il carabiniere. Io ero seduto davanti e il capitano dietro. Ci siamo fermati 2 o 3 volte per fare benzina, per prenderci qualcosa, neanche il caffè. Erano soste di servizio senza alcun problema, fino ad arrivare nella zona prima di Salerno. Ormai era tardi, intorno alle 22.30, quando Natale ci propose di fermarci per mangiare. Gli dissi che più avanti c’era l’autogrill di Salerno; avremmo potuto fermarci là, eventualmente mangiare un pasto leggero e proseguire. De Grazia insistette che voleva mangiare, che aveva fame. Eravamo proprio presso lo svincolo di Campagna. In passato, insieme a molti altri colleghi, mi sono occupato anche di Tangentopoli a Reggio Calabria, quindi mi è capitato di recarmi spesso a Roma presso i differenti ministeri ad acquisire documenti. Arrivati verso Campagna, gli indicai che c’era un ristorante a due passi (…) Lui si è seduto davanti in macchina. Erano più o meno le 23.30 e abbiamo cominciato a dirigerci verso Salerno. Volle sedersi davanti perché voleva distendere le gambe e cercare di dormire un po’. Allora io mi misi dietro. Cercavo di dare da parlare il più possibile all’autista perché con lo stomaco pieno temevo potesse venirgli un colpo di sonno. A un certo punto, il capitano cominciò a russare, almeno a me sembrò che russasse. Invece poi scoprii che erano rantoli. Gli sistemai la testa e ripresi a parlare con l’autista. Quando siamo arrivati al casello di Salerno, il capitano abbassò di nuovo la testa, ma siamo andati avanti. Alla prima galleria illuminata, lo toccai ed era sudato freddo. Dissi al collega di guardarlo in faccia, visto che era davanti, perché era sudato freddo e non mi rispondeva; lo volevo svegliare. Lui mi rispose che aveva gli occhi storti. Gli dissi di fermarsi alla prima piazzola non appena usciti dalla galleria; poi, in realtà, ci fermammo sulla corsia di emergenza perché non c’era piazzola. Nel frattempo, si scatenò un temporale incredibile e si mise a piovere”. Le altre dichiarazioni rese dal Moschitta alla Commissione hanno riguardato prevalentemente gli elementi raccolti nel corso dell’indagine sulle navi a perdere, compediati nell’informativa finale dallo stesso redatta e depositata nell’ottobre 1996 (v. allegato). 2.3 – Le dichiarazioni del carabiniere Rosario Francaviglia. La Commissione ha ritenuto di dover ascoltare anche il carabiniere Francaviglia, il quale, pur avendo preso parte alle indagini e alla missione durante la quale perse la vita il capitano De Grazia, fu ascoltato in un’unica occasione dal dottor Russo, rendendo dichiarazioni sostanzialmente identiche a quelle del suo collega Moschitta e verbalizzate nello stesso modo. Nel corso dell’audizione avanti alla Commissione, avvenuta in data 1° agosto 2012, il carabiniere Francaviglia ha aggiunto alcuni elementi utili a ricostruire più nel dettaglio i drammatici momenti in cui si accorse, unitamente al maresciallo Moschitta, che il capitano De Grazia non stava bene. Si riportano i passaggi dell’audizione di maggiore interesse: “Quando sono arrivato nei pressi dell’autostrada, al casello autostradale per Salerno, forse nei pressi di Nocera (ma non ricordo bene), il maresciallo Moschitta si è accorto che il capitano aveva fatto un movimento strano con la testa e lo ha chiamato; non ha ottenuto risposta e lo ha toccato in viso per cercare di svegliarlo mentre io, nel frattempo, ripartivo. A quel punto il maresciallo mi ha detto che qualcosa non andava perché il capitano non rispondeva; mi sono girato, l’ho guardato negli occhi e ho visto che aveva lo sguardo assente. Spento (…) Lo sguardo non c’era, non era vivo (…) Si era addormentato prima, quando siamo partiti. Durante il tragitto, ogni tanto si sentiva brontolare, cioè russare, a seconda di com’era seduto. Poco prima di fermarci, ho notato che si era come aggiustato nel sedile, ma non abbiamo notato nulla di strano; quando sono ripartito dai caselli ed ero arrivato quasi sotto la galleria, il maresciallo mi ha avvertito che Natale non stava bene ed era sudato. Mi sono girato per guardarlo in viso e siccome era rivolto verso di me, ho visto che aveva gli occhi semichiusi, ma lo sguardo non era quello di una persona viva; non so come altro spiegarlo. L’ho guardato e c’era qualcosa che non andava; chiaramente, siamo usciti dalla galleria e ci siamo fermati; abbiamo cercato di fare qualcosa, convinti che stesse male ma che la situazione non fosse così drammatica. Lo abbiamo tirato fuori dalla macchina e gli ho praticato massaggio cardiaco e respirazione.(…) La cosa strana, però, è che gli veniva fuori il cibo da solo e mi arrivava in bocca mentre, nella disperazione, continuavo a praticargli la respirazione. Nel frattempo si era messo pure a piovere e pensando che fosse un problema dovuto a qualcosa lo abbiamo piegato sul guardrail per cercare di fargli liberare l’esofago. Nel frattempo, il maresciallo Moschitta aveva chiamato soccorso ed è arrivata l’autoambulanza, ma era già…” Il carabiniere Francaviglia ha fornito, poi, una serie di precisazioni, affermando che:
- verso le 23:30, al termine della cena, tutti e tre ripartirono e che il capitano De Grazia non disse alcunchè, addormentandosi immediatamente;
- sentirono il capitano brontolare o russare;
- ad un certo punto il carabiniere Francaviglia notò che il capitano si era raddrizzato sul sedile, come a volersi sistemare meglio. Contemporaneamente, il russare apparì diverso, strano. Ciò accadeva qualche minuto prima del momento in cui il maresciallo Moschitta si accorse che De Grazia stava male;
- quando il maresciallo Moschitta lo toccò, lo trovò freddo e sudato;
- tra l’uscita dal ristorante ed il momento in cui si accorsero dello stato del capitano passò circa mezz’ora;
- appena notarono lo stato del capitano, accostarono l’auto sul ciglio della strada;
- il maresciallo Moschitta chiamò i soccorsi, che arrivarono in circa 10 minuti, (sia ambulanza che auto dei carabinieri);
- il personale dell’ambulanza che visitò il capitano fece un cenno, come a dire che non c’era più niente da fare;
- giunti in ospedale, dopo che il medico comunicò il decesso del capitano, il maresciallo Moschitta insistette affinché venisse eseguito l’esame autoptico;
- venne chiamato al telefono anche il magistrato di turno, che parlò con il medico e convenne con questo che non era necessario eseguire alcuna autopsia.
2.4 – Le dichiarazioni dei carabinieri intervenuti sul posto, Angelantonio Caiazza e Sandro Totaro. Al fine di acquisire ogni notizia di specifica relativa a quanto accadde la notte in cui il capitano De Grazia perse la vita, la Commissione ha audito i componenti dell’equipaggio dell’aliquota radiomobile dei CC della stazione di Nocera Inferiore intervenuti sul posto, peraltro mai ascoltati dai magistrati che indagarono sui fatti. Entrambi sono stati auditi nel luglio 2012. Per primo è stato audito il carabiniere Caiazza, il quale ha dichiarato: “Quella notte avevamo appena intrapreso il servizio di un turno 00.00-06.00, un turno notturno, e fummo informati dalla centrale operativa che sull’autostrada, a bordo di un’autovettura – una Tipo o una Punto – una persona era stata colta da malore. Ci recammo sul posto unitamente a un’unità sanitaria e trovammo una persona riversa supina tra lo sportello posteriore dell’auto e l’asfalto. Intervennero i sanitari, mentre noi provvedemmo a identificare gli altri militari presenti, che gli praticarono un massaggio cardiaco e lo portarono in ospedale, dove ci consegnarono una borsa contenente gli effetti del povero De Grazia, che fu identificato pure da noi. (…) Abbiamo ritirato anche un borsone contenente una valigia ventiquattrore, che fu consegnata al maresciallo Moschitta su sua richiesta (….) L’unità sanitaria intervenne mentre noi provvedemmo a identificare gli altri due militari. In ogni caso, credo fosse ancora vivo perché gli stavano praticando un messaggio cardiaco. (…) Lì (in ospedale) abbiamo ritirato il referto stilato dal medico. Sembra che fosse morto per arresto cardiaco. Poi abbiamo ritirato gli effetti personali.(….) Il borsone ci è stato consegnato dai colleghi del nucleo operativo. Della destinazione sapevamo solo che stavano transitando sulla A30, direzione nord, la Caserta-Roma. (…) Una volta ritirato il referto, siamo tornati in caserma e abbiamo stilato gli atti”. Il Carabiniere Caiazza ha poi specificato di non essere stato mai sentito da alcun magistrato in merito ai fatti. Le dichiarazioni dell’appuntato scelto Sergio Totaro combaciano sostanzialmente con quelle del suo collega. Si riportano i passaggi più significativi: “ La vettura in questione l’abbiamo trovata all’uscita della prima galleria dell’autostrada A30, barriera Salerno-Mercato San Severino, direzione nord. (…) C’erano una persona supina sull’asfalto e due persone in abiti civili accanto, che poi abbiamo identificato come un maresciallo e un appuntato dell’Arma. (…) È stata chiamata, contestualmente, anche l’ambulanza. Dal momento che il comando dei carabinieri si trova 100 metri prima dell’ospedale siamo intervenuti contemporaneamente. (…) C’era una persona supina, sdraiata sull’asfalto, e due persone in abiti civili accanto, che si sono poi presentati per un maresciallo e un collega dell’Arma. Mentre li stavamo identificando i signori dell’ambulanza prestavano soccorso alla persona in terra. (…) Penso che abbiano tentato i primi interventi per rianimarlo. Quella in cui siamo arrivati era una fase un po’ concitata, tanto è vero che subito dopo l’hanno messo in ambulanza e siamo andati direttamente all’ospedale Umberto I, loro davanti e noi dietro, che era a circa due chilometri di distanza. (…). Con riferimento alla valigetta “24 ore” che il capitano De Grazia portava con sé, il carabiniere Totaro ha riferito che: “Gli effetti personali del capitano De Grazia furono consegnati al militare di servizio alla caserma in quanto andavano consegnati ai parenti. Inoltre, c’era la classica busta di colore nero in cui l’ospedale mette gli ambiti che la persona indossa al momento. C’era anche un borsone di colore blu del capitano De Grazia che mi pare contenesse una valigetta e una macchina fotografica. Mi pare che il tutto fu consegnato, su sua richiesta, al maresciallo Moschitta con ricevuta”. Il carabiniere ha specificato di non avere controllato il contenuto della valigetta e che la stessa fu restituita, senza essere stata aperta, al maresciallo Moschitta, il quale la richiese espressamente: “No, ci fu chiesta. Ci dissero che conteneva materiale che dovevano portare via, con cui dovevano continuare. Ci fu chiesta proprio, se non erro, dal maresciallo Moschitta. Ci disse cortesemente che c’erano dei fascicoli. Abbiamo menzionato di proposito nell’annotazione «che veniva consegnata, previa richiesta, a Tizio e Caio per il prosieguo dell’operazione». Il carabiniere ha poi specificato la tempistica della restituzione degli effetti personali e della valigetta: dopo essere stati in ospedale, i militari andarono in caserma per formalizzare gli atti, unitamente al maresciallo Moschitta e al carabiniere Francaviglia, “ il maresciallo disse che a loro occorreva la valigetta con gli atti perché dovevano proseguire per il loro viaggio. A quel punto consegnammo a lui quel materiale (…) Presumo che il tutto sia avvenuto in ufficio davanti a noi o che il maresciallo abbia detto che conteneva fascicoli processuali. Se l’abbiamo scritto, qualcuno ce lo avrà detto o l’ha aperta davanti a noi. Si tratta di tanti anni fa, ricordo la sera, ma non tutti i dettagli. Fu una fase concitata, in mezz’ora una semplice richiesta d’aiuto diventò una morte. Il nostro intervento è terminato proprio in ospedale”. La Commissione ha formulato numerose domande volte a comprendere quale fosse il contenuto della valigetta e se questo fosse stato in qualche modo verificato, anche per capire le ragioni della restituzione della valigetta al maresciallo Moschitta. In particolare, alla domanda della Commissione sul motivo per il quale, nonostante la valigetta non fosse stata aperta, fosse stato redatto un verbale nel quale si dava conto del numero di procedimento penale cui si riferivano gli atti contenuti nella valigetta stessa, il Carabiniere ha risposto:
“Personalmente, non ricordo. Eravamo in due e forse l’avrà letto il brigadiere, poi abbiamo firmato in due. Materialmente, però, non ho visto il fascicolo. In genere, uno di noi scrive e alla fine sottoscriviamo, ma io non ho visto quel fascicolo e, se l’avessi visto, non lo ricordo”. Sul punto è stato interpellato anche il carabiniere Caiazza, il quale ha riferito, che se era stato riportata a verbale che nella valigetta era contenuto un fascicolo riferito al procedimento penale n. 2114/94 RGNR, evidentemente doveva aver visionato il fascicolo stesso, pur non potendo confermare la circostanza non ricordando più tale particolare.
2.5 – Le dichiarazioni di Francesco Fonti in merito alla morte del capitano De Grazia. Per completezza di trattazione si ritiene di dover dare conto anche delle informazioni acquisite nel corso dell’inchiesta dall’ex collaboratore di giustizia Francesco Fonti, già appartenente alla ‘ndrangheta calabrese, audito dalla Commissione in data 5 novembre 2009 nel corso della missione effettuata a Bologna. Deve essere subito chiarito che la Commissione non ha trovato riscontri obiettivi alla quasi totalità delle dichiarazioni che Francesco Fonti ha reso nella varie sedi sul tema del traffico di rifiuti radioattivi o comunque tossici da parte della ‘ndrangeta calabrese. Si tratta di un’inattendibilità intrinseca in quanto più volte Fonti si è contradetto e ha fornito versioni diverse rispetto ad elementi essenziali della narrazione nonché di un’inattendibilità estrinseca in quanto non sono stati fornite indicazioni adeguate per riscontrare le dichiarazioni da lui rese. Fonti è stato interpellato anche con riferimento al decesso del capitano De Grazia. Sul punto, ha dichiarato di avere sentito dire, all’interno dell’organizzazione criminale cui era legato, che il capitano Natale De Grazia era stato ucciso.
Ha aggiunto, poi, che i servizi segreti facevano sparire sia i rifiuti sia le persone che potevano rappresentare un concreto ostacolo alla prosecuzione dei traffici illeciti: l’ipotesi era, quindi, quella che il capitano fosse stato eliminato perché stava scoprendo cose che avrebbero dovuto restare segrete. In realtà, Fonti ha precisato che si trattava di notizie non certe ed acquisite da altre persone. La Commissione ha chiesto al Fonti chiarimenti in merito alle dichiarazioni dallo stesso rese nel corso di una trasmissione radiofonica sull’emittente “Radio anch’io”, andata in onda nella seconda metà del 2009. In tale trasmissione il Fonti aveva dichiarato che il comandante De Grazia sarebbe stato ucciso dai Servizi.
Alla domanda se tale affermazione fosse supportata da elementi di riscontro o meno il Fonti ha risposto: “Sono chiacchiere, cose che ho sentito dire. Sicuramente sono considerazioni svolte da altre persone come me. (…) Le chiacchiere si facevano anche fra di noi. Quando ci si trovava per riunioni ufficiali, concordate, oppure anche per caso, fra le famiglie c’era sempre un certo antagonismo: io so di più, faccio di più, ho fatto questo traffico, tu non l’hai fatto, io ho preso questi miliardi, tu li hai presi. Vi era la megalomania di poter fare di più di un’altra famiglia”. Il Fonti ha poi specificato di aver sentito tali chiacchiere all’interno della sua organizzazione. Data la delicatezza delle affermazioni effettuate, si ritiene di riportare il passaggio dell’audizione sul punto:
“PRESIDENTE. Sulla base di che cosa davano queste notizie?
FRANCESCO FONTI. Con i rifiuti si trattava con i servizi segreti, e, se qualcosa non va, questi decidevano di far sparire anche le persone. L’ipotesi era quella che anche il capitano fosse stato eliminato, perché stava andando a scoprire qualcosa che non doveva emergere.
PRESIDENTE. Lei non parlò mai con Pino (soggetto non meglio identificato, già indicato da Fonti come appartenente ai servizi segreti ed elemento di collegamento con il Fonti e con la ‘ndrangheta) di questa vicenda?
FRANCESCO FONTI. No.
PRESIDENTE. Poiché nella trasmissione, che anch’io ho sentito, lei dava come una notizia importante, quasi certa, il fatto che fosse stato ucciso.
FRANCESCO FONTI. Non penso, non era questa la mia intenzione, anche perché è una vicenda che non ho vissuto”.
Con riferimento alle dichiarazioni di Fonti, indipendentemente dall’attendibilità di base o meno del personaggio, è evidente che, in questo caso, la loro assoluta genericità unita al fatto di essere dichiarazioni cosiddette “de relato”, apprese direttamente, ma riferite da altre persone, tra l’altro mai indicate nominativamente, impedisce di prenderle seriamente in considerazione. Tanto più che lo stesso Fonti, richiesto sul punto, le ha definite “chiacchiere”.
2.6 Le dichiarazioni fornite dal magistrato dottor Francesco Neri. In data 23 settembre 2009 la Commissione ha audito il dottor Francesco Neri, il quale ha reso corpose e importanti dichiarazioni in merito a tutte le fasi dell’indagine nonché in merito anche alle fasi successive alla trasmissione del fascicolo alla procura presso il tribunale di Reggio Calabria. Su sua espressa richiesta le dichiarazioni sono state segretate. La Commissione ha tuttavia ritenuto di disporre la desegretazione almeno con riferimento alle parti delle audizioni concernenti i riferimenti al capitano di fregata Natale De Grazia. In particolare, significative ai fini della presente inchiesta sono le dichiarazioni che il magistrato ha reso con riferimento a talune attività svolte dal capitano De Grazia e alla documentazione dallo stesso raccolta ed esaminata.
Si riportano testualmente i passaggi dell’audizione: «A questo (Rigel, Jolly Rosso, tutte collegate a Comerio) aggiungiamo le dichiarazioni e i documenti che accertammo sulla Somalia, che vi ho portato, i fax di Ali Mahdi che autorizzava il Comerio ad affondare in Somalia i suoi penetratori, il certificato di morte che il comandante Di Grazia trovò tre, quattro giorni prima di partire e mi disse nella mia stanza che aveva bisogno del tempo per verificarne la provenienza, in quanto si trattava di una fotocopia sulla quale era trascritto un numero di fax. Egli voleva accertare i collegamenti con Comerio. Poi, come ben sapete, il capitano De Grazia morì. Rimangono tuttora in me sospetti sulla sua morte, ma non ho prove certe perché vi ho portato tutte le minacce che subivamo, tutte le relazioni di servizio. Eravamo pedinati, minacciati spiati, vi erano microspie anche da Porcelli, il procuratore di Catanzaro. Chiedo che il procuratore Pace venga sentito perché è importante. Addirittura si presentò un agente del Mossad. Intorno a questa indagine c’erano molta attenzione e molta pressione, io ero un procuratore circondariale, non ero la DDA». «(…) Intorno all’indagine si era creata una pressione non indifferente che credo abbia comportato anche la morte di De Grazia per cause naturali o – come ho scritto in una relazione mandata al Presidente della Repubblica che vi consegno – nell’ipotesi più funesta, ucciso. In questo caso si tratterebbe di un’operazione chirurgica perché De Grazia era veramente il motore dell’indagine, colui che era riuscito a trovare gli elementi investigativi che collegavano le navi agli affondamenti delle carrette, soprattutto la Rigel e la Jolly Rosso, a Comerio».
«(…) PAOLO RUSSO. Vorrei partire proprio dal 1996 e capire meglio come lei “passa la mano”: sulla base di quale sollecitazione inevasa o di quale richiesta diretta alla quale vi è una risposta non funzionale al suo obiettivo. Probabilmente vi è anche una mia scarsa conoscenza delle procedure. Insomma, per quale motivo lei, nel giugno del 1996, “passa la mano”?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Il 27 giugno. Vi è una mia nota di trasmissione che spiega tutto. A prescindere da questo, il primo motivo è stato la morte di De Grazia, che aveva depotenziato il mio pool investigativo. Investigavo con il comandante De Grazia, con un maresciallo e un brigadiere dei carabinieri, e con un carabiniere: questo era il mio pool investigativo. In procura ci sono 47 scatoloni sigillati di documenti derivati dai sequestri e dalle perquisizioni compiute nei confronti dei vari indagati, che mi pare siano stati esaminati e studiati per il 30 per cento. Il resto è rimasto ancora inevaso, non studiato: l’indagine è troppo vasta. Il secondo motivo riguardava la competenza. Potevamo continuare a cercare i siti dove erano stati affondati rifiuti, perché la discarica abusiva in mare poteva essere di nostra competenza; però se ormai eravamo dell’idea che il sistema di smaltimento non consistesse nel prendere dei fusti e gettarli in mare, bensì nell’affondare navi, allora vi era anche il reato di affondamento doloso, che non è di competenza pretorile, bensì della procura della Repubblica. Quindi, dovevamo per forza spogliarci del processo». «(…)Per quanto mi riguarda, tuttavia, molto dipese dalla morte di De Grazia, e anche da una certa resistenza istituzionale a volerci dare credito. Capisco che potevo non essere creduto, poiché quello che accertavamo superava l’immaginario collettivo. Abbiamo trovato filmati sulle prove in mare dell’affondamento dei penetratori (o siluri, o canister), che sembravano film di fantascienza. Basta connettersi al sito de L’Espresso, nella sezione di Riccardo Bocca, e si può vedere l’intero filmato.
ALESSANDRO BRATTI. Sulla morte di De Grazia sono state aperte indagini e sono stati svolti approfondimenti?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, io e il procuratore Scuderi chiedemmo immediatamente l’autopsia. Eravamo minacciati – ora lascerò anche tutte le denunce che abbiamo fatto – e c’era un clima di tensione intorno a noi, quindi la morte ci sembrò improvvisa e sospetta. Chiedemmo l’autopsia anche perché la famiglia non si rassegnava a questa morte di un ufficiale di 38 anni. E’ morto il13 dicembre 1995. Non ci spiegavamo la sua morte e abbiamo pensato di chiedere l’autopsia, che fu disposta a Reggio Calabria a distanza di 12-13 giorni. Il cuore era intatto, nessun infarto. Non è vero che ebbe un infarto. Non risultò alcuna traccia tossicologica, alcun elemento patologico che potesse spiegare la morte; infatti il perito necroscopico ha dichiarato che si era trattato di morte improvvisa. Tuttavia, morte improvvisa significa tutto e niente. So che la famiglia ha chiesto una nuova autopsia, che è stata fatta dallo stesso medico che aveva eseguito la prima. La famiglia nutre dubbi sul risultato della prima autopsia e la nuova autopsia viene affidata allo stesso medico che ha fatto la prima… La famiglia non si è mai rassegnata (e neanche io) ad una morte di cui ancora si sa molto poco».
« (…) FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Da quello che so, partirono la sera – c’era brutto tempo – per La Spezia, perché avevo dato una delega. Bisognava acquisire i piani di carico di 180 navi che erano partite da La Spezia, da Marina di Massa e da Livorno, ufficialmente con carichi di sostanze radioattive, ma sulle quali non avevamo alcun dato riguardo ai porti di arrivo. Partivano navi cariche di torio, di uranio, di plutonio; russi, tedeschi, francesi, però non si sapeva il porto di arrivo. De Grazia perciò volle verificare dove andavano a finire queste navi e aveva questo importante compito. Inoltre, doveva sentire alcuni marinai della Rigel che era riuscito a rintracciare. Queste, almeno, erano le ultime attività che doveva compiere. Attività delicate, indubbiamente; soprattutto i piani di carico delle navi erano molto importanti ai fini delle nostre indagini. Dopo la sua morte, rimandai gli ufficiali a prendere quelle carte, ma la capitaneria di porto di Massa Carrara si allagò e tutti i documenti andarono distrutti.
PRESIDENTE. In che anno questo?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Nel 1996 o a fine 1995, l’alluvione; comunque dopo il 13 dicembre 1995.
GERARDO D’AMBROSIO. Il presidente aveva fatto una domanda precisa: non solo quando morì, ma come, in che luogo, in che contesto (a casa sua, in viaggio)?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Erano in viaggio e si fermarono per mangiare; De Grazia fu l’unico a mangiare il dolce, secondo quanto mi disse la moglie (e questo risulta). Successivamente risalirono in automobile e ad un casello autostradale i due carabinieri che erano con lui si accorsero che rantolava e non respirava più. Quindi morì. Questo è quello che so. Non c’ero.
GERARDO D’AMBROSIO. Si sa dove si erano fermati a mangiare?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, ora non ricordo esattamente, in un ristorante a Campagna. Ma non voglio dire cose di cui non sono certo, perché non ho svolto io le indagini sulla morte di De Grazia.
RESIDENTE. Restando ancora su questo argomento: De Grazia ha trovato – perché lei l’ha visto -il certificato di morte che si trovava nel fascicolo di Comerio.
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte dì Appello di Reggio Calabria. Mi disse: “Ho trovato questo tra le carte di Comerio”.
PRESIDENTE. Lei lo ha visto?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, l’ho visto.
PRESIDENTE. Che fine ha fatto?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. De Grazia partì e mi disse: “Lo tengo io”. Il certificato era in fotocopia e conteneva un numero di fax di partenza; per lui era importante, dal punto di vista investigativo, accertare a chi appartenesse. II certificato poi non lo vidi più. Quando andai alla Commissione Alpi mi ricordai del certificato e dissi al presidente: “Sicuramente è agli atti; io non ho fatto in tempo a guardare perché occorrono decine di giorni per esaminare tutta la documentazione contenuta in 47 scatoloni sigillati”. Mi chiesero: “Ma allora questo documento lo troviamo?”. Risposi: “Presidente, per me esiste, lo aveva De Grazia”. Mandò i suoi esperti, che nel fascicolo non trovarono il certificato. Però la procura della Repubblica, che fece ricerche dirette cercando il certificato, aprì tutti gli scatoloni sigillati dell’indagine e accertò che il plico di De Grazia, che conteneva la documentazione investigativa sulla quale egli lavorava, era stato danneggiato da un lato. Fu il pubblico ministero dottoressa Cama, vi è un verbale».
« (…)PRESIDENTE. Di quale procura?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. La procura di Reggio Calabria. Se volete poi posso inviarlo, a corredo della documentazione. Questo plico era stato violato, danneggiato da un lato, e delle 21 carpette numerate rinvenute, 11 erano prive di documenti. De Grazia prendeva un elemento investigativo, faceva una carpetta, sviluppava le indagini e poi mi trasmetteva l’informativa; questo era il suo metodo. Queste ricerche avvennero nel 2005, dopo che il processo era stato archiviato. L’archiviazione del processo era avvenuta nel 2000».
3 – GLI APPROFONDIMENTI SVOLTI DALLA COMMISSIONE IN ORDINE ALLE CONSULENZE MEDICO LEGALI. Un capitolo a parte la Commissione ha inteso dedicarlo agli approfondimenti medico legali svolti nel procedimento aperto presso la procura di Nocera Inferiore e, quindi, in merito agli esami autoptici effettuati sulla salma del capitano De Grazia. Si tratta di uno snodo centrale della vicenda e delle indagini, in quanto di fatto le consulenze tecniche espletate hanno individuato quale causa del decesso un fenomeno definito nella letteratura scientifica come “morte improvvisa dell’adulto” che, secondo quanto precisato dal consulente della Commissione, professor Arcudi, può essere individuato solo allorquando siano state escluse tutte le possibili ipotesi alternative. Le consulenze hanno costituito poi l’elemento fondante sia delle richieste di archiviazione sia dei relativi conformi provvedimenti del Gip.
3.1 – Le conclusioni dei consulenti medico legali nominati nell’ambito del procedimento avviato dalla procura di Nocera Inferiore. Le prime consulenze. Come già evidenziato, la dottoressa Del Vecchio, consulente del pubblico ministero, effettuò due consulenze tecniche, la seconda delle quali finalizzata ad accertare mediante esame istologico e chimico-tossicologico l’eventuale presenza di sostanze tossiche o con analoghe caratteristiche, che avessero cagionato il decesso. Si riportano, di seguito, le conclusioni della dottoressa Del Vecchio, di cui alla prima relazione di consulenza, depositata il12 marzo 1996: “La morte di Natale De Grazia, constatata l’assenza di lesività traumatica con caratteristiche di vitalità e accertata la negatività degli esami chimico-tossicologici, considerati i dati macroscopici rilevati all’esame autoptico (cuore di volume diminuito, si acquatta sul tavolo anatomico; il tessuto adiposo sottoepicardico è molto rappresentato e mostra colorito grigiastro e aspetto translucido; miocardio torbido, grigiastro, assottigliato, diminuito di consistenza; coronarie serpiginose, specillagli, con intima interessata da diffuse deposizioni ateromasiche intimali) e quelli microscopici forniti dall’esame istologico (è presente miocitolisi coagulativa, ma i preparati sono abbastanza ben conservati. In alcuni campi si osserva aumento del grasso subepicardico; il tessuto adiposo si approfonda, a tratti, financo nei piani muscolari. E’ presente notevolissima frammentazione terminale delle miocellule che risultano rigonfie, torbide, con nuclei ipocromici ed acromici. Evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro, che presentano ispessimento sia avventiziale che intimale, con lumi ristretti. Si nota, inoltre, incremento degli spazi fra le fibre muscolari, dove la quota connettivale presenta caratteri di fibrosi interstiziale che in qualche campo sostituisce la struttura -miocardioangiosclerosi-), può ricondursi per sua natura ad una morte di tipo naturale, conseguente ad una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa. La morte improvvisa è un evento repentino ed inatteso caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o almeno di assenza di sintomi alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore. La definizione di morte improvvisa secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità è la seguente: “morte naturale avvenuta in presenza o in assenza di testimoni e dovuta ad arresto cardiaco improvviso, verificatosi inaspettatamente in un soggetto che fino a sei ore prima godeva di buona salute”. La classica impostazione medico legale del Borri prevede ai fini della classificazione di un evento letale come morte improvvisa, che questo soddisfi i seguenti requisiti: assenza di una eventuale azione violenta esteriore; rapidità del decesso; esistenza di uno stato di buona salute o di apparente buona salute, o comunque di una malattia che non minacci un’evoluzione letale. Molte sono le cause di questo tipo di decesso, ma tra quelle cardiache un posto preminente è occupato dalla patologia cardiaca (coronarica e miocardica) che costituisce la causa di gran lunga più frequente di questo genere di morti (Puccini C.. Istituzioni di medicina legale: Ambrosiana, Milano, 1995).L’exitus è provocato, solitamente, da gravi turbe del ritmo culminanti in fibrillazione ventricolare. L’evento scatenante è di natura ischemica ma solo in meno della metà dei casi si riscontra una trombosi coronarica occlusiva o ad esempio un infarto recente, perché negli altri casi le alterazioni elettriche sono precipitate da altre cause ischemiche. Il meccanismo di molte morti improvvise cardiache è costituito da uno stato di instabilità elettrica da ipossia cronica, cosicché un aumento delle richieste metaboliche del cuore, in conseguenza di uno sforzo fisico ovvero di un’intensa emozione, ma anche una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità, (come nel nostro caso) può determinare uno stato di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca. La fibrosi miocardica (presenta nel nostro caso), inoltre, determina un rischio aggiuntivo di interruzione della continuità del sistema di conduzione, che può determinare vari gradi di blocco o di difetto di propagazione del’impulso contrattile, rendendo il cuore più sensibile all’ischemia ed all’arresto (Umani Ronchi G., Botino G., Grande A., Mannelli E.: Patologia Forense. Giuffrè, Milano, 1995). Inoltre, come dalle risultanze dell’esame istologico da noi eseguito, l’infiltrazione di tessuto adiposo che dalla consueta sede subepicardica si insinua in profondità fino ad interessare la parete miocardica, dissociando i fasci muscolari, è tipica anche della cosidetta displasia aritmogena, condizione caratterizzata da aritmie e spesso da morte improvvisa. Pertanto, la morte del capitano Di Grazia, sembra possa riconoscere una dinamica di tipo naturale e più precisamente della cosidetta “morte improvvisa dell’adulto”, che trova origine per lo più in una ischemia del miocardio con successive gravi turbe del ritmo cardiaco, che si manifestano anche in assenza di segni premonitori e che, dal punto di vista anatomopatologico, addirittura nella metà dei casi circa, sono caratterizzati dall’assenza di segni specifici, non solo macroscopici, ma anche microscopici e ultramicroscopici”.
Parzialmente diverse, nella parte descrittiva degli organi e dei tessuti, appaiono le conclusioni del dottor Asmundo nella relazione depositata otto mesi dopo quella del consulente del PM. Il dottor Asmundo, pur riconoscendo la natura cardiaca della morte improvvisa del De Grazia, la riconduce a “accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardica acuta da miocitolisi coagulativa da superlavoro in soggetto affetto, appunto, da cardiomiopatia (dilatativa) da catecolamine”: A seguito della richiesta di riapertura indagini, vennero risentiti i due consulenti, del pubblico ministero e di parte. Entrambi convennero sulla possibilità di effettuare ulteriori accertamenti, in particolare per verificare la presenza di veleni. La dottoressa Del Vecchio chiarì al pubblico ministero Russo che gli accertamenti tossicologici già effettuati avevano escluso la presenza di sostanze tossiche e stupefacenti, in particolare l’alcool, gli oppiacei, la cocaina, i barbiturici, le benzodiazepine, le anfetamine, i cannabinoidi e tutte le altre T.L.C, evidenziando che il materiale prelevato per tali accertamenti (bile e sangue) non era in quantitativo tale da rendere possibile una ripetizione di queste analisi, mentre avrebbero potuto essere effettuate analisi tossicologiche più mirate mediante prelievo di capelli, ossa, quote parte di organi di accumulo “per verificare fino in fondo per quanto possibile l’esistenza di eventuali sostanza tossiche e velenose diverse, in particolare la ricerca potrebbe riguardare i veleni metallici”.
Si riportano, di seguito, i verbali delle dichiarazioni rese dai due consulenti.
3.2 – La seconda consulenza tecnica espletata su incarico del pubblico ministero. In data 18 giugno 1997, il pubblico ministero Giancarlo Russo affidò, quindi, un secondo incarico alla dottoressa del Vecchio sottoponendole ulteriori quesiti: “ad integrazione ed approfondimento della consulenza medico-legale già espletata con riferimento al decesso del cap. De Grazia Natale, esegua il CT ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e velenose, nonché approfondisca, con l’allestimento di ulteriori preparati, l’aspetto istologico. Accerti ed approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini volte a verificare la causa del decesso, anche tenendo conto di quanto emerge dagli atti e dalla consulenza di parte depositata”. Venne dunque effettuato un secondo accertamento sul cadavere del capitano De Grazia, in esito al quale vennero rassegnate dalla dott.ssa De Vecchio le seguenti conclusioni :
“La riesumazione del cadavere del capitano Natale De Grazia, ci ha permesso di eseguire ulteriori prelievi da utilizzare per gli accertamenti chimico-tossicologici e per l’approfondimento delle indagini di consulenza tecnica. A tal fine gli ulteriori esami chimici eseguiti hanno escluso la presenza di sostanze. tossiche di natura esogena nei campioni esaminati. La ricerca è stata compiuta con particolare riferimento alle sostanze che possono portare a morte in tempi brevi, con sintomatologie quali quelle descritte (ipnotici, farmaci cardiaci, depressori del sistema nervoso centrale, cianuri). Per completezza è stata effettuata anche la ricerca dell’arsenico nei capelli (perla verifica di un’eventuale intossicazione cronica) e nel fegato (perla verifica di eventuale intossicazione acuta). La ricerca è risultata negativa. La negatività per la presenza di alcool etilico nel sangue ottenuta con il prelievo del medesimo eseguito in sede di autopsia (19 dicembre 1995) anche se sembra contrastare con le notizie di specifica (vien riferito nella relazione di servizio redatta da Moschitta Nicolo e carabiniere Francaviglia Rosario che il De Grazia si fermava durante il viaggio per la cena alle ore 22.30, consumava abbondanti quantitativi di carboidrati e proteine assumendo contemporaneamente quantitativi non riportati di vino e un bicchierino di liquore denominato limoncello), non desta perplessità, in quanto è noto che la curva di assorbimento dell’alcool etilico a stomaco pieno (soprattutto quando sono j stati assunti abbondanti quantitativi di carboidrati), si appiattisce determinando valori di alcoolemia non rilevabili nel tempo immediatamente successivo all’assunzione. Poiché il decesso si è verificato poco più di un’ora dall’ingestione dei cibi e delle bevande l’alcool presente nello stomaco non aveva avuto il tempo sufficiente per entrare in circolo. Era presente, infatti, in quantità non dosabile. Inoltre viene riferito sempre nella relazione di servizio che durante le manovre rianimatorie il De Grazia rigurgitava parte di quanto introdotto nello stomaco durante la cena. All’esame autoptico il materiale alimentare fu rinvenuto in quantità tale da sembrare in contrasto con l’abbondante pasto riferito, ma ciò è invece facilmente spiegabile se confrontato con le testimonianze acquisite agli atti. Per quanto attiene all’esame istologico, invece, la visione preliminare di organi già esaminati, conferma i reperti impressi, in particolare riguardo per l’aumento, in alcuni campi, del grasso subepicardico. Per le ulteriori colorazioni tricromiche allestite sul cuore, quella di Gomori da conferma della presenza di microaree di sostituzione connettivale non recenti, mentre il PTH, nei limiti di lettura a causa della cattiva conservazione dell’organo, non sembra mettere in evidenza alterazioni cromatiche riferibili a presenza di fibrina recentemente neoformatasi, nell’insieme, il diagnostico sembra dunque essere quello di una miocardioangiosclerosi diffusa senza apprezzabili fenomeni-di necrosi recentissima o recente di tipo focale anche se anche se l’ultima osservazione (su quote parte di cuore riesumato) deve prudenzialmente tenere conto dello stato di conservazione dell’organo (ormai preda di avanzati fenomeni putrefattivi). Pertanto si ritiene, anche alla luce delle ulteriori indagini di laboratorio eseguite, che la causa della morte del capitano De Grazia Natale sia da ricondurre ad un evento naturale tipo “morte improvvisa dell’adulto”, come già ci esprimemmo in merito nella precedente relazione di consulenza tecnica medico-legale affidataci”. La dottoressa Del Vecchio, allorquando depositò le conclusioni della seconda consulenza tecnica espletata, venne risentita dal pubblico ministero Russo a chiarimenti. In tale occasione confermò in pieno i risultati cui era pervenuta con la prima consulenza. Si riporta il verbale all’epoca redatto.
3.3 – Le audizioni in Commissione dei consulenti tecnici. La Commissione ha ritenuto di dover risentire entrambi i consulenti medico legali al fine di chiarire alcuni aspetti legati soprattutto al fatto che nel corso della prima autopsia non furono eseguiti tutti gli accertamenti possibili per la ricerca di sostanze tossiche o assimilate, tanto che fu disposta un’integrazione degli accertamenti stessi, limitata peraltro a quelli ancora possibili nonostante il tempo trascorso.
Il 12 gennaio 2011 sono stati, pertanto, auditi sia la dottoressa Del Vecchio che il dottor Asmundo. La dottoressa ha affermato che:
- non aveva esaminato le precedenti risultanze e cartelle cliniche del capitano De Grazia per verificare se vi fossero tracce di patologie pregresse, precisando che all’epoca si facevano comunque esami che non potevano essere rivelatori di uno stato così fine di patologia che invece adesso viene valutato, come è obbligo dal 31 dicembre scorso;
- in occasione della prima autopsia le analisi tossicologiche furono limitate alla ricerca di sostanze stupefacenti, alcooliche e psicotrope, mentre la ricerca non fu estesa ai veleni, per i quali generalmente vi è una richiesta specifica da parte del magistrato;
- il quesito riguardante la ricerca di sostanze tossicologiche o simili non comprende generalmente anche la ricerca dei veleni. Questo perché per i veleni, data anche la quantità e varietà delle sostanze velenose, occorrono indagini diverse e più ampie e, dunque, quesiti più specifici;
- la maggior parte delle sostanze velenose non è rilevabile a distanza di tempo, salvo alcune sostanze, come l’arsenico.
Si riportano i passaggi più significativi dell’audizione in parola: “L’autopsia è stata svolta in perfetta regola, come da circolare Fani, per cui non solo ho svolto l’autopsia, ma ho anche prelevato parte di tessuto e di organo e tutti i liquidi biologici che potevo prelevare, quindi sangue e bile (non l’urina perché la vescica era vuota) e una quota di visceri per fare l’esame chimico tossicologico (…) non ho dubbi e anzi forse potrei fare un’aggiunta per sviare altri dubbi: come ho potuto vedere perché avevamo colorato questi tessuti con colorazioni particolari che mettono in risalto aree di cicatrizzazione in cui il normale tessuto cardiaco viene sostituito quando ha degli insulti, purtroppo il cuore del capitano De Grazia era soggetto a ipossia cronica (…) a mio parere – più forte oggi di ieri – è morto per un arresto cardiocircolatorio o per insufficienza cardiaca acuta che è la stessa identica cosa per uno stress miocardico, un insulto di ipossia cronica. Lo si vedeva nel cuore, nei reni e addirittura in alcune aree del cervello in cui c’erano le cellule del famoso neurone rosso, che sono un segno di ipossia cronica. (…) Tutti noi possiamo andare incontro a questo e io stessa ho una cardiopatia ipertensiva perché il problema è quello dell’impegno lavorativo, che non fa dormire la notte e impone responsabilità, laddove quelle del capitano erano certamente maggiori delle mie e forse anche delle vostre.
Per quanto riguarda invece i veleni, quando facemmo la riesumazione l’unico veleno su cui potevamo indagare era l’arsenico perché è l’unico che rimane, e questo si è rivelato negativo, perché in chimica clinica abbiamo fatto lo spettrofotometro ad assorbimento atomico che ha dato esito negativo. In assenza di lesività traumatica si pensa al veleno, ma chiaramente tutti gli altri veleni come il cianuro, il bromuro, il potassio danno sintomatologie particolari. La stricnina provoca contrazioni, il bromuro provoca vomito, sintomatologie molto pesanti che non possono passare inosservate né essere confuse con un malore. Si tratta di qualcosa di cui ci si accorge e che qualcuno comunque deve somministrare. Non abbiamo trovato neppure l’anidride arseniosa, che forse ha minore sintomatologie e si può mescolare nei cibi ed essere ingerita senza essere percepita. Tutti gli esami per i derivati della morfina e degli oppiacei non come sostanza stupefacente a sé stante, ma anche per i derivati farmacologici della codeina, cocaina e così via, le benzodiazepine sono stati effettuati in prima battuta, quando fu effettuata l’autopsia, per cui posso affermare che purtroppo la morte del capitano De Grazia è stato un evento naturale stress …”. Nel corso della medesima audizione è intervenuto anche il dottor Asmundo il quale, richiesto di chiarire se vi fossero elementi di dissenso rispetto alle conclusioni cui era giunta la dottoressa De Vecchio, ha dichiarato: “No, dissenso rispetto alla definizione della causa di morte no, ma ci sono alcuni aspetti che riguardano comunque la morte improvvisa da causa patologica naturale cardiaca che dal punto di vista tecnico-scientifico mi sentirei di definire in altro modo. Non ho però dubbi che si sia trattato di una morte improvvisa da causa patologica naturale cardiaca da superlavoro rispetto alle analisi condotte, alle circostanze che ci furono riferite e all’esclusione di altre cause che non sono emerse nel corso delle indagini eseguite dalla dottoressa. (…) Elementi di dissenso soltanto dal punto di vista tecnico-scientifico. Ho partecipato all’indagine autoptica e ho esaminato i preparati istologici allestiti da frammenti di visceri di cadavere e segnatamente del cuore.
Più che presentare una patologia di tipo aterosclerotico, il cuore è danneggiato da un’iperincrezione catecolaminica cioè degli ormoni dello stress, che hanno cronicamente intossicato la cellula miocardica, producendo un quadro che non è del tutto sovrapponibile a quello da causa ischemica e quindi ipossica, ma che deriva proprio dall’azione diretta di questi ormoni sulla cellula cardiaca che la danneggia. Ci sono evidenti reperti, focolai e aree anche abbastanza estese della cosiddetta «miocitolisi coagulativa» nel 1995, che oggi definiamo «necrosi a bande di contrazione». È quindi sostanzialmente condivisibile il terminale fisiopatologico, ma non esattamente in senso eziologico, nel senso che le coronarie, che sono i vasi che portano il sangue ossigenato al cuore per farlo ben lavorare, erano pressoché integre e non presentavano i segni tipici del soggetto cardiopatico ischemico, dell’infartuato, che presenta placche che ostruiscono la circolazione arteriosa coronarica e quindi danneggiano le cellule miocardiche non essendo apportato ossigeno. Qui il discorso è ben diverso e deriva proprio dall’iperincrezione catecolaminica, che caratteristicamente produce questo danno della cellula miocardica a focolai, che nel tempo possono arrivare a produrre una cardiopatia dilatativa se non interviene una causa aritmogena, cioè se il disarrangiamento dell’architettura del tessuto muscolare cardiaco non produce una desincronizzazione dell’attività cardiaca stessa tanto in senso elettrico quanto in senso meccanico, producendo quanto è accaduto al capitano De Grazia, cioè la morte improvvisa probabilmente da causa elettrica su base miocitolitica coagulativa (…) Le fibrocellule cardiache sono interconnesse tra loro e subiscono effetti che derivano da un impulso sostanzialmente elettrico, che deriva da una differenza di potenziale a livello della membrana cellulare per il passaggio di ioni dall’interno all’esterno della cellula, che attivano un meccanismo biochimico che fa contrarre la cellula. Se gruppi di cellule muoiono, evidentemente le interconnessioni non funzionano più e quindi la continuità dell’impulso elettrico non è garantita. Se i focolai sono multipli a livello del tessuto miocardico come in questi soggetti soprattutto la parete ventricolare sinistra, che è la parte più nobile del cuore, quella che pompa il sangue nella circolazione sistemica, in quella cerebrale fondamentalmente, questo può comportare in un altro momento, indipendentemente da una causa scatenante, una desincronizzazione dell’attività elettrica e quindi meccanica di pompa del cuore. Questo comporta un improvviso arresto cardiaco che può essere chiamato sincope o arresto cardiaco elettrico, che può comportare una fibrillazione ventricolare non conducente alla contrazione per il pompaggio del sangue e, in definitiva, a uno stupore e quindi a uno stop dell’attività cardiaca, che determina la morte improvvisa (…) Sono stati effettuati studi molto particolari su soggetti per i quali è stato percepito il «clic» nel senso dell’accensione del momento emozionale, sui quali si è dimostrato un rapporto sostanzialmente diretto. Ci sono però soggetti che come il De Grazia muoiono nel sonno probabilmente perché hanno anche una predisposizione – è difficile dirlo oggi – su base genetica.
Negli ultimi 5-7 anni si è svolta una grande ricerca sulla genetica dei recettori cioè di quelle zone della cellula cardiaca che servono per l’attacco dell’adrenalina e della noradrenalina, gli ormoni dello stress, per l’attivazione della cellula. Alcuni soggetti hanno questi recettori alterati o comunque non perfetti e quindi in loro una situazione di stress può comportare molto facilmente una desincronizzazione dell’attività e quindi una morte elettrica”. La dottoressa Del Vecchio ha sottolineato, poi, che in assenza di lesività esterna “(De Grazia non aveva segni traumatici da arma da fuoco, armi bianche o colpi contusivi, non era politraumatizzato, non era caduto da una finestra)” il medico legale indaga sulle cause della morte (semplice ictus, attacco di cuore o qualsiasi altra cosa) cercando eventuali sostanze:
“In questo caso non avevamo neanche le urine, ma abbiamo attentamente indagato nel sangue, nella bile, nei visceri, come sempre facciamo per verificare se un soggetto abbia ingerito un farmaco, sia rimasto vittima di un’allergia o – non è il caso del capitano – abbia fatto uso di sostanze stupefacenti. Il caso dei veleni è più particolare, perché il pubblico ministero, il giudice che assegna l’incarico dovrebbe quantomeno indirizzare il perito verso una ricerca perché alla luce della gamma dei veleni possibili un’indagine del genere può avere per lo Stato un costo incredibile. Io sarei molto favorevole a effettuare un’indagine del genere su tutti i morti per morte naturale“. La dottoressa Del Vecchio ha, quindi, ribadito le sue conclusioni, dopo aver descritto gli effetti delle sostanze velenose: “Una delle sostanze con cui le persone vengono anche curate e che si possono assumere anche a piccole dosi fino a intossicazione è proprio l’arsenico, che infatti era negativo, perché alle altre sostanze si diventa assuefatti. Con il potassio, che deve essere iniettato, si muore immediatamente. (…) Con «immediatamente» s’intende che non si riesce a rientrare in macchina. Altre sostanze come la stricnina provocano convulsioni, particolari che qualcuno avrebbe dovuto riferire”. Allo stesso modo il dottor Asmundo ha confermato il suo giudizio, affermando: “Il reperto tossicologico non è mai lontano dal reperto anatomopatologico. Se infatti una sostanza altera l’organismo in modo tale da ucciderlo, evidentemente a livello polmonare, epatico e renale, organi deputati alla detossificazione dell’organismo, si rileva un’alterazione. Noi non abbiamo un reperto anatomopatologico che ci possa consentire tecnicamente di affermare una cosa simile. A fronte di un reperto patologico cardiaco di una consistenza più che discreta, l’orientamento nel senso dell’epicrisi non può che essere quello”. Riguardo alla prima autopsia effettuata, la dottoressa ha chiarito di aver eseguito alcuni esami tossicologici (“avevamo il sangue, i visceri, la bile, che sono indagini istologiche di tessuti. Abbiamo utilizzato il metodo RYE, metodica che si usa per analizzare questi reperti, abbiamo visto l’alcol (l’etanolo) che era negativo, tutti i derivati della morfina e degli oppiacei, della cocaina, codeina e quant’altro”), ma di non aver indagato sui veleni, affermando che ciascun veleno richiede uno studio a parte, per cui l’indagine in tal senso sarebbe stata eseguita se vi fosse stato il sospetto della presenza di un veleno. Alle richieste di chiarimenti avanzate dei componenti della Commissione, l’audita ha risposto, così come riportato nel resoconto stenografico:
“ALESSANDRO BRATTI. Si può escludere categoricamente che non sia stato avvelenato o, dato che per tutta una serie di motivi non si è ipotizzata la presenza di determinati veleni, si fa fatica ad andarli a cercare? Questa è una domanda importante, perché si può escludere totalmente qualsiasi tipo di veleno oppure ammettere questa eventualità.
SIMONA DEL VECCHIO. In base alla mia esperienza ritengo che l’unico veleno che potesse uccidere una persona così giovane e sana potesse essere appunto l’arsenico, che infatti dopo siamo andati a ricercare e non c’era. È l’unico che si può cercare e trovare anche dopo tranquillamente perché è l’unico che non senti: o viene iniettato, ma non c’erano segni di agopuntura.
ALESSANDRO BRATTI. Avendo bevuto e mangiato magari poteva anche sentire un sapore strano. Chiaramente, voi siete esperti e lo sapete.
SIMONA DEL VECCHIO. Le assicuro che le quantità dovrebbero essere minime, non in grado di far morire una persona.
PRESIDENTE. Per chiarire fino in fondo il nostro problema, noi abbiamo una serie di indizi esterni quali il fatto che sia stato completamente disfatto tutto il gruppo che stava svolgendo un’indagine particolarmente importante sulla presenza di sostanze tossiche (noi abbiamo anche accertato ulteriori elementi di particolare importanza di quello specifico viaggio). Se quindi voi ci dite che al cento per cento era assolutamente impossibile che nel momento in cui è morto ci fosse una causa o una concausa diversa dal fatto che il cuore non ha più funzionato perché non sono arrivati gli impulsi elettrici e ha avuto quello che comunemente si definisce un infarto, interpretiamo quegli indizi in un senso. È invece diverso se ci dite che a voi risulta questo, però ad esempio avete fatto un’indagine accuratissima sulla presenza di una possibile puntura.
SIMONA DEL VECCHIO. Posso assicurare che quello lo effettuo su tutti, anche su chi non fa il lavoro del capitano De Grazia, per cui glielo assicuro personalmente anche se non c’è nella relazione. Il collega era presente, abbiamo fatto le foto del corpo e addirittura, riscontrando un’escoriazione sul lato sinistro, ho prelevato quel pezzetto di cute perché preferivo analizzare anche questo tessuto. Non era nulla, perché evidentemente hanno tentato di rianimarlo e si trattava dei segni della rianimazione.
ALESSANDRO BRATTI. Escludete comunque l’avvelenamento per ingestione a meno che non sia quella sostanza.
SIMONA DEL VECCHIO. Sì, perché dovrebbe essere troppa la sostanza somministrata a una persona per ottenere quell’effetto.
PRESIDENTE. Vorrei sapere se sia stato analizzato il cibo che aveva ingerito, per sapere che tipo di cibo fosse e a che livello di digestione fosse.
SIMONA DEL VECCHIO. No, perché il cibo era già a uno stadio avanzato come l’alcol prima, perché non è morto subito: aveva già cominciato la sua digestione, c’era del liquame.
ALESSANDRO BRATTI. Nonostante avesse già cominciato la digestione, le tracce di alcol.
SIMONA DEL VECCHIO. Perché l’alcol si assorbe prima, ecco perché si raccomanda di aspettare mezz’ora dopo mangiato per evitare l’eventuale ritiro della patente, qualora si sia fermati. Il capitano non è morto subito, per cui oltre il liquame non potevamo vedere più nulla. Occorrono tre ore per svuotare uno stomaco.
PRESIDENTE. Quanto tempo occorre perché il cibo si trasformi in liquame?
SIMONA DEL VECCHIO. Al massimo tre ore, ma anche di meno: dipende da cosa e quanto abbiamo mangiato.
ALESSANDRO BRATTI. Uno shock anafilattico si vedrebbe chiaramente dall’autopsia?
SIMONA DEL VECCHIO. Sì, come diceva il collega prima il fegato e la milza, organi in cui passa tutto il circolo refluo, avrebbero subìto effetti allucinanti. Tutti i veleni che provocano l’atrofia giallo-acuta avrebbero dato quadri epatici disastrosi, mentre mi pare che il fegato fosse l’organo in assoluto più tranquillo perché si trattava di una persona giovane, attenta a quanto mangiava e beveva.
PRESIDENTE. Avrei ancora alcune cose da chiarire per arrivare sino in fondo. Per quanto riguarda i polmoni, qui si dichiara che «è presente intensissima congestione con abbondanti travasi emorragici endoalveolari». Vorrei sapere quale origine possa avere la congestione.
SIMONA DEL VECCHIO. La morte di tipo asfittico e cioè tutte le morti che avvengono per mancanza d’aria, quindi la morte cardiaca o per strangolamento.
PRESIDENTE. La morte cardiaca è contemporanea, cioè nel momento in cui il cuore si ferma.
SIMONA DEL VECCHIO. No, non è detto che si fermi subito: si può avere un malore che può avere un suo decorso.
PRESIDENTE. Se invece fosse una morte per asfissia?
SIMONA DEL VECCHIO. Ci sarebbero stati segni di asfissia, che in questo caso mancano. È il meccanismo della morte: in questo caso parlo della mancanza di aria negli organi interni, non della morte per asfissia.
Prima ho precisato che non c’erano segni di lesività traumatica di alcun genere.
PRESIDENTE. Parliamo dei polmoni.
SIMONA DEL VECCHIO. La congestione è tipica di una morte cardiaca.
PRESIDENTE. Ma può essere anche tipica di un soffocamento?
SIMONA DEL VECCHIO. Di tantissime altre morti, anche di un soffocamento, ma un uomo di 39 anni come il capitano De Grazia non si sarebbe fatto soffocare senza reagire. Questo è doveroso dirlo”.
3.4 – La consulenza del professor Giovanni Arcudi. Come già evidenziato, la Commissione ha ritenuto di voler approfondire l’aspetto medico legale legato alla morte del capitano De Grazia. A tal fine, dopo avere audito i consulenti medico legali che effettuarono le operazioni peritali nel corso dell’indagine condotta dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore, ha affidato, in data 16 maggio 2012, al professor dottor Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica dell’Università di Roma “Tor Vergata”, nonchè consulente della Commissione) l’incarico di esaminare gli atti acquisiti e le consulenze tecniche medico legali effettuate dalla dottoressa Del Vecchio e dal dottor Asmundo nonché di eseguire gli esami di natura ripetibile, ritenuti utili, sui preparati istologici e le relative inclusioni in paraffina eventualmente ancora custoditi presso il laboratorio di istologia dell’Istituto di medicina legale – Università La Sapienza di Roma. In data 10 dicembre 2012, il professor Arcudi ha depositato una relazione nella quale sono esposti i risultati della sua consulenza. Si ritiene di riportare integralmente il testo della relazione depositata in ragione del tecnicismo della materia e delle conclusioni, non coincidenti per diversi aspetti ripetto a quelle cui pervennero la dottoressa Del Vecchio e il dottor Asmundo: «Gli accertamenti medico legali sono stati effettuati da una parte sulla base della documentazione acquisita agli atti e, dall’altra, sulla revisione dei preparati istologici a suo tempo allestiti su frammenti di visceri prelevati in occasione della autopsia effettuata sul cadavere del De Grazia e della successiva esumazione. «Nulla è stato possibile fare sul versante delle indagini tossicologiche forensi poiché non risulta che siano state conservate parte dei prelievi di liquidi biologici e di visceri che sembrerebbe siano stati fatti nel corso degli accertamenti necroscopici e utilizzati, all’epoca, per esami chimico tossicologici forensi. «Quindi sulla scorta del predetto materiale che avevo a disposizione ho svolto gli accertamenti medico legali all’esito dei quali posso proporre le seguenti considerazioni. «Preliminarmente è opportuna una osservazione sugli accertamenti effettuati all’epoca della morte del capitano De Grazia, disposti dapprima dalla procura della Repubblica di Reggio Calabria in data 19 Dicembre 1995 e quindi dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore in data 23 Aprile 1997. «Come ho avuto modo di anticipare nella mia relazione preliminare (sostanzialmente ripresa in questa relazione definitiva, ndr), non posso che ribadire, ora, come gli accertamenti di natura medico legale, allora disposti, risultino condotti in maniera piuttosto superficiale con incomprensibili carenze e contraddizioni che rendono i risultati tutti incerti, poco affidabili e quindi non concretamente utilizzabili per gli scopi per i quali erano stati disposti. Scopi che erano stati indicati nella serie di quesiti posti al perito, sempre lo stesso nel primo e nel secondo accertamento, e che erano tutti finalizzati a chiarire, anche con l’ausilio della indagine tossicologica, la causa della morte del De Grazia. «Più in particolare deve essere evidenziata la piuttosto evidente difformità tra il verbale di autopsia del CT del PM e quello del consulente della parte: nel primo il contenuto gastrico è riferito come costituito da alcuni cc di liquame blunerastro mentre il CT della parte parla di un abbondante quantità di materiale alimentare parzialmente digerito, ed è evidente che sia più veritiera quest’ultima versione, essendo inconcludente l’affermazione della dottoressa Del Vecchio che lo stomaco era vuoto perché il Cap. De Grazia aveva vomitato poco prima della morte.; la CT del PM dice di un cuore con coronarie serpinginose, specillabili, con intima interessata da diffuse deposizioni ateromasiche intimali, mentre il CT della parte dice che nulla c’è alle coronarie, e probabilmente ha ragione lui visti gli esami istologici. «E poi c’è, nella descrizione della seconda autopsia su cadavere esumato, la non attendibilità di un dato relativo ai prelievi di parti di visceri che verosimilmente dovevano essere putrefatti e, più sorprendentemente, di sangue che non poteva più esserci dopo una prima autopsia e dopo che erano trascorsi circa sedici mesi da quest’ultima. E tante altre cose ancora. «Insomma si trae quasi l’impressione che in questa indagine medico legale si sia badato più alla forma di particolari processuali privi di valore che invece alla sostanza della indagine in patologia forense che sembra del tutto trascurata nel rigorismo obiettivo e nella valutazione del significato patologico dei quadri autoptici. «E questo per quanto riguarda gli accertamenti autoptici ed istologici. Altro capitolo è quello degli accertamenti tossicologici per i quali non posso che riproporre le stesse considerazioni, condivise dal tossicologo forense della medicina legale di “Tor Vergata”, già fatte pervenire con la relazione preliminare che ora possono essere ritenute definitive. «Sono state prese in esame le indagini chimico tossicologiche che, secondo l’allora CT del PM, dottoressa Del Vecchio, sono state eseguite in due riprese: una in occasione della prima autopsia eseguita in data 19.12.1995 con contestuali prelievi; un’altra quando è stata fatta la esumazione del cadavere del Di Grazia in data 23.04.1997. «Prima ancora di entrare nel merito, appare opportuno segnalare una macroscopica contraddizione tra quanto riportato nelle tre relazioni di consulenza, riguardo al contenuto dello stomaco.Nella prima relazione della dottoressa Del Vecchio, relativa all’esame autoptico da lei eseguito in data 19 dicembre 1995, si legge: “…Stomaco contenente alcuni cc di liquame brunastro…”, mentre nella relazione di consulenza di parte, il dottor Asmundo, presente all’esame autoptico, scrive: “….Nello stomaco abbondante quantità di materiale alimentare parzialmente digerito, d’aspetto cremoso e colorito giallastro-roseo nel quale sono riconoscibili frammenti di formaggio biancastro e carnei rosei-scuri…”. Nella seconda relazione, infine, relativa all’autopsia del 19 giugno 1997 (30 mesi dopo la prima !) la dottoressa Del Vecchio riporta che “, si poteva procedere al prelievo di quota parte di visceri (fegato, reni, polmoni, cuore milza, stomaco) di muscolo, di osso (vertebra, osso del bacino e costa) e di sangue per gli ulteriori esami di laboratorio”.
«Anche se le quantità di materiale biologico prelevato non vengono mai riportate, si deve ragionevolmente ritenere che il contenuto dello stomaco rinvenuto all’autopsia del 1997 non dovesse essere costituito solo da alcuni cc di liquame, come affermato nella relazione del 1995, perché su tale materiale sono state effettuati una serie di accertamenti chimico-tossicologici – ricerca dell’alcool etilico, ricerca dei cianuri, ricerca di altre sostanze ad azione farmacologica (barbiturici, benzodiazepine, antidepressivi, ipnotici e tranquillanti) – che necessitano di quantitativi di materiale non esigui.
«Anche se solo parzialmente compreso nelle competenze tossicologico-forensi appare doveroso ricordare qui l’importanza del dato della presenza di cibo nello stomaco, in funzione, non solo delle valutazioni tanato-cronologiche, ma anche nell’identificazione del materiale ingerito, per un possibile riscontro con quanto dichiarato da eventuali testimoni.
«In quest’ottica, purtroppo, nessun prelievo e nessun accertamento è stato effettuato nel corso della prima autopsia e quelli relativi alla seconda hanno sicuramente scarso rilievo tossicologico in quanto, dato il tempo trascorso (30 mesi) sicuramente il materiale era interessato da profonde trasformazioni putrefattive.
«Entrando nello specifico delle problematiche tossicologico-forensi, sul contenuto dello stomaco sono state effettuate analisi per la ricerca dell’alcol etilico, che, come è noto, è una sostanza particolarmente volatile. Appare pertanto sorprendente che, in un campione prelevato 30 mesi dopo il decesso, in uno stomaco che era stato aperto dopo la prima autopsia (il medico legale aveva visto pochi cc di liquame brunastro!) vi sia ancora la presenza, seppur in quantità esigua ma significativa (0,3 g/litro), di alcool etilico.
«E tale dato è ancora più sorprendente se viene paragonato all’esito dello stesso accertamento effettuato sul sangue, sia quello prelevato nel corso dell’autopsia del 1995, sia quello (!!) prelevato nel 1997: in entrambi i campioni l’analisi da esito negativo (anche se nel campione del 1997 viene utilizzata la dicitura “non dosabile”).
«Alla luce di tali risultati è verosimile che il consulente abbia confuso per alcol etilico il picco cromatografico di sostanze volatili di origine putrefattiva ovvero che l’alcol riscontrato sia esso stesso di origine putrefattiva. In questa seconda ipotesi, tuttavia, tracce di alcol sarebbero dovute essere presenti anche nel sangue.
«Nel contenuto dello stomaco è stato effettuato anche un saggio colorimetrico per la ricerca della eventuale presenza di cianuri. Anche per questa sostanza vale quanto già detto per l’alcol etilico. «Nello stomaco, in presenza di acido cloridrico, i cianuri si trasformano in acido cianidrico, sostanza particolarmente volatile e, come ricavabile dalla letteratura, se le analisi non vengono eseguite tempestivamente, è molto improbabile che possano essere rilevati.
«Focalizzando l’attenzione sulle indagini chimico-tossicologiche relative ai prelievi effettuati nel corso dell’autopsia del 1995, così come desunte dalla relazione si può osservare quanto segue.
«Le analisi descritte, ad eccezione della determinazione dell’alcol etilico, appaiono molto generiche e non in grado di determinare la presenza di eventuali sostanze tossiche, soprattutto se presenti in concentrazione non particolarmente elevate. L’unica tecnica impiegata dotata di qualche validità scientifica e quella RIA (radio immuno assay) impiegata per la ricerca di oppiacei e cocaina. «Avendo fornito esito negativo è possibile escludere la presenza nel sangue e nella bile di oppiacei (particolarmente morfina) e cocaina.
«Tutte le altre tecniche descritte – la spettrofotometria U.V., cromatografia su strato sottile (TLC), l’estrazione secondo la tecnica di Stass-Otto, il metodo di Felby per la ricerca degli oppiacei – sono (e lo erano anche nel 1995) tecniche obsolete, dotate di scarsa o nulla specificità e/o sensibilità e che nessun tossicologo applicherebbe per l’accertamento di una eventuale intossicazione o avvelenamento.
«Sui liquidi biologici prelevati nel corso della prima autopsia non sono stati effettuati accertamenti per la ricerca dei principali veleni metallici (arsenico, tallio, ecc.) né di altre possibili sostanze tossiche, soprattutto quelle che possano agire a piccole dosi (cianuri, esteri fosforici, digitale, ecc.).
«Sulla base di quanto sopra detto appare di tutta evidenza come le indagine sono state del tutto inappropriate dovendosi, per questo, concludere che, ai fini di chiarire se nel caso in discussione si è trattato di una intossicazione o un avvelenamento, le analisi allora effettuate sono del tutto inutilizzabili, restando insoluto l’interrogativo circa l’influenza di fatto tossico nel determinismo della morte.
«Per quanto concerne le analisi effettuate sui liquidi biologici prelevati nel corso della seconda autopsia (1997), preliminarmente è doveroso evidenziare che, a causa del tempo trascorso dal decesso, il materiale era sicuramente interessato da gravi fenomeni trasformativi dovuti allo stato di putrefazione. In tali condizioni, qualsiasi accertamento risulta sicuramente compromesso dallo stato del materiale biologico che rende assai difficile l’identificazione di eventuali sostanze tossiche esogene.
«Entrando nello specifico delle analisi eseguite, nonostante il quesito del Magistrato richiedesse “ulteriori” accertamenti chimico-tossicologici, in pratica i consulenti si sono limitati a ripetere analisi già effettuate, e non si comprende se sui prelievi della prima autopsia o su quelli, del tutto improbabili, della esumazione.
«Ancora una volta sono state utilizzate tecniche obsolete e generiche (spettrofotometria U.V., cromatografia su strato sottile, saggi colorimetrici); la gascromatografia con rivelatore di massa, indispensabile in un laboratorio di tossicologia forense, è stata utilizzata solo per l’analisi del contenuto dello stomaco e di un omogeneizzato di visceri, trascurando gli altri campioni biologici. I tracciati relativi alle analisi mediante gascromatografia con rivelatore di massa non sono stati allegati alle relazioni peritali e, pertanto, non possono essere commentati.
«In queste analisi, inoltre, le perplessità maggiori sono fornite dalle tecniche utilizzate per estrarre le eventuali sostanze tossiche dal materiale biologico: la tecnica è specifica e sensibile ma se l’estrazione non lo è altrettanto, l’analisi diventa inutile. Infine, l’abitudine ad analizzare omogenati di organi mescolati tra loro è assolutamente da censurare: un tossico presente in un solo organo viene “diluito” nella massa complessiva e può essere non più rilevabile (concentrazione inferiore al limite di rilevabilità del metodo).
«Anche sul materiale prelevato (?) dal cadavere esumato sono state eseguite indagini mediante tecniche immunochimiche (RIA) focalizzate sulle due principali sostanze stupefacenti (oppiacei e cocaina). Ma se i liquidi biologici sono stati prelevati in tempi diversi ma dallo stesso cadavere, perché ripetere le stesse analisi che avevano già dato esito negativo?
«L’analisi del materiale pilifero è superflua in quanto, nel caso in cui si fosse trattato di una intossicazione acuta (ad es. un avvelenamento), la morte sopravvenuta rapidamente avrebbe comunque impedito al tossico di raggiungere la matrice cheratinica. Affinché una sostanza dal sangue raggiunga il bulbo pilifero, venga inglobata nel capello nel momento in cui si sta formando, il capello fuoriesca dal cuoio capelluto e cresca quel tanto che basta per consentirne il taglio con forbici (in genere non si usa, se non per esperimenti scientifici, di rasare i capelli), è necessario un periodo temporale che può essere calcolato tra 15 e 30 giorni, periodo temporale incompatibile con l’ipotesi di una intossicazione acuta.
«Nelle analisi su materiale pilifero, l’identificazione delle sostanze è possibile solo in caso di assunzioni ripetute, abituali o croniche quando le quantità presenti sono compatibili con la sensibilità della strumentazione utilizzata.
«Anche per quanto attiene a questo secondo gruppo di analisi si deve ripetere quanto sopra detto a proposito delle prime, e cioè che sono del tutto inutilizzabili.
«Premesso quanto sopra, e preso atto della scarsa affidabilità degli accertamenti a suo tempo esperiti, ho ritenuto utile in questa sede un tentativo di approfondimento in ambito istopatologico essendo le inclusioni in paraffina e gli allestimenti dei vetrini l’unico reperto che è pervenuto utilizzabile dai precedenti accertamenti medico legali.
«Ho provveduto, pertanto, con l’assistenza della Anatomia ed Istologia Patologica dell’Università di Roma “Tor Vergata, alla revisione dei preparati istologici che ho acquisito nella sezione di Istologia dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Roma “Sapienza” e ad un ulteriore allestimento di vetrini anche con nuove e più specifiche tecniche di colorazione.
«La lettura dei preparati così ottenuti ha permesso di obiettivare quanto segue:
«Cuore.
«Presenza di aspetti isolati in cui i miocardiociti assumono aspetto ondulato ed allungato (“a dune di sabbia”), talora con ipereosinofilia del citoplasma (miocitolisi coagulativa) come da processo coagulativo microfocale delle proteine e con quadri morfologici compatibili con bande da ipercontrazione, peraltro molto limitati e ristretti a piccoli segmenti.
«Presenza di aspetti non conclusivi ma suggestivi per edema interstiziale.
«Presenza di congestione acuta vascolare.
«Presenza di modificazioni morfologiche dei miocardiociti riconducibili a fenomeni postmortali.
«La valutazione immunofenotipica (LCA, CD3) non ha evidenziato un aumento dell’infiltrato infiammatorio intramiocardico, come segnalato in letteratura nelle condizioni di morte improvvisa di tipo cardiaco, nella maggior parte dei pazienti.
«Assenza di alterazioni significative dei vasi presenti nei vetrini esaminati.
«NON si osservano, nei vetrini in esame: frammentazione terminale delle miocellule, anomalie nucleari riconducibili ad un danno ischemico, fibrosi interstiziale significativa, miocardioagiosclerosi, (”evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro”…), aumento del grasso periviscerale (che appare nella norma laddove valutabile in maniera adeguata) significativo per patologia cardiaca congenita.
«Si concorda con la valutazione istologica per gli altri organi, in particolare per l’intenso e diffuso edema polmonare e per l’altrettanto marcata congestione vascolare. La maggior parte delle alterazioni a livello dei vari organi sono peraltro di verosimile natura putrefattiva, fatta eccezione per la congestione vascolare.
«Dalla lettura di questi preparati istologici, in confronto con gli esami istologici fatti dal CT dottoressa Del Vecchio si possono trarre queste conclusioni: «Il quadro macroscopico descritto a livello del cuore esclude l’ipotesi di displasia aritmogena, tipica del ventricolo destro del cuore, non del sinistro.
«NON è presente fibrosi interstiziale nel cuore.
«NON è documentata in maniera certa una significativa coronarosclerosi che potrebbe giustificare una morte cardiaca improvvisa su base ischemica.
«La descrizione macroscopica del cuore sembra indicare una degenerazione bruna del miocardio di tipo terminale, la cui genesi è riconducibile a svariate cause, non ultima il cuore polmonare acuto.
«Conclusioni.
«Al termine delle indagine di consulenza tecnica che mi era stata affidata da Cotesta Commissione posso rilevare quanto segue.
«Innanzitutto i limiti della presente indagine sono apparsi subito evidenti al momento in cui ci si è resi conto che, ad eccezione del materiale istologico, nessun reperto dei precedenti accertamenti era più disponibile per poter ripetere le analisi e magari per approfondirle in un’ ottica più indirizzata ad individuare con sufficiente certezza la causa della morte del capitano Natale De Grazia.
«Allo stato non è possibile reperire nuovi reperti da utilizzare con profitto dovendosi escludere che una eventuale, rinnovata esumazione della salma possa dare la possibilità di indagare sui temi che qui interessano e cioè quelli della causa della morte con particolare riferimento alla presenza di sostanze tossiche.
«Non rimane che fare delle deduzioni sostenute dai pochi elementi di certa obiettività desunti dagli atti, tenendo anche conto di quanto acquisito nel corso delle audizioni delle persone che in qualche modo ebbero ad assistere nella circostanza della morte del capitano De Grazia.
«Bisogna subito sgombrare il campo da un equivoco che sembra essersi creato nel percorso investigativo sulle cause della morte.
«L’indagine medico legale condotta dalla dottoressa Del Vecchio si è conclusa con una diagnosi di morte improvvisa dell’adulto, facendo intendere che vi fossero in quel quadro anatomo ed istopatologico elementi concreti che potevano ben sostenere detta diagnosi. Questo non corrisponde alla verità scientifica.
«Ho poco sopra evidenziato come la lettura dei preparati istologici effettuata in questa sede smentisca quella della dottoressa Del Vecchio, la quale ha ritenuto di cogliere, nella sua indagine anatomo ed istopatologica, elementi deponenti per un preesistente danno miocardico di cui sarebbe stato portatore il capitano De Grazia; danno che poi è stato utilizzato per sostenere la morte improvvisa dell’adulto.
«Questo significa che, allo stato, non c’è nell’intera indagine alcun dato certo che possa supportare la morte improvvisa dell’adulto; diagnosi causale di morte, questa, che deve essere ritenuta non provata e nemmeno connotata da apprezzabili probabilità.
«Se noi qui dobbiamo fare una conclusione al termine di questa indagine dobbiamo dire che il capitano De Grazia non è morto di morte improvvisa mancando qualsivoglia elemento che possa in qualche modo rappresentare fattore di rischio per il verificarsi di tale evento. Si trattava infatti di soggetto in giovane età, in buona salute, senza precedenti anamnestici deponenti per patologie pregresse, che conduceva una vita attiva e, come militare in servizio, era sottoposto alle periodiche visite di controllo dalle quali non sembra siano emersi trascorsi patologici. E per altri versi l’esame necroscopico, al contrario di quanto è stato prospettato attraverso una analisi non attenta e piuttosto superficiale dei reperti anatomo ed istopatologici, non ha evidenziato nessuna situazione organo funzionale che potesse costituire potenziale elemento di rischio di morte improvvisa.
«E nemmeno quanto riferito dalle persone che erano presenti alla morte e che ne seguirono le fasi immediatamente precedenti, si accorda con una ipotesi di morte cardiaca improvvisa.
«Si sa infatti che il capitano De Grazia, subito dopo aver mangiato e messosi in macchina ha cominciato a dormire e quindi a russare in modo strano; ad un certo punto reclina la testa sulla spalla e per questo viene scosso dall’occupante il sedile posteriore dell’autovettura; a questa sollecitazione egli reagisce sollevando il capo ma non svegliandosi e senza dire alcunchè se non emettendo un suono indefinito; quindi poco dopo reclina definitivamente la testa e non risponde più alle sollecitazioni.
«Bene, mi risulta difficile avvalorare l’ipotesi di una morte cardiaca da ischemia miocardica su base aterosclerotica senza manifestazioni anginose, senza dolore che si sarebbe dovuto manifestare specie in quel momento in cui il capitano De Grazia è stato scosso ed ha avuto in momento di reazione seppure, come è stato riferito, in una specie di dormiveglia.
«Piuttosto, se si volesse proporre una ipotesi di causa di morte diversa da quella sopradetta, sembrerebbe più trattarsi di morte cardiaca secondaria a insufficienza respiratoria da depressione del sistema nervoso centrale, come suggestivamente depone il quadro di edema polmonare così massivo, incompatibile quasi con un arresto cardiaco improvviso del tutto asintomatico; come suggestivamente depongono le manifestazioni sintomatologiche riferite da chi ha potuto osservare il sonno precoce, il russare rumoroso, quasi un brontolo, la risposta allo stimolo come in dormiveglia, il vomito; tutte manifestazioni queste che, anche se non patognomoniche, ben si accordano con una progressiva depressione delle funzioni del sistema nervoso centrale.
«Quest’ultima, in carenza di incidenti cerebrovascolari, esclusi dall’autopsia, può riconoscere solo la causa tossica. Quale essa potrà essere stata, e se c’è stata, non lo si potrà più accertare.
«Purtroppo è stata irreversibilmente dispersa la possibilità di indagare seriamente sul versante tossicologico, da una parte per superficialità e forse inesperienza di chi aveva posto i quesiti con scarsa puntualità e poco finalizzati; dall’altra per l’insipienza della indagine medico legale che ha ritenuto trovarsi di fronte ad una banale morte naturale ed inopinatamente si è subito indirizzata, trascurando l’indagine globale, alla esclusiva ricerca di droghe di abuso in un caso nel quale, se c’era una ipotesi se non da scartare subito almeno da considerare per ultima, era proprio quella di una morte per abuso di sostanze stupefacenti; e pervicacemente ha insistito sulla stessa linea anche nella seconda indagine necroscopica.
«Oramai l’indagine tossicologica non è più ripetibile, neppure, come sopra accennato, con l’esumazione del cadavere, e quindi il caso, dal punto di vista medico legale deve essere, ad avviso del sottoscritto, considerato chiuso».
La Commissione, non avendo avuto la possibilità di audire nuovamente la dott.ssa Del Vecchio in ragione della cessazione delle attività d’inchiesta dovuta allo scioglimento anticipato delle Camere, ha comunque ritenuto opportuno inviare alla stessa una copia delle consulenza depositata dal professor Arcudi. La dott.ssa Del Vecchio ha fatto pervenire alla Commissione una nota di cui si ritiene doveroso dar conto perché in essa sono in qualche modo contenute le sue controdeduzioni rispetto ai rilievi effettuati dal Prof. Arcudi: Conclusioni. Le conclusioni della consulenza medico-legale del professor Arcudi impongono di valutare le risultanze dell’inchiesta precedentemente svolta in una chiave nuova e non poco allarmante. E’ vero che, come si ricorderà tra poco, già emergevano elementi di sospetto in relazione alla morte del capitano De Grazia, per tutto ciò che l’ha preceduta, e che non appare trasparente, e per ciò che è accaduto dopo la sua scomparsa. La consulenza del professor Arcudi, che appare analiticamente motivata, e scientificamente inattaccabile, arriva ad una conclusione inequivoca: escluse le altre cause, per l’assenza di elementi di riconoscimento, la morte è la conseguenza di una “causa tossica”. Aggiunge il professor Arcudi: “quale essa potrà essere stata, e se c’è stata, non lo si potrà accertare”. Ciò che risulta è che il capitano De Grazia ha ingerito gli stessi cibi di chi lo accompagnava nel viaggio, salvo un dolce: queste almeno sono state le dichiarazioni dei testimoni. Se così è, appare difficile ricondurre la tossicità ad una causa naturale, anche se non lo si può escludere in forma assoluta. Il capitano De Grazia, come risulta dalla ricostruzione dei fatti, stava conducendo indagini su tutte le vicende più oscure riguardanti il traffico illecito di rifiuti pericolosi e aveva costituito un gruppo di lavoro assai efficiente. Ciò nonostante, come ha riferito il maresciallo Moschitta “quando le indagini arrivarono a picco, e quindi stavamo mettendo le mani su fatti veramente gravi, coinvolgenti anche i livelli della sicurezza nazionale”, “De Grazia non venne più a effettuare le indagini con noi, perchè il suo comandante lo aveva bloccato”. Elementi di poca chiarezza sono stati riscontrati altresì in relazione alle ragioni del viaggio a La Spezia, essendo state fornite alla Commissione versioni del tutto diverse, tra le quali anche un contatto con un confidente. Fatto non meno significativo è che risulta violato il fascicolo giudiziario che conteneva la documentazione relativa alle indagini che aveva svolto il capitano De Grazia e che era stato esaminato dalla procura di Reggio Calabria alla ricerca vana del certificato di morte di Ilaria Alpi, che lo stesso capitano De Grazia aveva sequestrato a Comerio: stando alle dichiarazioni del dottor Neri, infatti, “delle 21 carpette numerate rinvenute, 11 erano prive di documenti”. Ma ciò che è parso inquietante alla Commissione è stato l’improvviso smembramento del gruppo investigativo che faveva capo a De Grazia, subito prima e subito dopo il suo decesso. Pochi giorni prima della morte del capitano De Grazia il colonnello Martini, che aveva avuto un ruolo di primo piano nell’attività investigativa, lasciò l’incarico di colonnello del Corpo forestale dello Stato per assumere il ruolo di direttore operativo della società municipalizzata di Milano impegnata nell’emergenza rifiuti. Le perplessità, in ordine alle ragioni di questa scelta, sono già state illustrate. Dopo la morte del capitano De Grazia il maresciallo Moschitta andò in pensione all’età di quarantaquattro anni. Il carabiniere Francaviglia chiese il trasferimento a Catania. L’ispettore superiore del Corpo forestale dello Stato, Claudio Tassi, dopo qualche mese dal decesso del capitano De Grazia, non si occupò più dell’indagine: a suo dire, non per sua iniziativa. Lo smembramento del nucleo investigativo, che stava operando in profondità sul riciclo illegale dei rifiuti, se si unisce alla causa della morte, identificata in un evento tossico, getta una luce inquietante sull’intera vicenda. Non è compito di questa Commissione pronunciare sentenze, né sciogliere nodi di competenza dell’autorità giudiziaria: tuttavia, non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese.
Ecco il testo in cui Giorgio Comerio racconta la "sua" verità sul sistema per mandare in fondo al mare siluri pieni di rifiuti tossici. "Su di me dette e scritte solo fantasie". Il memoriale dell'affondatore di veleni, riportato da Anna Maria De Luca e Paolo Griseri su “La Repubblica”. Ecco il memoriale di Giorgio Comerio, l'uomo al centro delle inchieste delle procure italiane sul traffico di veleni di cui per anni è stato accusato di essere uno dei registi. Al punto che, intervenendo in Parlamento a nome del governo, Carlo Giovanardi lo ha definito "noto trafficante". Comerio ci ha inviato il testo per posta elettronica. Si tratta delle tesi difensive che lo stesso Comerio intende sostenere per replicare a quelle che lui definisce "fantasie" e che sono state invece oggetto delle inchieste dei pm. Il memoriale. Nel memoriale Comerio dà le sue spiegazioni sui punti più controversi della sua attività dalla Somalia connection alla scoperta del certificato di morte di Ilaria Alpi ritrovato tra le sue carte. E poi ancora: l'agenda con la scritta "lost ship" annotata proprio il giorno in cui affondò la "Rigel", al largo di Reggio Calabria, una delle presunte navi dei veleni. Comerio inizia spiegando i suoi progetti di affondamento dei rifiuti tossi sotto i fondali marini, portati avanti con i governi di mezzo mondo: "La tecnologia Free Fall penetror's - scrive - è stata sviluppata dagli Stati Membri della Comunità europea, congiuntamente con gli Stati Uniti, Svizzera e Canada per un investimento totale di circa 300.000.000 dollari USA. La tecnologia è una libera proprietà comune di tutti i cittadini delle nazioni che hanno investito su questo. I risultati sono pubblici e disponibili. E' possibile acquistare numerosi volumi a Parigi, in una libreria specializzata in tecnologia, che mostrano tutti gli studi e le analisi effettuate nell'Oceano Atlantico e dove si possono trovare anche le immagini delle testate penetratrici. Ma gli studi non sono stati continuati a causa della indisponibilità di fondi". In realtà il sistema di affondamento dei rifiuti con siluri sarebbe stato bloccato perché una convenzione internazionale vieta questa pratica. Comerio contesta questa versione spiegando che la rinuncia a utilizzare il sistema "non ha niente a che fare con la London Dumping Convention che in quel periodo non era in vigore e non era stata firmata da diverse nazioni come Stati Uniti, Australia, Russia, ecc". Addirittura, aggiunge, "la Federazione Russa per diversi anni (ma anche ora?) ha disperso rifiuti radioattivi incapsulati in elementi di cemento nel mare di Barents e Kara, vicino all'isola Novaja Zemija. Nessuno poteva fermare quella attività". Infatti, sostiene Comerio, "la London Dumping Convention riguardava solo lo smaltimento illegale dei rifiuti in mare e non un sistema ben realizzato e sicuro per depositare penetratori sotto il letto del mare in zone sicure, con una precisa mappatura subacquea e test di prova per la procedura". Comerio iniziò quindi in quegli anni la sua attività "ma solo dopo aver ricevuto una risposta positiva circa l'uso dei Free Fall Penetrators". La risposta veniva "da un consulente di diritto internazionale con sede a Locarno (Svizzera). Solo a quel punto iniziai l'attività di marketing offrendo la tecnologia (e non i servizi di dumping) agli enti governativi interessati". Comerio definisce l'uso della Free Fall Penetrators "un modo per risolvere il livello medio dello smaltimento dei rifiuti radioattivi (composto da elementi radiologici ospedalieri, tute di lavoro ecc ma non da elementi ad alta energia). Una soluzione capace di ridurre la dipendenza dall'uso del petrolio e dai signori del petrolio". E racconta come "la tecnologia sia stata presentata ufficialmente dall'European Joint Research Centre in numerosi eventi pubblici dedicati alla tecnologia, mostrando i modelli, immagini, video, diagrammi, per vendere l'uso di un certo numero di elementi hardware che compongono il sistema, sia ai privati che alle società". Niente di illegale quindi, secondo l'autore del memoriale, perché "è stata una strategia finanziaria della Comunità europea per provare a recuperare un minimo degli investimenti fatti, incassando royalties dallo sviluppo dei diversi elementi di tecnologia che compongono il sistema di smaltimento. Con nessun risultato.. Uno dei team leader di quel periodo, il prof. Dr. Avogadro, potrebbe confermarlo". In questo quadro Comerio si definisce "uno dei diversi fornitori di elementi che compongono il sistema: "Ho venduto al Jrc la boa in grado di raccogliere dati sott'acqua e di trasmettere tutte le informazioni da un satellite ad una stazione centrale di controllo che si trova in Germania". Anni dopo Giorgio Comerio fonda Odm, "come un provider che offre la sua tecnologia solo a organi di Governo o a società governative. Odm non è mai stato in contatto con soggetti privati, ma solo con le istituzioni nazionali tramite le ambasciate. Odm non è mai stato coinvolto in alcuna attività illegale. L'attività iniziale di marketing è stata fatta presso l'Ufficio del Lugano, illegalmente attaccato dagli attivisti di Greenpeace. Ogni tipo di documento è stato analizzato dalla polizia svizzera e dal Procuratore di Lugano e, dopo due settimane di dettagliate analisi, la Corte svizzera ha riconosciuto che l'attività Odm era solo un legal marketing preliminare senza connessioni con qualsiasi tipo di attività illegale o criminale. In seguito gli attivisti di Greenpeace tedeschi sono stati condannati dalla Corte di Lugano. L'attività di marketing è stata realizzata contattando solo le ambasciate delle possibili nazioni interessate. Senza alcun risultato (testualmente with no result at all). Dopo questi eventi l'ufficio Odm è stato chiuso e l'attività di marketing è stata stoppata". Questa versione dei fatti contrasta con il fatto che Comerio è stato accusato dalla magistratura italiana di aver partecipato, in realtà, a un vasto traffico di armi e veleni. Ecco le risposte che l'accusato ha voluto fornirci. Comerio inizia dicendo che "la fantasia italiana è uno sport nazionale" e che "copie dei documenti di Comerio sono stati presi in consegna, come 'corpo del reatò da parte della procura di Catanzaro e delle copie sono state "diffuse" da attivisti di Greenpeace su testate "specializzate" come "Cuore", "Il Manifesto", "L'Espresso", ecc ecc. Risultato: una serie di fantastiche "connessioni" riportate dalla stampa italiana". E le affronta una per una. Somalia connection. Comerio dice che la tecnologia Odm era pubblica e totalmente disponibile sul web in diverse lingue. Senza segreti, nessun modo di agire "sotto il tavolo". E spiega: "Odm è stato avvicinato da un gran numero di studenti, ricercatori e anche uomini d'affari. Uno di loro ha proposto di prendere contatto con il Governo somalo. Ma prima di prendere qualsiasi contatto con l'ambasciata somala, Odm ha chiesto all'Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra (Svizzera) un chiarimento sul governo della Somalia. La risposta è stata negativa. Al momento sembrava non ci fossero ufficiali in ricognizione per conto del Governo. Così Odm non ha proceduto in ulteriori contatti con l'uomo d'affari privato". Ilaria Alpi connection. Scrive Comerio: "Si tratta di una pura falsità. Sembra che in casa mia sia stato trovato un inesistente certificato di morte della signorina Alpi. L'unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera". "Jolly Rosso". "Sulla stampa è stata pubblicata una storia divertente. A bordo della Jolly Rosso sarebbe stata trovata una mappa dei fondali del mare realizzata da Odm con possibili sedi di dumping nel mare Mediterraneo. Ma nessuna delle autorità ha mai mostrato questa mappa. Del tutto normale. Odm ha iniziato la sua attività anni dopo lo spiaggiamento della Jolly Rosso, e non sono stati individuati luoghi valutati da Odm come aree di smaltimento nel mare Mediterraneo". La connessione "Rigel" e la differenza tra "Lost" e "affondato". "Per Greenpeace e la Procura di Palermo c'è una connessione tra Comerio e una nave "Rigel" scomparsa presso l'isola di Ustica. Il motivo? Dentro una delle agende del signor Comerio è stata scritta la frase 'perso la navè nella settimana nella quale sembra scomparsa una nave nei pressi di Ustica .. In effetti il signor Comerio a quel tempo perso il traghetto dalla Gran Bretagna alla Francia. (Vela da St. Peter Port - Guernsey - a St. Malo - Francia). Era abbastanza difficile da spiegare che "perso" non significa "sommerso" .. Dopo mesi di indagini la connessione con Comerio è stata abbandonata". Affondamenti illegali nel Mediterraneo. È il capitolo più scottante nelle vicende che lo riguardano. Comerio risponde in modo articolato e parlando in terza persona. "Per un certo numero di giornalisti - scrive - lo scarico dei rifiuti illegali nel Mediterraneo era legato ai piani di ODM". Ma questo, dice, è falso per diverse ragioni: "Prima di tutto nelle mappe del ODM tra le possibili aree di smaltimento non c'era nessuno punto nel Mar Mediterraneo. Tutti i settori considerati erano solo in oceano aperto. In secondo luogo: il signor Comerio non è mai stato in contatto con elementi criminali: non vi è alcuna prova di un contatto del genere in tutta la sua vita. In terzo luogo, per un lungo periodo il signor Comerio ha lavorato con la sua società Georadar proprio per smascherare le discariche di rifiuti chimici pericolosi. Georarad ha goduto di importanti citazioni in letteratura scientifica. È stata citata su riviste e nei servizi della Rai3 Lombardia. La tecnologia Georadar è stata presentata dal dottor Comerio al Collegio degli ingegneri di Milano con positivi riscontri. Quella stessa tecnologia è stata utilizzata dalle Ferrovie, da Enel, Sirti, Agip e da importanti società in Italia, Svizzera e Germania. Le attività di Georadar sono iniziate nel 1988-89". Grazie a quella tecnologia (un sistema di indagine sotterranea), Comerio sostiene di "essere stato incaricato di collaborare con i giudici di Milano Antonio Di Pietro e Francesco Greco. Con il primo per scoprire alcuni fusti nascosti in diverse località del Nord Italia, con il secondo durante le indagini su un rapimento". Nel memoriale si aggiunge che "Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e ha collaborato alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All'epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano". Ecco dunque la conclusione: "La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell'ambiente e mai contro".
TARANTO E VADO LIGURE. C’E’ INQUINAMENTO ED INQUINAMENTO. E’ SALUBRE SE E’ DI SINISTRA.
“I vari servizi giornalistici dedicati negli ultimi giorni da Panorama, il Giornale e dai telegiornali Mediaset alla centrale elettrica Tirreno Power di Vado Ligure lanciano con ampio rilievo accuse infondate e palesemente strumentali nei confronti di Carlo De Benedetti e del gruppo Cir”. E’ quanto precisa in una nota il portavoce Cir. “La centrale non è di Carlo De Benedetti. Né lui né alcun rappresentante di Cir hanno ruoli in Tirreno Power. L'impianto è stato costruito dall’azienda elettrica di Stato alla fine degli anni ’60 e gestito dall’ex monopolista pubblico per oltre 30 anni, fino al 2002. Uno degli azionisti di Tirreno Power, con una quota di minoranza del 39% detenuta indirettamente, è Sorgenia (società controllata da Cir). Sorgenia non gestisce in alcun modo la centrale di Vado Ligure". "Carlo De Benedetti -continua la nota - , inoltre, non è più azionista del gruppo Cir. Nonostante ciò sia De Benedetti sia il gruppo Cir sono chiamati in causa strumentalmente con informazioni errate o distorte, fingendo di ignorare peraltro che nella proprietà di Tirreno Power ci sono altre società che non vengono quasi mai citate. Quanto alle accuse sull’impatto ambientale dell’impianto - senza entrare nel merito delle indiscrezioni relative all’inchiesta giudiziaria in corso sulla centrale - si ricorda che la società Tirreno Power ha sempre dichiarato di operare nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali”.
Centrale di Vado: dieci domande a De Benedetti, scrive “Il Secolo XIX”. Dieci domande rivolte all’ingegner Carlo De Benedetti, socio forte della Tirreno Power attraverso Sorgenia, firmate da personaggi autorevoli sul progetto di ampliamento della centrale a carbone di Vado Ligure. Le domande sono contenute in una lettera che domani verrà pubblicata su diverse testate nazionali. A De Benedetti (che attraverso Sorgenia detiene il 78% di Energia Italiana, a sua volta proprietaria del 50% di Tirreno Power, mentre l’altro 50% e in mano a EblAcea, società detenuta per il 70% da GdfSuez e per il 30% da Acea) viene chiesto perché l’azienda si ostina a procedere a questo intervento «contro ogni logica democratica (contro il volere del 90% della cittadinanza, dei Partiti, di tutti i Comuni, della Regione, dell’Ordine dei Medici, di tutto l’Associazionismo) e ambientale (dopo 40 anni di dati drammatici in termini di mortalità e di inquinamento nella nostra città, con migliaia di morti in più rispetto alla media regionale)». Le dieci domande sono state raccolte in un documento frutto del lavoro di sintesi di molti esperti, amministratori, medici, giornalisti, associazioni e comitati. Tra questi figurano Margherita Hack, Beppe Grillo, Maurizio Maggiani, Luigi De Magistris, Oliviero Beha, Ferdinando Imposimato e ancora Sergio Staino, Angelo Bonelli, Massimo Carlotto, Lella Costa, Marco Pannella, Don Andrea Gallo, Lidia Ravera, Paolo Ferrero, Vittorio Agnoletto, Ennio Remondino, Bruno Gambarotta, Patrizia Gentilini, Giovanni Impastato e Mimmo Lombezzi. «Perché non volete ammettere» si chiede fra l’altro a De Benedetti «che le centrali a carbone uccidono? Perché mistificate la realtà dicendo che avete il “carbone pulito” (concetto smentito dalle principali ricerche internazionali), così giocando con la vita della gente?». E ancora: «perché continuate a propagandare con ogni mezzo di comunicazione che il Vostro progetto di ampliamento della centrale e di ristrutturazione dei gruppi 3 e 4 esistenti diminuirebbe l’inquinamento, mentre ricerche scientifiche indipendenti dimostrano esattamente il contrario?».
La lettera pone a De Benedetti 10 domande sul perchè la sua ditta Tirreno Power vuole ampliare la centrale a carbone di Savona, contro ogni logica democratica (contro il volere del 90% della cittadinanza, dei Partiti, di tutti i Comuni, della Regione, dell'Ordine dei Medici, di tutto l'Associazionismo) e ambientale (dopo 40 anni di dati drammatici in termini di mortalità e di inquinamento nella nostra città, con migliaia di morti in più rispetto alla media regionale), un documento frutto del faticoso lavoro di sintesi di molti esperti, amministratori, medici, giornalisti, associazioni e comitati. E' una battaglia di civiltà, e per la vita. Da settembre la dirigenza Tirreno Power vuole decidere per l'ampliamento, incurante della contrarietà della comunità savonese.
10 DOMANDE ALL’ING. DE BENEDETTI SULLA CENTRALE A CARBONE TIRRENO POWER DI SAVONA.
Egr. ing. Carlo De Benedetti, a Lei che si vanta di essere la tessera numero uno del Partito Democratico, poniamo 10 questioni in merito alla Sua decisione di ampliare la centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure (Savona), da Lei controllata attraverso CIR Sorgenia, con tutte le conseguenze in termini di mortalità prematura della popolazione e nonostante la quasi totale contrarietà di cittadini, istituzioni, partiti, associazioni, medici e biologi. 10 le domande, alle quali Le chiediamo di dare risposta:
1) CONTRARIETA’ DELLA CITTA’ AL PROGETTO - perché vi ostinate a perseverare nel vostro progetto di ampliamento, in spregio alla contrarietà dell’85%-90% della popolazione savonese, quella dei partiti (tra cui anche il PD), della Regione, dei Sindaci, dei Consigli comunali, delle Circoscrizioni, dell’Ordine dei Medici, di tutto l’associazionismo provinciale, delle principali personalità della società civile? E’ questo il personale concetto di democrazia del tesserato numero uno del Partito Democratico? Tutto questo non va contro non solo ai valori fondanti sanciti nello Statuto del PD, ma anche ai più elementari principi di democrazia del nostro paese? Hanno approvato delibere contro l’ampliamento della centrale Tirreno Power tutti i comuni interessati: i Comuni di Savona, Vado Ligure, Quiliano, Bergeggi, Spotorno, Noli, Finale Ligure, Balestrino, Vezzi Portio, Albissola Marina, Celle Ligure, Altare, Carcare, Cairo.
2) DI CARBONE SI MUORE - perché Lei e la dirigenza Tirreno Power non volete ammettere che le centrali a carbone uccidono? Perché mistificate la realtà dicendo che avete il “carbone pulito” (concetto smentito dalle principali ricerche internazionali), così giocando con la vita della gente? Secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici di Savona “in tutta la provincia di Savona (con dati che peggiorano quanto più ci si avvicina alla centrale) diversi tumori e altre patologie vascolari, aumentano drammaticamente rispetto alla media nazionale (in particolare i tumori al polmone, vescica e laringe, le patologie cardiovascolari come infarti, emorragie cerebrali, ictus ed altre)”. Le ricordiamo che in provincia di Savona in 16 anni sono morte circa 2.664 persone in più rispetto all’atteso (in base ai tassi standardizzati di mortalità della Liguria). I calcoli commissionati dalla Comunità Europea asseriscono che nel nostro territorio savonese abbiamo valori di inquinamento fra i più alti in Italia, cui si associa una significativa riduzione dell’aspettativa di vita (la speranza di vita in Liguria è ridotta di quasi un anno per via dell’inquinamento). Ricordiamo che, secondo un’altra ricerca, a Vado Ligure il tumore maligno al polmone colpisce il 30% in più degli uomini rispetto al resto della Provincia. Per le malattie ischemiche del cuore, a Vado le donne fanno registrare il 71,9% di casi in più rispetto alla media regionale, mentre per le malattie respiratorie croniche ostruttive, a Vado gli uomini fanno registrare il 150% (centocinquanta) in più sulla Regione.
3) IL CARBONE PRINCIPALE MINACCIA CONTRO IL CLIMA - perché, in collaborazione con il Governo, volete perseverare con il Vostro dannoso progetto di ampliamento della centrale a carbone, quando questo va ancora di più contro gli importantissimi accordi presi dall’Italia e dagli altri Stati nel protocollo di Kyoto? Il carbone rappresenta la prima minaccia per l’equilibrio climatico mondiale: oltre un terzo delle emissioni mondiali di CO2 si devono all’uso di carbone, che è il combustibile fossile con le più alte emissioni specifiche di gas serra, circa il triplo del gas. Greenpeace denuncia che “il Governo italiano è contro il Protocollo di Kyoto, che obbliga il Paese a ridurre i gas serra del 6,5% rispetto al 1990. A oggi le emissioni sono aumentate del 10% e il Governo, già inadempiente e in disaccordo con gli impegni presi, continua ad autorizzare nuovi impianti a carbone, come la nuova centrale Enel a Civitavecchia e l’ampliamento di quella di Vado Ligure (la quale quindi aumenterà notevolmente la produzione di CO2). Il carbone porterà maggiori profitti nelle casse degli amministratori delle centrali, ma saranno i cittadini italiani a pagare le multe per Kyoto”.
4) IMPIANTI NON ALLINEATI ALLE NORMATIVE - perché continuate a far funzionare i gruppi 3 e 4 della centrale, nonostante non siano allineati alle norme IPPC dell’Unione Europea, alla direttiva 96/61/CE, e al decreto legislativo 59/05, e nonostante siano privi della certificazione AIA? Perché il solo fatto che il Governo abbia prorogato i tempi per la valutazione dell’istruttoria per la certificazione AIA della Vostra centrale (che dovrà recepire le normative europee e italiane in materia, sulle quali non vi siete ancora allineati), vi fa sentire in diritto di definirvi su tutti i giornali ancora formalmente a norma, quando in realtà siete sostanzialmente e moralmente inadempienti da 40 anni verso la comunità savonese per i livelli di inquinamento che state producendo? Perché evidenziate sempre sui giornali che siete in possesso del V.I.A. ministeriale (al quale peraltro si oppone il V.I.A. regionale negativo, approvato dalla Regione Liguria) senza invece mai segnalare alla cittadinanza che non siete allineati rispetto alle principali leggi in materia ? Ricordiamo che il V.I.A. ministeriale è soltanto una Valutazione d'Impatto Ambientale gestito da un organo di nomina politica, fra l’altro dichiarato illegittimo 3 mesi fa dalla Corte dei Conti, e contro il quale la Regione Liguria ha fatto ricorso. E ancora: perché, come dice l’ex Assessore Regionale all’Ambiente, “non vi siete conformati alle disposizioni regionali in materia, né al Piano Energetico Regionale, né al Piano Regionale di risanamento della qualità dell’aria?”. Perché secondo i medici del MODA “non si è più discusso della completa metanizzazione degli impianti che la città attende da più di 20 anni, come votato dagli enti locali savonesi fino al 2007 (compreso il Comune di Savona) e come indicava l’Istituto Superiore di Sanità già nel 1988?” Anche il Segretario Provinciale del PD (del suo Partito) ha dichiarato in questi giorni ai giornali: “Tirreno Power sta dicendo e facendo di tutto meno che l’unica cosa che dovrebbe fare: i monitoraggi, la copertura dei parchi e in generale investimenti per diminuire l’impatto del carbone sul territorio (…) Di questo progetto non ce n’è bisogno, non è in sintonia con i tempi (…) Da anni continuiamo a parlare di cose che avrebbero già dovuto essere fatte e la Tirreno Power non ha fatto (...) Si usa sempre la logica ricattatoria occupazionale per non fare! È ora di finirla (…) È questione di credibilità: mi spiace ma Tirreno Power non è più un interlocutore affidabile”.
5) MAGGIOR INQUINAMENTO CON IL PROGETTO DI AMPLIAMENTO - perché continuate a propagandare con ogni mezzo di comunicazione che il Vostro progetto di ampliamento della centrale e di ristrutturazione dei gruppi 3 e 4 esistenti diminuirebbe l’inquinamento, mentre ricerche scientifiche indipendenti dimostrano esattamente il contrario? Sui giornali avete dichiarato che volete investire e mettere a norma la centrale esistente (affermazione che peraltro, secondo molti esperti, non corrisponde alla verità in quanto le modifiche che apportereste ai gruppi 3 e 4 sarebbero insufficienti), ma che non lo farete se non si concede in cambio anche l’ampliamento della centrale stessa. Da quando vale il ricatto per cui si seguono le leggi solo se si concede qualcosa in cambio? Perché deve valere per Lei questa deroga che non è concessa ai singoli cittadini? Una società come Tirreno Power che ha prodotto 100 milioni di euro di utili netti all'anno non è forse economicamente in grado di allinearsi alle normative europee? E perché riproporre l’eterno ricatto delle centinaia di milioni di investimento e di 40 nuovi posti di lavoro, da mettere sull’altro piatto della bilancia rispetto ai danni ambientali e ai tassi di mortalità? La Provincia di Savona su questo tema ha già storicamente pagato prezzi molto alti, con conflitti laceranti tra salute e lavoro, e non ha bisogno di essere sottoposta a una nuova prova di forza. Ricordiamo inoltre che, come dice il Presidente Regionale di Italia Nostra “realizzare l’ampliamento porterebbe Vado ad una potenza complessiva di 1880 MW, al terzo posto in Italia (dopo Montalto di Castro e Brindisi). Ci deve essere un limite al gravame su un territorio, e questo limite a Vado (dopo decenni di industrializzazione in buona parte scomparsa ma che ha lasciato altre pesantissime eredità negative sul territorio) è certamente già stato superato”. Secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici “gli attuali gruppi 3 e 4 a carbone della centrale (risalenti agli anni ’60 del secolo scorso e obsoleti da decenni), una volta ristrutturati secondo il Vostro progetto di ampliamento (propagandato come un adeguamento secondo le migliori tecnologie), emetteranno, per ogni Megawatt installato, 3,4 volte in più ossidi di zolfo, 2,5 volte in più ossidi di azoto, il doppio delle polveri primarie rispetto al nuovo gruppo, dimostrazione evidentissima che, pur disponendo di una tecnologia meno inquinante, questa non sarà applicata in modo significativo a tutti i gruppi a carbone, ma solo a uno, al gruppo nuovo”. E’ evidente che solo finalmente con un ampio confronto con i Comuni, la Regione, i comitati, e con l’ausilio di esperti indipendenti (e solo dopo aver rinunciato al progetto di ampliamento), si potrà valutare se l’adeguamento alla legge 59/05 (che prevede l’utilizzo delle migliori tecnologie esistenti) sarà fattibile in modo significativo nella ristrutturazione dei vecchi gruppi 3 e 4, o se (come sostengono efficacemente molte personalità autorevoli in materia) tali gruppi invece risulteranno non più ristrutturabili.
6) CENTRALE COME INCENERITORE - rispondono al vero le voci che si stanno diffondendo, secondo le quali un vostro obiettivo potrebbe essere quello di usare i gruppi a carbone anche per bruciare i combustibili derivati da rifiuti (CDR), utilizzando quindi la centrale anche come inceneritore? Questo (la gente non lo sa, ma voi ben lo sapete) aggraverebbe in modo devastante la situazione, perché ai fumi velenosi derivanti dal carbone (polveri sottili e ultrasottili, metalli pesanti, diossine, solfati, nitrati, ecc, oltre che radiazioni superiori a quelle delle centrali nucleari) si aggiungerebbero altre pericolosissime emissioni di diossine, polveri, e metalli pesanti.
7) INSUFFICIENTE MISURAZIONE DEI LIVELLI DI INQUINAMENTO - perché accetta il paradosso che il controllo delle emissioni dalle ciminiere della Sua centrale a carbone sia eseguito dalla stessa Tirreno Power (per cui gli inquinatori sono i CONTROLLORI DI SE STESSI, senza che sia prevista alcuna verifica da parte di enti terzi) e non invece da un Ente Pubblico, il quale finalmente dopo decenni potrebbe garantire la cittadinanza sui reali livelli di inquinamento? Per quanto riguarda invece le centraline esterne alla centrale, secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici “i dati sull’inquinamento vengono misurati dall’ARPAL in modo superficiale, obsoleto e insufficiente (per numero e dislocazione delle postazioni, e per tipologia di inquinanti misurati)”. Come può peraltro la comunità savonese avere fiducia nell’ARPAL, un’agenzia la cui intera dirigenza è indagata dalla Procura della Repubblica di Genova per falso, turbativa d’asta ed altri gravissimi capi d’accusa? Come si può dire, ing. De Benedetti, che l’inquinamento è sotto controllo, quando si sceglie di non misurare efficacemente le polveri inquinanti?
8) RIFIUTO DEL CONFRONTO - perché i Responsabili della centrale rifiutano da anni qualsiasi confronto pubblico con l’Ordine dei Medici, con i Medici per l’Ambiente e più in generale con la cittadinanza, lasciando alle migliori agenzie pubblicitarie una massiccia comunicazione fatta di slogan facilmente smentibili dai dati scientifici (“abbiamo la tecnologia”, “carbone pulito”, “ampliamo per migliorare l’aria”)? Anche questo, ing. De Benedetti, è il Suo personale concetto di democrazia, oppure è solo perché ben sapete che il vostro progetto non può reggere il confronto con le principali istituzioni mediche locali? Perché su questo tema si è messo in atto da decenni a Savona un fruttuoso e perverso meccanismo misto: da un lato si ‘addolcisce’ (si promette, si sostiene, si sponsorizza…) e dall’altro si minaccia? Sono state minacciate di ritorsioni di vario tipo (“ti faccio licenziare”, “ti querelo”, “ti massacro politicamente”, ed altre pressioni) varie categorie di persone che avevano tentato di spiegare la verità, inclusi importanti amministratori locali, medici e giornalisti.
9) SOVRAPPRODUZIONE - perché volete perseverare con il Vostro dannoso progetto di ampliamento, in una città come Savona che NON ha bisogno di nuova energia elettrica, dato che la Centrale già attualmente produce una quantità di energia superiore di ben 5 (cinque) volte a quella che viene consumata in tutta la Provincia? Perché, ing. De Benedetti, deve essere di nuovo la Provincia di Savona a essere martoriata e sottoposta ai Vostri interessi economici, una Provincia che da anni sta cercando faticosamente di sviluppare la sua importante e strategica vocazione turistica? Ricordiamo che in Liguria (che secondo studi della UE è una delle regioni più inquinate d’Italia), una terra tanto bella a livello paesaggistico e naturalistico quanto devastata dalle industrie e dal cemento, vi sono già ben 3 centrali a carbone (il 27% di quelle rimaste in funzione in Italia), peraltro pericolosamente vicine a città densamente abitate.
10) ENERGIE RINNOVABILI - perché volete perseverare nella produzione di energia dal carbone (una produzione più economica, usata ancora tra moltissime critiche in altri Stati, ma estremamente dannosa per la salute e per questo con un consumo in continua riduzione in Europa), senza investire significativamente nel metano e soprattutto nelle energie rinnovabili realmente pulite? Come ha detto il Premio Nobel Carlo Rubbia proprio sul suo giornale, ‘La Repubblica’: “Il carbone è la fonte energetica più inquinante, più pericolosa per la salute dell'umanità. La CO2 dura in media fino a 30.000 anni. Il ritorno al carbone sarebbe drammatico, disastroso…”.
In sintesi, perché Lei che si dichiara il primo tesserato del PD, calpesta buona parte dei principi e dei valori propri del centrosinistra (e presenti nello Statuto del PD): rispetto della volontà popolare, rispetto della vita umana, rispetto e cura per l'ambiente, confronto e dibattito nelle decisioni, adeguamento alle normative dell’Unione Europea, adeguamento alle leggi non come merce di scambio, considerazione delle opinioni degli esperti e degli organi medici competenti, sviluppo delle energie rinnovabili, ecc.? Non conviene con noi, ing. De Benedetti, che il rispetto per la vita e per l’ambiente non può e non deve far parte di un mero gioco di interessi politici ed economici, ma deve invece far parte dei valori primari ed inalienabili di ogni popolo civile? Produrre energia non è un fine ma un mezzo per far funzionare la società in cui viviamo: è etico e doveroso investire capitali per produrre energia con le metodiche meno inquinanti possibili, compatibili con la salute dei cittadini, evitando il combustibile più inquinante di tutti che è il carbone. Nessun calcolo economico può giustificare la richiesta di perpetuare lo scempio ambientale e le morti premature causate dalla combustione del carbone. Le chiediamo quindi di rispettare la volontà della nostra comunità, desistendo dal Suo progetto di ampliamento della centrale a carbone e riducendo fortemente i livelli di inquinamento adeguando la centrale alle migliori tecnologie esistenti, così come previsto dalla legge. Certi di una sua Risposta, Le porgiamo distinti saluti. Firmatari savonesi: PAOLO FRANCESCHI (pneumologo, referente scientifico dell’Ordine dei Medici Savona) AUGUSTO PERSEO (Presidente Comitato ‘Amare Vado’) ADOLFO MACCHIOLI (prete) AGOSTINO TORCELLO (medico pneumologo, MODA Savona) ANTONINO FRISONE (ex Comandante del Porto di Savona, ex Ammiraglio) BRUNO MARENGO (Presidente Provinciale ANPI Savona, ex Sindaco) CARLO TONARELLI (medico, scrittore, ambientalista, Consigliere Comunale) CARLO VASCONI (Portavoce Provinciale dei Verdi) CLAUDIO GIANETTO (Segretario Provinciale PdCI Savona) CLAUDIO PORCHIA (giornalista) DARIO FRANCHELLO (Presidente del Parco del Beigua) DAVIDE CAVIGLIA (Presidente Provinciale ACLI Savona) DAVIDE MONTINO (docente universitario) ELIO BERTI (attore, Direttore artistico dell’associazione Timoteo) ENZO MOTTA (Presidente del circolo Pirandello) FABIO RINAUDO (musicista, Presidente associazione Corelli) FRANCESCA MARZADORI (Portavoce UAAR Savona) GIAMPIETRO FILIPPI (ex Assessore all’Ambiente della Provincia di Savona) GIANCARLO ONNIS (Presidente Legambiente Savona) GIANFRANCO GERVINO (Portavoce di ‘Uniti per la salute’) GIORGIO AMICO (scrittore) GIOVANNI DURANTE (Presidente Provinciale ARCI Savona) MARCELLO ZINOLA (Segretario Ordine dei giornalisti liguri) MARCO CAVIGLIONE (medico ambientalista ISDE, Consigliere Provinciale) MARCO MOLINARI (giornalista) MARCO RAVERA (Segretario Provinciale Rifondazione Comunista di Savona) MAURIZIO LOSCHI (Referente Provinciale Medicina Democratica) NICOLA STELLA (giornalista) PIERO BORGNA (Capogruppo Consiglio Comunale Vado “Viva con Caviglia”) RENATO ALLEGRA (vicepresidente NuovoFilmstudio) RICCARDO CICCIONE (Ufficiale Marina mercantile Direttore settore macchine) ROBERTO CUNEO (Presidente Regionale Italia Nostra) ROBERTO MELONE (Portavoce del Comitato Acqua Pubblica Savona) ROSARIO TUVE’ (Coordinatore Provinciale Italia dei Valori) SAMUELE RAGO (Segretario Provinciale ANPI Savona) SERGIO ACQUILINO (Portavoce provinciale Sinistra Ecologia Libertà Savona) SIMONE GAGGINO (Coordinatore di Banca Etica di Savona-Imperia) STEFANO MILANO (titolare libreria UBIK) STEFANO SARTI (Presidente Legambiente Liguria) VALERIA ROSSI (giornalista) VIRGINIO FADDA (biologo, MODA Savona) VIVIANA PANUNZIO (Portavoce Emergency Savona) WALTER MASSA (Presidente ARCI Liguria) Comuni che hanno approvato delibere contro l’ampliamento della centrale Tirreno Power: I Comuni di Savona, Vado Ligure, Quiliano, Bergeggi, Spotorno, Noli, Finale Ligure, Balestrino, Vezzi Portio, Albissola Marina, Celle Ligure, Altare, Carcare, Cairo Montenotte. Associazioni savonesi che hanno firmato la lettera contro l’ampliamento della centrale Tirreno Power, e a favore di un suo adeguamento alle normative: ARCI, ACLI, Emergency, Libera, Meetup di Beppe Grillo, Rete Lilliput, Unione Donne in Italia, Donne in Nero, Legambiente, Greenpeace, ANPI, Italia Nostra, UAAR, Comitato Acqua Pubblica, Uniti per la Salute, Amare Vado, Banca Etica, GaSSa acquisto solidale, Vivere Vado, Medicina democratica, Libreria UBIK, NuovoFilmstudio, Altromondo, Centro culturale P.Impastato, Associazione Energie Rinnovabili Vallebormida, ecc.
Ringraziamo vivamente tutti gli esperti, i medici, i biologi, gli amministratori, i giornalisti, i comitati che si sono pazientemente adoperati nello stilare questo documento. Iniziativa a cura della libreria UBIK.
La legge è uguale per tutti?
A Vado Ligure, alle porte di Savona, si registrano mille morti in più per cancro rispetto ai parametri scientifici presi a riferimento, scrive “Il Radar”. Secondo un’altra fonte, l’Istituto tumori di Genova, nel decennio 1988-98 a Vado sono morte di cancro 112 persone su 100mila contro una media nazionale di 54, più del doppio. Tutti puntano il dito sulla centrale a carbone della Tirreno Power, che, come riporta Il Giornale, da quarant’anni brucia fino a 4.000 tonnellate di carbone al giorno. La storia va avanti dal 1971, quando Enel inaugura la centrale che produce energia elettrica. Trent’anni dopo, nel novembre 2002, l’impianto passa a Tirreno Power, una cordata di imprenditori tra i quali primeggia Carlo De Benedetti. La procura di Savona apre un fascicolo per omicidio colposo, lesioni colpose e disastro ambientale. Niente sequestri, niente arresti, niente confische. In Liguria la Tirreno Power (che è il quarto produttore elettrico nazionale) sfrutta un ampio sostegno trasversale, un intreccio tra politica e imprenditoria che fa da scudo alla gigantesca centrale, una delle 13 ancora alimentate a carbone in Italia. Governa la sinistra e tutti devono stare zitti, soprattutto se c’è De Benedetti di mezzo…
Ciò che vale per l’Ilva non conta se c’è di mezzo De Benedetti, scrive “Tempi”. A Vado Ligure, vicino a Savona, «si registrano mille morti in più per cancro rispetto ai parametri scientifici presi a riferimento. (…) I cittadini, gli ambientalisti, gli esperti, la magistratura, perfino la curia puntano il dito sulla centrale a carbone della Tirreno Power, che da quarant’anni brucia fino a 4.000 tonnellate di carbone al giorno». Così si legge in un articolo pubblicato dal Giornale e scritto dall’inviato Stefano Filippi, che sembra raccontare una storia simile all’Ilva, ma con differenze importanti. Nel 2002 l’impianto inaugurato da Enel nel 1971 passa a Tirreno Power, «una cordata di imprenditori tra i quali primeggia Carlo De Benedetti, che però non ne ha il controllo». Nonostante le riconversioni a gas di due gruppi termici, le unità a carbone bruciano ancora e ci vuole Greenpeace «per attirare l’attenzione sulle due enormi ciminiere bianche e rosse che scaricano nell’aria enormi quantità di polveri sottili: è il luglio 2009». La procura di Savona «apre un fascicolo per omicidio colposo, lesioni colpose e disastro ambientale» e viene realizzata una consulenza da tre esperti depositata a fine giugno. Ma se a Taranto, per l’Ilva, sono scattati dalla magistratura provvedimenti clamorosi, in Liguria «niente sequestri, niente arresti, niente confische»: «Mancano ancora conferme sui legami tra emissioni della centrale termica ed effetti sulla salute pubblica». La differenza di trattamento tra Ilva e Tirreno Power è forse dovuta a «un intreccio tra politica e imprenditoria». A Vado Ligure, infatti, la sinistra governa da sempre ma soprattutto nella centrale è fortemente implicato Carlo De Benedetti. L’editore di Espresso e Repubblica, tessera numero uno del Pd, «controlla il 39 per cento della centrale attraverso Sorgenia (gruppo Cir). Tirreno Power appartiene a due società al 50 per cento: da un lato i francesi del gruppo Gdf Suez, dall’altro Energia Italiana Spa. Le cui quote sono così ripartite: 78 per cento a Sorgenia, 11 per cento ciascuna alle multiutility quotate Hera e Iren, ex aziende municipalizzate di città storicamente in mano alla sinistra come Torino, Genova, Bologna e l’intera dorsale emiliano-romagnola». Anche Legambiente è «socia di De Benedetti: ha il 10 per cento della società Sorgenia MenoWatt che si occupa di soluzioni per l’efficienza energetica». Sta qui il motivo della disparità di trattamento tra Tirreno Power e Ilva?
Vado Ligure? Repubblica tace, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Tra l’Ilva di Taranto e la centrale elettrica di Vado Ligure non ci sono soltanto mille chilometri di autostrada. In Liguria la magistratura ha operato sino a oggi senza clamori. Niente sequestri né arresti alla tarantina, per intenderci. Eppure non è stato smentito dalla Procura che una perizia abbia stimato, fra il 2000 e il 2008, un deciso aumento della mortalità nella popolazione: si parla di mille morti in più. I magistrati indagano per disastro ambientale e omicidio colposo. A Taranto e a Vado Ligure il copione è identico: impresa inquinante e magistratura inquirente. Il caso savonese è ancora agli inizi, ma le «cimitiere» e i fumi lenti e inesorabili che si scorgono dal Golfo dei poeti sarebbero un buon motivo per un’incursione giornalistica nella terra di Ponente, dove tramonta la dignità del lavoro soffocata da capitalisti senza scrupoli. E la fantasia dei cronisti della Repubblica potrebbe sfogarsi in rivoli di inchiostro colpevolista, della stessa risma di quello iniettato per mesi nell’opinione pubblica per il caso di Taranto e dei Riva condannati preventivi. Invece niente, sull’impianto della Tirreno Power, di cui dal 2002 la Sorgenia del gruppo Cir è stata importante azionista, neppure una riga. Anche dal 19 settembre, quando il Secolo XIX riporta la notizia della relazione dei periti della procura, La Repubblica tace. Evidentemente la notizia sfugge all’occhio selettivo del Grande Editore. Non solo quel giorno, ma anche in quelli successivi. Vado Ligure? Non esiste. Dato che il garantismo è estraneo alla logica dei due pesi e delle due misure, va detto si parla di una perizia di parte: nessuna verità rivelata. E si dovranno attendere le controdeduzioni dell’azienda, perché De Benedetti ha il sacrosanto diritto di difendersi. E va detto anche che secondo l’Assocarboni quasi un terzo della domanda di energia europea viene soddisfatta dal carbone. Ma intanto La Repubblica impone la regola del silenzio. A Taranto, cari colleghi, avete lanciato i sassi di un’intifada indegna perché faziosa e ideologica. Mille chilometri a nord, invece, non solo deponete le armi, ma riponete le penne perché avete deciso che i cittadini non devono sapere. Vado Ligure non esiste. Adriano Sofri, per citarne uno, non ha trovato ancora il tempo per una passeggiata tra gli abitanti di questo paesino a due passi da Genova. Tra «le rovine ciclopiche dell’Ilva», invece, Sofri c’è stato a più riprese. Ogni volta ha ritratto «l’inferno dell’archeologia contemporanea» dove i Riva, ha stabilito Sofri con l’inoppugnabile certezza che non abbisogna di processi, sono responsabili di aver «prosciugato la cassaforte dell’Ilva trasferendone le risorse a un labirinto di società industriali e finanziarie». E a chi dice che le bonifiche del territorio costerebbero un paio di centinaia di miliardi di euro, ecco servita la rampogna sofriana: «Non è una cifra, è un’amara barzelletta». Il 31 marzo, sotto il titolo «L’aprile crudele dell’Ilva», l’editorialista fa di conto: «I lavori indispensabili a mettere in ordine lo stabilimento costerebbero poco meno dei 10 miliardi del cosiddetto salvataggio di Cipro». A Vado Ligure, Sofri lo attendono ancora. Prima o poi arriverà. Intanto intervista i dipendenti dalla fabbrica pugliese: «Dicono gli operai più anziani che una volta che l’Ilva fosse disertata e smantellata [...] si scoprirebbe quale irredimibile discarica tossica abbia via via sedimentato il suolo su cui poggia lo stabilimento, e i canali dai quali avvelena i mari». E a metà settembre, quando in seguito al maxisequestro preventivo i Riva annunciano la chiusura di alcuni stabilimenti, Sofri impugna la penna contro «la ritorsione che vuol mettere questi lavoratori contro quelli dell’Ilva tarantina, e gli uni e gli altri contro procura e gip di Taranto». Sofri mobilita persino Papa Francesco: «Se fossi il papa visiterei le discariche dell’Ilva». Il titolo dell’articolo, manco a dirlo, è «La pelle degli operai». Non è omerico come quello del 5 giugno: «L’Iliade di Taranto». Chissà se a Repubblica qualcuno si accorgerà dell’Odissea di Vado Ligure: anche lì gli abitanti hanno qualcosa da raccontare. Gli operai della Tirreno Power hanno una pelle pure loro, prima o poi l’impeto operaistico sofriano soffierà sulle loro sofferenze. Oppure no? C’è poi il procuratore di Torino Raffaele Guariniello, quello della condanna dell’Eternit , il fautore della Procura nazionale per i reati ambientali. Guariniello finisce su Repubblica tv per la seguente dichiarazione: «La sentenza Eternit ha delle analogie con il caso di Taranto, per il quale potrebbe essere un precedente». Applausi. Quando però il 17 agosto lo stesso Guariniello partecipa all’evento organizzato dalla rete ambientalista «Fermiamo il carbone» contro la centrale di Vado Ligure, sul lungomare di Zinola non compare nessun cronista della Repubblica. Silenzio. Come non citare poi la fanfara anti-Ilva del vicedirettore Massimo Giannini, che a Ballarò si scaglia contro il «capitalismo rapace e irresponsabile» dell’Ilva, dove «la gente muore e i mesoteliomi aumentano del 400 per cento l’anno», e poi esalta i magistrati: «Invece di dire che la magistratura è la responsabile dei nostri guai, dovremmo ringraziarla». Finora, va detto, i ringraziamenti di Giannini alla procura savonese non sono pervenuti. Per chiudere il cerchio debenedettiano tocca menzionare Roberto Saviano. Lo scorso 6 dicembre sulle colonne dell’Espresso descrive la sua «prima volta alla Camera». All’ingresso scorge un corteo di operai dell’Ilva, che manifestano «per il loro diritto al lavoro compromesso da politiche inadeguate, distratte, ladre». Poi aggiunge con tono profetico: «Ma la cosa più triste è che le uniche forze economiche nel nostro paese in grado di rilevare l’Ilva, di bonificarla e di rimetterla sul mercato sarebbero proprio le organizzazioni criminali». Per Saviano quella città è lo «specchio del paese Italia» che «paga le conseguenze di politiche industriali dissennate», mentre è sempre più urgente «immaginare un umanesimo che possa difendersi dall’aggressività del profitto». E dell’Editore. Applausi.
Così la Liguria rossa copre l'azienda tossica dell'Ingegner De Benedetti. Enti locali, sindacati, ambientalisti: De Benedetti, socio della centrale di Vado Ligure, gode di ampie coperture. Anche se il caso è simile all'Ilva, nell'inchiesta nessuna svolta, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Era il 1985, e Carlo De Benedetti acquisì in saldo il gruppo Sme dall'Iri prodiana in fase di privatizzazioni. L'operazione poi saltò, ma è un'altra storia. Nel 2002 è andata molto meglio all'Ingegnere con la liberalizzazione dell'energia. Perché è così che l'editore di Repubblica e l'Espresso ha consolidato la presenza nel settore: comprando alcuni impianti dall'Enel (cioè dal Tesoro) in base alle «lenzuolate» del ministro Pier Luigi Bersani. Tra queste centrali c'era quella di Vado Ligure, contestatissima perché alimentata a carbone. Come l'acciaieria Ilva di Taranto. Secondo i periti della procura della Repubblica di Savona, la centrale di Vado inquina e uccide. Le indagini procedono con grande prudenza senza i clamorosi provvedimenti di Taranto. Amicizie e buone coperture accompagnano il tesserato numero 1 del Partito democratico in questa avventura imprenditoriale. A partire dai sindacati, preoccupati per i posti di lavoro. Legambiente ha il 10 per cento di Sorgenia MenoWatt, società della galassia debenedettiana. E poi gli enti locali: mentre le altre due centrali termoelettriche a carbone liguri (a Genova e La Spezia) faticano a ottenere permessi per ampliamenti e ristrutturazioni, quella di Vado ha avuto i via libera richiesti. Dei quattro gruppi produttivi, i due che vanno a carbone non sono ancora stati riconvertiti. Tirreno Power, società proprietaria dell'impianto (De Benedetti ne controlla il 50 per cento), promette interventi per abbattere le emissioni delle due ciminiere. Oggi Tirreno Power è attenta a non coinvolgere De Benedetti nella propria attività. Ogni volta che si cita l'impianto di Vado e le indagini della magistratura savonese, piovono le precisazioni: l'Ingegnere è un semplice azionista di minoranza attraverso la società Sorgenia (gruppo Cir). Non andò così nel 2002, ai tempi dell'acquisizione dall'Enel. «Interpower al gruppo Cir», titolava Repubblica attribuendo il successo alla «cordata messa a punto dalla Cir» e in particolare «ai rapporti personali tra Carlo De Benedetti e Gerard Mestrallet, numero uno della Suez». Come andarono le cose? Per liberalizzare il mercato dell'energia, Bersani impose a Enel di non produrre più del 50 per cento dell'elettricità italiana. La società guidata da Piero Gnudi mise dunque sul mercato una capacità pari a 15 gigawatt divisa in tre Genco (Generation company). La Genco 1 chiamata Eurogen (7 gw) andò a Edipower e la seconda, Elettrogen, agli spagnoli di Endesa (5,5 gw). Alla gara per la terza Genco, Interpower (2,611 gw), furono presentate 19 manifestazioni di interesse da ogni parte del mondo ridotte a quattro offerte non vincolanti. Ma al dunque, giunse una sola offerta vincolante: quella della cordata Cir. L'Enel voleva un miliardo di euro, valore calcolato dall'advisor Mediobanca. De Benedetti offrì poco più di 800 milioni. Enel e governo (allora guidato da Silvio Berlusconi) chiesero un rilancio. I tempi giocavano a favore dell'Ingegnere, perché il decreto Bersani imponeva alla cessione una scadenza che si avvicinava. Enel avrebbe potuto azzerare la gara e chiedere un altro anno di tempo, come previsto in caso di offerta considerata non congrua. Ma Antitrust e Authority dell'energia non erano favorevoli. Alla fine il prezzo fu di 874 milioni, compresi 323 di debiti accollati. La cifra corrisponde a circa 336 milioni di euro per gigawatt. Enel incassò complessivamente 8,3 miliardi dalla cessione di 15 gw: all'incirca 550 milioni per gw. Significa che, per rilevare la Genco 3, De Benedetti ha sborsato in proporzione molto meno delle cordate per Genco 1 e 2. L'Ingegnere agiva attraverso la società Energia, di cui controllava il 74 per cento. I suoi partner nell'operazione furono Acea, municipalizzata del comune di Roma (allora il sindaco era Walter Veltroni) e i belgi di Electrabel (gruppo Suez), vecchi avversari quando l'Ingegnere tentò la scalata alla Société Générale de Belgique: Mestrallet ne era il presidente. Ma i due nel frattempo erano diventati buoni amici grazie alla comune frequentazione dell'Ert (European round table), associazione che riunisce i maggiori manager europei.
DEPURATORI E SCARICO IN MARE DELLE ACQUE REFLUE. A PROPOSITO DEL DEPURATORE CONSORTILE DI SPECCHIARICA.
CONTRO IL DEPURATORE CONSORTILE SAVA-MANDURIA AD AVETRANA E SCARICO A MARE. LOTTA UNITARIA O FUMO NEGLI OCCHI?
Sentiamo la voce del dissenso dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e dell’Associazione Pro Specchiarica entrambe di Avetrana. La prima a carattere nazionale e la seconda prettamente di interesse territoriale. Il perché di un rifiuto a partecipare alla lotta con gli altri, spiegato dal Dr Antonio Giangrande, componente del direttivo di entrambe le associazioni avetranesi.
«L’aspetto da affrontare, più che legale (danno emergente e lucro cessante per il territorio turistico di Avetrana) è prettamente politico. La gente di Avetrana non si è mobilitata in massa e non vi è mobilitazione generale, come qualcuno vuole far credere, perché è stufa di farsi prendere in giro e conosce bene storia e personaggi della vicenda. Hanno messo su una farsa poco credibile, facendo credere che vi sia unità di intenti.» Esordisce così, senza giri di parole il dr Antonio Giangrande.
«Partiamo dalla storia del progetto. La spiega bene il consigliere comunale Arcangelo Durante di Manduria: “Che la realizzazione a Manduria di un nuovo depuratore delle acque reflue fosse assolutamente necessario, era già scontato; che la scelta del nuovo depuratore non sia stata fatta dall’ex sindaco Francesco Massaro, ma da Antonio Calò, sindaco prima di lui, ha poca importanza. Quello che invece sembra molto grave, è che il sindaco Massaro, in modo unilaterale, nel verbale del 12 dicembre 2005 in allegato alla determina della Regione Puglia di concessione della Via (Valutazione d’Impatto Ambientale), senza informare e coinvolgere il consiglio comunale sul problema, ha indicato il mare di Specchiarica quale recapito finale del depuratore consortile”. Bene. Da quanto risulta entrambi gli schieramenti sono coinvolti nell’infausta decisione. Inoltre questa decisione è mirata a salvaguardare il territorio savese-manduriano ed a danneggiare Avetrana, in quanto la localizzazione del depuratore è posta sul litorale di Specchiarica, territorio di Manduria (a poche centinaia di metri dalla zona residenziale Urmo Belsito, agro di Avetrana)».
Continua Giangrande, noto autore di saggi con il suffisso opoli (per denotare una disfunzione) letti in tutto il mondo. «L’unitarietà della lotta poi è tutta da verificare. Vi sono due schieramenti: quello di Manduria e quello di Avetrana. Quello di Manduria è composto da un coordinamento istituito solo a fine maggio 2014 su iniziativa dei Verdi e del movimento “Giovani per Manduria” con il comitato “No Scarico a mare” di Manduria. Questo neo coordinamento, precedentemente in antitesi, tollera il sito dell’impianto, purchè con sistema di filtrazione in tabella IV, ma non lo scarico in mare; quello di Avetrana si oppone sia alla condotta sottomarina che alla localizzazione del depuratore sul litorale di Specchiarica. Il comitato di Avetrana (trattasi di anonimo comitato ed è tutto dire, ma con un solo e conosciuto uomo al comando, Pino Scarciglia) ha trovato una parvenza d’intesa fra tutti i partiti, i sindacati e le associazioni interpellate, per la prima volta sabato 17 maggio 2014, e si schierano compatti (dicono loro), superando ogni tipo di divisione ideologica e ogni steccato, che sinora avevano reso poco incisiva la mobilitazione. In mattinata del 17 maggio, il Consiglio Comunale di Avetrana si è riunito per approvare, all’unanimità, la piattaforma di rivendicazioni già individuata nella riunione fra il comitato ristretto e i rappresentanti delle parti sociali. In serata, invece, maggioranza e minoranza sono saliti insieme sul palco di piazza Giovanni XXIII per rivolgere un appello alla comunità composta per lo più da forestieri. Si legge nel verbale dell’ultima riunione del Movimento. “E’ abbastanza chiaro, inoltre, che le Amministrazioni Comunali di Manduria, che si sono succedute nel tempo da 15 anni a questa parte, non hanno avuto nè la volontà nè la capacità di modificare o di bloccare questo obbrobrio, trincerandosi dietro a problematiche e a questioni tecniche/burocratiche, a parer loro, insormontabili”. Il gruppo di lavoro unitario avetranese è composto da consiglieri di maggioranza e minoranza (Cosimo Derinaldis, Antonio Baldari, Pietro Giangrande, Antonio Lanzo, Emanuele Micelli e Rosaria Petracca). “Vorrei innanzitutto far notare come, finalmente, si stia superando ogni tipo di steccato politico o ideologico – afferma l’assessore all’Agricoltura e al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. Steccato veramente superato? A questo punto reputo poco credibile una lotta portata avanti da chi, di qualunque schieramento, continui a fare propaganda politica contrapposta per portare voti a chi è ed è stato responsabile di questo obbrobrio ai danni dei cittadini e ai danni di un territorio incontaminato. Quindi faccio mia la domanda proposta da Arcangelo Durante “Bisogna dire però, che il presidente Vendola è in misura maggiore responsabile della questione, poichè di recente ha firmato il decreto di esproprio, nonostante che, prima il consiglio comunale dell’ex amministrazione Massaro e dopo quello dell’amministrazione Tommasino, si siano pronunciate all’unanimità contrarie allo scarico a mare. Presidente Vendola, ci può spiegare come mai, quando si tratta di opere che riguardano altri territori, vedi la Tav di Val di Susa, reclama con forza l’ascolto e il rispetto dei cittadini presenti sul territorio; mentre invece, quando si tratta di realizzare opere che interessano il nostro territorio, (dove lei ha il potere) non rivendica e utilizza lo stesso criterio, come l’ultimo provvedimento da lei adottato in qualità di Commissario Straordinario sul Depuratore?”»
A proposito del depuratore consortile con scarico nel mare incontaminato di Specchiarica.
Un comitato si è formato per fermare quello che il Comune di Manduria, l'Acquedotto Pugliese e la Regione Puglia vogliono fare in prossimità della località "Ulmo Belsito", frazione turistica di Avetrana, ossia il depuratore con lo scarico a mare nella marina incontaminata di Specchiarica, frazione di Manduria; nessuno, invece, ha mai alzato la voce per obbligare a fare quello che si ha sacrosanto diritto a pretendere di avere come cittadini e come contribuenti che sul posto pagano milioni di euro di tributi.
Comunque, i comitati in generale, non questo in particolare, sono composti da tanti galletti che non fanno mai sorgere il sole e guidati da personaggi saccenti in cerca di immeritata visibilità o infiltrati per parte di chi ha interesse a compiere l'opera contro la quale lo stesso comitato combatte. Questi comitati sono formati da gente compromessa con la politica e che ha come referenti politici gli stessi che vogliono l'opera contestata, ovvero nulla fanno per impedirlo. Valli a capire: combattono i politici che poi voteranno alle elezioni. Spesso, poi, ci sono gli ambientalisti. Questi a volte non sanno nemmeno cosa significhi amore per la terra, la flora e la fauna, ma per ideologia impediscono il progresso e pretendono che si torni all'Età della Pietra. Ambientalisti che però non disdegnano i compromessi speculativi, tanto da far diventare le nostre terre ampie distese desertiche tappezzate da pannelli solari che fanno arricchire i pochi. Pannelli solari che offendono il lavoro dei nostri nonni che hanno conquistato quei terreni bonificandoli da paludi e macchie. Sicuramente non vi sono professionisti competenti a intraprendere le azioni legali e giudiziarie collettive adeguate, anche con l'ausilio delle norme comunitarie. Di sicuro i membri del comitato non vogliono sborsare un euro e si impelagano in proteste infruttuose fine a se stesse. Se il singolo può adire il Tar contro un atto amministrativo che lede un suo interesse legittimo (esproprio), la comunità può tutelare in sede civile il diritto alla salute ed all'immagine ed alla tutela del proprio patrimonio.
Per quanto riguarda la costruzione ed il funzionamento del depuratore vi sono norme attuative regionali che regolano la materia. A livello nazionale invece, si fa riferimento ai due decreti legislativi il n. 152/06 (“Norme in materia ambientale”) e il n. 152/99 (recante “Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole”) che, recependo la normativa comunitaria allo scopo di tutelare la qualità delle acque reflue, disciplinano che gli scarichi idrici urbani siano sottoposti a diverse tipologie di trattamento in funzione della dimensione degli agglomerati urbani. Altro è il controllo successivo rispetto ai parametri microbiologici di riferimento, gli stessi fissati dal D. lgs. 116 del 30 maggio 2008 ad integrazione del D.p.r. n. 470 dell’ 8 giugno 1982, norma emanata in recepimento della direttiva 79/160/CEE sulla qualità delle acque di balneazione e ora sostituita dalla più recente direttiva 2006/7/CE. Il trattamento delle acque reflue urbane costituisce uno dei punti chiave della politica ambientale dell’Unione Europea. Gli agglomerati con più di 10.000 abitanti equivalenti che scaricano i loro affluenti in zone particolarmente sensibili (nel nostro caso l'Area Marina Protetta), dovranno intervenire per rispettare tali obblighi. Naturalmente questa direttiva rafforza la nostra convinzione che il progetto della Regione e dell'AQP non dovrebbe neanche essere più discusso. Che senso avrebbe, infatti, realizzare un'opera faraonica di decine di milioni di euro, che come ammette la stessa Europa sarebbe dannosa verso l'Ambiente, se sappiamo che sarà in contrasto con le indicazioni Comunitarie e quindi si dovranno spendere altri milioni di euro (che avremmo a disposizione se e chissà quando...), per adeguare il sistema di smaltimento a mare dei reflui fognari entro tre anni. Cioè quando l'eventuale opera dovrebbe essere appena terminata. Sarebbe davvero il colmo! Si rafforza, quindi, la necessità di modificare il piano di Tutela delle Acque della Regione Puglia, ormai superato dai fatti e dal prossimo quadro normativo dell'Unione Europea, nella direzione auspicata del riuso in agricoltura e/o per altri usi. Possibile che Regione ed AQP non siano a conoscenza di tali prossime disposizioni comunitarie e vogliano "buttare a mare" oltre ai reflui, anche milioni di euro? Comunque in base alla normativa imminente che incombe, ovvero alla lesione del diritto d’immagine e di proprietà, vi sono ampi spazi per intraprendere azioni giudiziarie collettive, anche d’urgenza, senza che ci si avvalga di strumentali proteste fine a se stesse. Insomma, con l'accidia e la negligenza si fa di tutto per impedire il turismo e con l'illogica inerzia o mala fede si frena la volontà imprenditoriale che crea lavoro ed investimenti.
I NOSTRI VELENI QUOTIDIANI.
Il grande assedio al nostro cibo, la salute minacciata dalle truffe, scrive Monica Rubino su “La Repubblica”. In aumento gli allarmi legati a cibi potenzialmente pericolosi che nel 2013 sono già stati 268. L'ultimo caso, il pesto al botulino. Cresce la preoccupazione dei consumatori: sette famiglie su dieci temono di trovarsi nel piatto sostanze nocive. Ogni anno una grossa catena di supermercati ritira dai propri scaffali 4-500 prodotti per motivi diversi. Come funzionano i controlli in Italia e in Europa. L'ultimo allarme è quello del pesto al botulino. Ed è scattato dallo stesso produttore, la ditta Ferrari-Bruzzone di Genova: il sospetto è che in alcune migliaia di vasetti sia contenuto uno dei tipici batteri da intossicazione alimentare, il clostridium botulinum, che in alcuni casi può portare alla morte. Ma se è vero che finora il pesto genovese non ha intossicato nessuno, non possiamo permetterci di abbassare la guardia sulla sicurezza alimentare. Lo dicono i numeri diffusi dalla Coldiretti che segnala un aumento degli allarmi per cibi potenzialmente pericolosi che nel 2013 sono già stati 268. I casi riguardano ogni genere alimentare e agli inganni ai danni del consumatore o del made in Italy si sommano veri e propri attentati alla salute. Ecco la mozzarella di bufala prodotta con latte vaccino, gli ormoni usati negli allevamenti, l'olio deodorato e colorato, il latte contaminato da sostanze cancerogene, le conserve di San Marzano ricavate da pomodori provenienti da paesi lontani, la carne di cavallo fatta passare per manzo, fino a uno degli ultimi casi alla ribalta delle cronache: i frutti di bosco infetti dal virus dell'epatite A. Senza dimenticare l'emergenza Escherichia Coli, che tanto ha spaventato e confuso i cittadini di tutta Europa.
Italiani preoccupati. Gli episodi sempre più frequenti di alterazioni, falsificazioni e contraffazioni di prodotti alimentari mettono in allerta un numero vastissimo di italiani. Secondo un'indagine di Accredia (Ente unico di accreditamento) e Censis sul tema della sicurezza e della certificazione dei prodotti alimentari, quasi 18 milioni di famiglie, pari al 71% del totale, sono spaventate dalla possibilità di imbattersi in cibo adulterato, mentre il 70% dichiara di leggere frequentemente le etichette e di prestare attenzione ai marchi di qualità del cibo che sta per acquistare.
Oltre le contraffazioni: i nemici invisibili. A spaventare non sono solo le sofisticazioni dei prodotti. I pericoli nel mondo alimentare non si vedono nel piatto e non si avvertono in bocca, come è accaduto per l’epidemia di Escherichia coli in Germania. In genere, si tratta di microrganismi come Salmonella, Listeria, Campylobacter, oppure di aflatossine e micotossine. Per non parlare della temibile diossina. Il topo nei surgelati o l'insetto nello yogurt sono eventi rari; mentre la presenza di corpi estranei nel cibo, le contaminazioni da sostanze pericolose e da batteri patogeni sono problemi abbastanza diffusi. Ogni anno una grossa catena di supermercati ritira dagli scaffali 400/500 prodotti alimentari per diversi motivi: etichette scorrette, difetti di produzione, avviso spedito dall'azienda alimentare. Solo Carrefour ha iniziato timidamente a pubblicare in rete la lista dei prodotti con il suo marchio sottoposti a richiamo.
I dati sui controlli. Le cifre di Coldiretti, elaborate sulla base delle relazioni sul sistema di allerta comunitario, dicono che nel 2013 sono state 268 le segnalazioni di rischi alimentari arrivate dall'Italia. La tendenza rispetto al 2012 è in aumento. Un anno fa infatti i casi furono 517 in totale. In Europa nessun paese dirama più segnalazioni dell'Italia. Ma è un buon segno. La prova che il nostro sistema dei controlli è capillare e riesce a scoprire - quasi sempre in tempo - i pericoli che minacciano i nostri pranzi e le nostre cene. E in otto casi su dieci l'allarme riguarda un prodotto proveniente dall'estero. Se il 2013 potrebbe concludersi con più casi rispetto al 2012, l'anno scorso a sua volta è stato peggiore del precedente. Nella terza edizione del rapporto sull'agropirateria pubblicata dall'associazione FareAmbiente-Movimento ecologista europeo emerge infatti che le frodi alimentari sono cresciute del 5% nel 2012 rispetto al 2011, con sequestri per un valore di 467.653.967 euro. Lo scorso anno, inoltre, sul fronte delle truffe sul cibo sono state registrate sanzioni amministrative per 18.268.460, ben 36.540 i controlli effettuati e 12.927 gli illeciti riscontrati. E ancora, 17.546 le sanzioni amministrative, 3612 quelle penali, 10.465 le persone segnalate all'autorità amministrative, 2096 a quella giudiziaria, 12 gli arrestati.
Il sistema dei controlli. Dopo lo scandalo mucca pazza, l'Unione europea si è dotata di un avanzato centro di controllo e allarme (Rasff), che nel 2012 ha gestito più di 3000 casi. Il Rasff, acronimo inglese di Rapid alert aystem on food and feed, Sistema di allerta europeo per cibo e mangimi, è stato inaugurato otto anni fa a Bruxelles per segnalare i prodotti alimentari contaminati presenti sul mercato. Come ci spiega il Fatto alimentare.it, sito specializzato in materia, il meccanismo è semplice. Ogni settimana, le autorità sanitarie dei vari Paesi inviano a Bruxelles l'elenco dei prodotti esportati, o importati da altri Stati, che sono stati ritirati dal commercio. L'ufficio raccoglie le informazioni e le dirama in rete con tutti i riferimenti per procedere al blocco delle merci. In Italia le notifiche arrivano al ministero della Salute che le smista alle Asl, cui spetta il compito di contattare le aziende e i punti vendita per procedere al ritiro del prodotto. I problemi più diffusi riguardano la presenza di micotossine nella frutta secca importata da paesi extra-Ue, la contaminazione da Salmonella e Campylocter nelle carni. Altri elementi abbastanza frequenti sono la presenza del batterio Listeria nel salmone affumicato, mentre il pesce spada in arrivo dalla Spagna e dal Vietnam contiene spesso mercurio. Sono anche frequenti i ritiri di gamberetti e crostacei importati dal Sud-Est asiatico, trattati con additivi non consentiti. A volte le motivazioni del ritiro sono più banali, come la presenza di micotossine nei semi di arachidi e nei pistacchi.
Le segnalazioni vengono classificate dal Rasff in tre categorie.
Allarme. Si tratta del livello più urgente e richiede un intervento rapido da parte delle autorità sanitarie. La notifica viene inviata a Bruxelles entro 48 ore dal momento in cui lo Stato viene a conoscenza e deve essere diffusa entro 24 ore.
Informazione. È una segnalazione di routine e riguarda il ritiro di un prodotto con un livello di rischio che non richiede un'azione rapida.
Respingimenti alla frontiera. Si tratta di merci importate da Paesi extra-Ue bloccate dalle autorità sanitarie alla frontiera, che non arrivano al dettaglio. Le segnalazioni settimanali del Rasff oscillano da 60 a 80 e riguardano solo la merce importata o esportata. A questo gruppo si aggiungono centinaia di altri ritiri e sequestri che le autorità sanitarie effettuano per prodotti alimentari fuori norma commercializzati all'interno del loro Paese.
Il ruolo dell'Efsa. A livello europeo il primo passo verso la comunicazione del rischio è stato l'istituzione dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare (European food safety authority), che ha sede a Parma. Come agenzia indipendente, si presta a offrire ai consumatori informazioni obiettive e attendibili, basate su dati scientifici aggiornati, in merito ai rischi sulla catena alimentare. Dall'aspartame agli ogm, dai pesticidi al bisfenolo, dagli integratori agli additivi alimentari come i coloranti, fino ai fabbisogni nutrizionali: sul sito internet dell'agenzia sono disponibili tutti i pareri scientifici delle varie commissioni e molteplici indicazioni sui temi di attualità.
Le falle nel sistema: il caso delle mozzarelle blu. Non sempre il sistema di allerta funziona come dovrebbe. Ce lo spiega Roberto La Pira, direttore del Fatto Alimentare: "Nel caso delle mozzarelle blu, la prima segnalazione italiana inviata al Rasff di Bruxelles è datata 9 giugno 2011, e riguarda lotti della società tedesca Milchwerk Jager Gmbh & Co venduta a Verona. Il sistema però si inceppa perché l'azienda tedesca non si attiva, non avverte i fornitori e quindi non si procede al ritiro immediato". Una settimana dopo, il 17 giugno, a Torino, una signora fotografa il corpo del reato, si rivolge alle Asl e la notizia arriva ai giornali. "Da quel momento - continua La Pira - la mozzarella blu diventa una notizia da prima pagina. La vicenda si trasforma in un evento nazionale perché l'azienda casearia tedesca non rispetta le regole. La lista con i marchi delle mozzarelle contaminate vendute in 13 paesi viene comunicata solo dopo due settimane, nonostante l'invio di tre richieste da parte del ministero della Salute italiano per avere informazioni precise sui prodotti coinvolti".
Il Piano del ministero della Salute. Da noi c'è un documento vasto e articolato che riassume i dati di tutti i controlli effettuati su sicurezza alimentare e qualità merceologica di cibi e bevande. Si tratta del Piano nazionale Integrato (Pni o Mancp), che nel rispetto del Regolamento (CE) n.882/2004, descrive il "Sistema Italia" dei controlli ufficiali in materia di alimenti, mangimi, benessere animale e sanità delle piante ed ha una durata triennale (2011-2014). Il Piano costituisce il livello massimo di coordinamento tra tutte le numerose autorità che vigilano sulle catene di produzione e commercializzazione dei nostri alimenti. Di sicurezza e nutrizione, per esempio, si occupano il ministero della Salute, le Regioni, le Province autonome, le Asl e i Nas (nuclei antisofisticazioni) dei Carabinieri. Un dato aiuta a capire la portata del fenomeno: nelle Asl della sola Emilia Romagna, il personale deputato ai controlli di sicurezza alimentare - tra medici igienisti, medici veterinari e tecnici della prevenzione - ammonta a oltre 800 persone. Di qualità merceologica, invece, si occupano il ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, le Capitanerie di porto, i Nac (nuclei antifrodi dei Carabinieri) e la Forestale. Senza contare il coinvolgimento generale delle autorità doganali e della Guardia di Finanza. Una macchina complessa, dunque, impegnata in un'azione capillare e quotidiana sul territorio.
Mense e ristoranti. "Uno dei principali strumenti per combattere le frodi - ha spiegato Vincenzo Pepe presidente nazionale di FareAmbiente - è la tracciabilità degli alimenti, anche nei menù degli esercizi pubblici". Per questo l'associazione è tra i promotori di una proposta di legge sulla tracciabilità dei prodotti nelle mense e nei ristoranti: "Dai dati raccolti sui controlli effettuati dalle diverse forze dell'ordine - ha aggiunto Pepe - si è visto che uno dei settori più problematici ed esposti alle truffe è proprio quello della ristorazione. Per questo proponiamo di realizzare un sistema informatico per tracciare i prodotti utilizzati nei menu dei ristoranti e un apparato informativo che consenta di leggere meglio le etichette e le allert rapide dell'Ue".
Ue, nuove etichette alimentari, più dettagli e più sicurezza.
Un regolamento della Commissione stabilisce tutte le caratteristiche dei fogli che accompagnano i cibi, dalle calorie alle indicazioni del paese di provenienza, scrive Monica Rubino su “La Repubblica”. Dopo 32 anni di onorato servizio va in pensione la vecchia direttiva sulle etichette alimentari (la 79/112/CEE), sostituita da un un nuovo regolamento (UE 1169/2011 ), varato dalla Commissione europea. Dopo anni di dibattiti è arrivata finalmente una legge univoca, tradotta nelle 24 lingue ufficiali dell'Unione (dal 1° luglio 2013 si è aggiunto il croato), da applicare contestualmente in tutti gli stati membri. La riforma europea dell'etichetta ha lo scopo di armonizzare tutte le norme nazionali su tre fronti: la presentazione e la pubblicità degli alimenti, l'indicazione corretta dei principi nutritivi e del relativo apporto calorico e l'informazione sulla presenza di ingredienti che possono provocare allergie. Il regolamento si compone di 55 articoli e descrive in modo molto dettagliato quali devono essere le indicazioni da fornire ai consumatori. In breve, l'intento è rafforzare la salvaguardia della salute dei cittadini senza intaccare la libera circolazione delle merci - preoccupazione costante di Bruxelles. I paesi Ue hanno ancora un anno e mezzo di tempo per adeguarsi alle nuove norme, che entreranno in vigore inderogabilmente il 13 dicembre 2014.
Ecco allora le principali novità sulle etichette dei prodotti che metteremo nel carrello.
Tabella nutrizionale. Oltre agli ingredienti di cui è costituito un alimento, è importante che vengano indicate le calorie in esso contenute. Gli alimenti confezionati devono avere una tabella nutrizionale con sette elementi (valore energetico, grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, proteine, zuccheri e sale) riferiti a 100 g o 100 ml di prodotto, che potrà essere affiancata da dati riferiti a una singola porzione. Si possono utilizzare altri schemi come i semafori attualmente in auge nel Regno Unito, solo se di facile comprensione. L’eccesso di consumo di sale può provocare dei problemi alla salute, per questo si deve evitare la dicitura "cloruro di sodio" e scrivere più semplicemente "sale". Entro tre anni, inoltre, sarà necessario stabilire nuove norme per l’etichettatura dei prodotti contenenti alcol.
Caratteristiche delle scritte. Le diciture devono avere un carattere tipografico di 1,2 mm (0,9 mm per le confezioni più piccole). Le informazioni obbligatorie, le indicazioni nutrizionali e quelle relative all’origine devono essere nello stesso campo visivo della denominazione di vendita. Quando la superficie della confezione è inferiore a 10 cm quadrati è sufficiente riportare le notizie essenziali: denominazione di vendita, allergeni eventualmente presenti, peso netto, termine minimo di conservazione ("da consumarsi preferibilmente entro …") o data di scadenza ("da consumarsi entro …"). L’elenco degli ingredienti può essere indicato anche con altre modalità (ad esempio negli stand di vendita) e deve essere disponibile su richiesta del consumatore.
Indicazione d'origine. È obbligatorio indicare il Paese d’origine o il luogo di provenienza per la carne suina, ovina, caprina e il pollame (l’obbligo scatta entro due anni dall'entrata in vigore del regolamento). La Commissione europea valuterà entro il 2016 se estendere l’origine a latte e prodotti non trasformati o mono-ingrediente e ad alcuni ingredienti come il latte nei prodotti lattiero-caseari, la carne nella preparazione di altri cibi, o altri quando rappresentano più del 50% dell’alimento. Tuttavia i legislatori nazionali potranno introdurre ulteriori prescrizioni sulla provenienza quando esista "un nesso tra qualità dell'alimento e la sua origine", come nel caso delle indicazioni geografiche italiane DOP e IGP. Inoltre l'informazione sull'origine del prodotto è obbligatoria quando la sua omissione possa indurre in errore il consumatore, ad esempio nel caso di una mozzarella fabbricata in Germania e venduta in Italia. Una precisazione utile a ostacolare il fenomeno dell'Italian sounding, ossia alimenti presentati come made in Italy ma fabbricati altrove.
Surgelati. Un alimento congelato o surgelato venduto scongelato deve riportare sull’etichetta la parola "scongelato".
Preparati a base di carne e pesce. La carne, le preparazioni a base di carne e i prodotti della pesca venduti come filetti, fette, o porzioni che sono stati arricchiti con una quantità di acqua superiore al 5% devono indicarne la presenza sull’etichetta. Le porzioni, i filetti o le preparazioni composti da diversi pezzetti uniti con additivi o enzimi, devono specificare che il prodotto è ottenuto dalla combinazione di più parti (per esempio: la carne separata meccanicamente).
Insaccati. I salumi insaccati devono indicare quando l’involucro non è commestibile.
Sostanze allergizzanti. Gli allergeni devono essere evidenziati nella lista degli ingredienti con accorgimenti grafici (grassetto o colore).
Oli e grassi. La scritta "oli e grassi" deve essere abbinata all’indicazione del tipo di olio o grasso utilizzato (es. soia, palma, arachide). Nelle miscele è ammessa la dicitura "in proporzione variabile". Entro tre anni dall'entrata in vigore del regolamento, inoltre, verrà redatto un rapporto per valutare l’opportunità di riportare la presenza di acidi grassi 'trans' (una tipologia di grassi insaturi, i cosiddetti TFA's) nella tabella nutrizionale.
Caffeina. Le bevande diverse da tè, caffè e dai drink a base di tè e caffè con un tenore di caffeina maggiore di 150 mg/l devono riportare sull'etichetta, oltre alla scritta "Tenore elevato di caffeina" (introdotta nel 2003), anche l’avvertenza "Non raccomandato per bambini e donne in gravidanza o nel periodo di allattamento".
Scadenza. La data di scadenza deve essere riportata, oltre che sulla scatole, anche sull'incarto interno del cibo. La carne, le preparazioni a base di carne e i prodotti ittici surgelati o congelati non lavorati, devono indicare il giorno, il mese e l’anno della surgelazione o del congelamento.
Rimangono esclusi dal regolamento le bevande alcoliche, gli alimenti sfusi (come l'ortofrutta) e quelli pre-incartati dai supermercati, come carni, formaggi e salumi che la grande distribuzione "porziona", avvolge nel cellophane e colloca sui banchi di vendita. Per cinque anni dall'entrata in vigore verrà fatto un monitoraggio per verificare l'applicazione delle nuove norme che, se sarà necessario, potranno essere aggiornate alla luce delle informazioni acquisite.
GLI SCANDALI CHE HANNO SPAVENTATO L'ITALIA.
Metanolo, mucca pazza, maiali alla diossina, scrive Federica Formica su “La Repubblica”.
1. VINO AL METANOLO - 1986. Il primo grande scandalo alimentare italiano colpisce al cuore uno dei nostri prodotti più amati, sia in patria che all'estero: il vino. Tutto nasce dalla sofisticazione di un vino di bassa qualità: per alzarne la gradazione alcolica i produttori aumentavano infatti la concentrazione di metanolo, trasformando la bevanda in un veleno mortale. Il bilancio è gravissimo: 19 morti tra Lombardia, Liguria e Piemonte. Diverse altre persone hanno subito danni permanenti alla vista. Il metanolo, infatti, è un prodotto naturale della fermentazione dell'uva e in piccole quantità è innocuo. Nelle bottiglie, che nella maggior parte provenivano da cantine del Nord Italia questa sostanza era presente molto al di sopra della soglia minima consentita. Il composto che ha ucciso quei 19 consumatori, oltretutto, normalmente era usato per le vernici. Lo scandalo fu talmente grave che il personale dei Nas (nati nel 1962) è stato quadruplicato subito dopo la fine della vicenda.
2. MUCCA PAZZA - 2000. Esaurita la psicosi collettiva del millennium bug, ecco che ne arriva un'altra, stavolta molto più seria. Tra il 2000 e il 2001 si diffonde dal Regno Unito la notizia che decine di migliaia di mucche, alimentate con farine prodotte con carcasse di animali infetti, avevano contratto la Bse (encefalopatia spongiforme bovina). Una malattia neurologica degenerativa che portava gli animali a stati di ansia e forte aggressività: da qui termine "mucca pazza". La malattia, però, si poteva trasmettere all'uomo, che consumando carne infetta rischiava di contrarre una variante del morbo di Creutzfeldt-Jakob (vCJD), un male incurabile. Nonostante gli allarmismi, comunque, le vittime della vCJD saranno 41 in tutto: 40 in Inghilterra e una in Francia. Nessuna in Italia. Tutti gli altri casi sono risultati slegati dal consumo di carne bovina. Tuttavia, la Bse almeno qualcosa di buono lo ha portato: da allora l'Italia ha istituito l'anagrafe bovina e l'etichettatura delle carne bovine, per consentire al consumatore di verificarne la provenienza.
3. INFLUENZA AVIARIA - 2003. La malattia dei volatili è nota da oltre un secolo. Nel 2003, però, viene accertato che un ceppo - il virus H5N1 - si può trasmettere anche agli umani. Sviluppatosi nel Sudest asiatico, il virus si è diffuso in tutta l'Asia per poi arrivare anche in Europa, Italia compresa. I sintomi per gli esseri umani sono quelli di una forte influenza che, in alcuni casi, può portare anche alla morte. Oltre a diffondersi con grande rapidità, H5N1 è un virus in grado di attaccare diverse specie: uccelli, uomini, maiali, ma anche gatti e topi moltiplicando così il rischio di pandemia. In Italia l'impatto dell'aviaria è bassissimo, ma l'allarme che si è generato ha comunque portato a un crollo dei consumi di pollo, tacchino e galline. Contro l’aviaria nel 2005 è stata introdotta in Italia l’etichettatura del pollame nazionale che ricostruisce tutta la storia del prodotto, dall'allevamento alla distribuzione.
4. MAIALI E DIOSSINA - 2008 E 2011. Nel 2008 tocca ai maiali: alcuni animali allevati in Irlanda presentano tracce di diossina - una sostanza cancerogena - superiori anche di cento volte ai limiti massimi consentiti all'interno dell'Unione Europea. Le autorità irlandesi ritirano tutta la carne suina prodotta sull'isola e l'allarme si estende in tutta Europa. Nel 2011 succede più o meno la stessa cosa, ma in quel caso la carne di maiale è tedesca. E la diossina è presente anche in tacchini, galline e, di conseguenza, uova. In entrambi i casi la sostanza nociva proviene da mangimi contaminati. Nel caso della Germania all'origine dello scandalo c'era una partita di olii prodotti da una fabbrica di bio-diesel e utilizzati per produrre il mangime.
5. FEBBRE SUINA - 2009. Il quadriennio 2008-2011 è un inferno per i produttori di carne suina. Nel 2009 lo scandalo diossina nei maiali irlandesi è ancora caldo, quando si sviluppa una nuova psicosi. Dal Messico, infatti, circa 20 persone sono morte a causa di una forte influenza (un sottotipo della A) trasmessa proprio dai maiali. Nei primi giorni il Messico arriva a sospendere ogni attività pubblica per limitare il contagio. Ma ormai è troppo tardi: il virus AH1N1 arriva presto anche in Italia, dove la percentuale di decessi è però inferiore persino rispetto alla normale influenza. C'è però una profonda differenza tra la "swine flu", e il caso Mucca Pazza: la febbre suina non si trasmette mangiando carne infetta (la cottura elimina il virus) ma come una normale influenza. Cioè soprattutto per via aerea. Sulle etichette delle carni di maiale, di cavallo e di pecora e capra (eccetto eventuali DOP o IGP) non è obbligatorio indicare l’origine sino all’entrata in vigore del nuovo regolamento UE n. 1169/2011. Occorre attendere quindi fino il 13 dicembre 2014 per la sua applicazione.
6. MOZZARELLA BLU - 2010. Aprire il frigorifero, scartare una mozzarella e accorgersi che il candore ha lasciato il posto a un'inquietante colorazione bluastra. E' successo a due donne di Trento e Torino. Ed è stato il principio di un nuovo tormentone alimentare che non si è ancora del tutto spento. Dietro allo scandalo della mozzarella blu c'è quasi sempre un batterio, lo Pseudomonas Fluorescens, che non ha alcun effetto nocivo sulla salute dell'uomo. Ma al di là dei rischi, inesistenti, la mozzarella blu ha indotto i consumatori a riflettere sulle condizioni igieniche con cui vengono prodotti gli alimenti. Il batterio infatti entra nella filiera proprio durante la lavorazione attraverso le acque di raffreddamento o perché i locali non sono sterili.
7. OLIO DEODORATO. E' una pratica piuttosto diffusa da anni: chi produce un olio di qualità inferiore - succede soprattutto quando tra raccolta e spremitura delle olive passa molto tempo - lo riscalda leggermente per togliere il cattivo odore che si crea. L'obiettivo: camuffare un normale olio di oliva da "extravergine di oliva", con maggiore valore commerciale proprio perché di miglior qualità. E' sempre stato molto difficile scoprire queste frodi ma dall'università di Bologna potrebbe essere arrivata una svolta: i ricercatori hanno individuato un particolare tipo di analisi chimiche dalle quali si riescono a individuare gli olii "taroccati". Nel frattempo, per tutelare i produttori italiani, l'Unione Europea ha stabilito regole piuttosto ferree sull'etichettatura dell'olio che entreranno in vigore dal 2014. Origine e categoria commerciale dovranno essere ben visibili e le nuove bottiglie avranno un metodo di chiusura che impedirà il riutilizzo dopo l'esaurimento del contenuto originale.
8. ESCHERICHIA COLI - 2008 e 2010. Nella galleria degli scandali c'è spazio anche per il latte. Sia nel 2008 che nel 2010 alcuni bambini si ammalano di sindrome emolitico-uremica, un'infezione renale molto grave. In entrambi i casi, il responsabile viene individuato nel latte crudo. Latte che viene venduto senza pastorizzazione e - spesso - bevuto senza bollitura. L'infezione è provocata dal batterio dell'Escherichia coli, che vive "ospite" nell'intestino delle mucche senza causare alcun sintomo. Il guaio, però, è quando le mucche vengono munte senza una pulizia perfetta delle mammelle, che durante la giornata si trovano spesso a contatto con le feci. Nel 2010 si ammalano 40 bambini; una bimba muore.
9. CARNE DI CAVALLO - 2013. In pieno inverno 2013 gli italiani scoprono che non si può stare tranquilli neanche con i ravioli e i tortellini. La Nestlè infatti è costretta a ritirare due prodotti dai supermercati di Italia, Spagna, Francia e Portogallo. Il motivo? Nel ripieno di carne, che teoricamente sarebbe dovuto essere 100% manzo, vengono trovate tracce minime di carne di cavallo. Di per sé il fatto non costituisce un pericolo per la salute dell'uomo, ma una frode commerciale. I dubbi sulla salute però rimangono: il sospetto che i cavalli macellati provenissero dal mondo delle corse è forte. In questo caso i rischi vengono dagli anti-infiammatori che gli animali da competizione assumono nel corso della loro carriera. Non a caso i cavalli da corsa non possono entrare in alcun modo nel circuito alimentare. In Italia, però, i Nas non trovano alcuna traccia né di anti-infiammatori né di sostanze dopanti neanche nei prodotti ritirati dal mercato.
10. FRUTTI DI BOSCO ED EPATITE A - 2013. L'ultimo allarme a livello europeo in termini di tempo è quello dei frutti di bosco contaminati con il virus dell'epatite A. Tutto nasce da una segnalazione della Danimarca, che osserva un aumento anomalo di casi di epatite A attribuendo la responsabilità a un frullato a base di frutti di bosco congelati. In breve anche altri paesi europei - tra i quali il nostro - osservano la stessa anomalia e anche dagli scaffali dei supermercati italiani vengono ritirati alcuni prodotti a rischio. All'origine di tutto ci sarebbero frutti di bosco provenienti da Bulgaria, Polonia, Serbia e Canada. Intanto nel Trentino Alto Adige sono stati registrati 27 contagi solo nei primi cinque mesi dell'anno. Cifre sproporzionate rispetto alla normalità.
OGGETTI PERICOLOSI INTORNO A NOI.
Siamo circondati da oggetti pericolosi. Triplicati i sequestri di prodotti tossici, scrive Valeria Ferrante su “La Repubblica”. Solo nei primi sei mesi del 2013 sono state bloccate dai Nas 848 mila merci fuori regola e con sostanze chimiche rischiose soprattutto per i bambini. Se non ci sarà un'inversione di tendenza il bilancio finale porterà a 1 milione e 800 mila i 600 mila oggetti interdetti l'anno scorso. Un aumento dei controlli. Ma soprattutto un segnale dell'aumento degli agguati alla nostra salute. Scarpe, abiti, borse. Oggetti di bigiotteria. Piastre per capelli. Contenitori monouso per il cibo. Padelle, scodelle, cucchiai in plastica. Pellicole trasparenti. Accendini. Prodotti cosmetici. Coprivolante, candele decorative. Ecco i nostri veleni quotidiani. Privi di etichettatura in lingua italiana. Pericolosi per la loro somiglianza con alimenti. A rischio chimico se a contatto con l'organismo o i cibi. Sprovvisti di marchiatura CE, o con il marchio contraffatto, per trarre in inganno gli acquirenti. Solo nei primi sei mesi del 2013, 848.697 prodotti sono stati sequestrati dal Comando dei Carabinieri Tutela per la Salute (Nas), per un valore di 6.491.000 euro. Tutta merce senza le obbligatorie norme di sicurezza e con sostanze chimiche in percentuali pericolose. Un fenomeno decisamente in crescita rispetto al 2012, quando i sequestri eseguiti dal Nas erano stati in tutto 603.298. Un aumento dei controlli, certo, ma anche e soprattutto un segnale della crescita dei prodotti rischiosi: mantenendo questo ritmo il risultato finale sarà quasi triplicato rispetto ai dodici mesi precedenti. Negli utensili che circondano la nostra vita in cucina. Nelle stoviglie che abitualmente adoperiamo. Nelle giacche, nei pantaloni, nelle magliette, nell'intimo, con i quali ci vestiamo. In quegli orecchini, nelle collane, nei bracciali che amiamo indossare. In ognuno di questi oggetti è stato trovato di tutto. Nichel nei bijoux e nelle scarpe. Cromo, in alcuni stivaletti di pelle. Piombo, nelle scatole composte da carta riciclata, in cui viene chiusa la pizza d'asporto. Formaldeide nelle ciotole in plastica. Mercurio su rossetti, ombretti, smalti per unghie, cosmetici e creme schiarenti. Un lungo e dettagliato elenco che chiunque può consultare sul sito del ministero della Salute dove puntualmente si segnalano ( e si aggiornano) tutti quei prodotti a rischio e ritirati dal commercio, con il decisivo contributo delle attività di controllo delle forze dell'ordine (oltre ai Nas è impegnata la Guardia di Finanza) e le analisi di laboratorio effettuate dall'Istituto Superiore della Sanità.
La classifica. Un problema che non interessa solamente l'Italia ma tutta l'Unione Europea. Secondo il rapporto RAPEX 2012 sono state 2.278 le misure prese contro i prodotti pericolosi (non alimentari) commercializzati fra gli Stati dell'Eurozona. Le notifiche sono avvenute proprio grazie al sistema europeo di allerta rapido per i prodotti non alimentari, chiamato Rapex, che ha registrato una crescita del 26% rispetto al 2011. In cima alla classifica delle merci con sostanze chimiche nei confronti dei quali sono state prese misure correttive, ci sono vestiti e capi di moda, apparecchiature elettriche, veicoli a motore, cosmetici. Nella maggioranza dei casi si tratta di di oggetti di consumo provenienti da paesi extraeuropoei. In particolare: Cina, Indonesia, Hong Kong, Taiwan, Malesia. "Quando si parla di stanze chimiche bisogna stare attenti", spiega la dottoressa Rosaria Milana dell'Istituto Superiore di Sanità. "Nessun oggetto che entra in contatto con il consumatore è inerte. Questo è un concetto importante perché in chimica non esiste l'immobilità tra gli elementi, c'è sempre un'interazione: più usiamo un oggetto, più le sostanze sono migrabili. Bisogna anche dire che non esiste un prodotto che sia tossico in assoluto. Tutto dipende sempre dal contatto, dall'uso che se ne fa e dal soggetto a cui è destinata la merce. Per esempio se si tratta di un adulto o di un bambino. Negli oggetti esistono dei livelli, stabiliti attraverso studi e sperimentazioni, da rispettare per salvaguardare la salute degli esseri umani, ed evitare quindi l'eccesiva migrabilità delle sostanze e di conseguenza la loro contaminazione". Criteri di sicurezza che purtroppo non sempre vengono rispettati. Così un'innocua scodella di plastica dura, acquistata al mercato, può rilasciare percentuali eccessive di formaldeide. "Nel caso delle ciotole da noi analizzate", precisa Milana, "provenienti quasi tutte dalla Cina, i livelli di tossicità, e quindi il rischio chimico, va considerato a lungo termine. Non esistono cioè veleni acuti, ma percentuali minime; parliamo di milligrammi che distribuiti nel tempo e assimilati di volta in volta dall'organismo, possono creare problemi più o meno gravi a seconda della sensibilità di ciascun individuo, peso corporeo, età".
I più esposti. I bambini restano i soggetti più esposti. La maggior parte degli allarmi riguardano prodotti loro rivolti. Sempre secondo il rapporto Rapex 2012, i rischi maggiori si trovano nel 19% dei casi nei giocattoli. Anche per questa categoria l'elenco fornito dal ministero della Salute è purtroppo lungo. Spade di plastica al cromo, bolle di sapone con batteri mesofili (psedomonas aeruginosa) in grado di provocare infezioni. Torce elettriche, come gadget-sorpresa racchiusi all'interno di patatine e uova di Pasqua, che si surriscaldano e si sciolgono. Giocattoli con sostanze pericolose (come acetofenone, isottanolo, cromo) rilevate nelle confezioni di plastica e classificate irritanti se poste a contatto con gli occhi o ingerite. Così quella splendida principessa da vestire con abiti scintillanti, quei teneri bambolotti da coccolare, quelle colorate maschere con cui travestirsi a Carnevale, quelle eroine e supereroi che appassionano e fanno sognare schiere di bambini, possono trasformarsi in potenziali mostri "farciti"di ftalati dalla testa ai piedi. Si tratta di composti chimici usati come agenti plastificanti, per modellare i giocattoli e renderli più morbidi. L'allarme aumenta in modo considerevole a seconda dei periodi dell'anno: durante le vacanze estive (quando si usano braccioli e materassini), alla ripresa della scuola (per gli zainetti, le matite, le gomme per cancellare), le festività natalizie (con i giocattoli, 60 mila dei quali sequestrati dai Nas solo nel 2012), il periodo di Carnevale. Tutte occasioni legate all'acquisto di doni e giocattoli. Il ministero della Salute li considera periodi di massima attenzione la nostra difesa. Ha redatto una sorta di guida sui prodotti a rischio e sui comportamenti da adottare. Si può consultare online ed è scaricabile in pdf. Il titolo spiega tutto: "Attenzione agli ftalati. Difendiamo i nostri bambini".
I sequestri. "Le verifiche, gli accertamenti, i sequestri sono costanti", spiega il capitano Dario Praturlon, ufficiale dei carabinieri del Nas. "Facciamo ispezioni presso i distributori e i negozianti. Molti prodotti per fortuna vengono immediatamente bloccati alla dogana. In questo modo si evita che entrino nel territorio italiano e vengano commercializzati". È il caso dei container sequestrati, nel porto di La Spezia, pieni di confezioni di "bolle di sapone", provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese ed importati da un operatore commerciale fiorentino. Prodotti privi di idonea certificazione sanitaria, nei quali sono state evidenziate massicce presenze di microrganismi (tra i quali il micidiale "pseudomonas aeruginosa") in quantità tale da costituire un concreto pericolo per la salute pubblica. Persino i "tappetini a mattoncini" dove i bambini di un anno di solito gattonano e giocano, sono stati ritirati dal commercio per la presenza, nell'amalgama plastica, di sostanze chimiche (acetofenone ed isoottanolo), irritanti e tossiche se ingerite. Cosa fare? Come comportarsi? Come difendersi da pericoli invisibili ma spesso presenti? "Ci vuole molta prudenza", suggerisce il capitano Praturlon. "Bisogna sempre acquistare i giocattoli nei negozi specializzati, autorizzati, di fiducia". La fretta, le occasioni, i facili risparmi possono essere deleteri. "Evitate i rivenditori estemporanei", esorta l'investigatore. "Verificate sempre la presenza di istruzioni in italiano, soprattutto in fatto di precauzioni e modalità d'impiego. Accertate la presenza della certificazione CE. Diffidate dei prezzi troppo bassi". Suggerimento quest'ultimo difficile da seguire, soprattutto per una famiglia in cui, pur di non negare un gioco al proprio bambino, si compra, ma cercando di risparmiare.
Creme al mercurio e rossetti al piombo, scrive Valeria Ferrante su “La Repubblica”. Cresce la richiesta di prodotti schiarenti. Soprattutto su internet. Ma nella maggior parte dei casi di tratta di materiale insicuro nel quale, spesso, sono state scoperte alte concentrazioni di sostanze velenose, come l'idrochinone il cui uso è vietato. Ma il loro uso alla fine crea delle vere e proprie dipendenze che genera malattie di tipo psicologico. Tanto che oggi si comincia a parlare di "bulimia da cosmetici". G. ha vent'anni e una carnagione olivastra. Ma ha deciso di diventare bionda e quindi pensa di dover schiarire il più possibile il colore naturale del suo viso. C'è poi B. che vorrebbe a tutti i costi eliminare le fastidiose macchie scure formatesi sulla pelle. C'è la trentaseienne R. che dichiara guerra al sole e ai raggi UV. E per questo pensa che bisogna mantenere, in ogni modo, la pelle chiara. Infine fra la folta schiera di donne di colore c'è chi considera necessario, per superare discriminazioni razziali ed essere accettate nelle società occidentali, sbiancare il più possibile la pelle scura. La richiesta di cosmetici schiarenti è in continua crescita. Ma non sempre si tratta di prodotti sicuri. Anzi. In molte di queste lozioni sono state trovate alte percentuali di mercurio, tanto da destare serie preoccupazioni e indurre l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ad intervenire. Tra i maggiori prodotti ritirati dal mercato dell'Unione Europea nel 2012 ci sono proprio gli sbiancanti per la pelle: contenevano idrochinone, il cui uso è vietato nei cosmetici e nei prodotti per l'igiene personale. All'appello non mancano certo i makeup per le più piccole: kit cosmetici, dedicati alle bambine, trovati privi delle prescritte indicazioni in etichetta, di marcatura CE. Sono risultati pieni di nichel e piombo. La pubblicizzazione e la vendita di questi prodotti avvengono anche su internet; ed è sulla rete, attraverso siti, forum, blog, video, che molte donne si scambiano opinioni, consigli, suggerimenti. Parole, frasi che rivelano, spesso sotto traccia, il sintomo di un malessere più diffuso di quello che sembra che andrebbe affrontato non tanto con delle lozioni, tra l'altro non del tutto sicure, ma con il contributo di esperti. Il ricorso a qualsiasi tipo di cosmesi, quando non è oculato, libero da implicazioni psicologiche, aspettative miracolose, è un boomerang: genera vere e proprie dipendenze. È un disagio sottovalutato e sottostimato, mentre invece risulta diffusissimo tra adolescenti e donne più mature. Non è un caso che si cominci a parlare di "vittime da cosmetici", "bulimia da cosmetici". Anche in questo caso basta consultare i tanti forum al femminile presenti su internet per farsi un'idea. Nell'universo dei prodotti estetici, soprattutto quelli non convenzionali, non prodotti nei paesi UE (nonostante esistano purtroppo delle eccezioni) è bene muoversi con cautela. Il rischio è incorrere in prodotti che possono rivelarsi di scarsa qualità o peggio dannosi quando le sostanze contenute non sono nelle percentuali giuste, non sono autorizzate o non sono riportate correttamente nell'INCI (International Nomenclature of Cosmetic Ingredients), denominazione internazionale utilizzata per indicare in etichetta i diversi ingredienti del prodotto cosmetico. L'Organizzazione mondiale della sanità ha infatti lanciato un allarme: "Attenzione a creme e saponi, soprattutto quelle acquistabili sul mercato online". Alcuni prodotti contenevano mercurio come agente attivo. Il mercurio è un metallo, può procurare danni ai reni, alla pelle, perché tossico. Eppure c'è ancora chi lo usa nei prodotti detergenti per gli occhi, come il mascara o le creme schiarenti, dove può provocare: decolorazione, cicatrici, riduzione della resistenza della pelle a infezioni batteriche e fungine. L'utilizzo del mercurio è stato proibito sia nell'Unione Europea che in varie nazioni africane, dove il fenomeno della decolorizzazione è maggiormente diffuso, mentre i sali di mercurio fenile per i trucchi e i detergenti degli occhi sono consentiti in concentrazioni fino allo 0.007%. Negli Stati Uniti invece la concentrazione è di 65 mg/kg. In Italia il consiglio lanciato dal Ministero della Salute è identico ad altri del settore: "Leggere sempre le etichette". Ma chi ha delle conoscenze chimiche elementari o nulle, come può decifrare le composizioni presenti in un flaconcino beauty per il viso, corpo, capelli? Sembra un'impresa impossibile. "In questo caso conviene scegliere prodotti di qualità, in grado di offrire garanzie al consumatore", spiega la dottoressa Rosaria Milana, dell'Istituto Superiore della Sanità. Il punto però è che con una riduzione delle possibilità economiche da parte degli acquirenti, comprare prodotti di marca, in genere costosi, diventa difficile. E spesso pur di mantenere una certa abitudine legata al benessere personale o a esigenze estetiche, si ricorre a prodotti sconosciuti, sottomarche distribuite un po' ovunque. Ed è così che si può diventare facilmente vittime del prodotto acquistato. Un'azienda, nella provincia di Bologna, si era improvvisata nell'attività di produzione e confezionamento di cosmetici. Creme di bellezza, a basso costo: "Utilizzavano materie prime, di provenienza tedesca e cinese", ricordano i carabinieri dei Nas di Bologna, "senza disporre di personale qualificato, né dei prescritti dossier tecnici, relativi alle caratteristiche ed alla composizione dei prodotti". Il lavoro dei militari, sempre più attivi sui sequestri, sembra però vanificato da abitudini difficili da cambiare. Il settore della cosmetica è tra i pochissimi a non essere toccato dalla crisi. Donne e uomini spendono sempre molto per la cura del proprio corpo. E chi non se la può permettere è anche disposto a mettere a rischio la salute.
Dilagano i traffici dei rifiuti tossici nelle fabbriche dei lavoratori in nero, scrive ancora Valeria Ferrante. La delocalizzazione di migliaia di industrie ha lasciato il posto ad altrettante aziende con manodopera clandestina. Tutto questo ha incrementato il sommerso, azzerato le misure di prevenzione, aumentato i rischi per la salute dei lavoratori. Con smaltimento in roghi velenosi delle sostanze nocive utilizzate, inquinamento dell'aria, del terreno, delle falde acquifere. Un pericolo che ci riguarda tutti. Nell'ultimo anno e mezzo la recessione ha investito tutti i principali settori produttivi. Lo sostiene il rapporto annuale 2013 dell'Istat. Circa 3.000 imprese, pari al 13,4 per cento delle grandi e medie aziende, dei servizi, pur di abbattere i costi, hanno avviato processi di delocalizzazione. E non è certo un caso che la Cina, il Bangladesh, siano diventati i due maggiori "importatori" di lavoro. Tutto questo in Italia si è tradotto con una riduzione dell'occupazione. Solo nel 2012 sono andati perduti 34 mila posti di lavoro. Uno scenario preoccupante. E c'è dell'altro. La contrazione della crescita industriale, la minore disponibilità di risorse economiche, l'assenza di incentivi alle imprese, la difficoltà di accesso al credito per le piccole realtà produttive, incrementa il lavoro nero. «Se esitono dei rischi per la salute dei lavoratori, si amplificano nel momento in cui entra in gioco il "sommerso". Un mondo dove, è chiaro, non possiamo intervenire - piega Liliana Frusteri, chimico Inail per la consulenza tecnica accertamento rischi e prevenzione- E dove soprattutto non esistono regole». Lavoro in nero è sinonimo di: manodopera clandestina. E ancora: di smaltimento illecito dei rifiuti, roghi tossici. Inquinamento dell'aria, del terreno, delle falde acquifere. A Nord di Napoli, in particolare nelle zone del basso casertano, ad Acerra, San Giuseppe Vesuviano, Nola, Polvica, Marigliano, Roccarainola, Tufino, Palma Campania San Gennaro. Qui è localizzato, il "Triangolo della morte". Qui si concentrano le fabbriche abusive, soprattutto per abbigliamento. E sempre qui lo sversamento degli scarti di produzione è a dir poco selvaggio. A San Giuseppe Vesuviano è stata scoperta una ditta di confezionamento abiti del tutto fuorilegge che operava nel più completo degrado igienico. Perché gli extra comunitari che lì lavoravano, senza mai essere stati assunti, in quegli stessi locali ci vivevano. Mangiavano. Dormivano. Dentro un ambiente interrato senza alcuna areazione. Ammassati in 200 mq con macchine e apparecchiature, tagliavano, cucivano gli abiti, vi apponevano i marchi di note aziende tessili. Una condizione del tutto simile alla schiavitù. Più di un "operaio", hanno scoperto i Vigili Urbani durante il blitz, era clandestino. Infine sacchi pieni di ritagli di stoffa erano pronti per finire nelle tante discariche abusive dislocate nel territorio. In attesa di essere bruciati. E basta fare un giro tra via Macedonio Melloni (a San Giuseppe Vesuviano), via Lavinaio (a Poggiomarino) per trovare kilometri e kilometri di tonnellate di balle di pezze che vengono scaricate dalle industrie tessili. Ma insieme a queste si trova di tutto: liquidi tossici, copertoni, resti di roghi precedentemente appiccati. A denunciare i continui attentati che il territorio campano subisce sono i componenti di rifiutarsi.it. Nel loro sito internet, nella loro pagina di facebook, pubblicano foto, caricano video, che puntualmente documentano un disastro ambientale dalle proporzioni gigantesche. Un sfregio che avviene nell'indifferenza o forse peggio nell'impotenza delle amministrazioni locali. «I clan approfittano delle strade al confine o, meglio ancora, di quelle contese tra più enti, per smaltire illegalmente i rifiuti - scrive a commento alle immagini il team di rifiutarsi.it - Per facilitare il lavoro e aumentare ulteriormente il loro guadagno, i camorristi hanno pensato bene di installare due discariche di pneumatici. Le gomme vengono usate per aumentare il potere calorifico della combustione tossica e sono posizionate alla base del rogo, su cui poi vengono gettati gli scarti tessili. Un mix che bruciando rilascia nell'aria grandi quantità di diossina. Non è escluso che i panni tessili siano anche utilizzati come spugne per assorbire i rifiuti tossici liquidi. In questo modo si brucia tutto in un sol colpo, si eliminano le prove e si crea spazio per i nuovi scarichi». La quantità di diossina che si disperde nell'aria è incalcolabile. Per questo non si esita a definirlo un vero e proprio "Biocidio". Sono in aumento anche i casi di incidenza tumorale: più del 15% delle donne tra i 30 e 35 anni, contrae un cancro alla mammella, tumori allo stomaco, linfomi. Gravi patologie, che in altri territori hanno percentuali molto più basse. Sempre in Campania i Carabinieri del Noe di Caserta hanno bloccato un traffico di rifiuti illeciti e d'indumenti, destinati poi alla vendita nel mercato di Resina. Un business superiore ai 10 milioni di euro. Perché la "monnezza" per la camorra vale oro. I rifiuti tessili, importati soprattutto dalla Germania, venivano poi esportati all'estero (Bolivia, India, Tunisia ecc.): etichettati falsamente come merci recuperate, e senza alcuna igienizzazione, come invece previsto dalle norme ambientali e sanitarie. «La "merce" -si legge nel comunicato della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Napoli- venduta verso i Paesi "poveri" dell'America Latina, Asia, Africa, era frammista a rifiuti di ogni altra tipologia: escrementi, farmaci scaduti, cibi avariati e simili». Ma la situazione non è migliore neppure nel distretto industriale di Prati. Loculi dormitorio, nascosti con tramezzi e impalcature, erano diventati la casa per alcuni immigrati, che in nero lavoravano dentro fabbriche dove si confezionavano capi di abbigliamento. A gestire la produzione erano persone di nazionalità cinese, che avevano importato circa 74mila rotoli di tessuto sprovvisto d'etichettatura, per un peso complessivo di 1.265 tonnellate e un valore commerciale di 13 milioni di euro.
Massima allerta nei vestiti che indossiamo, uno su dieci provoca infezioni sulla pelle, continua Valeria Ferrante. Riguardano questo settore il 34 per cento delle misure del Rapex, la struttura che sorveglia i prodotti non alimentari. Una denuncia della Lega antivivisezione sulle pellicce tossiche negli abiti per bambini è sul tavolo del pm Guariniello. Una situazione preoccupante confermata anche dal rapporto RAPEX 2012 (sistema europeo di allerta rapido per i prodotti non alimentari) che mette al primo posto della classifica per sostanze chimiche a rischio: vestiti e capi di moda, con il 34% di misure correttive avviate. Non più solo un'esigenza estetica. Non più solo un modo per proteggere, coprire il corpo. Vestirsi rischia adesso di trasformarsi in un serio problema. Se l'abito, la t-shirt, l'intimo, il jeans sono stati trattati con inchiostri plastisol o contengono nichel, pentaclorofenolo, coloranti. Tutte sostanze chimiche che superiori ai parametri eco-tossicologici possono diventare pericolose. Non è un caso che il 7-8 % delle patologie dermatologiche sono dovute a capi d'abbigliamento. Ed è proprio l'Associazione Tessile e Salute diretta da Massimo Rossetti a rendere noto il dato. Dopo aver svolto un'indagine sul territorio nazionale, analizzato campioni prelevati dal mercato per cercare la presenza di sostanze pericolose, il resoconto che ne viene fuori non è affatto positivo. Tra i tessuti analizzati dall'Associazione, responsabile dell'Osservatorio Nazionale Tessile, voluto dal Ministero della Salute, si è riscontrato che i livelli di PH nel 29% dei casi non venivano rispettati. Non solo. Nei tessuti è stata riscontrata la presenza di metalli pesanti (6%), ammine aromatiche cancerogene (4%), coloranti allergenici (4%), formaldeide (4%). Mentre su calzature in pelle o cuoio, soprattutto d'importazione, si è scoperto che il 50% di queste conteneva cromo VI: un agente cancerogeno. Secondo un'altra inchiesta svolta dalla SIDAPA (Società Italiana di Dermatologia Allergologica Professionale e Ambientale sulle dermatiti da tessuti) su 401 pazienti (dai 5 agli 84 anni) i tessuti erano causa di allergie per il 69,1% dei casi; gli accessori metallici dell'abbigliamento per il 16,5%; le scarpe per il 14,4%. Una situazione preoccupante confermata anche dal rapporto RAPEX 2012 (sistema europeo di allerta rapido per i prodotti non alimentari) che mette al primo posto della classifica per sostanze chimiche a rischio: vestiti e capi di moda, con il 34% di misure correttive avviate. E non va meglio neppure per l'abbigliamento dei bambini. "Abbiamo acquistato 6 capi, piumini, cappottini, per minori dai 18 mesi ai 12 anni, delle migliori marche italiane", racconta Simone Pavesi responsabile LAV (Lega Anti Vivisezione), "un laboratorio specializzato ne ha analizzato le parti in pelliccia. Abbiamo trovato: pentaclorofenolo, formaldeide, tetraclorofenolo, nonilfenolo etossilato". Un caso shock. I dati elaborati dalla LAV sono finiti in mano alla magistratura, al Pm Raffaele Guariniello, della Procura di Torino, che sta aspettando adesso il risultato delle nuove analisi, rielaborate proprio dall'Associazione Tessile e Salute, per volere del Ministero. La merce intanto è stata tutta ritirata dal commercio e posta sotto sequestro. "Le leggi vigenti in materia di tutela del consumatore sono obsolete o carenti", afferma Massimo Rossetti, "in più, nel 34% dei casi, la composizione delle fibre riportate in etichetta è sbagliata". Ma come difendersi allora? Alcuni consigli per orientarsi nel mondo dell'abbigliamento tra fibre sintetiche, cotoni Ogm, falsi tessuti certificati bio, coloranti e altro sono disponibili nel sito dell'Associazione Tessile e Salute. "Cerchiamo di informare gli utenti sulle normative, sull'acquisto dei prodotti e su come interpretare le etichette di composizione", spiega sempre Rossetti. Tra le altre sostanze ad avere un forte impatto sul tessile, considerate dannose, ci sono le SVHC - Substances of Very Hight Concern- che comprendono le sostanze CMR -cancerogene, mutagene e tossiche per il sistema riproduttivo; le sostanze PBT -persistenti, bioaccumulabili e tossiche; le sostanze vPvB -molto persistenti e molto bioaccumulabili. Purtroppo nono sono le uniche. "Nei nostri vestiti, in ogni fase del loro ciclo di vita, quantità apparentemente piccole di NPE (nonilfenoloetossilati) permangono sui tessuti", dichiara Chiara Campione responsabile Greenpeace, "Queste sostanze, oltre ad essere potenzialmente rischiose per la salute, cumulandosi negli scarichi, durante il lavaggio, possono disperdersi nelle acque, contaminando l'ambiente". Questo fatto non sembra proprio in cima ai pensieri del mercato, che soprattutto nella moda esige collezioni nuove a tempi record, chiedendo ai fornitori consegne sempre più rapide. A quale prezzo? La cosiddetta "moda veloce", condiziona i cicli produttivi delle imprese italiane, battute sui tempi da Cina, Vietnam, Taiwan, Arabia Saudita. Paesi dove il rispetto per i lavoratori o il territorio non è garantito. Dove i prodotti spesso non sono conformi ai requisiti eco-tossicologici. Eppure lo stesso vengono importati e venduti in Europa. Una situazione paradossale. Le imprese della UE devono rispondere a requisiti inerenti la sicurezza della merce, dei processi produttivi, come prevede il REACH (il Regolamento per la Registrazione, la valutazione, l'autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche). Però articoli tessili contenenti sostanze tossico-nocive, il cui utilizzo è vietato o ristretto in Europa, sono comunque introdotti nel territorio comunitario. E così non sono poche le aziende che hanno deciso di delocalizzare parti delle loro fasi produttive in paesi extra UE. "Nei casi in cui è stato possibile correlare la patologia al tessuto che l'ha determinata si è trattato nel 100% dei casi di capi d'importazione", sostiene lo studio dell'Associazione Tessile e Salute. E il consumatore? Non è messo in condizioni di conoscere la provenienza delle merci, e neppure le potenziali criticità eco-tossicologiche correlate.
ANTIBUFALA: LA BARRA COLORATA SUI DENTIFRICI.
Antibufala: la barra colorata sui tubetti di dentifricio identifica quelli “chimici”. Sta circolando, in particolare sui social network, un allarme-consiglio che propone una tecnica semplice per distinguere i dentifrici “naturali” da quelli “chimici” (qualunque cosa voglia dire questa distinzione, come se la natura non fosse basata sulla chimica ma sulla magia o le flatulenze di unicorno): basta guardare il colore della barretta in fondo al tubetto. Ecco il consiglio che viene diffuso: Ecco cosa significano i colori sotto i tubetti di dentifricio. Sembrerebbe messo a caso , nessuno fa caso ad un piccolo colore posto in fondo al tubetto di dentifricio. E invece dobbiamo imparare a fare caso a tutto se vogliamo preservare la nostra salute. Al momento dell’acquisto è bene prestare attenzione ai colori al fondo di ogni tubetto di dentifricio. Vi è una barra di colore, che indica la composizione del dentifricio.
Ecco come leggerle:
Verde: Composizione Naturale
Blu: Composizione Naturale + Medicina
Rosso: Composizione Naturale + chimica
Nero: Composizione chimica
Inutile dire che è meglio scegliere dentifrici contrassegnati da quadratino colorato verde in fondo. E Senza fluoro... C'è anche la versione grafica.
Il consiglio è una panzana colossale e chi lo diffonde pensando di essere utile in realtà fa soltanto danni disseminando frottole. La barra colorata, infatti, è semplicemente un segno usato dai sensori delle macchine di confezionamento per sapere dove tagliare e sigillare il tubetto. Se volete sapere cosa c'è in un dentifricio, invece di affidarvi ai diversamente furbi che pensano di dispensare conoscenze riservate agli eletti, considerate l'ipotesi meno sensazionale ma molto più pratica di leggere l'elenco degli ingredienti.
ILVA, LE VERITA' NASCOSTE DELL'INCHIESTA.
Ilva, le verità nascoste dell'inchiesta. Milano è più tossica di Taranto. L’accusa parla di 386 morti, ma 140 non hanno nulla a che fare con l’inquinamento, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. La materia che stiamo per trattare è scottante e va presa con le pinze, tanto più in questo momento. Ci riferiamo all'Ilva di Taranto, accusata di produrre un inquinamento micidiale a causa del quale sarebbero morte centinaia e centinaia di persone: cancro ai polmoni. La fabbrica, tra le più importanti d'Europa nel settore dell'acciaio, rischia addirittura di fare una brutta fine: è in corso un'inchiesta della magistratura, dalle cui carte emerge una situazione drammatica tale che, se fosse confermata da una sentenza di condanna, la speranza di salvare l'azienda si ridurrebbe al lumicino. Naturalmente noi non abbiamo le conoscenze scientifiche necessarie per esprimere giudizi in merito. Ma leggendo i documenti abbiamo constatato alcune incongruenze tali da suscitare dubbi sulla fondatezza delle responsabilità attribuite ai gestori dello stabilimento. Tra l'altro, nei giorni scorsi il commissario dell'Ilva, nominato dal governo, Enrico Bondi (già collaboratore dell'ex premier Mario Monti e risanatore della Parmalat) ha inviato una lettera ai vertici della Regione Puglia in cui, riassumendo le osservazioni di quattro consulenti dell'impresa, fa notare che non esistono prove certe che l'elevato numero di decessi sia rapportabile alle cosiddette polveri sottili emesse dagli impianti industriali. Non l'avesse mai fatto: Bondi è stato travolto dalle critiche. Vari partiti, tutti impegnati in una gara a chi è più ambientalista, si sono sollevati all'unisono per protestare contro il commissario reo di aver contraddetto le tesi colpevoliste. Essi non hanno tenuto conto che Bondi era considerato all'unanimità l'uomo più adatto alla luce del suo impeccabile curriculum, a risolvere i problemi. Non siamo in grado di accertare se abbia ragione lui o il gruppo dei suoi improvvisati detrattori: rimane il fatto che chiunque osi manifestare perplessità sull'effettiva dannosità delle scorie dell'Ilva viene messo al bando quale complice di Sorella Morte, benché la discussione sull'inquinamento a Taranto sia circoscritta all'ambito delle ipotesi. Spulciando tra gli atti dell'inchiesta è difficile dare torto a Bondi: essi sono disseminati di contraddizioni meritevoli di attenzione. La più grossolana è contenuta in una perizia acquisita dall'Ufficio del giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco, dove si legge che i morti per cause naturali sono stati, in tredici anni, 386, un dato impressionante. Peccato che in un altro punto della documentazione si scopra che, invece, 140 dei 386 decessi denunciati, siano attribuibili a cause non naturali: cioè dovuti a incidenti stradali, suicidi eccetera. Le cifre sono state alterate di sicuro in buona fede, ma ciò non giustifica l'errore, soprattutto non giustifica la mancata correzione del medesimo, visto che le conclusioni sono state tratte dal quadro statistico falsato. In un'altra perizia ordinata dal Tribunale si sostiene che le sostanze nocive per essere tollerabili non devono superare il limite di 20 milligrammi per metro cubo, come raccomanda - o sogna - l'Organizzazione mondiale della sanità. Ma uno degli stessi autori, in un altro documento riguardante una consulenza richiesta dalla Regione Lombardia, afferma che la media annua e tollerabile delle polveri sottili è di 40 milligrammi per metro cubo, esattamente come recita la disposizione europea tramutata in legge dall'Italia. Da sottolineare che la media delle sostanze tossiche emesse dall'Ilva non è mai andata oltre il limite fissato dalla citata legge. Quindi non si capisce in che cosa consistano le presunte violazioni commesse dalla fabbrica in questione. Immagino che le obiezioni di Bondi - che non è l'ultimo arrivato - sorgano anche dagli elementi che abbiamo riportato in sintesi e con un linguaggio semplice. C'è da aggiungere, per rimarcare la confusione regnante in questo campo, una curiosità. Legambiente, nel 2012, ha elaborato una ricerca su scala nazionale relativamente al Pm10 (polveri sottili) da cui si evince che, nella classifica delle città più inquinate, Taranto figura al 46° posto. Milano, per intenderci, è in vetta insieme con Torino, seguite da Verona, Alessandria e Monza. L'incidenza delle sostanze tossiche presenti nell'atmosfera sulla mortalità non è mai stata misurabile né lo sarà, presumibilmente, per parecchio tempo ancora. Milano, per esempio, pur avendo un'aria irrespirabile, in teoria, in pratica offre ai suoi abitanti le migliori aspettative di vita: sotto il Duomo si campa più a lungo che sotto le Dolomiti. Ergo, andiamoci piano con i catastrofismi degli ambientalisti professionali. Se anche la magistratura si lascia influenzare dai luoghi comuni e dai luogocomunismi della vulgata, seguiteremo a morire, e moriremo poveri. Emergenza Ilva e i medici che la pensano come Bondi.
Tirelli e Serraino, dell'Istituto tumori di Aviano, a Panorama.it: "Rapporto Sentieri non idoneo a scoprire tutte le cause dei tumori", scrive Marino Petrelli su “Panorama”. “L’ipotesi che l’Ilva sia la causa di tutti i tumori evidenziati è in disaccordo con le evidenze scientifiche riportate dalle più grandi agenzie di ricerca sul cancro del mondo. La tipologia dello studio Sentieri non è idonea a investigare le cause delle malattie, ma solo a descriverne la frequenza”. E' l'idea di Umberto Tirelli, direttore del dipartimento di Oncologia medica dell'Istituto tumori di Aviano , e Diego Serraino, direttore della struttura complessa di Epidemiologia e biostatistica del medesimo istituto. Che a Panorama.it aggiungono all'unisono: “Si tratta di uno studio descrittivo che serve a formulare ipotesi sulle cause delle malattie, in questo caso dei tumori, ma non serve a stabilire relazioni. Su questo punto i ricercatori di Sentieri sono d’accordo”. Dunque, secondo gli esperti del centro friulano, la relazione dei consulenti Ilva e le dichiarazioni del commissario Bondi potrebbero avere un fondamento, sostenute anche da una indagine presentata nel 2012, in collaborazione con l'Istituto tumori Pascale di Napoli , che evidenziava nell'aria di Taranto una mortalità per tumori uguale alla media delle altre provincie del sud Italia. Tirelli e Serraino non sembrano né sorpresi né contrari alle affermazioni del commissario Ilva. Per quali motivi? “Se per scoprire le cause dei tumori bastasse usare i tassi di incidenza o di mortalità non ci sarebbe bisogno del National Cancer institute, dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul Cancro dell'Organizzazione mondiale della sanità, l’Università di Oxford o il Karolinska Institute di Stoccolma, o il New England Journal of Medicine. Senza contare le decine di migliaia di ricercatori nel mondo che studiano i tumori e pubblicano le loro ricerche”, sottolineano. "Purtroppo non è così. Gli studi descrittivi sono solo la prima fase di un lungo processo conoscitivo che deve necessariamente passare per gli studi di epidemiologia analitica in cui è possibile misurare le esposizioni individuali – dicono i due medici - . Questo è uno dei punti cruciali, negativi secondo noi, di Sentieri: la residenza al momento della diagnosi del tumore è usata come proxy della esposizione ai carcinogeni ambientali. Si da, cioè, per scontato, che le persone abbiano sempre abitato lì, e che siano state esposte ai vari carcinogeni nel corso di almeno tre decenni, tempo medio necessario per lo sviluppo dei carcinomi, e che questi vari carcinogeni abbiano causato il cancro e queste persone siano per il resto paragonabili a chi non abita li”.
CRITERI EPIDEMIOLOGICI
Tirelli spiega che le malattie neoplastiche sono circa 230 tipi diversi tra loro per eziologia, patogenesi, presentazione clinica, prognosi: pensare che i fattori di rischio per i tumori dell’apparato respiratorio siano gli stessi per i tumori dell’apparato digerente o urinario o riproduttivo non ha fondamento scientifico. Per alcune sedi neoplastiche, innanzitutto l’apparato respiratorio, è più che plausibile che l’inquinamento ambientale abbia aumentato il rischio di malattia mentre per altre è, in base alle conoscenze attuali, molto poco probabile. Ma per un'analisi epidemiologica più ampia si dovrebbe, ad esempio, usare almeno la georeferenziazione degli indirizzi, che andrebbero associati ai residenti in modo uninominale per mappare le residenze nel tempo. “Bisogna partire dai dati del Rapporto Sentieri per identificare ipotesi di lavoro e procedere con studi epidemiologici analitici. Ci sono voluti 50 anni di studio e decine di migliaia di lavori scientifici per stabilire l’associazione tra fumo e tumori, tra infezione da HPV e tumore della cervice – aggiunge il direttore di Oncologia medica -. Le scorciatoie non servono allo scopo e sono dannose perché spostano l’attenzione dai veri fattori di rischio noti, accertati e accettati”. Cosa salvare dunque del Rapporto Sentieri e cosa dire ai tarantini che combattono contro un inquinamento sempre maggiore? “E' una ottima indagine descrittiva che serve a produrre ipotesi di lavoro, ma non va oltre. Il fatto che tutti la ritengano un modello è limitato al nostro Paese e ai media. Penso che l’ideologia abbia giocato e giochi un ruolo molto negativo da questo punto di vista – conclude Serraino -. La scienza non deve essere tirata per la giacca, non è di destra o di sinistra. Le conoscenze attuali delle cause del cancro dicono che l’inquinamento ambientale ha un ruolo marginale nei tumori per l'1-2 per cento. C’è qualcuno in grado di dimostrare che a Taranto questa percentuale è del 400 per cento come pubblicato da alcuni giornali nel 2012?”. Una domanda che non tarderà di avere una risposta.
LA LOTTA CON GLI IDOLI DELLA PIAZZA.
Montepaschi e Ilva, la nostra lotta con gli idoli della piazza. Con Nomura tutto a posto, lo dicono i giudici (adesso). Il fumo provoca il cancro, ma non se lo dice Bondi, scrive Giuliano Ferrara su “Il Foglio”. Comporre un giornale quotidiano, offrire informazioni e analisi, è un mestiere sempre più complicato e ingrato. La correttezza politica e ideologica è un mostro dai molti tentacoli, che ha afferrato e imprigionato, fino a soffocarla, l’intelligenza media del pubblico, basta fare la prova Twitter. Mandagli 140 caratteri dotati di una qualche autenticità psicologica, logica, morale, e vedrai quanto fiele sarà vomitato. Certe verità, una volta affermate come idoli della piazza, non sopportano l’emergere delle controverità. La reazione è di silenzio e nascondimento oppure di rigetto e odio: non puoi dire, come questo giornale ha fatto, che è falso lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena. Non puoi dire che le imputazioni importanti si sgonfiano, che erano formulate in modo specioso e a tratti grottesco, che destra e sinistra tribunizia hanno usato l’ipotesi di una maxitangente derivata dall’acquisto a un costo elevatissimo della Banca Antonveneta da parte dell’istituto senese per specifici e generici scopi di bassa propaganda politica (per non parlare dei somari dell’antipolitica grillina). Non puoi rilevare la stranezza di uno “scandalo del millennio” in cui le grandi cifre del maltolto, la sostanza dello scandalo, sono sparate dai giornali e dalle tv condiscendenti alla mentalità correttista, mentre le cifre di malversazioni accertate sono pochi spiccioli finiti nelle tasche di qualche funzionario infedele. Non puoi dire che è strana una inchiesta così rilevante senza arresti eccellenti, perché evidentemente non esistevano i termini, spesso così spicciativamente fissati in altri casi, per procedere. Non puoi onestamente fissare una distinzione tra i fallimenti e le disinvolture strategiche di una banca che ha fatto il passo più lungo della gamba, che ha cucinato i bilanci anche con operazioni di rischio su titoli derivati, come fanno quasi tutte le banche del mondo, che ha dovuto chiedere prestiti allo stato, ciò che è successo ovunque, e se non riuscisse a restituirli, a tassi di interesse peraltro molto consistenti, perderebbe la sua autonomia come sempre avviene nei patti convertendo. Non puoi parlare di cose vere con un tono controargomentativo, e spiegare quel che traspare, cioè un retroterra massonico e d’influenza carico di segreti e drammi anche personali, vecchie storie di politica e fondazioni creditizie, scontri al vertice, nei vertici e nelle successioni al vertice. Scontri risolti ieri con l’apertura della banca, lodevole, a capitali esterni che possono diventare determinanti: un atto di riforma e normalizzazione incompatibile con la dimensione scandalistica che tutta la faccenda del crollo e della grande rapina avevano imposto. Nei giorni scorsi per la seconda volta il tribunale del riesame ha bocciato l’ipotesi accusatoria maggiore, quella che riguarda il contratto sui derivati con la banca d’affari giapponese Nomura, che peraltro si era mostrata parecchio infastidita dalle intromissioni dei magistrati, che giudicava speciose, in una vicenda di commercio finanziario internazionale. Si va, secondo tutti gli osservatori, verso l’archiviazione del dossier Antonveneta, e sarà archiviata l’inchiesta sul suicidio di David Rossi, misterioso come tutti i suicidi. Ora uno dice. Qualcuno di questi furboni & cialtroni che hanno lucrato sullo scandalo del millennio, in politica, nel giornalismo, nella finanza, nell’ordine giudiziario, sarà chiamato a qualche responsabilità. Ma non succederà. Resterà un piccolo club di fortunati, la fetta di pubblico che ha per le mani un giornale come questo, in possesso delle controverità fattesi dato oggettivo, e per il resto un grido aspro e stupido contro l’insabbiamento emesso dal cretino che passa su Twitter, il silenzio indifferente, l’incapacità di capire che così un paese va letteralmente a finire in giochi idolatrici di quart’ordine. Veniamo all’Ilva di Taranto, già per molti anni Italsider, acciaio, salute e lavoro, stato e privati, insomma vita. E’ un dossier ancora più penoso, per chiare ragioni. I dobloni vabbè, ma con la vita delle persone, la malattia e il dolore, non si deve scherzare. Ma chi è che scherza? Chi pone le questioni con leggerezza, non importa se collocandosi dalla parte dell’umanitarismo e dell’ambientalismo o da quella dell’industrialismo e del capitalismo? A noi, con l’iniziativa del giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, confermata in numerosi passaggi dalla procura di Taranto, è stato inculcato questo, devo dire con sistemi oggettivi, un uso non sconsiderato e non ciarliero dei grandi poteri della magistratura: la produzione dell’acciaio uccide, è una strage, i morti si contano come nell’esplosione di una bomba, le storie di malattia sono crudeli, l’epidemiologia non può farla passare liscia a capitalisti che puntano al profitto, corrompono la gente per coprire le situazioni malsane, e ben gli sta se passano parte della loro vita in galera domiciliare anche sopra gli ottant’anni, questi industriali luciferini. Tra i coinvolti per il giro della politica c’è un Nichi Vendola presidente della Puglia, che si è messo nella scia dei magistrati, ma con molte contraddizioni e incertezze. C’è la sinistra, che è stata regolarmente finanziata dalla potenza economica dei Riva, e ha dato, in un certo senso ha offerto in olocausto, uno dei suoi pupilli, il prefetto Bruno Ferrante, ex capo di gabinetto di Giorgio Napolitano all’Interno ed ex candidato sindaco a Milano, al tentativo di risolvere il conflitto fra salute e lavoro, come si dice. Poi c’è la linea del governo Monti, con la sua maggioranza di larga coalizione, confermata dal governo Letta: decreti e leggi per contrastare la tendenza del circo mediatico-ambientalista-giudiziario a chiudere semplicemente l’Ilva, progetto quasi impossibile e comunque molto dannoso alla vita dell’industria e di chi ne dipende, e farlo rilanciando le pratiche ambientali costosissime ma doverose intese a risolvere il conflitto eliminando il più possibile. Con le bonifiche e gli standard acconci di produzione. I fattori di rischio. Su cosa si basa tutto questo, dall’accusa di strage al dramma sociale e politico di un bastione industriale da abbattere? Si basa su dati epidemiologici, e su come essi vengono recepiti dall’opinione pubblica e dalla gente di Taranto, lavoratori e abitanti, gente che risponde con dolore, con spavento, con offesa e con costernazione a quei dati, ed esprime l’esperienza stessa che sta dietro la parola asettica di epidemiologia. Taranto però è divisa in materia, come sanno tutti coloro che non cedono alla demagogia spicciola, e una parte consistente della comunità, che nel referendum è rimasta maggioritariamente assente dalla battaglia, pensa che si sia esagerato e che le cose non siano così chiare come le descrivono i comitati militanti. E allora? Allora il problema è che questo giornalino si permise di esprimere delle riserve sul modo in cui sono costruite le ricerche epidemiologiche del progetto Sentieri e dell’Arpa, l’agenzia che deve valutare in loco, a livello regionale, i danni sanitari. In queste ricerche epidemiologiche, per stabilire se i tumori e le affezioni polmonari e cardiache siano sopra la media, se dipendano interamente o parzialmente, e in quale proporzione, da vari aspetti della produzione dell’acciaio nelle zone a caldo oppure siano ascrivibili anche e in qualche caso soprattutto ad altri fattori, come l’amianto dei cantieri navali eccetera, hanno lavorato persone di qualità e di presumibile, per non dire sicura, indipendenza. Ma ecco che arriva l’ultimo, e il più prestigioso, della filiera dei Grand Commis de l’Etat chiamati a sbrogliare la matassa incandescente, il commissario Enrico Bondi, l’uomo delle situazioni difficili, della scuola di Enrico Cuccia, che ha risolto il problema industriale e finanziario della Parmalat e ha impedito il crollo di una grande fonte di lavoro e di ricchezza sociale. Bondi ha per le mani un documento in cui Paolo Boffetta, Carlo La Vecchia, Marcello Lotti e Angelo Moretto – tutti epidemiologi e studiosi delle criticità sanitarie di livello e impegno rilevante, anche in campo internazionale – sostengono che il progetto Sentieri e il rapporto dell’Arpa sono criticabili per moltissimi aspetti. Il documento è lungo e richiede anche competenza specialistica per essere letto, ma il suo senso è chiaro. C’è anche un passaggio, non necessariamente centrale nelle analisi varie ivi condotte, in cui si afferma che alcuni dati storici dell’area tarantina (la grande disponibilità di tabacco da contrabbando per generazioni, l’alcolismo e lo stato di vita miseranda a cui fette importanti di popolazione furono condannate) alludono a cause epidemiche del danno sanitario in una forma che è sbagliato sottovalutare. Bondi trasmette a chi di dovere questo rapporto strettamente scientifico, nato come iniziativa prima della sua nomina a commissario dell’Ilva, e il risultato è questo, per gli stessi giornali e siti che ingrassano sullo scandalismo in tutti i campi: Bondi dice che il cancro a Taranto dipende dal fumo e dall’alcol, non dalla produzione dell’acciaio. Da quel momento Bondi non vive più. E’ costretto a precisare, attività sempre sospetta, a essere audito dal ministro, si minacciano nuovi comitati esperti per giudicare gli esperti eccetera. Il clima è di colpevolizzazione. La affermazione analitica del rapporto scientifico diventa una barzelletta: è il tabacco, bellezza, e tu non puoi farci niente. La teppa mediatica si scatena. Invece, come per l’Mps, lo scandalo venuto dal nulla e finito nel nulla, anche in questo caso c’è la coincidenza con i nostri dubbi di minoranza, le nostre tremebonde intuizioni su chi la fa sempre troppo facile. D’altra parte comporre un giornale e offrire informazioni e analisi è cosa complicata, come dicevamo, e nella legge del politicamente corretto sta scritto che ieri puoi far stampigliare sui pacchetti di sigarette che IL FUMO PROVOCA IL CANCRO, a grandi lettere, e oggi puoi sbeffeggiare il rapporto degli esperti che dice la stessa cosa in un contesto diverso.
ILVA. TARANTO. TUTTI DENTRO.
Tutta la stampa ne parla. La Provincia nella Bufera, arrestato il presidente. Ilva, "ambiente svenduto": 4 arresti. Provincia decapitata, in manette anche Florido. Le ordinanze di custodia cautelare spiccate dal gip Patrizia Todisco: in manette anche il presidente e l'ex assessore all'Ambiente, Conserva. Al centro del nuovo terremoto giudiziario le manovre per ottenere l'autorizzazione della discarica realizzata all’interno dello stabilimento, scrive Mario Diliberto e Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Nuova pioggia di manette a Taranto nell'ambito dell'inchiesta "ambiente svenduto". Tra gli arrestati anche il presidente della Provincia Gianni Florido, 61 anni, alla guida dell'amministrazione dal 2004 (eletto per il secondo mandato nel 2009 col Pd) ed in passato segretario generale della Cisl ionica. L'operazione è scattata alle prime luci del mattino del 15 maggio 2013. I militari della Guardia di Finanza hanno eseguito quattro ordinanze di custodia cautelare spiccate dal gip Patrizia Todisco. Gli arrestati sono, oltre a Florido per il quale l'accusa sarebbe di concussione; l'ex assessore all'Ambiente Michele Conserva (Pd) e l'ex segretario della Provincia di Taranto, Vincenzo Specchia, per il quale sono stati disposti i domiciliari. Tra i destinatari dei provvedimenti di custodia cautelare anche Girolamo Archinà, ex responsabile delle relazioni istituzionali del colosso siderurgico che avrebbe lavorato per agevolare l'attività della grande fabbrica accusata di disastro ambientale. Ad Archinà l'ordinanza è stata notificata in carcere, l'ex dirigente Ilva è detenuto dal 26 novembre. Al centro del nuovo terremoto giudiziario le manovre attivate per ottenere l'autorizzazione della discarica "Mater Gratiae", realizzata in una cava all’interno dello stabilimento Ilva. Nel sito vengono smaltiti i rifiuti industriali e le polveri prodotte dagli impianti ritenuti la fonte dell'inquinamento killer inquadrato con l’indagine per disastro ambientale. Florido e Conserva sono accusati di aver indotto, dal 2006 al 2011, dirigenti del settore ecologia e ambiente della Provincia di Taranto a rilasciare autorizzazioni per la discarica gestita dall'Ilva "in carenza dei requisiti tecnico-giuridici". Quella procedura autorizzativa sarebbe stata viziata da una serie di passaggi sospetti e di pressioni indebite tutte fotografate dall'attività condotte dalle Fiamme Gialle del comando provinciale. Nel mirino l'attività svolta dagli uffici della Provincia, compente al rilascio delle autorizzazioni ambientali. In quegli uffici la pratica relativa alla discarica sarebbe stata accompagnata da pressioni illecite che hanno portato alla emissione dei provvedimenti restrittivi. Anche in questo caso regista delle operazioni condotte sottotraccia dall'Ilva sarebbe stato Girolamo Archinà, l'ex potentissimo responsabile dei rapporti istituzionali dell'azienda, in carcere dallo scorso 26 novembre. Per questo all'ex dirigente è stato notificato in cella un nuovo provvedimento restrittivo. Ma a far rumore è soprattutto il coinvolgimento di Florido. Tarantino, sposato e con due figlie, con alle spalle una lunga militanza nella Cisl, di cui è stato anche segretario provinciale, è stato eletto per la prima volta nel 2004 e nel 2009 è stato confermato con oltre centomila preferenze. Nel 2007, all'indomani del dissesto finanziario del Comune di Taranto, si era anche candidato sindaco di Taranto con una coalizione di centrosinistra ma al ballottaggio era stato sconfitto dall'attuale sindaco Ezio Stefano. Negli ultimi mesi si era anche parlato di una possibile candidatura di Florido al Parlamento, tant'è che si ipotizzavano sue dimissioni anticipate dalla carica di presidente della Provincia anche in relazione al ventilato scioglimento delle stesse Province, cosa che poi non si è più verificata. E comunque la maggioranza di centrosinistra votò in aula, in Consiglio, un documento chiedendogli di restare alla guida dell'ente. Da vedere adesso che accade in Provincia perché all'indomani delle dimissioni del vice presidente Costanzo Carrieri, del Pd, eletto presidente del consorzio Asi, non sarebbe stata formalizzata la nomina di un nuovo vice presidente, mentre la delega all'Ambiente lasciata da Conserva è stata subito trasferita a Giampiero Mancarelli, del Pd, che è anche titolare del Bilancio. In questo capitolo dell'inchiesta condotta dal pool della Procura della Repubblica di Taranto, guidata da Franco Sebastio, non ci sarebbero altri indagati.
Pressioni e minacce di licenziamento ai dirigenti che non si dimostravano propensi a favorire l’Ilva, scrive Francesco Casula su “Il Fatto Quotidiano”. È il nuovo terremoto giudiziario che si è abbattuto su Taranto e ha travolto la politica locale. All’alba del 15 maggio 2013, infatti, la Guardia di finanza ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti del presidente della provincia Gianni Florido, dell’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva e dell’ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà, già detenuto dal 26 novembre scorso. Arresti domiciliari invece per l’ex direttore generale della provincia di Taranto e attualmente in servizio nella provincia di Lecce, Vincenzo Specchia. Le ipotesi di reato contestate dalla procura ionica nell’ambito dell’inchiesta “Ambiente svenduto” vanno dalla concussione per induzione alla tentata concussione per costrizione. I quattro, secondo le accuse, avrebbero esercitato direttamente o indirettamente, pressioni sui dirigenti dell’amministrazione provinciale perché si adeguassero ad “assumere un atteggiamento di generale favore nei confronti dell’Ilva”. Nell’ordinanza firmata dal gip Patrizia Todisco, gli investigatori documentano le pressioni nei confronti dell’ex dirigente del settore ecologia Luigi Romandini “colpevole” di aver negato le autorizzazioni in materia ambientale allo stabilimento e finito così al centro di “pressioni reiterate nel tempo accompagnate da minacce di licenziamento, dall’invito a presentare le dimissioni, da minacce di trasferimento ad altro incarico” e infine anche di “pretestuose riorganizzazioni dell’ufficio” che in realtà avevano come unico scopo quello di “influire sui poteri del dirigente”. L’obiettivo era di costringere Romandini a firmare “a vista” tutte le richieste formulate dall’azienda anche facendo a meno di “un esame approfondito delle pratiche”. In particolare il presidente Florido e l’ex assessore Conserva avrebbero caldeggiato la concessione dell’autorizzazione richiesta dall’Ilva per l’uso della discarica di rifiuti speciali nella “Cava Mater Gratiae”. Un via libera che avrebbe permesso all’azienda di smaltire i rifiuti prodotti nel ciclo di lavorazione ottenendo così un significativo vantaggio economico. Una discarica nella quale, come già mostrato da ilfattoquotidiano.it, l’azienda stoccava anche sacche contenenti amianto accanto a scorie di lavorazione ancora fumanti. Pressioni vane, però, perché Romandini non solo decise di non firmare quelle autorizzazioni, ma dopo il suo trasferimento in un altro ufficio dell’amministrazione denunciò tutto alle fiamme gialle guidate dal maggiore Giuseppe Dinoi. Una rimozione che Girolamo Archinà commentò pochi giorni dopo dicendo “abbiamo tolto una peste… e ne abbiamo tre di pesti” perché anche il successore di Romandini, il dirigente Ignazio Morrone, si mostrò altrettanto riottoso nei confronti della grande industria. Secondo quanto emerso dalle indagini, Gianni Florido (presidente della provincia al suo secondo mandato e presidente del Partito democratico di Taranto) si interessa personalmente alle vicende che riguardano l’Ilva. Parla al telefono direttamente anche con Fabio Riva, interviene su assessori e sull’operato dei dirigenti. “Circostanze – scrive il gip Todisco – che confermano il sollecito, premuroso, fattivo e perdurante interessamento del Florido in soccorso delle esigenze di natura economica della proprietà dell’Ilva”.
Ma non c’è solo la Provincia ad essere coinvolta. Il comune nella Bufera; indagato il Sindaco. Niente più dimissioni, scrive Domenico Palmiotti su “Il Sole 24ore”. Ezio Stefáno, sindaco di Taranto al suo secondo mandato e a capo di una maggioranza di centrosinistra, rimane al suo posto. «Non sarebbe responsabile dimettersi e lasciare ora, in un momento molto particolare per la città», ha dichiarato il 29 aprile 2013. Tutto si é consumato a cavallo dell'ultimo week end, annuncio delle dimissioni e loro rientro. Il sindaco, politicamente vicino al governatore della Puglia, Nichi Vendola, aveva infatti annunciato la sua intenzione di dimettersi venerdì scorso dopo aver appreso di essere stato iscritto dalla Procura di Taranto nel registro degli indagati per l'inchiesta sull'inquinamento dell'Ilva. Abuso di ufficio e omissioni di atti d'ufficio: ecco le due ipotesi di reato contestate al sindaco - ex senatore Pci-Ds, ex primario dell'ospedale di Taranto - sulla base di un esposto presentato ai pm dal consigliere comunale Pdl, Aldo Condemi, alle comunali di maggio 2012 sfidante del sindaco. Per Condemi, il sindaco non avrebbe fatto il suo dovere in materia di controlli ambientali sull'Ilva. Stefáno, invece, ha ricordato che l'inchiesta che ha portato al sequestro degli impianti del siderurgico, si sviluppa anche dietro un suo esposto alla Magistratura, di aver emesso delle ordinanze contro l'Ilva poi sospese dal Tar su ricorso dell'azienda, e infine di aver portato l'Ilva a pagare milioni di euro di Ici fatta evadere, negli anni scorsi, dalle amministrazioni comunali precedenti. «Sono tranquillo e ribadisco di essere a disposizione della Magistratura per ogni chiarimento in merito alla mia posizione», ha detto Stefáno. Il sindaco ha disertato la seduta del Consiglio comunale di Taranto benché delle sue annunciate dimissioni si sia molto parlato in aula. Lontano dal Municipio, Stefáno ha pensato sul da farsi mentre, in parallelo, partiva su di lui un fitto pressing degli alleati ma anche, pare, del governatore Vendola e del sindaco di Bari, Michele Emiliano. Che alla fine lo hanno convinto a desistere giocando su un elemento "forte": il blocco cui sarebbe andata incontro la città con un anno di commissariamento, il secondo nel giro di pochi anni. E stavolta le dimissioni del sindaco sarebbero coincise con un momento molto particolare per Taranto, che si trova a vivere la complessa gestione dell'Autorizzazione integrata ambientale per il risanamento dell'Ilva e l'avvio delle prime bonifiche nell'area esterna alla fabbrica. Si dovrebbe infatti partire a giugno dalle scuole del quartiere Tamburi con i progetti predisposti proprio dal Comune. A ciò si aggiunga l'utilizzazione di una serie di aree da poco lasciate libere dalla Marina Militare e la chiusura del dissesto finanziario dichiarato anni fa, risolvendo - dopo aver pagato debiti per centinaia di milioni sia pure con la transazione al 50 per cento - quello rimasto con la banca che accordò al Comune un prestito obbligazionario attraverso i Boc per 250 milioni di euro.
Lunedi 29 aprile Stefàno si dimette? Ma no, aspetta! Scrive “facias de culis” su “Agorà Magazine”. «Una domenica che spinge sull’acceleratore della crisi comunale, dopo che da sei mesi si sa che il Sindaco di Taranto è nel registro degli indagati, difatti, domenica 3 febbraio, avevo scritto: mi dimetto o non mi dimetto e se mi dimetto dove mi metto. Rinvio a quello per la cronaca. Cosa cambierebbe oggi? Nulla, i sei mesi sono trascorsi e la Procura fa sapere che occorrono altri sei mesi. Solo che ora l’esposizione mediatica è stata amplificata da una Ansa che ha girato tutte le redazioni ed ora leggo: lunedì le dimissioni in Consiglio Comunale. Anche se per la verità oggi, così si legge nella cronaca, il nome del Sindaco è riportato nero su bianco nella richiesta di proroga, con l’aggiunta del tema: abuso di ufficio e omissione di atti di ufficio (una denuncia esplicita che ha un mittente Aldo Condemi). Io credo che invece la strada sarà un altra, rimandare per indecisione o eludere il compimento di una determinata azione ricorrendo a pretesti o sotterfugi, che è la spiegazione del tergiversare, abile presupposto del mantenimento della poltrona, che è sinonimo di traccheggiare, ma che nella sua origine latina tergiversari, composto di tergum ossia tergo e versare ossia volgere, quindi voltare le spalle, si riporta a me. Eh si cari amici, bisognerebbe avere la mia faccia per mostrare il tergo cosi! Ma è quello che accadrà lunedì. Qual’è l’oggetto? L’oggetto è la città che si sente tradita. Ridotto in parole semplici: se si svende qualcosa, è perché la congiuntura vuole che si deprezzi il valore della stessa, perché si ha fretta di concludere; nel caso in cui sia l’ambiente a essere disprezzato come la si mette? Parola di facias de culis: la si mette come quello che per cambiare aria si butta dalla finestra.»
Taranto. Il sindaco è come il Re Nudo scrive ancora “facias de culis” su “Agorà Magazine”. «Cari amici, la storia delle dimissioni del sindaco erano una burla entrata nel circo mediatico, come ora la storia del “non mi dimetto”. Ma se scorrete i titoli dei giornali online, l’unico correttore di bozze che ha riportata la notizia come sarebbe andata, sono io. Ora mi va di pensare a questa storia del Re nudo tratto da una fiaba trovata, letta e riletta durante la mia scuola elementare. Per chi non la conosce è la storia di un Re noto per la sua arroganza; per l’iraconda gestione dello stato e dei suoi sudditi e per la sua totale sordità ad opinioni contrastanti. Trovate la similitudine? Uno che amministra con assessori a tempo determinato mostra con chiarezza che comanda con cipiglio e determinazione. Del resto a sentire chi lo conosce è proprio così. Come continua la favola? Atri personaggi della narrazione sono un sarto astuto e scaltro e la sincerità inopportuna di un bambino. La fiaba narra del Re che commissionò al sarto un vestito che in eleganza e preziosità non temesse rivali. Il sarto, consigliato da un sogno, finge di confezionare il vestito commissionato e alla prova generale, con un eloquio efficace convince il Re di stare indossando un vestito senza rivali come: eleganza, preziosità della stoffa, taglio e comodità. Tutto ciò lasciando indossare al Re solo l’aria che lo circonda. Nella corte, presente alla prima uscita del Re con il nuovo abito, nessuno ebbe il coraggio di svelare la truffa. Impauriti dalle conseguenze e dalla possibile ira del Re, la corte trasmise al popolo l’ipocrita bugia di un vestito degno di un dio, creando aspettative e curiosità nei sudditi. Alla Reale cavalcata verso il castello d’estate il Re indosso l’abito, contro il parere dei suoi consiglieri, lasciando esterrefatti i sudditi mentre cavalcava in costume adamitico. Anche in questo caso nessuno ebbe il coraggio di proferir parola, temendo la reazione indispettita del Re e tutto continuò come sempre finché un bambino di 5 anni, salito sulle spalle del padre per vedere meglio gridò "Il Re è Nudo!!!" avviando un’ondata di risa e lazzi tra il popolo tale da costringere il Re, ora rosso come un peperone e cosciente della propria stupidità, a battere in ritirata nel castello appena lasciato. Ora mettete al posto del sarto, l’astuto industriale siderurgico, che consiglia al Sindaco di credere che l’aria di Taranto sia pulita, e lo convince tanto che la corte, che vive accanto all’alcalde trasmette al popolo tale convinzione, e nessuno osa contraddirlo, fino a quando il popolo, che ha realizzato il più bel primo maggio tarantino gli grida, proprio con la inopportuna sincerità di un bambino,: “ Il Sindaco è nudo” . La fine è temporalmente slittata a data da destinarsi. Ma noi, da Padova, aspettiamo.»
Ed ancora la storia coinvolge anche la Regione. Vendola ed Ilva, rapporti ambigui. Il gip: “Costanti contatti tra Ilva e Vendola”, continua Casula. “Numerosi e costanti contatti di Girolamo Archinà, direttamente, e di Fabio Riva, indirettamente, con vari esponenti politici tra cui il governatore della Puglia Nichi Vendola“. Parola, anzi penna del gip di Taranto nell’ordinanza di custodia cautelare per i vertici dell’Ilva. Un documento in cui emergono rapporti quanto meno ambigui tra il presidente della Regione ed i vertici del siderurgico. Tutta da leggere una mail del 22 giugno 2010, che Archinà invia a Fabio Riva e con la quale lo informa di un incontro avuto a Bari con il governatore. Incontro che è successivo al documento dell’Arpa Puglia del giugno 2010, in cui si sottolineavano i livelli di inquinamento prodotti dall’azienda. Nella mail, Archinà “comunicava che il presidente Vendola si era fortemente adirato con i vertici dell’Arpa Puglia, cioè il direttore scientifico Blonda e il direttore generale Assennato, sostenendo che loro non devono assolutamente attaccare l’Ilva di Taranto e piuttosto si dovevano occupare di stanare Enel ed Eni che cercavano di aizzare la piazza contro l’Ilva”. Sempre secondo quanto scrive Archinà a Riva, inoltre, “Vendola aveva pubblicamente dichiarato che il "modello Ilva" doveva essere esportato in tutta la regione riferendosi, chiaramente, alla famosa "legge sulla diossina" la cui gestazione era stata evidentemente frutto della concertazione tra la Regione e l’Ilva che aveva sempre osteggiato il cosiddetto "campionamento in continuo", ottenendo, appunto, in tale legge che ciò non fosse imposto”. Altro “elemento di rilievo” scrive ancora il gip, è rappresentato dalla promessa “del presidente Vendola di occuparsi personalmente della questione Arpa al suo ritorno dalla Cina”. Un intendimento che “veniva mantenuto” tanto che Vendola “appena tornato… contattava personalmente l’Archinà rassicurandolo di non aver dimenticato la promessa fatta nella riunione precedente”. ”State tranquilli, non e’ che misono scordato!!… Il presidente non si è defilato” dice Vendola il 6 luglio 2010 al telefono con Archinà. Parole finite nell’ordinanza e che ora sono al vaglio della magistratura tarantina. In quella chiamata, scrive il gip, il leader di Sel “proseguiva nel discorso con Archinà dicendo che "col mio capo di gabinetto… Siamo rimasti molto colpiti… Siccome ho capito qual è la situazione… Volevo dire che… Mettiamo subito in agenda un incontro con l’ingegnere… State tranquilli, non è che mi sono scordato"”. Nel corso della conversazione, poi, Vendola ribadiva questa posizione “allorquando affermava chiaramente di non volere rinunciare a una realtà industriale qual è l’Ilva, invitando Archinà a comunicare a Riva che lui non si era defilato”. “Va bene, va bene – dice il governatore – noi dobbiamo fare… Ognuno fa la sua parte… E dobbiamo però sapere che… A prescindere da tutti il procedimento, le cose, le iniziative… L’Ilva è una realtà produttiva… cui non possiamo rinunciare… E, quindi… fermo restando tutto dobbiamo vederci… dobbiamo ridare garanzie… Volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che.. il presidente non si è defilato”. Ci sarebbe ”la regia” del governatore della Puglia, Nichi Vendola, nelle “pressioni” per “far fuori” il direttore generale dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato, autore della relazione sulle emissioni inquinanti prodotte dall’Ilva. Lo scrive il gip di Taranto Patrizia Todisco nell’ordinanza d’arresto per i vertici dell’azienda, in cui sono riportate anche alcune telefonate che proverebbero la tesi del giudice. Il 30 giugno 2010, ad esempio, vengono intercettati Archinà e il segretario provinciale della Cisl di Taranto Daniela Fumarola, nella quale l’ex funzionario dell’Ilva sostiene che “l’avvocato Manna (allora capo di gabinetto del presidente della Regione) e l’assessore Fratoianni fossero stati incaricati dal presidente Vendola di "frantumare Assennato"”. In un’altra telefonata, del 2 luglio del 2010, a parlare sono invece l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso e uno degli avvocati dell’Ilva. Quest’ultimo, annota la Guardia di finanza, “riferisce che Archinà ha avuto contatti con il capo di gabinetto di Vendola il quale ha riferito che sono contro Assennato e che cercheranno di farlo fuori”. “Il complesso delle intercettazioni relative alle pressioni sul professor Assennato – scrive il gip – è da ritenersi, oltre ogni ragionevole dubbio, assolutamente attendibile, così come è altrettanto evidente… che il tutto si era svolto sotto l’attenta regia del presidente Vendola e del suo capo di gabinetto avvocato Manna”.
C'è «la regia» di Nichi Vendola dietro le pressioni dell’Ilva sull'Arpa, si scrive anche su “La Gazzetta del Mezzogiorno” e c'è una Regione che «invece di imporre misure urgenti» all’azienda, per ridurre l'inquinamento, mette in atto una serie di escamotages «per non risultare inoperosa» di fronte all’opinione pubblica: è un’accusa pesantissima quella che il Gip di Taranto Patrizia Todisco rivolge al governatore pugliese, che non è indagato, e alla sua squadra di governo, chiamando in causa anche funzionari e assessori di quella Regione che ha fatto proprio della battaglia ambientale una bandiera. Nelle oltre 500 pagine dell’ordinanza con cui spedisce nuovamente agli arresti la famiglia Riva e i vertici dell’azienda, il giudice dedica infatti ampi passaggi a Vendola e a quel che accade nelle stanze della Regione. Riportando telefonate e mail e parlando di «numerosi e costanti contatti» tra l’ex grande capo delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà e rappresentanti della Regione, Vendola compreso. L’obiettivo dell’azienda è sempre lo stesso: cacciare il direttore generale dell’Arpa Giorgio Assennato, colpevole di aver prodotto una relazione nel giugno 2010 in cui si affermava la necessità di ridurre la produzione dello stabilimento di Taranto per ridurre le emissioni inquinanti. Il governatore però smentisce qualsiasi tipo di pressione. «Assennato può raccontare se ha mai subito o pressioni o tirate d’orecchie da parte mia. Le mie pressioni sono andate sempre nella direzione di essere inflessibili in termini di ambientalizzazione». E anzi, aggiunge Vendola, tutte le azioni fatte sono state «molto caute, per evitare quello che purtroppo stiamo per vedere nelle prossime ore». Nell’ordinanza il Gip scrive però che «è evidente che i ripetuti interventi della presidenza della Regione Puglia, in persona del presidente Vendola e del suo capo di Gabinetto avv. Manna, su sollecitazione dei vertici Ilva, avevano sortito gli effetti auspicati nei confronti del professor Assennato, che era sicuramente molto più accomodante ed accondiscendente verso la predetta azienda, anche nel timore che, alla scadenza, il proprio mandato potesse non essere rinnovato dal presidente Vendola». Il gip cita poi una mail inviata il 22 giugno del 2010 da Archinà a Fabio Riva, nella quale il primo informa il secondo di un incontro avuto a Bari con Vendola. Il governatore, scrive Archinà. «si era fortemente adirato con i vertici dell’Arpa Puglia», sostenendo che «non devono assolutamente attaccare l'Ilva». In quell'incontro, sostiene ancora Archinà, il governatore «aveva pubblicamente dichiarato che il "modello Ilva" doveva essere esportato in tutta la regione riferendosi, chiaramente, alla famosa "legge sulla diossina" la cui gestazione era stata evidentemente frutto della concertazione tra la Regione e l’Ilva che aveva sempre osteggiato il cosiddetto 'campionamento in continuò, ottenendo, appunto, in tale legge che ciò non fosse imposto». Ma c'è di più: dopo quella riunione Vendola parte per la Cina e, quando rientra, chiama Archinà: «state tranquilli - dice all’uomo dell’Ilva – non mi sono scordato, non mi sono defilato». Riferendosi, scrive il Gip, alla vicenda Assennato. «Col mio capo di gabinetto... Siamo rimasti molto colpiti... Siccome ho capito qual è la situazione... – dice Vendola - volevo dire che... Mettiamo subito in agenda un incontro con l'ingegnere... State tranquilli, non è che mi sono scordato.». E poi ancora: «Noi dobbiamo fare... Ognuno fa la sua parte... E dobbiamo però sapere che... A prescindere da tutti il procedimento, le cose, le iniziative... L’Ilva è una realtà produttiva... cui non possiamo rinunciare... E, quindi... fermo restando tutto dobbiamo vederci... dobbiamo ridare garanzie... Volevo dirglielo perchè poteva chiamare Riva e dirgli che.. il presidente non si è defilato». Non si è scordato a tal punto che il Gip parla di «regia» del governatore quando cita due telefonate – una tra il solito Archinà e una sindacalista e l’altra tra l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso e uno degli avvocati dell’Ilva – dalle quali emerge che, con il benestare di Vendola, bisogna «frantumare Assennato» e «farlo fuori». «Il complesso delle intercettazioni relative alle pressioni sul professor Assennato – scrive il gip – è da ritenersi, oltre ogni ragionevole dubbio, assolutamente attendibile, così come è altrettanto evidente... che il tutto si era svolto sotto l'attenta regia del presidente Vendola e del suo capo di gabinetto avvocato Manna». Dunque, conclude il giudice, «è di tutta evidenza che la Regione Puglia, invece di imporre misure urgenti atte a monitorare in continuo le emissioni dell’Ilva, di concerto con i suoi vertici cercava di ricorrere ad escamotages, quali l’attivazione di 'tavoli tecnicì, al fine di far guadagnare tempo all’industria nella realizzazione delle strutture di monitoraggio in continuo delle emissioni e, dall’altra parte, consentire alla stessa regione Puglia di non apparire inoperosa sul fronte ambientale agli occhi dell’opinione pubblica».
Inoltre si viene a sapere da Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno” che i lucani sono creditori dell’Ilva di Taranto di una somma che supera abbondantemente i tre milioni e mezzo di euro. Dal 2009 a oggi, nonostante un’aspra polemica, la più grande acciaieria d’Europa ha infatti «dimenticato » di versare alla Basilicata gli oneri ambientali collegati al consumo idrico dello stabilimento. Ma è ancora più incredibile che la Regione non abbia finora fatto nulla per recuperare quei soldi. L’Ilva di Taranto utilizza per i propri impianti circa 250 litri al secondo di acqua prelevati dall’invaso del Sinni. La «bolletta » vera e propria, che copre il costo industriale dell’acqua, viene incassata dall’ex Ente irrigazione e risulta regolarmente pagata. Ma l’accordo di programma tra Puglia e Basilicata prevede anche una componente ambientale, che ristora i lucani per il «disagio» e dovrebbe finanziare le opere di manutenzione e salvaguardia del territorio. Soldi che la Basilicata non incassa da anni, né - per quanto è stato possibile verificare - ha mai sollecitato: 707mila euro per il 2009, 594mila euro per il 2010, 703mila euro per il 2011. Dal 2012 la componente ambientale per l’uso industriale è stata incrementata di due volte e mezzo, a 20 centesimi al metro cubo: il totale dovuto dall’Ilva non è ancora stato determinato ufficialmente (dovrà farlo il Comitato di coordinamento dell’accordo di programma che dovrebbe riunirsi a giugno), ma si parla di circa 1,767 milioni. In totale fanno 3,7 milioni, dei quali 2 possono considerarsi già un credito certo. L’incremento degli oneri ambientali fu richiesto dall’ex assessore pugliese ai Lavori pubblici, Fabiano Amati, come arma per indurre l’Ilva a non usare più l’acqua potabile accettando quella ultra-affinata che dovrebbe essere prodotta dall’impianto del Gennarini. L’Ilva ha impugnato invano al Tar sia la delibera con le nuove tariffe, sia l’Aia che tra le prescrizioni conteneva proprio l’obbligo a utilizzare acqua affinata. Tuttavia il «depuratore» (il termine è improprio) di Gennarini- Bellavista non è ancora stato realizzato, nonostante la Protezione civile abbia da anni messo a disposizione i 14 milioni necessari e Aqp abbia da tempo effettuato l’aggiudicazione provvisoria della gara: per gestire l’impianto, infatti, l’Acquedotto chiede un contributo pari a circa 1 milione l’anno, soldi che la Regione Puglia aveva chiesto all’Ilva ottenendo un rifiuto.
E poi ci sono i sindacati. Non soltanto la politica. "In questi anni nella vicenda Ilva c'è stato un silenzio deflagrante da parte dei sindacati". A denunciarlo è il procuratore generale di Lecce, Giuseppe Vignola, in un convengo giuridico organizzato dall'università del Salento proprio sulla legge salva Ilva. Il resoconto è pubblicato anche su “La Repubblica”. "Il loro silenzio - ha detto - e quello della politica ha permesso ai Riva di non rispettare le regole. La magistratura ha fatto soltanto il proprio dovere applicando l'obbligatorietà dell'azione penale". La magistratura non è soltanto contro la politica. Dall'8 maggio 2013 nella vertenza Ilva entrano come imputati anche i sindacati. "Dov'era chi doveva denunciare? Dove sono stati in tutti questi anni i sindacati?" è la domanda deflagrante che ha posto il procuratore generale di Lecce, Giuseppe Vignola, in un convegno giuridico organizzato in Salento sulla legge "Salva Ilva". "Sull'Ilva - ha detto Vignola - si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale". Un silenzio che ha permesso, è il ragionamento di Vignola, all'azienda di fare il bello e il cattivo in questi anni sfruttando l'assenza di controlli politici ma anche di denunce sindacali. Un tema - quello della complicità sindacale - lanciato da Vignola ma che rischia di diventare preminente dopo anni di silenzi e non detti: da tempo le sigle autonome lamentano la presenza di troppi sindacalizzati tra i capi turno e fece scalpore in uno degli ultimi scioperi, dopo il sequestro della magistratura, che a mandare panini e bibite al picchetto era proprio l'azienda. "I sindacati non hanno fatto quello che era lecito attendersi - ha detto Vignola - Ma lo stesso si può dire anche della politica. Gli unici che hanno rispettato il compito sono proprio i magistrati che hanno l'obbligo dell'azione penale: di fronte al disastro in corso non potevano fare diversamente. Ma oggi non si può chiedere loro la soluzione della vicenda. Quella tocca alla politica". Al convegno ha partecipato anche l'assessore regionale all' Ambiente, Lorenzo Nicastro, a cui è toccato difendere le piccole conquiste di via Capruzzi: "Governare la Puglia non è facile - ha detto - e come nel caso Ilva spesso ci possiamo muoversi solo in spazi legislativi interstiziali". Anche dalle sue parole emerge una responsabilità chiara del Governo, "mai così produttivo nei mesi di agosto come quando ha dovuto fare legiferare in favore dell'Ilva", e addirittura si adombra una volontà persecutoria - manifestata durante alcune riunioni a Palazzo Chigi - "nei confronti dei magistrati di Taranto" che hanno scoperchiato il vaso. I magistrati, dal canto loro, continuano a fare quadrato. Il presidente della Corte d' appello di Lecce Mario Buffa lancia l'allarme sulla possibilità che "grazie ad una legge di dubbia costituzionalità tutto resti come prima".
Non ci stanno, i sindacati. Le parole del procuratore generale Vignola lasciano il segno ed aprono uno scontro senza precedenti tra la magistratura, nella persona del pg di Lecce che ha preso parte ad un convegno sul caso Ilva, ed i rappresentanti dei lavoratori, nella fattispecie i metalmeccanici Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm. “Sull’Ilva si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale (...) il sindacato ha mantenuto il silenzio nonostante la gravità di una situazione visibile a tutti”. Parole come pietre, quelle del magistrato. “Un attacco pesante di cui non si sentiva la necessità” è quanto dichiarato su “Taranto Sera” da Antonio Talò, leader della Uilm ionica, il sindacato più rappresentativo nel Siderurgico al centro della bufera giudiziaria ormai da mesi. “Abbiamo sempre denunciato quello che potevamo e dovevamo, certo i controlli sul benzo(a)pirene non spettavano a noi, che non siamo mai stati nè silenti nè conniventi. Se volessi fare polemica, chiederei a Vignola dove è stato, sino al 2012” è la chiosa del capo tarantino dei metalmeccanici della Uil. “Non devo difendermi da nulla” dichiara invece Donato Stefanelli, segretario provinciale della Fiom, “perchè noi parliamo con i fatti e con la costituzione come parte civile nei processi contro la proprietà”. “A testimoniare il nostro impegno ci sono carte, documenti, denunce, interventi proposte in merito alle questioni dell’ambientalizzazione e della sicurezza” è invece la replica di Mimmo Panarelli della Fim Cisl. “Questa fabbrica è migliorata, e questo è accaduto anche grazie al lavoro dei sindacati. Che sono stati sempre vigili”.
"Peccato che le esternazioni del procuratore generale di Lecce, dott. Giuseppe Vignola, arrivino solo adesso, con notevole ritardo. Peccato perché avrebbero potuto contribuire a rompere un lungo periodo di fragoroso silenzio che certo non appartiene al sindacato, che ha, al contrario, spesso espresso le proprie ragioni senza trovare nessun interlocutore, agendo da solo perché isolato da chi, invece, aveva le competenze, mai messe in pratica, per intervenire con decisione ed efficacia sulla questione Ilva”. Aldo Pugliese, Segretario Generale della UIL di Puglia, si chiede con una nota pubblicata su “Il Quotidiano Italiano” “dove fossero, dal 1960 ad oggi e dal 1995 in poi, ovvero da quando l’Ilva è divenuta un’azienda privata a tutti gli effetti, lo Stato, i Governi che nel frattempo si sono succeduti e i vari ministri all’ambiente? Dov’era e cosa ha fatto la Regione Puglia? Dov’erano e cosa hanno fatto le istituzioni locali, a cominciare dalla Provincia di Taranto e dal Comune? E ci fermiamo qui in quella che sarebbe una lunghissima elencazione di istituzioni competenti e di coloro i quali avrebbero comunque dovuto attivarsi contro un disastro ambientale di dimensioni impressionanti e a favore della tutela della salute dei cittadini e dei lavoratori ionici e pugliesi e invece hanno agito poco e male”. “Additare il sindacato – chiosa Pugliese – significa conoscere ben poco la storia dell’Ilva e le conseguenze di una scellerata gestione del siderurgico che il sindacato ha invece denunciato sempre con fermezza e puntualità, pagando tuttavia lo scotto di un ingiusto isolamento che ha penalizzato ogni iniziativa mirata a proteggere l’ambiente e i diritti calpestati, senza troppe remore, dei cittadini e dei lavoratori. Piuttosto che dar vita a processi in contumacia, invitiamo quindi il dott. Vignola, sempre e quando lo ritenga opportuno, a promuovere un confronto schietto con le parti in causa, quantomeno per offrire agli "accusati" la possibilità di difesa e di replica”.
Intanto il 14 maggio 2013 la battaglia giudiziaria sulle merci dell'Ilva è finita, scrive Domenico Palmiotti su “Il Sole 24ore”. Con un provvedimento firmato oggi dal gip Patrizia Todisco e che domani la Guardia di Finanza notificherà all'azienda e ai custodi giudiziari, un milione e 700mila tonnellate di semilavorati e prodotti finiti tornano nella disponibilità dell'Ilva alla quale erano stati sottratti lo scorso 26 novembre, quando la seconda pesante ondata dell'inchiesta "Ambiente svenduto" provocò arresti e, appunto, il sequestro delle merci. L'accusa dei giudici fu: l'Ilva ha prodotto le merci con acciaio che non avrebbe potuto produrre perché aveva gli impianti dell'area a caldo - dagli altiforni alle acciaierie - sotto sequestro senza facoltà d'uso. I sigilli scattarono il 26 luglio. Nell'area produttiva, infatti, i sigilli erano scattati il 26 luglio con la prima fase dell'inchiesta giudiziaria. Dopo pochi giorni dal sequestro di semilavorati e prodotti finiti, il Governo corse però ai ripari e varò un decreto legge che inizialmente autorizzava solo l'Ilva a continuare la produzione e in seguito previde anche la possibilità che l'azienda potesse commercializzare quanto realizzato prima del decreto stesso. Il decreto, numero 171 del 4 dicembre 2012, è stato poi convertito nella legge 231 del 24 dicembre 2012, legge approvata a grande maggioranza dal Parlamento e che ha appunto confermato la doppia impostazione: via libera alla produzione e alla commercializzazione. Le istanze dell'azienda respinte dai giudici, Approvata la legge, l'Ilva ha subito cercato di riottenere la disponibilità delle merci ma qui è cominciato uno scontro durato cinque mesi e che ha visto tutte le istanze dell'azienda respinte dai giudici. Dai pm al gip, dal Tribunale del Riesame a quello dell'Appello, ogni qualvolta l'Ilva ha chiesto di "liberare" semilavorati e prodotti ha collezionato solo no. Anzi, ad un certo punto si era anche profilata la possibilità che le merci venissero sì sbloccate, ma vendute dai custodi giudiziari su mandato della Procura e il loro ricavato sottratto all'Ilva e destinato invece in un fondo vincolato a valere sull'eventuale confisca. Il gip Todisco aveva già dato mandato ai custodi di lavorare in tal senso ma un ricorso dell'Ilva, stavolta accolto dal Tribunale dell'Appello, ha stoppato l'operazione. Il senso dell'opposizione dell'Ilva era: non possono i custodi vendere le merci quando la Corte Costituzionale sta per pronunciarsi sulla legge e sulle eccezioni di incostituzionalità sollevate proprio dai giudici di Taranto. Dall'Ilva nuova richiesta di dissequestro. Si arriva così al 9 aprile, quando la Corte Costituzionale respinge, perché in parte infondate e in parte inammissibili, le eccezioni contro la legge 231 avanzate dai giudici e dice che la 231 è costituzionale. L'Ilva torna quindi alla carica e richiede il dissequestro delle merci: nulla da fare, però, anche in quest'occasione. E per più volte. Nessun dissequestro sin quando le motivazioni della Consulta sulla costituzionalità della legge non saranno state rese note, dicono i magistrati. Le motivazioni arrivano il 9 maggio. Il resto è cronaca delle ultime ore, con la nuova istanza dell'Ilva avanzata ieri in Procura e il verdetto favorevole del gip di oggi. Il valore delle merci dissequestrate è compreso fra gli 800 milioni di euro e un miliardo di lire. Soldi che vanno nelle casse dell'Ilva che dovrebbe impiegarli per finanziare parte dei lavori di risanamento ambientale prescritti dall'Aia. Lavori imponenti, onerosi, il cui fine è quello di abbattere l'inquinamento dell'area a caldo, proprio quella sequestrata a luglio e che resta tutt'ora sequestrata anche se l'Ilva può utilizzare gli impianti. Il costo di questi interventi è stato per ora stimato dall'azienda in 2 miliardi e 250 milioni di euro. Lo sblocco delle merci avrà riflessi anche sull'occupazione. Ma lo sblocco delle merci dovrebbe avere un riflesso anche occupazionale con la piena ripresa del lavoro nell'area a freddo, i cui impianti erano stati quasi tutti fermati dopo il sequestro di novembre e che hanno ripreso a funzionare in parte da qualche mese. Fra gli impianti che riprenderanno a marciare c'è il Treno nastri 1 (230 gli addetti) visto che occorrerà rilavorare le bramme sino ad oggi sotto sequestro.
TARANTO. CASO ILVA. TUTTI DENTRO. FLORIDO E GLI ALTRI.
L’ARRESTO DI GIANNI FLORIDO NON E’ MICA UNA RIPICCA? SE NON LO E’, PERCHE’ ORA?
La magistratura tarantina, in testa Patrizia Todisco, arresta il presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido (PD), ed il suo assessore all’ambiente, Michele Conserva. La stessa magistratura si limita ad indagare il Sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno. Nulla per Niki Vendola nonostante, a loro dire, vi siano “Costanti contatti tra Ilva e Vendola”. Silenzio su Stampa e tv locali, così come sui sindacati ed oltremodo sui magistrati che per 50 anni hanno omesso ogni intervento atto ad impedire tutto ciò di cui oggi su Taranto si parla a livello mediatico e giudiziario. Florido e Conserva sono accusati di aver indotto, dal 2006 al 2011, dirigenti del settore ecologia e ambiente della Provincia di Taranto a rilasciare autorizzazioni per la discarica gestita dall'Ilva «in carenza dei requisiti tecnico-giuridici».
Il Dr. Antonio Giangrande, scrittore e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, aborra l’uso spregiudicato delle manette. Tintinnio di manette che distrugge l’esistenza degli individui e dei loro incolpevoli familiari. E proprio perché la vita di Florido e Conserva ormai è distrutta, così come per tutti gli altri malcapitati, esprime il suo pensiero nel pieno diritto di critica pur nel rispetto della magistratura e senza alcun intento diffamatorio nei confronti dell’ufficio della procura e del giudice per le indagini preliminari. Lo manifesta in un contesto ambientale ed ideologico dove nessuno ha il coraggio di farlo, attraverso l’utilizzo di domande in apparenza retoriche, ma fondamentalmente legittime.
«L’arresto del Presidente della Provincia di Taranto, il dr. Gianni Florido, sembrerebbe avere tutta l’aria di una ripicca. Se non lo è come si spiega lo strano tempismo adottato. Va da se che la fondatezza delle accuse vanno vagliate in dibattimento, ma era necessaria la carcerazione preventiva di un presunto innocente, con il paradosso che in carcere troverà Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Entrambe detenute con tutti i dubbi del caso? E poi perché ora una misura cautelare in carcere solo per Gianni Florido e non per Stefàno o per Vendola per il quale non vi è nemmeno un procedimento aperto? Dall'ordinanza emerge che le fiamme gialle, in un'informativa riportata da “Il Giornale”, ipotizzano un episodio di concussione anche per Nichi Vendola. E perchè le manette non sono scattate anche per Filippo Penati per la presunta mazzetta da 2 milioni di euro dal costruttore Pasini per l'ex area Falk di Sesto San Giovanni (di cui Penati è stato sindaco) e dall'imprenditore Pino di Caterina per l'affare Milano-Serravalle?
Qualcuno mi chiederà di quale tempismo io parli in riferimento all’arresto di Florido effettuato il 15 maggio. Quale tempismo?!?
Il tempismo che il 14 maggio 2013 la battaglia giudiziaria sulle merci dell'Ilva è finita e da qui la cronologia è presto spiegata!
26 luglio 2012. I sigilli scattano nell'area produttiva.
26 novembre. Il sequestro delle merci prodotte.
24 dicembre 2012. Il decreto, numero 171 del 4 dicembre 2012, è stato convertito nella legge 231. Legge approvata a grande maggioranza dal Parlamento e che ha appunto confermato la doppia impostazione: via libera alla produzione e alla commercializzazione.
Approvata la legge, l'Ilva ha subito cercato di riottenere la disponibilità delle merci ma qui è cominciato uno scontro durato cinque mesi e che ha visto tutte le istanze dell'azienda respinte dai giudici. Dai pm al gip, dal Tribunale del Riesame a quello dell'Appello, ogni qualvolta che l'Ilva ha chiesto di "liberare" semilavorati e prodotti ha collezionato solo no. Accanimento giudiziario tanto da indurre il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante a denunciare in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico. Il presidente del siderurgico ha chiesto ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda e di conseguenza minato i diritti dei lavoratori.
Si arriva così al 9 aprile 2013, quando la Corte Costituzionale respinge, perché in parte infondate e in parte inammissibili, le eccezioni contro la legge 231 avanzate dai giudici e dice che la 231 è costituzionale. L'Ilva torna quindi alla carica e richiede il dissequestro delle merci: nulla da fare. E per più volte. Nessun dissequestro sin quando le motivazioni della Consulta sulla costituzionalità della legge non saranno state rese note, dicono i magistrati di Taranto. Le motivazioni arrivano il 9 maggio.
14 maggio 2013 il verdetto favorevole del gip. Il valore delle merci dissequestrate è compreso fra gli 800 milioni di euro e un miliardo di lire.
15 maggio 2013 arresto di Gianni Florido.
Perché l’arresto di Florido, ove non sussistesse la condizione necessaria della reiterazione del reato e/o dell’inquinamento delle prove e/o del pericolo di fuga? Perché?!? Perché i magistrati devono avere sempre e comunque l’ultima parola e se ignominia deve essere, ignominia sia per il malcapitato di turno.
I magistrati, tutti, fanno quadrato. A tirarla per le lunghe è inevitabile riportare quanto scritto sui giornali: Il presidente della Corte d' appello di Lecce Mario Buffa lancia l'allarme sulla possibilità che "grazie ad una legge di dubbia costituzionalità tutto resti come prima". Ed ancora “Sull’Ilva si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale (...) il sindacato ha mantenuto il silenzio nonostante la gravità di una situazione visibile a tutti”. Parole come pietre, le parole del procuratore generale Vignola. In effetti, in base ad un accordo stilato nel 1996 tra Fim, Fiom, Uilm e l’Ilva stessa, sono stati versati 438 mila euro annue alle segreterie dei 3 sindacati. Il tutto giustificato da una fondazione in cambio di una colonia per i figli dei dipendenti, borse di studio e contributi scolastici, oltre ad attività sportive e ricreative. “Un attacco pesante di cui non si sentiva la necessità” è quanto dichiarato da Antonio Talò, leader della Uilm ionica, il sindacato più rappresentativo nel Siderurgico al centro della bufera giudiziaria ormai da mesi. “Abbiamo sempre denunciato quello che potevamo e dovevamo, certo i controlli sul benzo(a)pirene non spettavano a noi, che non siamo mai stati nè silenti nè conniventi. Se volessi fare polemica, chiederei a Vignola dove è stato, sino al 2012” è la chiosa del capo tarantino dei metalmeccanici della Uil. La chiosa vale anche per tutti i magistrati di Taranto?
A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.
Stante, appunto, la situazione ambientale, non pare che sia necessario ed urgente che le difese si attivino a chiedere la rimessione dei processi anche sul caso Ilva per legittimo sospetto che non vi sia serenità di giudizio, specie con la contrapposizione di piazza tra le rispettive parti, anche politiche? Sempre che gli avvocati in causa abbiano il coraggio di Franco Coppi, che ai magistrati tarantini ha prima presentato l’istanza di rimessione e poi alla Cesarina Trunfio ed alla Fulvia Misserini (giudici togati del caso Scazzi) ha paventato l’ipotesi di una ricusazione: perché parafrasando Don Abbondio “se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”.»
Anzi, gli sviluppi successivi sono clamorosi.
Esigenze cautelari attenuate. Il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, accogliendo l’istanza presentata dagli avvocati Carlo e Claudio Petrone e sulla scorta del parere positivo espresso dalla Procura, ha concesso il 22 maggio 2013 gli arresti domiciliari al presidente della Provincia Gianni Florido, arrestato mercoledì 15 maggio dai finanzieri del Gruppo di Taranto nell’ambito dell’inchiesta denominata «Ambiente svenduto». La Procura aveva espresso parere favorevole alla concessione degli arresti domiciliari all’esponente del Pd, scrivendo che «alla luce di una valutazione complessiva delle dichiarazioni rese dall’indagato Florido in sede di interrogatorio di garanzia e tenuto conto del fatto che il predetto ha presentato le sue irrevocabili dimissioni dalla carica rivestita, è possibile ritenere che le esigenze cautelari nei suoi confronti si siano attenuate». Il gip Todisco nella sua decisione sostiene che «pur persistendo concrete ed attuali esigenze di cautela» riguardo sia alla reiterazione dei reati che all’inquinamento delle prove, «solo parzialmente e momentaneamente scongiurate dalle dimissioni, asseritamente irrevocabili, rassegnate da Florido all’indomani della sua carcerazione dalla carica di presidente della Provincia di Taranto», le stesse esigenze «anche in considerazione dell’avvenuto interrogatorio di tutti i coindagati del Florido, possono essere adeguatamente soddisfatte con la sottoposizione del medesimo indagato alla meno afflittiva misura degli arresti domiciliari, e con l’imposizione del divieto assoluto di comunicare telefonicamente, telematicamente o in qualsiasi altro modo, con persone diverse da quelle che con lui convivono».
Il dott. Franco Sebastio Procuratore capo della Repubblica di Taranto mi ricorda Filonide che piscia sulla toga dei romani. Il potere romano gli ha detto che lui non può sequestrare i beni prodotti dalla fabbrica perchè la fabbrica è strategica in quanto l'occupazione di 20.000 persone è sacra e dunque l'occupazione è espressione di un altro diritto costituzionale? Bene, allora lui sfida di nuovo il potere romano (come fece Filonide) sequestrando tutti i beni della famiglia Riva.
ILVA. SEQUESTRO RECORD. AI MAGISTRATI SEMPRE L’ULTIMA PAROLA CON IL PARADOSSO DI FAVORIRE I RIVA.
Ilva, sequestro record da 8,1 miliardi ai Riva, ma per il procuratore: "La fabbrica non si tocca". Sequestro da oltre otto miliardi di euro su beni riconducibili alla famiglia Riva e in particolare alla società Riva Fire spa. Il provvedimento di sequestro per equivalente è stato disposto dal gip Patrizia Todisco su richiesta del pool guidato dal procuratore capo Franco Sebastio, titolare dell'inchiesta per disastro ambientale in cui è indagato anche il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante. La procura ha ottenuto il sequestro. In pratica i consulenti dei pubblici ministeri hanno quantificato la somma che Ilva avrebbe dovuto investire negli anni per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica. Gli investimenti non eseguiti, secondo i magistrati tarantini, si sono tradotti in un guadagno per la proprietà ritenuto però fonte di reato. Di qui i sigilli per un valore di otto miliardi e centomila euro.
«Il sequestro - ha spiegato il procuratore Sebastio a “La Repubblica” - riguarda solo i beni della società Riva Fire. Abbiamo tenuto conto della legge 231 (legge salva Ilva), e dunque il sequestro non colpisce i beni dell'Ilva. E questo provvedimento non intacca la produzione dello stabilimento. La ratio del sequestro è quella di bloccare le somme sottratte agli investimenti per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica. La produzione non si tocca - ha sottolineato Sebastio - Si tratta di un sequestro preventivo per equivalente sulla base della legge 231 del 2001 sulla responsabilità giuridica delle imprese che dal 2011 contempla anche i reati ambientali. Ma in ogni caso - ha voluto specificare il procuratore - non potranno essere sequestrati beni funzionali all'attività e alla produzione della fabbrica.»
Molti hanno esultato a questo escamotage giuridico, ma evidentemente costoro sono a digiuno di prassi giudiziaria. Il sequestro preventivo non è una confisca,che interviene al termine del naturale decorso giudiziario con esito positivo per le toghe, ma una semplice forma di garanzia a futuro adempimento di obbligazione. Ciò significa che il sequestro di quei beni comporterà che fino alla sentenza definitiva quei soldi non li può toccare più nessuno perchè posti proprio a garanzia del risanamento. La lungaggine dei processi in Italia insegna che la sentenza definitiva dopo primo grado, appello, Cassazione arriverà fra non meno di cinque o sei anni. Nel frattempo la famiglia Riva non potrà risanare, proprio perchè spogliato di tutte le sue risorse. Va da se che per logica, a questo punto, non saranno applicabili le sanzioni previste dalla legge n. 231/2012 in caso di inadempienze nel risanamento dopo i tre anni. Quindi non ci potrà essere la nazionalizzazione dell'azienda, perchè è proprio lo Stato ad aver posto Riva nelle condizioni di non potere adempiere. Insomma i Magistrati hanno dato a Riva l'alibi per non adempiere al risanamento.
Il Dr. Antonio Giangrande, scrittore (su Taranto ha scritto un libro) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, esprime il suo pensiero nel pieno diritto di critica pur nel rispetto della magistratura e senza alcun intento diffamatorio nei confronti dell’ufficio della procura e del giudice per le indagini preliminari. Lo manifesta in un contesto ambientale ed ideologico dove nessuno ha il coraggio di farlo, attraverso l’utilizzo di domande in apparenza retoriche, ma fondamentalmente legittime.
«E’ chiaro a tutti che se prima “alla stampa locale dovevasi tagliare la lingua”, riuscendovici, oggi la stessa stampa continua a tacere anche su questioni fondamentali di diritto. Non è lo stare contro o a favore dei magistrati il punto del contendere, ma se si sta nell’alveo della legge o meno. Giusto affinchè da fuori non si dica: ma a Taranto nessuno conosce la legge?
Dall’arresto del Presidente della Provincia di Taranto, il dr. Gianni Florido, al sequestro dei beni della famigli Riva il tutto sembrerebbe avere l’aria di una ripicca. Se non lo è come si spiega lo strano tempismo adottato. Qualcuno mi chiederà di quale tempismo io parli. Quale tempismo?!?
Il tempismo che il 14 maggio 2013 la battaglia giudiziaria sulle merci dell'Ilva è finita e da qui si è aperto un varco inatteso con atti tardivi rispetto alle esigenze cautelari con conseguenze imprevedibili.
Qualcuno mi dirà: di quale cronologia si parla? La cronologia di cui si parla è presto spiegata!
Per 50 anni si è permesso all’Italsider, poi Ilva, di inquinare a piacimento, poi un bel giorno ci si è scoperti, tutto ad un tratto, ambientalisti radicali.
26 luglio 2012. I sigilli scattano nell'area produttiva.
26 novembre 2012. Il sequestro delle merci prodotte.
24 dicembre 2012. Il decreto, numero 171 del 4 dicembre 2012, è stato convertito nella legge 231. Legge approvata a grande maggioranza dal Parlamento e che ha appunto confermato la doppia impostazione: via libera alla produzione e alla commercializzazione.
Approvata la legge, l'Ilva ha subito cercato di riottenere la disponibilità delle merci ma qui è cominciato uno scontro durato cinque mesi e che ha visto tutte le istanze dell'azienda respinte dai giudici. Dai pm al gip, dal Tribunale del Riesame a quello dell'Appello, ogni qualvolta che l'Ilva ha chiesto di "liberare" semilavorati e prodotti ha collezionato solo no. Accanimento giudiziario tanto da indurre il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante a denunciare in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico. Il presidente del siderurgico ha chiesto ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda e di conseguenza minato i diritti dei lavoratori.
Si arriva così al 9 aprile 2013, quando la Corte Costituzionale respinge, perché in parte infondate e in parte inammissibili, le eccezioni contro la legge 231 avanzate dai giudici e dice che la 231 è costituzionale. L'Ilva torna quindi alla carica e richiede il dissequestro delle merci: nulla da fare. E per più volte. Nessun dissequestro sin quando le motivazioni della Consulta sulla costituzionalità della legge non saranno state rese note, dicono i magistrati di Taranto. Le motivazioni arrivano il 9 maggio 2013.
14 maggio 2013 il verdetto favorevole del gip. Il valore delle merci dissequestrate è compreso fra gli 800 milioni di euro e un miliardo di lire.
15 maggio 2013 arresto di Gianni Florido.
24 maggio 2013 sequestro del GIP Patrizia Todisco di 8,1 miliardi di euro alla società Riva Fire spa.
Arresto e sequestro che potevano essere adottati molto tempo prima. E da qui l’infondatezza della necessità ed urgenza dell’adozione di quei provvedimenti.
Cioè in sostanza le conseguenze sono che i Riva vengono privati di ogni disponibilità finanziaria e quindi non potranno più ottemperare ai dettami della legge n. 231/2012 con due possibili esiti nefasti:
nazionalizzazione dell’azienda e confisca dei beni sequestrati (8,1 miliardi di euro), in parole povere espropriazione proletaria per buona pace dei sinistri;
risanamento dell’ambiente a carico dello Stato, liberando i Riva dall’onere economico e restituzione a questi dei beni sequestrati (in caso di buon esito del procedimento penale o dell’esito del ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo), per buona pace dei destri.
Comunque sia la Corte Europea dei diritti Umani ne ha da lavorare sulle nefandezze italiane.
Appare chiaro che in un quadro ambientale normale è necessitata l’avocazione delle indagini da parte della Procura generale per due ordini di motivi: per quanto attiene l’ufficio del Pubblico Ministero non è stata esercitata la facoltà di astensione per gravi motivi di convenienza; così come il giudice Patrizia Todisco va sostituito con altro Magistrato dell'Ufficio del GIP in quanto esso, a norma dell’art. 36 c.p.p., ha l'obbligo di astenersi e non si è astenuto a seguito di inimicizia grave instauratasi fra lei e una delle parti private, per la denuncia penale e l’esposto in via disciplinare subito.
Ma i magistrati, tutti, fanno quadrato. A tirarla per le lunghe è inevitabile riportare quanto scritto sui giornali: Il presidente della Corte d' appello di Lecce Mario Buffa lancia l'allarme sulla possibilità che "grazie ad una legge di dubbia costituzionalità tutto resti come prima". Ed ancora “Sull’Ilva si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale (...) il sindacato ha mantenuto il silenzio nonostante la gravità di una situazione visibile a tutti”. Parole come pietre, le parole del procuratore generale Vignola. In effetti, in base ad un accordo stilato nel 1996 tra Fim, Fiom, Uilm e l’Ilva stessa, sono stati versati 438 mila euro annue alle segreterie dei 3 sindacati. Il tutto giustificato da una fondazione in cambio di una colonia per i figli dei dipendenti, borse di studio e contributi scolastici, oltre ad attività sportive e ricreative. “Un attacco pesante di cui non si sentiva la necessità” è quanto dichiarato da Antonio Talò, leader della Uilm ionica, il sindacato più rappresentativo nel Siderurgico al centro della bufera giudiziaria ormai da mesi. “Abbiamo sempre denunciato quello che potevamo e dovevamo, certo i controlli sul benzo(a)pirene non spettavano a noi, che non siamo mai stati nè silenti nè conniventi. Se volessi fare polemica, chiederei a Vignola dove è stato, sino al 2012” è la chiosa del capo tarantino dei metalmeccanici della Uil. La chiosa vale anche per tutti i magistrati di Taranto?
A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.
Il caso Scazzi ed il caso Ilva: stessa solfa.
Stante, appunto, la situazione ambientale, non pare che sia necessario ed urgente che le difese si attivino a chiedere la rimessione dei processi anche sul caso Ilva per legittimo sospetto che non vi sia serenità di giudizio, specie con la contrapposizione di piazza tra le rispettive parti, anche politiche? Sempre che gli avvocati in causa abbiano il coraggio di Franco Coppi, che ai magistrati tarantini ha prima presentato l’istanza di rimessione e poi alla Cesarina Trunfio ed alla Fulvia Misserini (giudici togati del caso Scazzi) ha paventato l’ipotesi di una ricusazione: perché parafrasando Don Abbondio “se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”. Qualcuno mi dirà: Tu cosa proponi? C’è un principio generale: chi inquina paga. Quel principio non dice: chi inquina perseguitalo e fai chiudere la fabbrica e manda i lavoratori a casa. In questo modo si dà la stura ad ogni iniziativa avversa di tutela. Impedire la vendita dei prodotti e sequestrare i beni non è la soluzione. Vendere i prodotti e investirne i proventi fino alla totale sanificazione ambientale sarebbe una espropriazione velata, ma inattaccabile dal punto di vista legale, in quanto la gestione dell’attività economica (produzione e risanamento) rientra tra le prerogative dei consulenti giudiziari nell’ambito della gestione aziendale. Ed ove non fosse così, comunque c’è sempre l'art. 388 c.p. rubricato "Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice", che va bene per tutte le stagioni.»
A Taranto, comunque, si è stati sempre un po’ naif.
TARANTO E I SUOI PREDONI NEL DESERTO DELLE CIMINIERE. Così scriveva Giovanni Valentini su “La Repubblica” nel lontano 19 novembre 1991. Anche se ha cambiato nome, la "cattedrale" è sempre lì, in mezzo al "deserto", con la sua selva di ciminiere fumanti. Ma a distanza di trent' anni il "deserto" è diventato, se possibile, ancora più arido e desolato. E quel che è peggio, adesso è infestato da bande di predoni, alcuni travestiti da giustizieri o addirittura nei panni di Robin Hood. Nell' emergenza criminalità che ormai ha contagiato la Puglia, quello di Taranto rappresenta il caso più critico, in un calderone esplosivo dove ribollono ingredienti politici, economici e sociali, con il condimento di una delinquenza disperata. All'inizio degli anni Sessanta, questa doveva essere la città-pilota dei grandi insediamenti pubblici, il polo dell'industrializzazione meridionale, il laboratorio in cui trasformare i "cafoni" da contadini in operai. E invece, all'inizio degli anni Novanta, a dispetto di un paesaggio naturale che conserva la suggestione del grande porto commerciale e militare aperto sul Mediterraneo, Taranto appare come la vetrina dei mali d'Italia: malavita organizzata, crisi economica, disoccupazione, degrado civile e culturale. La "cattedrale" dell'Italsider, ribattezzata due anni fa Ilva dall'antico nome dell'isola d'Elba in omaggio alla tradizione della nostra siderurgia, non solo è rimasta nel "deserto" delle attività e delle iniziative locali, ma anzi ha contribuito paradossalmente ad allargarlo in una storia di occasioni fallite, speranze mancate, illusioni cadute. Dal 1988, per effetto di una crisi mondiale, i dipendenti sono scesi da 15.700 ai 12.000 previsti a dicembre prossimo, con conseguenze ancor più pesanti sull'indotto che ruota sulla fornitura di tubi e laminati piani. Eppure, con una superficie complessiva di 11 milioni di metri quadri ai quali ne vanno aggiunti altri quattro di aree esterne, vale a dire almeno tre volte l'intera città, questo è tuttora il più grande stabilimento siderurgico d'Europa e resta il nodo strategico del settore a livello nazionale, dove si concentra il 70-80 per cento della produzione italiana. Tutt'intorno la città langue. Su circa 250 mila abitanti, si stima che i disoccupati siano oltre un quarto: 70-80 mila nell' intera provincia. Le cifre ufficiali, contenute nell'ultimo rapporto congiunturale della Camera di Commercio, dicono che a fine maggio gli iscritti alle liste di collocamento risultavano 52.088, con una diminuzione del 10,4 per cento rispetto a febbraio e del 5,3 rispetto a un anno fa. Ma, a parte il massiccio ricorso alla cassa integrazione per un monte-ore che equivale al tempo pieno lavorativo di oltre duemila persone per un anno, lo stesso documento segnala che il dato è positivo soltanto a prima vista: in realtà, si legge, "potrebbe anche essere collegabile a un abbassamento del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, più che a una vera e propria capacità di assorbimento di manodopera da parte delle imprese". Chi ha perso un'occupazione o non la trova, insomma, non si preoccupa neppure d'iscriversi alle liste di collocamento. Ognuno s'arrangia come può. A portata di mano, c'è per molti la nuova industria della criminalità: traffico di droga, contrabbando, racket, riciclaggio e strozzinaggio, bische clandestine. Centocinquanta morti negli ultimi tre anni, 51 da gennaio a ottobre, sono il bilancio di un "fatturato" che comprende, solo nel primo semestre '91, 181 rapine gravi, 58 estorsioni, 42 attentati dinamitardi o incendiari, 80 incendi dolosi. E' tale la massa di disperati allo sbando che ormai a Taranto, dicono gli esperti, si può commissionare un omicidio anche per meno di mezzo milione. E il racket, non accontentandosi più delle estorsioni a carico dei commercianti per "difendere" i loro negozi, adesso offre "protezione" addirittura ai condominii. E' del primo ottobre scorso la mattanza "stile Chicago" consumata in una barbieria, quattro morti e due feriti. Armati di pistola e mitraglietta, due sicari uccisero in una sparatoria selvaggia il proprietario del locale, Giuseppe Ierone, e tre clienti. Ma poi si scoprì che la strage, maturata in seguito a una frattura nel potente clan cittadino dei fratelli Modeo, era stata inutile: le vittime designate erano già uscite dalla sala da barba. I killers, feroci quanto sprovveduti, furono catturati una settimana dopo. Più recente è l'attentato dinamitardo, intimidazione o avvertimento, compiuto all'inizio di novembre contro la parrocchia del Corpus Domini, nel quartiere dormitorio intitolato a Paolo VI, ventimila abitanti. In piena notte, una bomba ha fatto saltare in aria i locali della Polisportiva, attigui alla chiesa, a due settimane di distanza da un analogo episodio contro la caserma dei carabinieri. Appena qualche giorno prima, durante l'omelia nella messa funebre per un giovane tossicodipendente morto di Aids, il parroco don Luigi Larizza aveva invitato pubblicamente la madre del ragazzo a denunciare gli spacciatori di droga del quartiere, esortando tutti i presenti a fare altrettanto. Per spiegare la frammentazione e l' ingovernabilità della malavita tarantina, i cronisti locali raccontano che da quando fu assassinato il boss "Ciccio" Basile, è scoppiata una guerra di successione spietata e sanguinaria tra i maggiori clan cittadini: la famiglia Modeo da una parte, i De Vitis-D'Oronzo dall'altra. Tra cinque o sei gruppi organizzati, si calcola che gli affiliati effettivi siano in totale più di 350. Ma l' arruolamento è sempre aperto, quasi quotidiano. Con i fratelli Modeo - Gianfranco e Riccardo - in carcere per omicidio, non c'è più un capo riconosciuto; qualunque disperato può diventare un delinquente o un killer; entrare in un clan, tradirlo e uscirne da un giorno all' altro. Il fatto è che, in questi ultimi tempi, tra il degrado economico-sociale e l'aggressione della criminalità organizzata Taranto è sopravvissuta senza un governo, né legale né illegale. Dalle elezioni amministrative del maggio '90, nell'arco di diciotto mesi, l'amministrazione comunale è cambiata tre volte, con tre maggioranze e tre sindaci diversi: prima un quadripartito con Dc, Psi, Psdi e Pri; poi una giunta di "salute pubblica", con dentro anche il PdS, incapace alla prova dei fatti di risolvere i problemi cittadini; e infine, da pochi giorni, un altro quadripartito che ha fatto esplodere la polemica all'interno della stessa Democrazia cristiana per l'avvicendamento del sindaco uscente, Alfengo Carducci, uno stimato uomo di scuola che risultò primo eletto dello Scudo crociato con 3.497 preferenze, sostituito ora da Roberto Della Torre, già capolista con appena 2.642 voti, a cui guarda con maggiore fiducia il "partito degli affari". Nel Consiglio comunale in carica, secondo un rapporto consegnato al Parlamento dall' ex commissario Antimafia, Domenico Sica, su un plenum di cinquanta eletti "sei consiglieri risultano denunciati o imputati per reati contro la pubblica amministrazione o interesse privato in atti d'ufficio, mentre per altri otto consiglieri risultano precedenti penali per reati di vario genere". In questa assortita compagnia, il personaggio emergente, il più popolare e discusso, amato e odiato, si chiama Giancarlo Cito: 46 anni, all'anagrafe geometra e imprenditore, proprietario e amministratore unico di "Antenna Taranto 6", una battagliera e spregiudicata emittente privata attraverso la quale ha ottenuto un clamoroso successo elettorale, conquistando oltre ventimila voti, quasi quindicimila preferenze personali e sette seggi al Comune, dove una volta s'è presentato in aula con indosso il giubbotto antiproiettile. Ex militante di estrema destra, in base alle indagini dell'Alto commissario, "Cito risulta avere numerosi precedenti penali, tra i quali: rissa aggravata, lesioni, violenza privata, ricettazione in concorso con tre pregiudicati". Per di più, "è sospettato di contiguità con ben individuati elementi della criminalità organizzata" e "indicato come molto vicino al clan dei fratelli Modeo", per essere stato sorpreso da una Volante in casa loro quand'erano agli arresti domiciliari, la notte di Natale del 1989. Chiamato in causa da una recente trasmissione televisiva, durante la quale il ministro delle Poste Carlo Vizzini ha confermato il proposito di non concedere l'autorizzazione alle emittenti che risultassero infiltrate dalla mafia, questo Masaniello tarantino aveva già replicato alle accuse citando in giudizio Sica e chiedendogli tre miliardi di danni a titolo di risarcimento, insieme a due parlamentari del PdS e a tre giornalisti del "Corriere del Giorno" di Taranto che avevano diffuso il contenuto del rapporto. Nel merito, Cito sostiene che i precedenti penali a lui addebitati non sono che "alcune ragazzate di quando era missino". Quanto alla presunta "contiguità" con il clan Modeo, quella notte del Natale ' 89 si trovava in casa loro con una troupe televisiva per uno scoop giornalistico, nel tentativo d'intervistare due tarantini "eccellenti" agli arresti domiciliari. "Si tratta", afferma Cito, "di una campagna politica, giornalistica, giudiziaria priva di scrupoli e di inaudita gravità, per screditare me, la mia iniziativa politica autonoma, la mia emittente tv". Telegiustiziere o telebandito che sia, non c'è dubbio che il "patron" di Antenna Taranto 6 è diventato un personaggio scomodo per il potere locale. Tra le vittime illustri delle sue campagne scandalistiche, si contano anche l'ex sindaco socialista Mario Guadagnolo e perfino l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto, Nicola Cacciapaglia, messo alle strette da alcune rivelazioni televisive che ricordano il "caso Thomas", il giudice americano di colore imputato di molestie sessuali. Anche qui il magistrato è finito sotto processo per abuso di poteri: l' accusa, secondo il rinvio a giudizio, è di "aver palpato la spalla e il seno" di una signora contro la sua volontà, "sbottonato i pantaloni, estratto il membro e facendo forza sulla testa" costretto la donna "a portare la bocca all'altezza del membro". Sui muri della città, i graffiti urbani offrono un campionario di umori e giudizi diversi sul leader del leghismo locale, già definito "il Bossi del Sud", capace di mettere in scena davanti alle telecamere una traversata a nuoto di dieci chilometri nel porto per protestare contro l'inquinamento del mare: "Forza Cito sei tutti noi"; "Cito fatti un litro!"; "Cito=Modeo". Nel bene o nel male, anzi più nel male che nel bene, si può dire comunque che anche lui è figlio di questa Taranto, come oggi appare, nato e cresciuto tra i "predoni del deserto". Ingloriosa fine carriera di un alto magistrato, scriveva il 4 febbraio 1993 “Il Corriere della Sera”. Il Tribunale di Potenza ha condannato a venti mesi di reclusione (pena sospesa) e al pagamento di una provvisionale di cinque milioni di lire Nicola Cacciapaglia, 69 anni, procuratore della Repubblica di Taranto dall'87 al '90. I giudici lo hanno riconosciuto colpevole del reato di atti di libidine nei confronti di Anna De Pasquale, cinquantacinque anni, casalinga, di Taranto. I fatti risalgono al 1989, quando la donna chiese al magistrato di aiutarla a recuperare una figlia tossicodipendente che rischiava la prigione. Nell'ufficio del Procuratore, Anna De Pasquale visse momenti allucinanti: il magistrato non si fermò alle avance, ma le mise le mani addosso e per poco non la violentò.
LA TARANTO DEI TALEBANI E LA CADUTA DEGLI DEI.
Il progresso, si sa, porta sviluppo tecnologico e sociale, ma produce anche inquinamento. Inquinamento prodotto dalle industrie, prodotto dalla circolazione dei veicoli, prodotto dal riscaldamento domestico. In inverno, spesso, si sente che le grandi città limitano la circolazione dei veicoli e l’uso del riscaldamento domestico, connubio velenoso, per render più respirabile l’aria. Proprio a Taranto l’ex sindaco Rossana Di Bello emise un’ordinanza di divieto al transito in città alle corriere della Sud Est che portavano i pendolari dalla provincia. Nei paesi sottosviluppati dove si muore ancora di fame il problema dell’inquinamento non esiste: aria pura e panza vuota. Ecco perché a nessuno verrebbe in mente di vietare i riscaldamenti o impedire la circolazione dei veicoli per le strade urbane ed extraurbane, ne tanto meno si proverebbe a chiudere qualsiasi attività economica, che direttamente o indirettamente produce inquinamento. Certo è che vige un principio: tutta quanto è dannoso deve stare lontano da noi, in casa d’altri!! Purtroppo spesso gli altri siamo noi e dobbiamo farci una ragione. Ovviamente non manca chi auspica la giunglalizzazione delle città, ma, per fortuna, ancora sono in pochi.
Inoltre, c’è da considerare un altro aspetto, a proposito di inquinamento, non c’è solo l'Ilva e non c’è solo Taranto. Ma anche Gela, Priolo, Bagnoli, Porto Torres, le miniere dell'Iglesiente, Marghera e decine di altri siti industriali ancora in funzione o abbandonati. Quelli di interesse nazionale sono 57. Da una stima approssimativa, per la bonifica servirebbero 30 miliardi di euro, ma nel bilancio del ministero dell'Ambiente, alla voce "bonifiche" sono disponibili 164 milioni. E la salute delle persone che lavorano negli impianti ancora in funzione, quelle che vivono nelle vicinanze, cosa rischiano? Nessuno osa negare, compresi i dirigenti e i proprietari delle aziende, che qualche problema c'è. E il perenne ricatto è: bonificare vuol dire chiudere la fabbrica e mandare a casa decine di migliaia di lavoratori. Ma cosa si è fatto nel passato, cosa si fa oggi e quali sono i programmi futuri per sanare i siti? Una cosa da non dimenticare: le persone coinvolte sono più di 6 milioni. In Italia si calcola che i siti potenzialmente inquinati siano circa 13 mila e di questi 1.500 impianti minerari abbandonati, 6 mila e 500 ancora da indagare e 5 mila sicuramente da bonificare. Poco meno di 13 mila siti sono di competenza regionale (dai distributori di benzina alle piccole fabbriche che lavorano i combustibili), mentre 57 sono sotto la giurisdizione statale. Questi ultimi sono definiti dalla sigla SIN, vale a dire Siti di Interesse Nazionale.
Allora ci si chiede: perché si parla tanto e solo di Taranto e di ILVA?
«Perché a Taranto ci sono i “talebani”, ossia chi non sente ragioni contrarie alle proprie – spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio su Taranto ha scritto un libro. – Quelli che nel privilegio dell’impiego pubblico si dedicano alla pseudo tutela dell’ambiente. Questi, nel nome della tutela della salute, non chiedono la sanificazione dell’Ilva, ma pretendono la sua chiusura. Non dell’Eni o della Cementir, anch’esse gravemente inquinanti: no, dell’Ilva. Questi che vogliono la chiusura dell’Ilva sono nati con l’Ilva o dopo che questa ha iniziato a produrre. Sono cresciuti con essa ed anche grazie ad essa. Però, si sa, non c’è gratitudine in questo mondo. E’ vero che sin da piccolo (ed i decenni son passati) quando mi apprestavo ad entrare in Taranto, la città da lontano la vedevo avvolta da una cappa di fumo, ma è anche vero che con l’Italsider (odierna Ilva) la gente non emigrava più. Tutti lavoravano in Ilva e tutti lavoravano per l’Ilva. Taranto senza l’Ilva e le altre grandi industrie sarebbe solo una città di cozzari. Ripeto. Non c’è gratitudine. Per esempio, anche Trieste ha la sua Ilva. Lì è stato perseguito per calunnia l’ambientalista che denunciava l’esistenza dell’inquinamento. Paese che vai, usanza che trovi. A Taranto affianco agli ambientalisti di maniera troviamo chi da operaio è stato traviato dall’azienda e per gli effetti gli si ritorce contro. Troviamo ancora il capo della procura con i suoi sostituti e l’ufficio del Gip-Gup che, in generale dai dati elaborati in Italia, delle procure è la longa manus. Uomini della Procura che nell’inerzia quarantennale ha deciso di essere deus ex machina senza controllo alcuno e di decidere, da uomini soli, per un’intera nazione. A proposito degli ambientalisti sprono della magistratura. Il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, e il presidente di Peacelink Taranto, Alessandro Marescotti hanno fornito i dati dello studio del progetto “Sentieri”. Nel periodo 2003-2008 a Taranto è stato rilevato un aumento del 24% dei tumori del fegato e dei polmoni, del 38% per i linfomi e del 38% per i mesoteliomi. Bonelli e Marescotti hanno dichiarato “Il dato veramente preoccupante è quello dei bambini, per i quali si registra un +35% di decessi sotto un anno di età e per tutte le cause. Per quanto riguarda le morti nel periodo perinatale +71%. Questi sono i dati dell’aggiornamento che il ministro Balduzzi non ha voluto comunicare perché diceva che erano in fase di elaborazione. E’ falso perché questi dati sono stati elaborati, stampati e comunicati alla procura della Repubblica il 30 marzo di quest’anno”. Corrado Clini sostiene che questi dati siano falsi. Per questo motivo ha dato mandato all’avvocatura dello Stato di procedere nei confronti di Bonelli, che ha ripetutamente accusato il ministro dell’Ambiente di nascondere i dati sulla mortalità e di fornire informazioni false sullo stato della salute degli abitanti di Taranto. Clini ha detto “Fra l’altro mi preoccupa la diffusione di notizie false che generano allarme tra la popolazione e mirano a intimidire le autorità competenti in materia di protezione ambiente e tutele della salute”. Certo è che l’annunciata chiusura dell’Ilva di Taranto potrebbe rappresentare uno dei più grandi disastri industriali e sociali del nostro Paese degli ultimi anni, così come il suo funzionamento sembrerebbe esserlo stato per le condizioni di salute della città. E’ questa la considerazione che viene più spontaneo fare di fronte ai numeri sconvolgenti che lo stop degli altoforni di Taranto potranno portarsi come conseguenza più immediata. D’altronde stiamo parlando di un’azienda che rappresenta il 20esimo gruppo siderurgico del mondo, e dunque non è difficile immaginare l’impatto che ci sia sull’economia nazionale, sia in termini occupazionali che finanziari. E cominciamo allora proprio da qui, dal mettere in fila le prime drammatiche cifre sugli effetti umani e sociali di una sempre più probabile serrata dell'Ilva. Nella sola zona di Taranto andrebbero in fumo circa 12mila posti di lavoro, che rappresentano gli addetti diretti allo stabilimento, cifra che sale però a quota 20mila se si considera l’indotto. Quello di Taranto infatti rappresenta il più grande sito produttivo siderurgico d’Europa e allo stesso tempo lo stabilimento industriale con più addetti in Italia. Un particolare non da poco se si pensa che sorge in un contesto cittadino dove recenti statistiche parlano di un tasso di disoccupazione che viaggia intorno al 30%. In pratica chiudere l’Ilva potrebbe significare mettere in ginocchio l’economia di Taranto e a cascata di altre zone della Provincia e della Regione Puglia, visto che dei citati 12mila addetti diretti, solo 4mila sono tarantini, mentre gli altri vengono da fuori. Ma le conseguenze negative non finiscono qui sul fronte occupazionale, perché lo stop di Taranto si porta come conseguenza il blocco della produzione anche del sito Ilva di Genova, dove altri 1.760 dipendenti sono in agitazione perché vedono a rischio il proprio posto di lavoro. E il fatto che la chiusura dello stabilimento di Taranto si porti dietro conseguenze occupazionali così pesanti, si lega, come accennato, al rilievo che la sua produzione di acciaio riveste per l’intera economia italiana. Secondo i dati forniti dalla Confindustria pugliese infatti, la capacità produttiva di circa 10 milioni di tonnellate l’anno di acciaio che arrivano da Taranto, rappresentano circa il 40% del fabbisogno nazionale. Se l’Italia dovesse essere costretta a importare quantità di questo rilievo, andrebbe incontro ad una spesa del valore di circa 9 miliardi di euro. Una cifra che rappresenta circa un punto di Pil nazionale, e il 7-8% del Pil regionale pugliese. Un vero e proprio disastro economico dunque per il nostro Paese, che rischia, come accennato, di sfociare in dramma sociale a Taranto, dove monta la rabbia degli operai rimasti senza lavoro dalla sera alla mattina. Ma chi vive sulle spalle degli altri con la busta paga pubblica degli operai se ne fotte (l’intercalare spiega bene l’idea). Gli operai, talebani anche loro. Pronti a marciare su Taranto o a bloccare la circolazione dei veicoli, usando violenza sui malcapitati che si son trovati a passar dalle loro parti. Spintoni o gomme tagliate per chi non solidarizza con loro. L’esasperazione dirà qualcuno. In Italia, infatti, lavorano solo 23 milioni di persone e il nostro è il paese europeo col minor tasso di occupazione. In compenso, come è noto, abbiamo 16 milioni di pensionati oltre a un bel po' di disoccupati e un sacco di altra gente che il lavoro manco lo cerca. E' emergenza disoccupazione. Secondo le ultime stime provvisorie dell'Istat il tasso generale si è attestato all'11,1%. Per questo quando si dice che l'Italia lavora, non è vero. L’Italia non lavora e se ne fotte degli altri, ma il punto è che non vota sfiduciata da questa politica. Mai così tanti disoccupati, mai così tanti non votanti. C’è difetto di rappresentanza e la contrapposizione tra interessi è l’effetto. Per questo motivo, nel venire incontro a tutti gli interessi in campo il decreto legge varato dal Consiglio dei ministri "stabilisce che la società Ilva abbia la gestione e la responsabilità della conduzione degli impianti e che sia autorizzata a proseguire la produzione e la vendita per tutto il periodo di validità dell'Aia". Il rilascio a ottobre 2012 da parte del Ministero dell'Ambiente dell'autorizzazione integrata ambientale ha anticipato gli obiettivi fissati dall'Unione europea in materia di BAT - best available technologies (tecnologie più efficienti per raggiungere obiettivi di compatibilità ambientale della produzione) di circa 4 anni. Con il provvedimento - spiega il comunicato di Palazzo Chigi - all'Aia è stato conferito lo status di legge, che obbliga l'azienda al rispetto inderogabile delle procedure e dei tempi del risanamento. Qualora non venga rispettato il piano di investimenti necessari alle operazioni di risanamento, il decreto introduce un meccanismo sanzionatorio che si aggiunge al sistema di controllo già previsto dall'Aia. "I provvedimenti di sequestro e confisca dell'autorità giudiziaria - spiega ancora il comunicato stampa - non impediscono all'azienda di procedere agli adempimenti ambientali e alla produzione e vendita secondo i termini dell’autorizzazione". "L'Ilva - spiega il comunicato stampa - è tenuta a rispettare pienamente le prescrizioni dell’autorizzazione ambientale". Palazzo Chigi definisce il decreto legge "un cambio di passo importante verso la soluzione delle problematiche ambientali, il rispetto del diritto alla salute dei lavoratori e delle comunità locali interessate, e la tutela dell'occupazione". "In questo modo - prosegue la nota - vengono inoltre perseguite in maniera inderogabile le finalità espresse dai provvedimenti assunti dall’autorità giudiziaria". Il Cdm stabilisce che la società "abbia la gestione e la responsabilità della conduzione degli impianti e che sia autorizzata a proseguire la produzione e la vendita per tutto il periodo di validità dell'Aia (sei anni). L'Ilva è tenuta a rispettare pienamente le prescrizioni. Le bozze del decreto sono state continuamente limate e ritoccate nel corso del Consiglio. Importante era evitare lo scontro frontale con la magistratura. Confermata, l'introduzione di una 'figura di garanzia', una 'figura terza' che possa dare fiducia a tutte le parti coinvolte: non un commissario ma un 'garante' che vigili sull'applicazione rigorosa ed efficace delle prescrizioni Aia. "Il garante - ha spiegato il sottosegretario Antonio Catricalà - deve essere persona di indiscussa indipendenza, competenza ed esperienza e sarà proposto dal ministro dell'Ambiente, dal ministro dell'Attività Produttive, e della Salute e sarà nominato dal presidente della Repubblica". Il Garante acquisirà dall'azienda, dalle amministrazioni e dagli enti interessati le informazioni e gli atti ritenuti necessari, segnalando al presidente del Consiglio e al ministro dell'Ambiente le eventuali criticità riscontrate nell'attuazione delle disposizioni e potrà proporre le misure idonee, tra le quali anche provvedimenti di amministrazione straordinaria. "Qualora non venga rispettato il piano di investimenti necessari alle operazioni di risanamento, il decreto introduce un meccanismo sanzionatorio che si aggiunge al sistema di controllo già previsto dall'Aia", si legge nella nota di Palazzo Chigi. In caso di inadempienze per l'Ilva - ha spiegato a questo proposito il ministro dell'Ambiente Corrado Clini - "restano tutte le sanzioni già previste e in più introdotta la possibilità di una sanzione sino al 10% del fatturato annuo dello stabilimento". Non solo. "Abbiamo introdotto interventi possibili sulla proprietà stessa - ha aggiunto il ministro dello Sviluppo Corrado Passera - che potrebbero togliere enorme valore a quella proprietà: se non fa quello che la legge prevede, vede il suo valore fino al punto di perderne il controllo di fronte a comportamenti non coerenti. E' possibile che variamo la procedura di amministrazione controllata. Insomma, se non si fanno gli investimenti e gli adempimenti di legge, viene messo qualcun altro a farlo". "Non possiamo ammettere - ha detto Monti in conferenza stampa - che ci siano contrapposizioni drammatiche tra salute e lavoro, tra ambiente e lavoro e non è neppure ammissibile che l'Italia possa dare di sé un'immagine, in un sito produttivo così importante, di incoerenza. L'intervento del governo è stato necessario perchè Taranto è un asset strategico regionale e nazionale", ha aggiunto. "Questo caso è la plastica dimostrazione per il passato degli errori reiterati nel tempo e delle incoerenze di molte realtà, sia imprenditoriali che pubblico-amministrative, che si sono sottratte, nel corso del tempo, alla regola della responsabilità, dell'applicazione e del rispetto della legge". La strada del decreto è stata intrapresa per evitare - aveva spiegato Monti - "un impatto negativo sull'economia stimato in otto miliardi di euro annui". Il provvedimento salva i 12mila dipendenti di Taranto e i lavoratori dell'indotto pugliese. Ma anche Genova, Novi Ligure, Racconigi. La possibilità di togliere l'azienda alla proprietà era stata prospettata anche da Clini intervenuto a Servizio Pubblico: aveva fatto intendere che il governo sarebbe stato pronto a prendere in mano la situazione nel caso in cui la famiglia Riva non voglia o non possa far fronte alle prescrizioni. "Sappiamo - aveva spiegato - che per essere risanato quel sito deve continuare ad essere gestito industrialmente. I Riva hanno detto che sono ponti a farlo. Il piano degli interventi prevede parchi minerari, altoforni, batterie delle cokerie. Se non fai questo, è la nostra posizione, non puoi continuare a gestire gli impianti. Se non sono in grado dobbiamo farci carico noi con un intervento che consenta di garantire la continuità produttiva ed il risanamento". Questo è il potere esecutivo, il cui operato sarà convalidato dal potere legislativo. I magistrati, però hanno una loro ben definita contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo, di fronte ad una situazione complessa e con gravi ripercussioni occupazionali, si è assunto la grave responsabilità di vanificare le finalità preventive dei provvedimenti di sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la salute di una intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi danni», dice il segretario dell'Associazione magistrati (Anm), Maurizio Carbone, proprio a Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da verificare la effettiva disponibilità dell'azienda ad investire i capitali necessari per mettere a norma l'impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute nell'Aia», tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi sottrarre all'esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora non ha lesinato critiche al provvedimento d'urgenza di Palazzo Chigi: «È un'invasione di campo, dov'è finito il principio della separazione dei poteri? Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi dai magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così facendo, si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di Taranto Patrizia Todisco la nuova Aia per l'Ilva «non si preoccupa affatto della attualità del pericolo e della attualità delle gravi conseguenze dannose per la salute e l'ambiente». L'attività produttiva dell'Ilva è «tuttora, allo stato attuale degli impianti e delle aree in sequestro, altamente pericolosa». I tempi di realizzazione della nuova Aia sono «incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione locale e dei lavoratori del Siderurgico», scrive il gip. Tutela che «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali» (articoli 32 e 41). Come è possibile, sulla base di quanto emerso dalle indagini, «autorizzare comunque l'Ilva alle attuali condizioni e nell'attuale stato degli impianti in sequestro, a continuare da subito l'attività produttiva», senza «prima pretendere» gli interventi di risanamento? aggiunge il gip dicendo no al dissequestro degli impianti. La partita con l'Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare», sorride amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che proprio non ci sta a passare per «il talebano», così come viene definito sui giornali, «il pazzo nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per un caffè con il presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei bambini che qui nascono già malati di tumore...», si sfoga il vecchio magistrato. La Procura solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge di Palazzo Chigi, chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale. Il diritto all'eguaglianza, ad esempio: la legge è uguale per tutti, no? Ma se la legge è nata per l'Ilva, dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto, oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti tarantini, alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia. Così come per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati compresi. L'inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale della Cisl e un presente da dirigente locale del Pd. Un'informativa di 182 pagine in parte mutilata da omissis e allegata all'ordinanza di custodia cautelare che aveva già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli arresti domiciliari l'ex assessore all'ambiente Michele Conserva, lo fulmina in poche righe. "Si evidenzia - scrivono i militari della Finanza - che alla luce di quanto accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della Provincia di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di concussione o, in subordine, di violenza privata". Certo è che qualcuno dovrebbe spiegare ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non è un potere. Se l’articolo 1 della Costituzione detta che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello Legislativo che legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in modo straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.” Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.” Ergo: i magistrati devono applicare la legge, rispettarla e farla rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono sentirsi portatori di una missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può essere ammessa, in special modo quando vi sono interessi più grandi che quelli castali. E si deve ricordar loro, ai magistrati ed alla claque che li santifica, che c’è anche quella legge ambientale che prevede il dogma “chi inquina paga”. Non esiste il dettato tutto di stampo tarantino: “chi inquina, chiude i battenti e tutti a casa”, specialmente se l’industria che viene chiusa, con le tasse che paga, mantiene i suoi detrattori.»
A tanto fondamentalismo si contrappone una realtà misconosciuta.
CHI INQUINA PAGA?
I protagonisti di questa storia sono: uno 007, un Avvocato dello Stato, un Pubblico Ministero, scrive Milena Gabanelli su “Il Corriere della Sera”. L’Avvocato dello Stato è Giampaolo Schiesaro, che ha curato il maggior numero di cause giudiziarie in materia di risarcimento del danno ambientale, (circa 600 milioni di euro da parte di soggetti ritenuti a vario titolo responsabili per riparare la laguna di Porto Marghera, quasi 2 miliardi liquidati dal Tribunale di Torino per i danni presenti nel lago Maggiore e nel sito di Pieve Vergonte). Per questa sua competenza era stato incaricato dal ministro dell’Ambiente, sul finire del 2006, di coordinare l’attività amministrativa di riparazione ambientale con le più rilevanti iniziative giudiziarie in tutto il territorio nazionale in applicazione del principio “chi inquina paga”. A carico dei responsabili, ha fatto recuperare all’incirca altri 200 milioni di euro, con cui cominciare a finanziare gli interventi di messa in sicurezza nei siti di Napoli-orientale, Brindisi, Augusta-Priolo. È evidente che questo nuovo modo di affrontare le questioni ambientali, presentando direttamente il conto agli inquinatori, ha incontrato ostacoli e resistenze, fino a quando, con il Governo Monti, la sua collaborazione non è stata più richiesta e di conseguenza mai più concluse le intese in corso per finanziare il completamento delle bonifiche.
Su un altro versante Manuela Fasolato, autrice di rilevanti inchieste sui crimini ambientali in Polesine negli ultimi 15 anni in qualità di sostituto procuratore presso il Tribunale di Rovigo, si è vista sottoporre ad ispezione ordinata dal ministro della Giustizia Alfano e a procedimento disciplinare, tuttora in corso, avanti il Csm. Attualmente la Fasolato sostiene l’accusa nel dibattimento per i reati connessi alla riconversione a carbone della Centrale Enel di Porto Tolle.
Prese singolarmente le vicende personali dei due funzionari dello Stato erano apparse sin qui essere soltanto un’ennesima testimonianza di una burocrazia statale malata, inefficiente ed incapace di valorizzare adeguatamente le competenze professionali dei singoli. Oggi emergono, però, gli esiti di un’indagine penale che suscita interrogativi più inquietanti, collegando proprio le sorti dei due funzionari dello Stato che avevano lavorato insieme. Si tratta di un’inchiesta svolta a Padova per minaccia a pubblico ufficiale, che pochi giorni fa il Gip ha archiviato, ma in compenso ha fornito lumi su quanto era accaduto.
È stato così accertato che nel giugno del 2007 Ettore Mantovan, funzionario di polizia in forza ai servizi segreti Aisi, si è presentato a casa di un collaboratore dell’Avvocato Schiesaro per riferirgli che gli stessi Servizi erano molto interessati all’esito di due procedimenti penali, allora in fase di indagini, affidati al Pm di Rovigo, Manuela Fasolato, ed in cui l’Avvocato dello Stato difendeva il Ministero dell’Ambiente. I procedimenti riguardavano la costruzione dell’impianto di rigassificazione a Porto Viro (Ro) e la riconversione della centrale Enel di Porto Tolle (Ro): due importanti interventi industriali, che avrebbero dovuto essere realizzati nelle aree naturalistiche del Parco del Delta del Po. In quell’occasione fu riferito che i Servizi stavano “tirando la tela” sia al Pubblico Ministero che all’Avvocato dello Stato e che, se non avessero interrotto le iniziative processuali, ci avrebbero pensato loro (i servizi segreti) a fermarli, delegittimando il loro operato di pubblici ufficiali. Il decreto di archiviazione conferma proprio questi fatti; tuttavia ha ritenuto che quelle frasi non avessero scopo intimidatorio, bensì quello di mettere in guardia l’Avvocato dello Stato dai rischi che stava correndo. Non una minaccia, dunque, ma soltanto una sorta di amichevole consiglio, proveniente, per ragioni di stima personale, da un funzionario dei servizi segreti. Lo stesso funzionario dei servizi aveva, poi, assunto informazioni per conto dei suoi superiori, anche sugli interventi di riconversione della Centrale Enel, sulla composizione della Commissione provinciale VIA e sugli studi svolti dal consulente della Procura di Rovigo, dr. Scarselli, che avevano smentito i risultati tranquillizzanti sui possibili effetti sulla salute umana che sarebbero derivati da quel progetto di riconversione a carbone.
Intanto sapere che i servizi segreti ordinariamente si occupino dell’andamento di alcuni procedimenti penali, controllino il merito dell’attività svolta da altri organi dello Stato e persino agiscano concretamente per condizionare o “consigliare”, è notizia che preoccupa non poco chi crede nel principio della “separazione dei poteri dello Stato”. Dalla documentazione acquisita nel corso delle indagini emerge che vi sarebbe stata anche una richiesta di bloccare l’attività svolta dall’Avvocatura dello Stato di Venezia nel processo per la costruzione del rigassificatore, da parte di un rappresentante di uno Stato estero che aveva interesse alla pronta realizzazione di quell’impianto, per non vedere sfumare un colossale affare, stipulato nell’aprile del 2008, legato allo sfruttamento di quel gas. Nel corso di questi anni però Ettore Mantovan viene arrestato dai carabinieri a Padova (marzo 2011) mentre intasca 50.000 euro da un privato, al quale aveva promesso il suo interessamento per comporre un accertamento fiscale a suo carico. Per questa storia di ordinaria concussione Mantovan ha patteggiato 3 anni e due mesi. Quello che non si sa è se sia stato o meno sospeso dal servizio e destituito, come dovrebbe avvenire per i pubblici dipendenti che si rivelino essere una "mela marcia". Così come non si sa se risultino provate altre vicende analoghe a carico di Ettore Mantovan. In tal caso, infatti, si porrebbe l'interrogativo su che fine abbiano fatto tutti i soldi "incassati" in quel modo: li avrebbe davvero tenuti tutti per sé per pagare i propri debiti (di quali debiti si tratta?) o avrebbe agito su ordine altrui (di chi?), utilizzando il ricavato per alimentare un sistema "in nero" di finanziamento?
L'AMBIENTALISMO E L'ECOLOGISMO DEI LUOGHI COMUNI.
Ilva, Bondi intossicato dai luoghi comuni. L'uomo delle missioni impossibili crocifisso per una banalità. Perché chi tocca certi pregiudizi muore, scrive Claudio Borghi Aquilini su “Il Giornale”. L'Italia è il paese delle sentenze già scritte e dei luoghi comuni presi come Vangelo da folle vocianti. Basta sfiorare il filo elettrificato del luogocomunismo che anche il più immacolato degli eroi diventa un traditore, un poco di buono, uno da segnare a dito digrignando i denti. Di questo clima da Barabba ne ha fatto recentemente le spese un manager quasi divenuto anch'egli un luogo comune vivente, Enrico Bondi, l'esecutore chiamato a risollevare le sorti dell'Ilva di Taranto dopo numerose esperienze di «risanatore» fra cui spiccò la rimessa in carreggiata della Parmalat. Agli occhi del pubblico Bondi è ormai una specie di agente speciale incaricato delle missioni impossibili, in grado persino di farsi nominare «supertecnico» dal non rimpianto governo dei tecnici guidato da Monti senza suscitare indignazione. Bondi ormai non domanda più nemmeno compensi per la sua attività e, una volta insediato all'Ilva prima come amministratore e subito dopo come commissario straordinario, ha fatto una cosa banalissima: chiedere una relazione ad un gruppo di esperti per poter capire meglio il da farsi. Incauto lui. Vista l'esperienza avrebbe dovuto capire che è obbligatorio confermare le aspettative degli urlatori dei luoghi comuni, ogni altro esito è inconcepibile. Nella relazione infatti pare si indichino delle concause che potrebbero spiegare dati anomali sulle malattie nell'area di Taranto, fra cui il diffuso smercio di sigarette di contrabbando che vedono nel porto pugliese uno dei principali centri di importazione di tabacco non trattato e quindi nocivo. La teoria del resto non è nemmeno nuova, ne ha fatto cenno per esempio in altre occasioni il professor Franco Battaglia e anche altri studiosi hanno in passato fatto rilevare che l'Ilva non è certo l'unico «agente inquinante» della città, come stabilì la relazione del servizio ciclo rifiuti e bonifica dell'assessorato all'ambiente datata 2011 dove si evidenziavano le responsabilità dell'Arsenale Militare della Marina nell'inquinamento delle acque. Non importa. Prima ancora di leggere la relazione, la semplice indiscrezione su contenuti difformi dalla «voce del popolo» che vuole l'Ilva come origine di tutti i mali del mondo è stata sufficiente persino ad infangare l'icona Enrico Bondi che ieri si è dovuto profondere in distinguo, smentite e precisazioni. L'Ilva è morte e non la vogliamo. I rigassificatori non si devono fare. I rifiuti e le discariche non ne parliamo, non appena si pensa ad aprirne una ecco che i tumori si impennano e tutti trovano un morto in casa la cui fotina esibire in favore di telecamere anche se fosse il nonno quasi centenario. Le relazioni scientifiche servono solo se funzionali alla tesi: quando dimostrano che certe baggianate come gli ecoblocchi del traffico non hanno alcun impatto ecco subito i sindaci come Pisapia a Milano affermare che è vero, contro l'inquinamento non servono ma si faranno lo stesso per «educare i cittadini». L'ambiente è importantissimo e bisogna essere inflessibili contro l'inquinamento, specialmente se doloso, però la salute dei cittadini passa anche attraverso la prosperità economica. Nei paesi sottosviluppati non c'è mezza fabbrica e l'aria è cristallina, però i bambini muoiono come mosche. Ogni anno gli incidenti stradali causano 1,24 milioni di morti ma nessuno pensa di vietare le automobili. Un'economia industriale passa anche per cose che puzzano come centrali, fabbriche e rifiuti. Secondo la rilevazione 2013 di Legambiente delle 10 città più inquinate d'Italia 9 sono in Pianura Padana (con il non invidiabile primato di Alessandria) e l'unica «intrusa» non è Taranto, bensì Frosinone, eppure l'aspettativa di vita in Nord Italia è fra le più alte al mondo. Le paure irrazionali vanno governate perché la salute è fondamentale ma non cade dal cielo, bisogna guadagnarsela.
CONTRO L'AMBIENTALISMO DEL SEMPRE NO!
Per un ambientalismo del sì. Tempo fa, Barack Obama si trovava sotto il caldo asfissiante – neanche fosse scritto in uno dei copioni banali da pomeriggi estivi alla Rosmund Pilcher – dell’atrio quadrilatero della Georgetown University di Washington. Dalle sue labbra uscivano le parole del discorso sull’ambiente e sui cambiamenti climatici; dalle sue labbra pendeva, per certi versi, la futura lettura di certe tematiche, scrive Emanuele Rossi su “Europa Quotidiano”. Un gran discorso a detta dei commentatori: non senza polemiche, non ineccepibile, ma di sicuro un indirizzo. Michael Oppenheimer, professore di geosciences and international affairs all’Università di Princeton, lo ha definito sul New York Times come uno «spartiacque» e ha aggiunto che il presidente è andato «oltre il cuore del problema». Adesso Obama attenderà il prossimo giugno, data entro cui l’Enviromental Protection Agency dovrà stilare il piano ambientale preliminare – che con ogni probabilità comunque non sarà operativo prima del 2017. Ci vuole tempo per certe cose. L’ambiente è tema caro a Obama da sempre (come è tema caro alla sinistra in genere) e sul quale ha costruito parte del proprio consenso elettorale fin da subito. Anche se complici circostanze a contorno – la crisi economica per dirne una, la spinta alla riforma sanitaria per dirne un’altra – il presidente ha però lasciato in qualche scantinato buio della Casa Bianca, una buona parte dei buoni propositi del 2008.
Ma da noi come va? So so.
Onestà vorrebbe che ci si guardasse in faccia e ci si dicesse con serenità che all’interno del dibattito della sinistra riformista italiana si è un po’ tralasciato il tema. Sembra come se si fosse deciso di regalarlo a posizioni più radicali, come fossero argomenti di loro esclusiva. Si è perso tempo, probabilmente è così: magari valutando l’interesse che le istanze ecologiste occupano all’interno degli orientamenti culturali e politici – diciamo pure elettorali – degli italiani, come questione marginale. Da “sedile posteriore”, per dirla come la dicono in Usa. Che magari sarà pure così, poi, perché in fondo in Italia si parla di ambiente sempre in modo un po’ stanco. E forse il motivo è anche che gli interessi e le speculazioni hanno spesso finito per inquinare ogni cosa buona. Ma non c’è da disperare, perché come dice il saggio, “il meglio deve ancora venire” e sarà da quel meglio che su certe tematiche si troverà il bandolo della matassa. Sarà infatti soltanto attraverso una cultura riformista, e chi la incarna, che diventerà possibile affrontare in modo laico tutti i complessi aspetti delle questioni ambientali. A cominciare da quella cultura del “NO”, a prioristico, molto nimby, molto più ottusa disinformazione. Sull’ambiente si è cavalcata la paura. Su quei no si sono basate le progettazioni. Su quei no e su quelle paure si è scelto il futuro. Affrontare le tematiche ambientali in modo laico – dando al termine riformista questa sorta di accezione – significa analizzare con serietà e profonda competenza ogni possibile situazione senza lasciare spazio a quelle paure, infondate e spesso speculative. Serve essere freddi, razionali, pragmatici, serve guardare oltre. Serve progettare. Serve comprendere e condividere. Davanti alla nostra realtà si pone la necessità di governare il complicato processo di transizione che trasformerà il nostro sistema produttivo e di utilities e lo posizionerà nel nido della sostenibilità. Sarà un passaggio fondamentale, anche nell’ottica della competitività internazionale. Ma nel lavorare per le tematiche ecologiche del rendere le nostre vite e i nostri consumi equi e sostenibili, la cultura riformista dovrà operare anche nella tutela dei nostri beni comuni dalle evenienze ambientali. Su questo aspetto tanto si è già fatto per la prevenzione sismica, con risultati ampiamente soddisfacenti (nell’ambito del rispetto delle regole). Buona parte si sta facendo per ridurre le emissioni e abbattere gli inquinamenti. Poco, troppo poco, invece si fa nella tutela del suolo, che poi coincide inevitabilmente con la tutela del territorio, del paesaggio e di quel genius loci che ci portiamo nei nostri geni. Basta pensare che l’Italia è un paese in cui il dissesto idrogeologico interessa molte fasce del territorio: 8,9 per cento del territorio collinare è in frana, molto di più quello suscettibile e/o vulnerabile. Si parla di aree collinari, ma anche di zone produttive e di porzioni di insediamenti abitativi. Discorso analogo vale per le aree soggette a inondazioni. Frane e alluvioni sono una piaga ancora più aperta, ancora più dolorosa, degli eventi sismici. Colpiscono continuamente, passano alla ribalta della cronaca soltanto in situazioni parossistiche, ma i movimenti del suolo e gli allagamenti, continuano a recare danni ogni volta che piove. E purtroppo ai danni materiali, spesso si associa la perdita delle vite umane. Il conto per la sistemazione di tutte le condizioni legate a questi rischi è oneroso. Si parla di miliardi di euro. Occorre però iniziare a metterci la testa, il pensiero, ma anche le mani. Una proposta semplice, per dire, sarebbe di pensare, anziché ad abolire l’Imu – battaglia ideologica, di dubbia provenienza, e di certo appeal –, di destinare quel gettito per intervenire sulla difesa idrogeologica. Ma al di là della proposta da bar – poi mica tanto – occorre che si dia un indirizzo, dettando regole strette per la programmazione urbanistica, intervenendo con quello che è disponibile, preservando e prevedendo, incrementando – questo sì – i fondi per i sistemi di studio ricerca e monitoraggio. Affrontare il problema in modo diretto, senza nascondersi in confortevoli scorciatoie, mezze soluzioni, arrangiamenti e rimedi casalinghi: perché è ora, adesso. Inculcare negli italiani una sorta di ambientalismo responsabile, deve essere uno degli obiettivi della cultura riformista. Permettere il ragionamento, il confronto, l’analisi. Senza chiudersi in custodie ideologiche. Ambientalismo è dire “sì”, è essere propositivi e risolutivi. Ed occorre essere fermi, controllare e regolare, senza lasciare spazio tra le maglie delle norme. Mi riferisco per esempio alle tante centrali a biogas nate come funghi: con le colture dedicate (vero schiaffo antisociale al buon senso, senza ricorrere a disturbare la sovranità alimentare), con dimensioni quasi sempre inferiori ad 1MW (fino a 0,99 non è richiesta la valutazione d’Impatto ambientale, e dunque la procedura amministrativa è più snella e meno soggetta controlli). Ma ampio il discorso anche agli abusi, al fuorilegge: a quelle attività mafiose legate all’ambiente, le Ecomafie, che secondo Legambiente produrrebbero un valore annuo di 16,7Mld e 34120 reati, 8286 sequestri e 302 clan coinvolti. Per affrontare certe questioni e le complessità tentacolari connesse, serve determinazione, serietà, ma anche coraggio e leadership, e serve certe volte di essere impopolare. Di andare oltre il visibile, la miopia del presente con tutte le sue contestazioni, progettando per il futuro.
AUTO ELETTRICHE: LA MENZOGNA DELL’EMISSIONE ZERO.
L'auto elettrica sarà anche verde, ma è un verde sporco, scrive Roberto Iasoni su “Il Corriere della Sera”. Mentre quella tradizionale, con il motore a benzina o a gasolio, è più pulita. A lanciare l'accusa è il Wall Street Journal . Niente di più falso della retorica eco-chic dell'auto a «emissione zero». Che si tratti della Fisker Karma da 100 mila dollari (circa 77 mila euro) dell'attore Leonardo Di Caprio o di una più popolare - si fa per dire - Nissan Leaf (in Italia 29.950 euro con gli incentivi, che scatteranno il 14 marzo; negli Usa 28 mila dollari, circa 21.500 euro), secondo l'autore dell'articolo, Bjorn Lomborg, scienziato e «ambientalista scettico» (autodefinizione messa come titolo a un libro del 2001), l'auto elettrica sarebbe un pessimo affare. TUTTO SULLE ELETTRICHE: PREZZI E SCHEDE
Lomborg non è certo sceso in campo contro un fenomeno di massa: l'anno scorso negli Usa sono state immatricolate 50 mila auto con la spina, su 14 milioni e mezzo di veicoli venduti. Il mercato non è neppure «di nicchia». Il gruppo Renault-Nissan ha venduto nel mondo il maggior numero di auto a batteria: 68 mila nell'ultimo biennio. Ma sono quelli che nel 2011 vagheggiavano un milione e mezzo di veicoli elettrici su strada. Il caso italiano è addirittura invisibile: meno di 500 auto nel 2012, quasi tutte nelle flotte (quelle acquistate da clienti privati sono una trentina...). Eppure Lomborg va giù duro. La demolizione si concentra sulla CO2. «Emissioni zero»? Balle. Perché per produrli l'anidride carbonica sviluppata è imponente e supera di molto (a causa delle batterie al litio) quella delle auto tradizionali. «L'elettrica non è ancora uscita dalla fabbrica - è la sintesi - che ha già emesso 14 mila kg di CO2, più del doppio rispetto alle altre». Lomborg ha fatto i suoi conti: nel ciclo di vita (calcolato in 80.500 km), l'auto elettrica emette 8,7 tonnellate di CO2 in meno rispetto alla «cugina» convenzionale. Ora, posto che ogni tonnellata di anidride carbonica provoca un danno sociale quantificato in 5 dollari, meno di 4 euro, il risparmio ottenuto con i veicoli a batteria risulta di 44 dollari (34 euro) a veicolo. «Un pessimo affare anche per il contribuente - conclude il WSG - se si considera l'incentivo di 7.500 dollari concesso dallo Stato americano». «La solita storia della CO2», risponde per il «partito» dell'auto elettrica l'ingegner Pietro Menga, presidente del Cives, la Commissione italiana veicoli elettrici. I dati di Lomborg, per Menga, tengono conto della realtà Usa: «Dove il mix di fonti da cui si ricava l'energia elettrica - spiega l'ingegnere - è pesantemente condizionato dal carbone. In Italia il mix è più pulito: il carbone incide per il 13 per cento, mentre le fonti rinnovabili, solare, eolico e geotermico, sono il 32». Così «in 1 km l'auto elettrica emette alla fonte, cioè al camino delle centrali, 60/70 grammi di CO2, contro i quasi 200 delle auto a combustione interna». In linea con la media europea. Un vantaggio, rispetto allo scenario Usa, certificato da uno studio del Politecnico norvegese apparso a fine 2012: «Il mix energetico europeo consente una riduzione del contributo all'effetto serra fra il 10 e il 24 per cento rispetto ai veicoli tradizionali». Senza contare, prosegue Menga, che ridurre tutto alla CO2 è un errore: «L'anidride carbonica provoca l'effetto serra, d'accordo, ma non è un inquinante - tiene a precisare -. Infatti le città vengono chiuse per la concentrazione di polveri sottili, monossido di carbonio e ossidi di azoto. Tutti veleni che l'auto elettrica, non avendo un tubo di scarico, non può soffiare nell'aria».
L'auto elettrica? Inquina già da ferma. La produzione di vetture ecocompatibili causa maggiori emissioni di anidride carbonica di quelle "normali", scrive Valerio Boni su “Il Giornale”. L'Italia si appresta ad avviare una nuova fase di incentivi riservata ai cosiddetti veicoli ecocompatibili, che scontenterà molti per come è stata concepita, e dal resto del mondo fioccano studi che incrinano l'integrità delle auto a emissioni zero. Dall'Università delle Scienze di Norvegia sono infatti rimbalzati, negli Usa, i risultati di uno studio che analizza in modo più imparziale l'impatto sull'ambiente di una vettura elettrica. In sostanza, non è corretto considerare come quintessenza dell'ecocompatibilità un veicolo solo perché non emette alcun tipo di gas quando è in movimento. Bisogna infatti considerare l'intero ciclo vitale, dalla costruzione allo smaltimento di ogni componente. Il rapporto specifica che per la costruzione di una vettura a emissioni zero i siti produttivi emettono maggiori quantità di rifiuti tossici, a partire dalle emissioni di CO2, rispetto a quanto avviene per un modello alimentato a benzina o a gasolio. In più, la produzione di motori elettrici e delle batterie necessarie per la loro alimentazione richiede l'impiego di materiali potenzialmente tossici come nichel, alluminio e rame. L'ultimo aspetto riguarda l'impiego dell'energia per dare movimento a questi veicoli. Si dice che siano a impatto zero sull'ambiente, ma questo è vero solo quando si muovono sulle strade. Quando invece sono collegati alla rete elettrica per la ricarica, consumano e inquinano come qualunque elettrodomestico, visto che attingono da un circuito alimentato in parte da combustibili fossili. E tutto questo, secondo lo studio, non può essere trascurato. In America il Journal of Industrial Ecology ha a sua volta recentemente analizzato l'intero ciclo di vita di un veicolo elettrico, partendo dall'impatto tutt'altro che «verde» dell'estrazione del litio, indispensabile per realizzare le batterie dell'ultima generazione. Di conseguenza, circa la metà delle emissioni di anidride carbonica disperse nell'ambiente pesa su un'auto definita a emissioni zero, già prima della sua commercializzazione. Mentre per un veicolo classico, il bilancio si ferma al 17 per cento. Si può pertanto dire che quando si acquista una quattro ruote elettrica, si parte con un debito equivalente alla quantità di CO2 che disperderanno nell'ambiente le centrali per fornire le ricariche necessarie per percorrere circa 130mila km. I conteggi vanno anche oltre, considerano che la vita media di un veicolo elettrico non vada oltre le 50mila miglia, vale a dire 80mila km, quindi il bilancio va rivisto. Ma anche considerando che si possa arrivare a 150mila km, il vantaggio per l'ambiente si ridurrebbe al 24 per cento rispetto alle auto che guidiamo ogni giorno. Quindi ben lontano dalle emissioni zero. Le analisi sul reale impatto potrebbero rallentare l'esplosione di un mercato che negli Stati Uniti n(ma anche da noi) non è mai veramente decollato. L'anno scorso si è chiuso con 14.287 veicoli venduti, e nel 2013 si potrebbero superare i 30mila. Ma difficilmente sarà possibile raggiungere la soglia del milione di auto elettriche, obiettivo di Obama entro il 2015. In Italia le cose non vanno meglio, con le vendite che incidono in modo ancora irrilevante sul totale. Sono raddoppiate, è vero, in un anno che ha visto una forte contrazione. Però si è passati dallo 0,02 allo 0,04 per cento, che su 1,4 milioni di auto vendute significa circa 520 esemplari. L'aiuto allo sviluppo sarebbe dovuto arrivare dagli incentivi che saranno varati a partire dal prossimo 14 marzo: 40 milioni di euro per l'acquisto delle vetture meno inquinanti. Ma per i privati lo stanziamento si limita a 4,5 milioni di euro: circa 3.800 pratiche, che si esauriranno molto presto.
ENERGIA PULITA? SPORCO AFFARE.
Energia pulita, sporco affare. In cinque anni 126 arresti. Per le truffe sull'eolico altri 106 denunciati. Corruzione e manette anche per il fotovoltaico. Alle mafie fanno gola gli incentivi pubblici scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. Soffia il vento. E fa girare gli affari. Non sempre leciti, sempre più in odor di mafia. L'energia pulita è diventata un business, e come tutti i business attira voglie inconfessabili. Quelle delle cosche, ad esempio. In Molise, che insieme a Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata e Campania ospita quasi l'80% dei parchi eolici esistenti in Italia (erano 807 quelli censiti alla fine del 2011 dal Gestore dei Servizi Energetici: quasi il doppio rispetto all'anno precedente) quattro mesi fa l'associazione «Caponnetto» ha presentato un dossier per denunciare le infiltrazioni della Camorra nel settore. Ma l'allarme lo aveva lanciato già la Commissione parlamentare antimafia due anni fa, indicando le crepe attraverso le quali infila i suoi tentacoli la piovra mafiosa per far cassa con vento e sole: i cospicui finanziamenti pubblici, spesso a fondo perduto; la farraginosità delle procedure burocratiche, che favorisce l'attività di mediazione illecita dei burocrati dalle mani lunghe; il mercato dei terreni candidati ad ospitare aerogeneratori e pannelli solari. E ancor più preciso era stato il Cnel, che nel maggio del 2012, in un rapporto forse troppo in fretta dimenticato, aveva dato i numeri. Drammatici: tra il 2007 ed il 2011 ben 17 sono state le inchieste aperte da 14 Procure sui parchi eolici, tutte concentrate nelle cinque regioni meridionali; 106 le persone denunciate, 126 quelle arrestate. L'ultimo blitz della serie è scattato l'altro ieri, nel Messinese: cinque persone sono finite in galera per un appalto da 120 milioni legato ad un nuovo parco eolico: su quei soldi, secondo la Dda, s'erano fiondate le cosche della zona. E con loro il sindaco di Fondachelli Fantina, Francesco Pettinato: per gli inquirenti avrebbe prima bloccato l'iter dei lavori. Poi, ottenuta la certezza che nei cantieri sarebbero entrati la ditta del cugino e operai di fiducia, avrebbe dato il via libera. Li hanno fermati i carabinieri alla vigilia della concessione, da parte della Regione, d'un finanziamento di 80 milioni. Fiumi di denaro che scatenano appetiti e spingono la mafia a fare impresa. Lo scorso dicembre, nel Trapanese, i ferri erano scattati ai polsi dell'imprenditore Salvatore Angelo e di cinque persone (tra cui un consigliere provinciale): le microspie lo avevano intercettato mentre si vantava d'essere «un grande amico di Matteo, anche se per adesso non ci posso andare a incontrarlo». Per gli investigatori, il Matteo in questione era Messina Denaro, capo di Cosa Nostra, spendendo il cui nome Angelo era riuscito a mettere in piedi una rete di società attive nella realizzazione di impianti di energia pulita. Eccezioni? A quanto pare, la regola. O quasi. E non solo in Sicilia: a metà dicembre in Puglia 13 ordinanze custodiali avevano raggiunto altrettanti indagati, sospettati di truffe architettate per prendersi i fondi regionali destinati al fotovoltaico. A Novembre indagini chiuse, in Toscana, sul parco solare di Spicciano, realizzato con fondi europei e modalità ritenute illegittime. Il 13 luglio del 2012, invece, in Calabria, i riflettori della Dda si erano accesi sulla cosca degli Arena, che nel loro feudo di Isola Capo Rizzuto, con l'ipotizzata complicità di 31 tra imprenditori e funzionari regionali (sotto inchiesta l'intero nucleo di valutazione di impatto ambientale della Regione), avevano tirato su un impianto eolico tra i più grandi d'Europa, al prezzo di diversi reati ambientali ed urbanistici, aggravati dalle modalità mafiose. I pali del vento? «Robba bona. Si nun si svigghia uno nun pigghia». Tradotto: «Roba buona, se non ci svegliamo non si prende», si dicevano al telefono due picciotti. Stavano svelando, a chi li ascoltava, la rotta per il nuovo Eldorado di mamma mafia: l'eolico.
I tralci contro i tralicci. A prima vista, quella della Terra del Primitivo contro i giganti dell’energia eolica, sembra una guerra impari, scrive Massimo D’Onofrio su “Il Corriere del Giorno”. Non per questo i proprietari di aziende agricole, ma anche di altri settori produttivi, che hanno fatto nascere il comitato “La strada delle masserie” pensano che non valga la pena di combatterla. A costo di lottare, letteralmente, contro i mulini a vento che tre società hanno intenzione di impiantare «nella culla del Primitivo», la prima Docg, denominazione d’origine controllata e garantita, di Puglia: «La zona più vocata per la produzione di vino di altissima qualità». Qualcosa di molto simile alle colline del Brunello, in Toscana, che nessun individuo sano di mente penserebbe di “manomettere”. Il problema, basti ricordare la vicenda del comune di Scansano e di Jacopo Biondi Santi, il patron del Brunello e del Morellino, è che le pale eoliche sono arrivate pure lì. Tornando a Manduria, le richieste di autorizzazione sono approdate in Regione Puglia ad ottobre 2011 per la verifica di assoggettabilità alla Via, valutazione d’incidenza ambientale. Un percorso non semplice e molto ben “mimetizzato” nei faldoni degli uffici regionali, che solo dopo un anno è “emerso” sull’albo pretorio del Comune di Manduria scatenando la rivolta di ambientalisti, associazioni di diversa estrazione, un partito politico (i Verdi) e, ora, delle aziende che operano sul territorio che va da Manduria ad Avetrana. Il commento più ricorrente è uno solo: «Assurdo». «Come è possibile – ci si chiede – che nessuno si ricordi che questa è la terra del Primitivo?». Già. Del comitato fanno parte 19 proprietari, piccoli, medi e grandi, di aziende come la vinicola Gianfranco Fino, agriturismi, ma anche eccellenze come la masseria Potenti oppure un’azienda che produce vetri artistici che adornano le più belle chiese del mondo. Non riescono a capacitarsi all’idea di vedere pale eoliche piantate tra vigneti e muretti a secco, tra siti archeologici e masserie storiche. «Stiamo inviando le nostre osservazioni, come singoli e come comitato alla Regione Puglia», fanno sapere, soprattutto perchè, oltre a considerazioni di tipo ambientale, vorrebbero capire perchè dalle cartografie risulta che «torri eoliche potrebbero sorgere sulle nostre terre senza che noi ne sappiamo nulla». «Un impatto devastante – sottolineano – che potrebbe distruggere il paesaggio e senza alcuna utilità per il territorio». Il business, evidentemente, segue altre dinamiche. Il che, tuttavia, non è in grado di far svanire i dubbi che aleggiano su un’operazione da centinaia di milioni di euro: «Com’è possibile che tre società nate lo stesso giorno, il 13 ottobre 2010 e domiciliate allo stesso numero civico di una via di Manduria, pur risultando inattive sono in grado di portare avanti un progetto di queste proporzioni?». Il deus ex machina, scorrendo le visure camerali, parrebbe Enrico Minoli, fratello del più noto Giovanni, che risulta amministratore e tra i proprietari delle tre “s.r.l.”, società da 10mila euro di capitale (Manduria Green, Messapia Energia e Monte), che hanno aperto la caccia grossa al vento che spira tra i vigneti. Aria che diventando energia elettrica – e grazie ai lauti incentivi statali, seppur ridimensionati – può fruttare milioni di euro di introiti. Alla faccia dell’ambiente.
Non sono 63 ma 136 le torri eoliche che circonderebbero Manduria qualora i progetti presentati dovessero essere approvati, scrive “La Voce di Manduria”. Lo si apprende dalla voluminosa documentazione che accompagna le domande di valutazione di impatto ambientale presentate (Via) alla Regione Puglia dalle società «Monte», «Messapia energia» e «Manduria Green», tutte riconducibili agli ingegnerei Santo Masilla di Erchie, Leonardo Filotico di Manduria, Enrico Minoli di Torino ed altri soci del Nord Italia. Oltre alle 63 torri dei parchi eolici già noti (zona Castelli e via Per San Pancrazio), infatti, sono in programma altri 5 aerostazioni in contrada Giustiniani (tra la via per Maruggio e Uggiano Montefusco), 21 ad Avetrana e 30 ad Erchie, tutti al confine con i territori di Manduria, che si sommerebbero ai 17 già autorizzati e in fase di installazione sempre ad Erchie. Una vera foresta di pali, quasi tutti alti 100 metri, 140 metri compreso il braccio rotore, nel raggio di circa dieci chilometri dall’abitato manduriano (i più vicini addirittura e poco più di 2 chilometri). Il loro impatto visivo, anche questo illustrato negli elaborati che accompagnano la richiesta di Via, sarebbe impressionante per occhi abituati alle distese di vite e uliveti delle nostre terre. Per i progettisti, invece, su una scala di valori classificati in «nullo, basso, medio e alto», i parchi in questione avrebbero un effetto impattante valutato tra «basso e medio». Dalla «mappa di visibilità» della Via, ad esempio, l’analisi fatta dai progettisti prevede questa percezione per chi guarda da Manduria verso Avetrana o Lecce: «Dal Punto 3 (centro abitato di Manduria) – si legge – si potrebbero vedere gli aerogeneratori del parco eolico Manduria 48, Manduria 84, Manduria 57, Erchie 32 e Eolico-Erchie e 4 aerogeneratori del campo eolico Erchie 28». Ma veniamo all’affare degli investitori. Tutti i parchi previsti messi insieme (136 torri) comportano un investimento di 272 milioni di euro. I ricavi previsti (dati elaborati su un parco eolico e rapportati sul totale delle torri) saranno pari a 72 milioni di euro circa per ogni anno di funzionamento (durata media degli aerogeneratori, 20 anni). L’energia prodotta che sarà di 497 MW, è sufficiente al fabbisogno di 181mila famiglia, cioè per una citta grande quasi quindici volte Manduria. A vantaggio della comunità ci saranno i posti di lavoro, i royalty per il comune e naturalmente il risparmio di immissioni inquinanti nell’atmosfera come accade per le fonti di energia tradizionali.
Da qui la presa di posizione degli ambientalisti ed altri comitati tematici. Su “Manduria Oggi” i Verdi: «A causa della speculazione legata alle fonti di energia rinnovabili, la nostra città rischia di ritrovarsi circondata da una ben poco decorativa “cintura” di parchi eolici». I Verdi intervengono per denunciare l’“ennesimo attacco al territorio e al paesaggio”. «Si tratta di tre impianti per i quali è avviata presso la Regione Puglia la procedura di VIA, i cui avvisi sono comparsi sull’albo pretorio on-line del Comune di Manduria, per un totale di 63 torri da 3 MW/cad. Due di tali impianti dovrebbero sorgere approssimativamente lungo la via per Lecce, andando a sommarsi a quelli già in fase di realizzazione, su territorio di Erchie. Il terzo e, a nostro avviso, più impattante, dovrebbe interessare una vasta porzione di territorio che dalle adiacenze della via per S. Pietro in Bevagna si spinge sino alla via per Avetrana, andando a compromettere, con le 28 torri previste, zone di grande interesse paesaggistico ed archeologico, quali il cosiddetto monte dei Diavoli, le colline di contrada Serpente, il bosco dei Cuturi, le aree intorno alla collina di Castelli, con i resti della città preromana e tutti i siti archeologici circostanti. In questo caso vediamo minacciata l’integrità di un territorio e di un paesaggio che andrebbero tutelati per ciò che conservano di integro dal punto di visto naturalistico e culturale, anche, ma non solo, in vista di uno sviluppo turistico di cui tanto parliamo, ma che costantemente compromettiamo con i nostri comportamenti pubblici e privati».
Ed ancora su “Manduria Oggi” è stata pubblicata questa lettera. «Noi componenti del Comitato Cittadino Antinucleare di Maruggio, non come cittadini spettatori passivi, ma come protagonisti attivi nel proprio territorio, riteniamo un diritto-dovere prendere parte alla discussione ed esprimere le proprie posizioni circa qualunque iniziativa volta al cambiamento sul nostro territorio. L’impatto ambientale di qualsiasi opera non può essere limitato ad una valutazione soltanto paesaggistica o ambientale in senso stretto. Non si può scollegare un ambiente, inteso come micro e macro sistema, dal suo percorso evolutivo naturale, dal suo percorso evolutivo antropico (evolutivo o involutivo); non lo si può considerare indipendentemente dalle scelte, volute o imposte, di tipo economico e politico che ne hanno indotto le trasformazioni. Non si può valutare l’impatto di una pala eolica (e qui si parla di ben 84 megatorri di 3 MW ciascuna!) non legandolo al contesto complessivo del territorio su cui essa verrà eretta. In tutto questo tempo il territorio tarantino ha subito pesantemente un certo percorso trasformativo. La provincia jonica, oggi, non ha più primati di vino, olio, mitilicoltura, prodotti lattiero-caseari, artigianato del legno e della pietra; tutti questi si sono trasformati in primati di acciaio, diossine, discariche per rifiuti speciali. La presenza per più di mezzo secolo dell’industria pesante, della monocoltura dell’acciaio, dell’Eni, degli apparati militari, della cementificazione del territorio, dello scippo dei terreni agricoli ad opera di discariche e di mega impianti di energia rinnovabile, ha letteralmente distrutto questo territorio, lo ha reso pressoché sterile nelle sue economie e culture/colture autoctone, condannandolo ad una desertificazione ambientale, sociale ed occupazionale. Per questo motivo, non quello di 84 ma nemmeno il progetto di una sola pala eolica dovrebbe essere ancora autorizzato. Diversamente qualsiasi progetto del genere, al di là se interessa le zone orientali od occidentali di Taranto, assumerebbe di fatto il significato di accanimento su un ambiente già moribondo, di un ulteriore massacro su un territorio già cadavere. Ma cos’è la realizzazione di un “parco” eolico di 84 torri se non una centrale elettrica privata di tipo industriale costruita su terreni destinati ad un uso agricolo?
- La prima considerazione da fare riguarda la produzione di energia elettrica. Da troppo tempo la produzione di energia verde da fonti rinnovabili viene sbandierata come la salvezza dall’uso dei carburanti fossili. In realtà a tutt’oggi non un solo kWh di energia da carburanti fossili è stato sostituito da energia verde. Proprio la Puglia ne è l’esempio più eclatante. Nonostante sia diventata la regione leader nella produzione di energia verde, continua a mantenere alta ed intaccata la sua enorme produzione energetica da carburanti fossili, esportando almeno il 90 % dell’energia prodotta. Di fatto, altri usufruiscono del prodotto finito e pulito (l’energia), mentre sul nostro territorio rimangono le conseguenze impattanti e contaminanti della produzione di questo surplus energetico; veleni che si sommano a quelli del ritorno degli scarti industriali prodotti altrove e destinati a quelle discariche per rifiuti speciali di cui il territorio tarantino vanta il triste primato delle tre discariche più grandi a livello europeo.
- La seconda considerazione è di ordine economico. Al di là del fumo negli occhi della gente, della parvenza di energia pulita non inquinante, questi mega impianti servono soltanto ad incrementare gli interessi privati del business dell’energia. Si tratta per lo più di multinazionali o di vera e propria criminalità organizzata che, attraverso regolamentazioni nazionali, regionali e locali permissive, sfruttando il cosiddetto “libero” mercato dell’energia, operano un vero e proprio saccheggio del territorio. Inoltre molti di questi finanziamenti/capitali non rimangono nemmeno in loco e facilmente prendono la via dell’estero. Ma chi finanzia tutto questo? L’intera collettività spesso è ignara di pagarsi le proprie torture. Le nostre sono le bollette più care d’Europa e sono tali perché gli italiani, all’oscuro di tutto, con queste finanziano anche gli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili (Cip6 in cui c’è di tutto e di più) e persino l’eterna eredità del nucleare. Si tratta di voci che non compaiono direttamente sulle bollette, ma vengono mascherate con la dicitura di “oneri generali di sistema”, gestite da aziende non più pubbliche bensì private che, come per esempio l’Enel spa, addirittura partecipano alla costruzione ed alla gestione di centrali nucleari all’estero … ma con quali risorse? Forse servono anche a questo i rincari delle nostre bollette? E che dire della mascherata contraddizione dei due percorsi di produzione energetica (da fonti fossili e da fonti rinnovabili) che continuano a viaggiare sempre perfettamente paralleli? Ma di quale salvezza verde si parla se continuano costantemente e massivamente le ricerche con i trafori petroliferi? L’esempio della Shell, chiaramente nel golfo di Taranto, è uno dei più eclatanti. Forse è proprio questo uno degli scopi dei certificati verdi che gli italiani continuano a pagare con le super-bollette?
- La terza considerazione è di ordine occupazionale, culturale e giurisdizionale. Un semplice cittadino incontra una miriade di difficoltà ed è soggetto ad una moltitudine di vincoli per avere autorizzazioni anche per piccoli lavori; al contrario gli imprenditori del mercato energetico, nonostante siano coinvolti in mega opere che interessano superfici di migliaia di ettari, sono enormemente facilitati nell’autorizzazione dei loro progetti. Spesso questi riguardano zone con vincoli assoluti quali zone Sic, zone in prossimità di parchi naturali o della battigia, e contemplano persino l’esproprio di terreni di piccoli agricoltori con la giustifica della pubblica utilità. Con la solita scusa del ricatto occupazionale si continua a cementificare sempre di più il territorio. In realtà l’occupazione che si riesce a garantire con questo tipo di opere non solo è veramente ridotta, ma soprattutto è temporanea e precaria, vista la sua dissoluzione con la messa in opera del manufatto. Al contrario volutamente non si calcola quanta mano d’opera viene sottratta all’agricoltura sia perché costantemente avviene il furto di terreni agricoli fertili, sia per il deprezzamento del valore del terreno e della stessa produzione agricola. La svalutazione ed il deprezzamento dei prodotti agricoli hanno raggiunto oggi una tale insostenibilità da far diventare legittima la domanda: c’è forse un programma appositamente costruito per costringere gli agricoltori a svendere ed abbandonare quella terra che ha rappresentato la storia, la cultura ed il sostentamento di chissà quante generazioni della provincia jonica? Non è un caso che volutamente si parla di sostenibilità e non di compatibilità continuando a recitare la commedia per la salvaguardia e la tutela della qualità di agricoltura e turismo.
- La quarta considerazione è di natura tecnica generale. Come al solito, quando si parla di una qualsiasi fonte energetica non si prende mai in considerazione l’intera filiera. In realtà sarebbe opportuno, doveroso e necessario fare una valutazione complessiva comprendente il prima e il dopo dell’installazione del manufatto; di come e quanto necessita per arrivare a quella pala; qual è il suo rendimento e bilancio energetico; di cosa ne sarà quando questa non funzionerà e non servirà più … ma di tutti questi discorsi post pala nemmeno l’ombra! Forse anche per questo motivo queste energie vengono definite rinnovabili? perché le loro presenze si rinnoveranno di generazione in generazione, nel solito rimpallo di responsabilità ed incompetenze di chi si sente padrone di tutto e concepisce la vita ed il mondo solo come oggetto di profitti contingenti … scordandosi che esistono anche l’etica e la dignità altrui. Oggi, la comunità tarantina può vantare l’appoggio dell’Amministrazione provinciale che, con il suo secco No alle 84 pale fra Manduria ed Avetrana, dimostra una volontà ambientalista veramente sorprendente. Certo c’è da chiedersi dov’era questa stessa Amministrazione quando in passato erano in itinere altri progetti di parchi eolici riguardanti addirittura il pregiato Parco delle Gravine. Come dire … meglio tardi che mai. Noi auspichiamo in futuro una continuità con la posizione presa attualmente. Per questo, lo scrivente, propone alla Provincia di Taranto l’istituzione di un COMITATO PROVINCIALE con lo scopo almeno di censire l’intero territorio evidenziando sia le opere già realizzate che quelle in progetto visto che facilmente queste possono sfuggire o rifugiarsi nei meandri burocratici di Regione, Provincia o Comuni. Non dimentichiamo che alla Puglia spetterebbe soltanto una quota dell’intera produzione nazionale di energia da fonte rinnovabile mentre invece di questo passo rischia di produrla quasi per intero. Il COMITATO PROVINCIALE, proprio per evitare situazioni di “nicchie”, è auspicabile che sia composto ed esteso a tutti i comitati territoriali che già operano e si impegnano nel proprio circondario per contrastare il continuo massacro della propria terra».
«Ci avevano fatto credere che ci sarebbero stati ritorni economici per il nostro comune e vantaggi occupazionali per il territorio, ma non è niente vero. Stiamo valutando strade di natura giudiziarie». La confessione a “La Voce di Manduria” è del sindaco di Erchie, Giuseppe Margheriti il primo a cedere alle lusinghe degli investitori della green energy che in casa sua hanno già ottenuto 17 autorizzazioni per altrettante torri eoliche nelle campagne di Erchie ed altre 30 sono in fase di valutazione. Il primo cittadino si lascia così andare nell’ultimo servizio prodotto dal movimento Giovani per Manduria, «10 minuti per Manduria», che potrete seguire domani nella sua forma integrale. «Per realizzare gli impianti previsti nel progetto – spiega Margheriti – occorrevano 45 milioni di euro», una cifra impossibile per gli imprenditori nostrani. «Così tutto è stato venduto alla Toshiba che non sa nemmeno dove si trovi Erchie così tutti i lavori sono stati subappaltati a imprese esterne senza nessuna ricaduta sull’economia locale». Incalcolabile poi il danno ambientale prospettato dal sindaco di Erchie che riconosce il proprio errore anche in questo settore. «Credevo che l’impatto ambientale riguardasse solo i 40 metri quadrati che occupa una torre, ma non avevo considerato le opere necessarie per collegare tra loro le turbine e per mettere in rete l’energia: centinaia di metri di muretti a secco, ettari di macchia mediterranea e cinquecento alberi di ulivo secolari». E questo solo per 17 torri. Provate ad immaginare lo stesso impatto sull’ambiente rapportato alle 63 pali che le stesse società che risiedono in Via dei Mille a Manduria vorrebbero realizzare nelle terre del Primitivo. Le relative istanze di valutazione di impatto ambientale sono state presentate alla Regione Puglia che ha già chiesto pareri alle istituzioni locali e provinciali. Il comune di Manduria ha già espresso parere contrario alla Via e la parola ora tocca alla Regione. Per un’altra domanda il cui iter è iniziato prima, relativa a una piccola stazione eolica di cinque torri in contrada Giustiniani, sulla Manduria Maruggio, la fase autorizzativa è già in uno stato avanzato. Pare che per queste cinque torri, nonostante il parere contrario del comune, nessuno possa più opporsi anche per l’assenso ottenuto dalla competente commissione paesaggistica comunale.
Antonio Giangrande: “Manduria, gli ambientalisti della porta accanto”. Quando l’istallazione di Depuratori delle acque e dei Parchi eolici mette in crisi, per convenienza, le convinzioni ambientaliste dei Verdi. «A Manduria, è noto, c’è la diatriba del depuratore consortile Sava-Manduria da installare, di fatto, ad Avetrana e con lo scarico a mare delle acque reflue nel mare prospiciente Specchiarica, zona balneare degli avetranesi – spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’ambiente truccato ha scritto un libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. – Meno nota, ma recente, è la questione delle 63 pale eoliche da installare a Manduria lungo la strada per Lecce e per San Pietro in Bevagna, la cui messa in posa è contestata dai Verdi manduriani. Da premettere che la depurazione delle acque sporche (urbane o industriali) o le fonti alternative di energia pulita sono il cavallo di battaglia degli ambientalisti e della loro rappresentanza politica nelle liste dei Verdi. Anzi, oltre alla forestazione delle campagne con la tutela indiscriminata di piante ed arbusti autoctoni, sono le sole battaglie che portano avanti. Certo è che sono condivisibili le battaglie a difesa del territorio, ma è palese la contraddizione insita tra le pretese dei Verdi e la loro attuazione. Si possono capire le prese di posizione di tutti gli altri movimenti o partiti politici, ma è paradossale che i Verdi di Manduria si mettano a protestare per l’istallazione di strutture “Verdi” e pretese dalle politiche dei Verdi, come può essere un depuratore o un parco di pale eoliche o di impianti fotovoltaici. E’ nota la battaglia di Vittorio Sgarbi contro la mafia dell’energia alternativa. Protesta che si è chiusa con lo scioglimento della sua amministrazione immaginate un pò con quale ipotesi. Non vorrei che, anche i Verdi di Manduria, siano come i “Verdi della porta accanto”: ossia gli impianti Verdi sono necessari ma che siano installati nel territorio altrui.»
CULTO E PARADOSSI DEL SALUTISMO.
Salutismo. s.m. Atteggiamento caratterizzato da una particolare cura per la propria salute, che si manifesta spec. con l'attenzione a una sana condotta di vita.
MAGNA MAGNA CAPITALE – IL BANDO PER LA BUVETTE DEL CAMPIDOGLIO È UN MISTO DI SALUTISMO E GRAN GOURMET – REGOLE PRECISE PER LA FARCITURA DEI TRAMEZZINI E PER LA QUALITÀ DEI SALUMI – E OGNI MESE DEVONO CAMBIARE FRUTTA E VERDURA – ISTRUZIONI MINUZIOSE ANCHE PER PREPARARE IL CAFFÈ FREDDO. Se il consiglio comunale di Roma facesse delibere e regolamenti con la stessa cura con la quale organizza il lussuoso bar interno forse la città avrebbe un altro volto. L’assortimento dei formaggi è degno dei migliori ristoranti: in frigorifero non devono mancare Gruyiere francese, caprini freschi, tomini stagionati, Roquefort, Sbrinz, Feta, Camembert e, naturalmente, mozzarelle e caciocavallo a volontà…scrive Fosca Bincher per “Libero quotidiano” del 16 giugno 2015. Chissà se l’idea è venuta leggendo quelle intercettazioni giudiziarie che lo riguardavano da vicino: «Se Ignazio Marino resta altri tre anni e mezzo, noi se magnamo Roma». Fatto sta che quasi in contemporanea alla divulgazione di quel grande appetito dei boss di Mafia Capitale, al primo cittadino di Roma è venuta l’acquolina in bocca. Fame vera ed umanissima, non metaforica e di tipo criminale. Marino e i suoi più stretti collaboratori hanno voglia di mangiare diversamente da come è accaduto fin qui. Così all’albo pretorio del comune di Roma è stato affisso il bando per la gestione della buvette del Palazzo Senatorio. All’interno delle grandi istituzioni si chiama buvette quella sorta di bar nei pressi dell’aula consiliare che serve a dissetare e sfamare rapidamente gli eletti. Alla buvette del palazzo Senatorio del comune di Roma possono accedere i consiglieri comunali, i membri della giunta a partire dal sindaco scendendo per i vari assessorati, i collaboratori autorizzati ed eventuali ospiti. Clienti di pregio, e si capisce dal capitolato d’appalto allegato al bando di gestione. Perché Marino & Co. anche al bar hanno le loro esigenze. Raffinate, esclusive e salutiste. Sono contenute in pagine dettagliatissime le richieste per fame e sete dei consiglieri e assessori della Capitale. Che vogliono mangiare e bere bene, e in modo sano. Le istruzioni sono da buvette di alta classe. È consentita lì ad esempio la preparazione di piatti a base di frutta e verdura solo se di stagione. Di più: solo se la freschezza è mensile. In questo mese di giugno dovresti trovare asparagi, barbabietole, cavolfiori, cetrioli, coste, fagiolini, finocchi, funghi, insalatine da taglio, melanzane, peperoni, piselli, pomodori, ravanelli e zucchine. Ma da luglio devono sparire gli asparagi, i finocchi, i cavolfiori e le barbabietole. In compenso si devono trovare le coste e la zucca. E così via di mese in mese: qualche prodotto può entrare, altri debbono uscire. Per la frutta a giugno si possono gustare ciliege e nespole, ma dal primo di luglio via e possono entrare anguria e pesche. Sono stabilite le caratteristiche perfino delle tazzine da caffè (ceramica o vetro a seconda delle miscele) e da cappuccino, così come per infusi di ogni natura. La miscela di caffè ha regole rigidissime: «La miscela può essere Arabica, Canephora o Robusta. Nel caffè macinato la granulometria deve essere omogenea, e non troppo fine», e così via con altre amenità. Deciso pure il caffè freddo che d’estate va moltissimo: «Caffè 30 millilitri, sciroppo di zucchero 10-15 millilitri, ghiaccio quanto basta». Regole stringenti per spremute di frutta fresca e frullati. Per i tramezzini, regola comune: non più di 90 grammi di peso. Possono essere farciti con cotto + edamer, oppure con «cotto e insalata capricciosa», «cotto e funghi prataioli», tonno, e ancora «gamberetti + salsa cocktail» e «uovo + insalata capricciosa». Dettaglio minuzioso anche per le farciture di panini e toast, come per tutte le insalate possibili, di verdura o di frutta. Regole stringenti per gli ingredienti di qualsiasi altro spuntino. A disposizione degli augusti ospiti in buvette debbono esserci in caso di fame improvvisa anche piattini di salumi, pesce affumicato (salmone, tonno, pesce spada e merluzzo) e formaggi di ogni tipo. Per la sola bresaola della Valtellina le regole sono queste: «Deve essere preparata a partire dalle masse muscolari in un solo pezzo della coscia bovina; il processo di stagionatura deve essere compreso fra le 4 e le 8 settimane; la consistenza deve essere soda, senza zone di rammollimento, umidità massima 65%...». Per i salami previsti i tipi «Milano, Felino, Soppressa veneta, Finocchiona e Ungherese», ma la forma deve essere intera «e non confezionata», il Ph minore di 5, l'umidità al 35%. Ok anche alla Mortadella Bologna IGP, ma «l’aroma non deve essere eccessivamente speziato». Per coppa e capocollo «il processo di stagionatura e maturazione deve compiersi lentamente». Al banco dei formaggi Marino e i suoi vogliono trovare di tutto, in modo da soddisfare qualsiasi tipo di palato: mozzarelle fiordilatte, di bufala, scamorze, scamorze affumicate, caiocavallo, caciotte di latte vaccino, caciotte di pecora, crescenza, Asiago dop pressato, Asiago dop D'allevo, Montasio, Fontina, Cheddar, Edamer, Emmentaler svizzero, Emmental francese, Beaufort, Groviera svizzero, Gruyiere francese, Grana Padano, Prmigiano reggiano, Taleggio, Quartirolo, tomini stagionati, Italico, Brie, Gorgonzola, Roquefort, caprini freschi, Feta, Sbrinz, Pecorino, Camembert Aoc. Nemmeno nei grandi ristoranti c’è una varietà così. E per ogni forma regole severissime di preparazione e confezionamento. Basteranno? A quanto pare in quel palazzo Senatorio di Marino & c la fame non manca.
Nazismo e Salutismo, scrive Alberto Mingardi il 13 agosto 2002. Mica tutti lo sanno, ma la prima grande, maestosa campagna antifumo della storia porta la firma di Adolf Hitler. Lo spiega Robert Proctor in un bel libro tradotto per i tipi di Cortina, in cui avanza una lettura del nazismo come "grande esperimento igienista disegnato allo scopo di realizzare una selettiva utopia sanitaria”. Per anni s’è intravisto nell’ideologia la medicina infallibile per curare tutti i mali dell’uomo, e si sono confuse le carte, e quanto ci è costato imparare a non scambiare malattia e dottore. Nel 1934, arringando il Reichstag, Hitler era stato chiaro: "Ho dato l’ordine di bruciare fino alla carne viva le ulcere del nostro avvelenamento interno". Werner Best, il luogotenente di Reinhaurd Heydrich, rincarò la dose spiegando che il compito della polizia era quello di "sradicare tutti i sintomi di malattia e i germi di distruzione che minacciano la salute politica della nazione". Non solo metafore. Le parole del reichgesundheistführer lasciano poco spazio all’interpretazione: "nessuno ha il diritto di considerare la salute una materia personale e privata, che può essere accantonata a seconda delle preferenze individuali. La terapia deve essere amministrata negli interessi della razza e della società piuttosto che in quelli dell'individuo malato". Ora, non ci azzarderemmo nemmeno a tracciare un paragone improbabile, a immaginare Girolamo Sirchia coi baffetti e il braccio teso. Epperò ci resta l’amaro in bocca, la sensazione spiacevole d’esser stati presi in giro. Appena nominato da Berlusconi, Sirchia si affrettò a buttar giù un manifesto della "sua" sanità, e lo declinò orgoglioso in un paio d’interviste. Pugno di ferro con la droga, e guanto di velluto con la nicotina: suonava come un’inversione di tendenza rispetto al suo predecessore Veronesi. Ma gli ultimi exploit del ministro ci hanno ricordato che invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Mi spiego. Sirchia ha rilanciato, e con imperturbabile violenza, la crociata antifumo lasciata a metà dal governo Amato. E’ una svolta che si è consumata in quel silenzio ovattato con cui si annuncia un golpe bianco. Il provvedimento è entrato in vigore all’albeggiare dell’anno nuovo, in tandem con l’euro, e adesso il ministro propone di estenderlo ai locali privati aperti al pubblico, e all’improvviso i fumatori s’accorgono, mentre soppesano le nuove monetine, di essere diventati dei lebbrosi ipotetici. Paria sospesi fra un presente d’inferno e la tenebrosa attesa della "soluzione finale". "Braccati dai Nas", ha scritto Gianni Mura su "Repubblica", e un po’ da una cattiva coscienza sapientemente seminata, dalla consapevolezza greve di aver torto, da un mea culpa obbligatorio e definitivo. Sarà anche vero che ogni sigaretta che ti accendi è un piccolo patto col diavolo, è mendicare un altro mutuo alla banca della vita. Sarà anche vero che fa male, che è un anticipo di agonia, che ogni boccata è truccare le carte al destino. Ma al diavolo: cosa non lo è? Cosa c’è che non sia uno stare sospesi, barcollando leggeri, uno scivolare lento verso l’oblio? Si chiama vivere, ed è tutto un rischio. Si dice che ci siano dei rischi diversi da altri. Che alcuni presentano misteriosi "costi sociali", il conto girato alla comunità per le pirlate di un individuo. Ed è quando uno si incaglia su questi argomenti che s’intuisce che il Novecento non è finito, che siamo rimasti gli stessi, che stiamo solo ricamando vestiti nuovi addosso ai nostri maledetti istinti. Dire che i fumatori (pardon, i "malati di nicotina", come li chiama Sirchia in un crescendo politicamente corretto) rappresentano, potenzialmente, un costo sociale, perché alla fine vanno a marcire negli stessi ospedali di chi è vergine alla sigaretta, è un aver già deciso. Un essere sicuri a priori, in partenza, che il mondo si divide in due, e che basta avere i polmoni un po’ più scuri per non varcare le porte dell’Olimpo. I fumatori non sono un "costo" sociale, come non lo sono gli obesi (prossime vittime del ministro), come non lo sono i malati di aids, come non lo sono gli spericolati che si fracassano il cranio, come non lo sono gli omosessuali, e i lussuriosi, e gli automobilisti, e gli psicanalisti junghiani, e i lettori di Topolino. Pagano tutti le tasse, vengono rapinati tutti allo stesso modo. I fumatori, semmai, di più: ci sono fior di imposte indirette appiccicate a un pacchetto di Malboro. Un conto approssimativo lascia intendere che, dal 1 gennaio 2000, i fumatori hanno contribuito per circa 33400 miliardi di lire (traducete voi in euro) al bilancio dello Stato. Il loro letto in corsia se lo sono pagato. Ma per questo Stato, contrabbandiere e poliziotto, spacciatore e proibizionista assieme, questo Stato che guai agli spot alla nicotina e poi tappezza di pubblicità "Ms" l’Aprilia di Macio Melandri, forse non basta. Forse c’è ancora la tentazione di non limitarsi a pigliare gli uomini come sono, questi insopportabili zozzoni, questi egoisti impenitenti. C’è ancora il desiderio nascosto, e nemmeno tanto nascosto, di "bruciare le ulcere della società", di spalancarci un domani virtuoso. E chissenefrega se basterebbe un briciolo di buon senso, una goccia di libertà, per avere locali per fumatori e locali per "non", e lasciare alla gente il verdetto. C’è chi sussurra che ormai la legge è fatta, e ci tocca obbedire. No. Le leggi ingiuste non si obbediscono: si combattono. E anche se scavare la trincea costa, se immaginare un gesto di solidarietà paradossale come una spipazzata, un tiro di sigaretta, è forse troppo per uomini senza fantasia, la mia impressione è che "ci tocca". Persino ai non-fumatori professionisti, o fumatori timidi, come chi scrive. Meglio sacrificare i nostri polmoni che la nostra libertà. Ai fumatori incalliti si richiede lo sforzo contrario: coltivare il rispetto, inventarsi un galateo anarchico per sopravvivere a qualsiasi legge.
Il nazismo tra ecologismo, salutismo, esoterismo. Come un'ideologia distruttiva si è nutrita di vecchi e nuovi miti. Scritto da Rino Cammilleri l'1/01/1993 su “Europa Oggi”. "Quando il cielo si vuota di Dio, la terra si popola di idoli" (Karl Barth). Tratto da: I Mostri della Ragione, di Rino Cammilleri, Edizioni Ares 1993. A cinquant'anni dall'inizio della seconda guerra mondiale non so se sia un bene continuare a parlare del nazismo, almeno così come se ne è parlato finora. Tonnellate e tonnellate di carta stampata, biografie, diari veri e falsi, rivelazioni e controrivelazioni, film (anche porno-sado-maso), fumetti, fascicoli settimanali, pièces teatrali sono stati profusi sull'argomento, e tutto con un unico scopo: demonizzare. Intendiamoci: terrificante realtà fu il nazismo, ma il demonio, brutto per quanto sia, ha pur sempre un suo fascino e l'esperienza insegna che a furia di parlar male di qualcuno si può ottenere l'effetto opposto, cioè far sorgere prima la curiosità e poi l'interesse. È come dire ai bambini di non toccare la presa di corrente e poi accorgersi che malgrado tutte le nostre raccomandazioni stanno lì come ammaliati, cercando di infilarci le dita. Il sistema migliore rimane quello di mostrare serenamente di che si tratta (e poi comprare un tappo). Non sarà infatti sfuggito come certi movimenti giovanili spontanei (punk, skinhead) usino simboli nazisti per testimoniare la loro volontà di essere «contro» — per non parlare del neonazismo tedesco che riesce anche a raccogliere preoccupanti consensi. Nel film The Wall dei Pink Floyd è acerbamente descritto — visto da «dentro» — come in molti giovani disadattati possa nascere una volontà distruttiva contro il «sistema», inteso come fonte unica di ogni insoddisfazione: il modo più conseguente di andargli contro è sposare la causa del dichiarato suo peggior nemico. Da quel tipo di avversione al «sistema» alla simpatia per il nazismo, il passo è breve; anche perché quel che spesso affascina del nazismo sono le rapide soluzioni «igieniche» e il semplicistico manicheismo. È da ritenersi che gli stretti legami tra il mondo del rock «duro» e il satanismo abbiano la stessa spiegazione. Il relativamente recente — e notevolmente interessante — libro di Giorgio Galli Hitler e il nazismo magico (Rizzoli, Milano 1989), potrebbe essere guardato anche alla luce di quanto detto, anche se l'autore tratta l'argomento con la serenità dello studioso, evitando di abbandonarsi a dichiarazioni di fede politica e a declamazioni di principio inopportune in un'opera storica rigorosa. Tuttavia, come fece notare lo studioso di destra Marco Tarchi in un dibattito con l'autore svoltasi presso l'Accademia Nazionale dell'Ussero a Pisa poco dopo la pubblicazione, la tesi di fondo del libro (cioè che tutto il nazismo sia stato un fenomeno da leggersi in chiave esoterica, perché questa era l'intenzione dei suoi fondatori e dei suoi uomini di punta) può provocare in molti giovani, approdati a una certa destra per un fenomeno di rifiuto, una simpatia per il nazismo tanto più dannosa perché fondata anche — e ovviamente non solo — sull'irrazionale. Giustamente, dal suo punto di vista, il Galli replicò in quell'occasione che lo storico «laico» non scriverebbe più niente se dovesse curarsi delle conseguenze che certe sue ricerche potrebbero avere su alcune minoranze esaltate. Ma è proprio vero che il nazismo fu «magico»? Che Hitler e i suoi consultassero astrologi è cosa risaputa, così come è noto che qualche pezzo grosso del nazismo si considerava la reincarnazione di grandi personaggi del passato. La svastica tibetana, le teorie sulla terra cava, la stessa ossessione ariana avevano senz'altro questa valenza. Qualcuno (e per l'esattezza Rosemberg, un nazista della prima ora) aveva addirittura teorizzato un Ordine nazionalsocialista, da fondare dopo la vittoria finale, con Hitler come gran maestro e le SS come cavalieri. L'idea fu lanciata proprio a Marienburg, l'antica sede dei Cavalieri teutonici, e provocò il decreto del 15 settembre 1935 che divise i tedeschi in due ranghi: Reichsbürger e Bürger semplici. Solo i primi avevano diritti politici. Non solo, ma forse da questo punto di vista possiamo qui aggiungere qualcosa che è sfuggito al Galli e cioè l'ossessione del Fuhrer per il numero sette, «magico» per eccellenza. Hitler, quando militava come caporale nella prima guerra mondiale, venne ferito il 7 ottobre 1916 e fu ricoverato nell'ospedale di Beelitz, non lontano da Berlino. Qui vide il disfattismo degli imboscati e potè assistere agli scioperi nelle fabbriche di munizioni, organizzati dalle quinte colonne avversarie. Secondo le sue stesse parole, fu in quella circostanza che la sua vocazione politica prese corpo. A ciò va aggiunto che il suo capitano (Rohm, che poi divenne uno degli uomini di punta delle SA e fu in seguito eliminato nella notte dei «lunghi coltelli»), evidentemente in obbedienza a ordini superiori, gli aveva affidato una missione un po' particolare: infiltrarsi in quella nuova associazione politica di cui tanto si parlava a Monaco. Era un gruppetto fondato proprio il 7 marzo 1918 dal fabbro Drexler e si chiamava «Comitato indipendente di operai a favore di una pace onesta». Perduta la guerra, prenderà il nome di Partito operaio tedesco (e più tardi nazionalsocialista). Il caporale Hitler esegue e riferisce: niente paura, sono pacifisti ma anticomunisti. Ma qui cominciano i misteri. Hitler ottenne la tessera numero sette (ancora il sette). Ma se l'associazione aveva già quell'importanza che Rohm le dava, come mai la tessera numero sette era ancora disponibile? E se invece si trattava di un gruppo di sole sei persone del quale Hitler avrebbe occupato il settimo posto, perché mai questo partito sarebbe stato tanto notorio e importante da richiedere una missione così riservata e l'infiltrazione? Indagare tuttavia in questo senso ci porterebbe lontano, in una direzione che tutto sommato esula dallo scopo del presente lavoro. Qui ci basta rilevare la predilezione di Hitler, da quel momento, per il numero sette, predilezione che lo accompagnò tutta la vita. Basti pensare che quasi tutte le sue campagne furono iniziate il settimo giorno e precisamente all'alba di una domenica Comunque, l'incidenza dell'esoterismo e dell'occultismo nel Reich secondo molti va senz'altro ridimensionata. Già si è accennato agli stretti rapporti che intercorrono tra razionalismo e occultismo, tra neopaganesimo ed esoterismo. L'ambiente tedesco — e non solo quello — prima dell'avvento di Hitler era saturo di tutte queste cose. Ancor oggi però assistiamo a inquietanti revival, senza che da noi vi siano totalitarismi, anzi in pieno pluralismo ideologico. Tutte le grandi imprese tedesche dell'epoca — Siemens, AEG, IG Farben, Vereinigte Stahlwerke, Krupp, Schering — avevano sezioni dì grafologia e psicometria, e lo stesso Hitler ebbe in alta considerazione l'astrologia finché ne ottenne predizioni favorevoli. Ma quando all'inizio del 1941 i pronostici non furono più di suo gradimento, cominciò a prendere le distanze dai maghi. Infine, sparito Hess, dalla freddezza si passò apertamente alla persecuzione. La verità è che Hitler odiava la scienza accademica e non ne faceva mistero, ma il motivo era da ricercarsi nel fatto che egli non era in possesso di alcun titolo dì studio. Da qui il favore per tutto ciò che era «alternativo». Quelli che traevano vantaggio da questa situazione non erano certo personaggi esperti e corretti, bensì i ciarlatani e i piaggiatori. I centri dove le scienze astratte erano studiate seriamente erano tutto sommato pochi in Germania e furono quelli che finirono nelle liste di proscrizione. In omaggio ai gusti del Fiihrer in tutta la Germania pullularono ben presto i praticoni delle medicine alternative. Fu, col sesso, l'unica cosa veramente libera nel Reich. Chiunque poteva scrivere sulla propria porta Heilprakciker (esperto in guarigioni), purché di razza ariana e maggiore degli anni ventuno: fu stabilito da un decreto del 12 ottobre 1935, con la sola esclusione per la cura delle malattie veneree e delle vaccinazioni. Hitler era infatti, come è noto, un salutista (anche se nessuno lo vide mai in maniche di camicia né in costume da bagno) col suo vegetarianismo, la sua avversione agli alcolici e alle sigarette, il suo amore morboso per gli animali e il suo odio viscerale per la medicina universitaria. Nel 1934 venne inaugurato a Dresda un ospedale naturista, intitolato a Rudolf Hess, delfino di Hitler e come lui fissato per tutte queste cose. Il centro era destinalo a studiare tutti i metodi terapeutici alternativi, come l'idroterapia, il vegetarianismo, la talassoterapia, l'aeroterapia, il nudismo. Non vi erano medici, ma solo Heilpraktiker.Da quel momento queste «scienze» ebbero un tale impulso che gli adepti fondarono addirittura un sindacato con tanto di albo professionale, lo Heilpraktiker Bund. Ci si scagliò anche contro le attività che il decreto del 1935 aveva proibito agli Heilpraktiker. Il Gauleiler di Fran-conia, Julius Streicher, editore dei settimanale pomo-politico Der Sturmer (che faceva propaganda di nudismo), uno dei pochi che si permettevano di dare del tu al Fuhrer, iniziò una violenta campagna contro i sieri e i vaccini, arrivando a dire che si trattava di invenzioni ebraiche per corrompere il sangue tedesco, poiché Koch e Behring, scopritori dei vaccini, quantunque tedeschi, avevano mogli di razza ebraica. Il nudismo, poi, si diffuse talmente che arrivarono a esistere vere e proprie città di nudisti, con più di diecimila abitanti, come quella di Kladow, presso Berlino. Si giunse a incoraggiare il nudismo in tulle le circostanze. Non erano pochi i casi in cui anche i ricevimenti ufficiali finivano con uno strip collettivo in omaggio alle nuove tendenze. Il nudismo, quale culto del corpo e della natura, oltre che di ascendenze paganeggi ami, è anch'esso strettamente collegalo al razionalismo. Ne troviamo manifestazioni durante la Rivoluzione francese e in quella sovietica. Nei primissimi anni del colpo di stato bolscevico si potevano vedere nei parchi delle principali città russe uomini e donne nudi prendere il sole tranquillamente. Anzi, il fenomeno raggiunse tali eccessi che si dovette vietarlo. Sempre per quanto riguarda l'Unione Sovietica, c'è da dire che il regime comunista non aveva nulla da invidiare a quello hitleriano in materia di scienze «alternative». Il Partito infetti spendeva somme colossali per le ricerche para-psicologiche, per le quali manteneva circa venti istituti sparsi in tutta l'Urss. L'unica cosa che mancava a Hitler per essere un ecologista radicale ante litteram era il femminismo. Incoraggiava sì il libero amore: le procreazioni extraconiugali erano legalmente parificate alle altre e fu creato un clima teso allo svuotamento culturale della famiglia; anzi, essendo la famiglia un duro scoglio per ogni totalitarismo, non era nascosta la predilezione per le nascite illegittime, perché tali creature appartenevano allo Stato più dì quelle nate all'interno di un nucleo familiare costituito (si arrivò persino a ordinare che si facessero invisibili perforazioni nei preservativi perché il Reich potesse avere più figli). Ma che cosa pensasse effettivamente Hitler delle donne gli scappò detto di fronte a ventimila rappresentanti del gentil sesso riunite in congresso a Norimberga nel 1937: «Che cosa ho dato a tutte voialtre? Che cosa vi ha dato il nazionalsocialismo? L'uomo!» In ogni caso il continuare a esasperare gli aspetti occulti di Hitler finisce per portare acqua alla tesi della pazzia e non contribuisce a spiegare un fenomeno in realtà molto lucido che ha i suoi fondamenti nella geopolitica, scienza trascurata nelle epoche fortemente ideologizzate come la nostra, ma che non ha mai cessato di dettare direttrici di politica estera (e, dì conseguenza, interna), come gli studiosi più avveduti non mancano di mostrare, infastiditi in questo da interessi di partito e di moda. Tra gli istituti-laboratori del Terzo Reich posizione centrale aveva proprio l'Istituto di geopolitica, diretto dal professor Karl Haushofer a Monaco. Nei suoi schedari trovava posto il mondo intero. Si proponeva di classificare tutto: istituzioni, imprese, individui — specialmente quelli che emergevano a qualsiasi titolo, con tutti i dati possibili e immaginabili, fisici e psichici, con le ambizioni inespresse e perfino le tare morali e familiari. Perché tutta questa importanza alla geopolitica, pianificata fino alle minuzie? Perché Hitler voleva dividere il mondo con l'Inghilterra, «sorella» ariana. A essa i mari, a lui la terra. Questa è sostanzialmente la lesi che lo stesso Galli esprime nel suo libro, sebbene con due varianti: l'una è che questo scopo sia stato perseguito da Hitler per via delle sue fissazioni «magiche»; l'altra è che per questo stesso motivo cercò di evitare fino all'ultimo lo scontro con l'Inghilterra. Ora, la seconda ipotesi è confutata da un certo fatto. Dopo l'incontro di Hitler e Chamberlain a Monaco il 15 settembre 1938, e a Godesberg il 22 dello stesso mese, il Fuhrer passò un breve ordine, scritto di suo pugno e firmato, all'Oberkommando des Heeres. C'era scritto: «Voglio far la guerra all'Inghilterra. Si proceda a prepararla. Si diano disposizioni senza perdita di tempo. Dobbiamo essere pronti entro un anno. Adolf Hitler». Evidentemente Hitler aveva capito che la pazienza degli inglesi cominciava a esaurirsi e che se ancora non gli avevano dichiarato guerra era perché non si sentivano pronti. Bisognava precipitare gli eventi prima che l'Inghilterra potesse impedire la realizzazione dei piani germanici in oriente. Infatti il vero obiettivo era la Russia e le sue vaste risorse (che nella mente dei tedeschi dell'epoca erano diventate quasi leggendarie). Questa era l'idea fissa di Hitler o lui soggiogava la Russia o la Russia avrebbe soggiogato la Germania. E questo per puri, quanto ineluttabili, imperativi geopolitici. Stalin era dello stesso avviso. Il generale Krivisky, capo del controspionaggio militare sovietico nell'Europa occidentale fino al 1939, scriveva: «La politica internazionale di Stalin durante questi ultimi sei anni non è stata altro che una serie di manovre destinate a metterlo in posizione favorevole per trattare con Hitler. Quando aderì alla Società delle Nazioni, quando propose il sistema di sicurezza collettiva, quando cercò l'amicizia della Francia e fece la corte all'Inghilterra, quando flirtò con la Polonia e quando intervenne in Spagna, misurò i suoi movimenti con gli occhi fissi a Berlino». Quando Hitler capì che l'Inghilterra gli avrebbe messo i bastoni fra le ruote, si mosse immediatamente. Non intendeva distruggerla, ma solo sconfiggerla. E se non la invase fu perché non vi riuscì. Ne fu distolto dai suoi uomini. L'ammiraglio Raeder lo dissuase da un'operazione navale (e Hitler, che si sentiva male solo a metter piede su una nave, si lasciò facilmente convincere), appoggiato anche da von Ribbentrop, ministro degli Esteri ed esperto di questioni inglesi. D'altro canto Goering assicurava che con i bombardamenti dall'aria si sarebbe ottenuto lo stesso effetto. A ciò si aggiunga l'opinione diffusa dell'invincibilità dell'Inghilterra sul mare, complesso di inferiorità di cui non era esente nemmeno la nostra marina. Ma anche su questo argomento rischiamo di spingerci troppo lontano. Al neopaganesimo nazista non potevano non opporsi i cattolici, che costituirono praticamente — anche in virtù del loro riferimento transnazionale — l'unico movimento di opposizione al nazismo fin dal suo inizio. Il concordato del 20 giugno 1933 non fu una resa al regime da parte del Vaticano — questo è ormai universalmente assodato — bensì una chance da cogliere per assicurare la libertà religiosa in Germania, dove il nazismo non faceva mistero delle sue idee in materia. La violazione degli accordi iniziò ben presto. Nell'estate del 1935 cominciò la campagna anticattolica. Si scoperse, grazie alle «rivelazioni» di un aderente alla gioventù hitleriana, che i religiosi di un convento si dedicavano a corrompere i fanciulli della scuola da essi tenuta. Seguirono immediatamente altre «rivelazioni» (del tipo di quelle dei romanzi di Diderot) sui conventi di Fulda, Padeborn, Münster. Seguirono gli arresti e i clamorosi processi, con la stampa di regime che soffiava sul fuoco. Si chiusero le scuole cattoliche, si soppressero le pubblicazioni religiose, si sciolsero le organizzazioni confessionali e se ne incamerarono i beni. Aboliti i conventi (con annesse brutalità da parte delle SS), si convertirono gli edifici religiosi in case del partito e birrerie. La persecuzione si estese ai Paesi occupati. Quasi tutto il clero polacco finì a Dachau. Per il resto il copione fu quello tipico dei totalitarismi: la Hitlerjugend organizzava le attività domenicali in modo che i ragazzi non potessero mai assistere agli uffici religiosi; lo stesso avveniva nell'esercito e nell'amministrazione. Chi reclamava, si ritrovava a pulire latrine tutte le domeniche e subiva ogni sorta di vessazioni. L'enciclica Mìt brennender Sorge del 1937 proclamò al mondo che cos'era il nazismo. Il seguito è noto. Le manie ecologiste del nazismo sono tornate di moda, anche se spacciate per novità. Naturalmente non sono più nere, ma verdi, rosso-verdi, bianco-rosse. A uno a uno tutti cedono, come i rinoceronti di Ionesco, al nuovo credo del duemila che reclama a gran voce molte di quelle «libertà» (aborto eugenetico, eutanasia) per le quali il nazismo era stato posto al bando della storia. La medicina «alternativa», le pratiche prano-talasso-omeoierapeutiche (e rispettivi praticoni), l'alimentazione «naturale», il nudismo, il sesso vissuto e usato come tonificante psicofisico, l'attenzione morbosa per i mammiferi o i volatili (non per gli insetti e gli animali «schifosi»), il volgersi a pratiche e credenze orientali e orientaleggianti, il ritorno in grande stile dell'occultismo e dell'esoterismo, per non parlare dello spiritismo e del satanismo come fenomeni «di massa», li ritroviamo oggi sotto i nostri occhi dopo averli visti campeggiare a tutto tondo nel nazionalsocialismo. Prima era nazismo, oggi tutto ciò lo si pretende «pluralismo». Il termine «pluralismo» è stato precipitato nella stessa confusione semantica che ha coinvolto parole come «democrazia» e «liberalismo». Tutti e tre i termini sono diventati di fatto sinonimi e hanno finito per significare che ognuno è libero di fare quel che gli pare. E tuttavia curioso che in un mondo dove ognuno è libero dì fare quel che vuole tutti si finisca per fare e pensare le stesse cose. Naturalmente chi non si accoda al conformismo imperante (anzi, chi non dimostra sufficiente entusiasmo) viene accusalo di essere nemico della libertà ed emarginato con la tipica intolleranza dei totalitarismi. E questo ci riporta all'assunto precedente, che, cioè, del nazismo vengono tutto sommato demonizzati più che altro gli aspetti folklorici, come le divise e le adunate obbligatorie. Si deprecano gli stermini di quelle minoranze che hanno un'organizzazione sufficiente a ricordarcelo (anche gli zingari finirono nelle camere a gas naziste, ma quasi nessuno lo rammenta). Ma il totalitarismo e l'intolleranza stanno ritornando con i loro tipici connotati — anche se in modo subdolo — servendosi del caos ideologico, che ne è l'opposto solo in apparenza. Al di là degli sforzi di quanti cercano di conciliare l'inconciliabile, i più lontani dal modo di vita del paganesimo contemporaneo sono i cristiani. E proprio parlando dei cristiani nel mondo contemporaneo, Eliot diceva che può forse rivelarsi più intollerabile essere «tollerati» che perseguitati. Oggi in effetti sono tanti — e aumentano — gli argomenti di divisione tra i cristiani e gli altri (ovviamente qui non ci si riferisce ai battezzati, ma a coloro che prendono sul serio la loro fede). Sempre più il cristiano è costretto a tacere, sul luogo di lavoro o altrove, per non scontrarsi continuamente con le idee di moda. I più non possono reggere a lungo una situazione di conflittualità (e conseguente emarginazione) quotidiana, per cui finiscono con l'arretrare sui «valori comuni», il cui spazio si fa però sempre più esiguo. Quando al cristiano capita — che so — di trovarsi invitato a un pranzo dove ci sono due naturisti, tre seguaci di Sai Baba, un «verde», un vegetariano semplice, due femministe e un punk, la conversazione finisce col diventare, per amor di pace, quanto mai superficiale e noiosa. Ovvio: quel che divide è talmente esteso da rendere assolutamente risibile ciò su cui si può essere d'accordo. È l'esito di quel che si intende oggi per «pluralismo» (che non è sociale, che sarebbe una bella cosa, ma ideologico). Almeno nelle vecchie battaglie sessantottarde c'era un terreno comune di scontro, la politica. Adesso il regno dell'opinione investe istanze così vaste e globali che l'unico terreno comune finisce per essere quello fornito dagli slogan di volta in volta lanciati dai mass media e da chi li controlla. Questo pluralismo non si limita a dividere, ma atomizza, disarmando completamente l'individuo — e al livello del pensiero — nei confronti del Grande Fratello. Nemmeno il clero è indenne dal fenomeno. La Congregazione per la dottrina della fede ha messo in guardia sulle pratiche yoga e simili applicate alla preghiera cristiana. Massimo Introvigne, il maggior esperto italiano di culti alternativi, ha dimostrato che tali pratiche non sono neutre, ma veicolano credenze contrarie al cristianesimo, come quella della reincarnazione. Non solo, ma i mantra segreti che l'adepto deve ripetere, spesso non sono solo innocue vibrazioni, bensì precise invocazioni alla Trimurti. Anche le tecniche di respirazione yoga e il tantrismo soggiacciono alle stesse critiche. Generalmente, quando la Chiesa decide di prendere posizione aperta su certi fenomeni, è perché essi sono arrivati a livelli preoccupanti. È difficile tuttavia che abitudini acquisite possano essere dismesse volentieri. Ecologismo radicale, pacifismo (ricordiamo che il partito di Hitler iniziò proprio come movimento pacifista), animalismo, naturismo, salutismo, esoterismo, occultismo. E tutte le varianti. Ma sono varianti dell'antica gnosi, anche se adeguate ai tempi. E nazismo e comunismo ne sono state versioni politiche. Nel ventesimo secolo ancora una volta il cristianesimo si è misurato e continua a misurarsi con la sua nemica di sempre.
Dal nazismo al comunismo.
L'ideologia di Report per il salutismo di Stato: Milena Gabanelli come i talebani ci dice come dobbiamo vivere, scrive “Libero Quotidiano” ill 4 giugno 2015. Nel mirino di Report, il programma di Milena Gabanelli, sono finiti alcuni tra i simboli dell'enogastronomia made in Italy, distruggendoli. Dalla pizza al caffè, passando per l'olio d'oliva, la crociata della giornalista per insegnare al volgo come e dove si deve mangiare ha toccato nell'ultima tappa anche i cornetti dei bar per la colazione. Su l'Intraprendente, Corrado Ocone lancia l'allarme su un pericolo ben peggiore del vivere e mangiare un po' come ci pare, che la Gabanelli potrebbe non approvare, e cioè il diffondersi di una vera e propria ideologia estremista, un talebanesimo del mangiar sano, in una parola: il milenagabanellismo. Report vuol far passare il salutismo come una conquista del progresso, un errore nel merito e nel metodo secondo Ocone che ribadisce il diritto proprio di una società libera di buttar nello stomaco quel che pare a ognuno. Quella della Gabanelli richiama più la convinzione diffusa durante il Terzo Reich o i regimi comunisti, lanciati a plasmare le abitudini dei cittadini in base a criteri stabiliti dai burocrati e ideologi di regime. L'ombra di una prospettiva di questo genere è andata in onda con l'ultima inchiesta sui cornetti letali dei bar che per la stragrande maggioranza dei casi è scongelato e strafarcito di grassi. La sorpresona per il giornalista di Report è successa niente di meno che in piazza San Marco a Venezia, dove secondo lui il prezzo del cornetto surgelato era troppo alto. Ocone si sforza anche di spiegare come un prezzo non è altro che il risultato dell'incontro tra domanda e offerta, quindi non dovrebbe stupire se il menu di un locale messo in una delle piazze più belle del mondo riporti numeri più alti del solito. Forse a Report sperano che si statalizzi il prezzo del cornetto, farne una versione "di Stato", come nei paesi comunisti durante la guerra fredda.
Il salutista a mezzo stampa, ultimo stronzo che s’impiccia della tua ciccia, scrive Stefano Di Michele il 14 Ottobre 2014 su “Il Foglio”. Certe volte, il salutismo sfiora il cretinismo. Il salutista militante, poi, è una vera catastrofe sociale. Una molestia continuata. La petulanza del muscolo. La lagna della chiappa soda. La litania del giro vita. Parecchi salutisti, tutto il fiato che recuperano con i chili persi lo sprecano poi per rompere i coglioni a chi i chili vuole tenerseli. E’ il moralista nella versione più “cool”, il salutista. Il pedalatore incallito. L’antitabagista dalle sensibilissime narici, prefica vociante in servizio permanente. Il maratoneta che ti guarda schifato se aspetti il tram invece di andare deambulando da una fermata all’altra. Il consumatore bio (o della sottospecie bio-dinamico), che a tavola passa in rassegna carciofini e caciotte. Il salutista militante non solo tiene alla sua salute – e questo va a suo merito, oltre che a suo indiscutibile vantaggio; ma soprattutto alla tua – e questo va a suo demerito, oltre che a procurare un’indiscutibile tentazione di sonoro vaffanculo. Predica, informa, sghignazza, ironizza, prevede sciagure, sa tutto del suo e del tuo (per scienza infusa: di tisana biologica) colesterolo. Sta all’erta. Vigila. Scruta. Arriva in soccorso. Patisce della perduta altrui verginità con una ciambella fritta. Pesa. Soppesa. Fa il lordo. La tara. Il netto. Si compiace. Si dispiace. In Belgio (che pure tra le cose da mettere in mostra, oltre i cioccolatini, molto altro non ha) sono andati oltre. Un giornalista – la figura del giornalista salutista, poi, è un’ulteriore complicazione – della tv fiamminga Vrt, Tom van de Weghe, è partito all’assalto della nuova ministra della Salute, Maggie De Block, 52 anni, con una fenomenale motivazione. E’ la signora forse un’incapace? Non pare, è persino medico. E’ antipatica? Non lo dicono. E’ sospettata di bustarelle e affini? Per niente. E’ poco stimata? Al contrario. Insomma, dovrebbero tenersela stretta, nell’esecutivo. Ecco, forse tenersela stretta, fuor di metafora, non è magari la cosa più semplice. Perché la signora è un po’, pure un po’ tanto, a guardare le foto, sovrappeso. Ha un bel faccione sorridente e intelligente. Il collega belga ha scritto un tuìt (i tuìt sono arrivati pure in Belgio) per lamentarsi del fatto che il paese “ha d’ora in poi una ministra della Salute pubblica obesa. Qual è la sua credibilità?”. Altri gli sono corsi dietro (i tuìt sono sempre come locomotive cariche di matti): “De Block è anche un medico. Come ci si può fidare di lei vedendo che rispetto ha per il suo corpo?” (il rispetto del corpo, per il salutista militante, viene spesso prima della logica e del buongusto). La signora, a leggere le cronache considerata da tutti “tra i politici più stimati del Belgio”, in passato responsabile della Giustizia, ha replicato saggiamente che “i miei pazienti non guardano alle mie misure, ma vengono da me per la qualità delle mie cure”, e pure che “alla Camera i miei colleghi non mi giudicano in base al mio aspetto fisico, ma mi fanno i complimenti sulla conoscenza che ho dei miei dossier”. Come è logico. Speriamo si sia consolata con una bella scatola di cioccolatini. Tanto, in nome della campagna Bilance pulite, ci sarà sempre un gradasso pronto, tra Churchill e Lord Chamberlain, a preferire il secondo: fesso sì, ma segaligno soprattutto.
La tirannia del salutismo, scrive Gilberto Corbellini il 23 dicembre 2012 su “Il Sole 24 ore”. Anche se il titolo principale non è che ci azzecchi con il contenuto, L'Anopheles sintetizza con efficacia, precisione e documentata competenza l'evoluzione della sanità pubblica in Italia negli ultimi due secoli. La forma letteraria nel titolo, che riflette la passione dell'autore medico-radiologo per le suggestioni impressionistiche indotte dall'arte medica, si riferisce alle zanzare che trasmettono la malaria, e quindi a una delle conquiste più significative della sanità pubblica nell'Italia unita, cioè l'eradicazione della malaria. Ma sulla malaria in Italia si dice l'essenziale. Mentre il libro ricostruisce con ritmo incalzante e un buon gioco tra dimensione sincronica e diacronica dei problemi, colti in un'ottica non solo sanitaria, ma anche medica e quindi biopsicologica, le trasformazioni epocali della salute degli italiani negli ultimi due secoli. Nonché l'evoluzione dell'organizzazione delle pratiche medico-sanitarie che hanno prima messo sotto controllo le principali malattie infettive, poi inseguito l'illusione politica che la salute possa mai diventare quel «benessere fisico, psichico e sociale completi» di cui dice all'articolo 1 la costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità del 1946. Il libro lavora su diversi registri storiografici: per circa metà, cioè fino all'indomani della Seconda guerra mondiale, riassume gli elementi salienti della letteratura storica, mentre gli ultimi cinquant'anni sono improntati a una cronaca di quel che è accaduto sul piano delle scelte di politica sanitaria. Il libro arriva quasi fino a oggi: nel senso che l'autore illustra la filosofia dell'attuale ministro Balduzzi, e solo per poco non fa in tempo a registrare l'allarme del presidente Mario Monti per la sostenibilità futura del nostro sistema sanitario, e in particolare per il suo impianto universalistico. A chi si culla, abitando in case riscaldate, dotate di frigorifero e con nelle vicinanze supermercati, farmacie e ospedali, nel l'idea bucolica e pericolosa che nel passato si vivesse meglio di oggi, la lettura di questo libro andrebbe prescritta come terapia a tutela della salute pubblica. Perché predicare la decrescita, stramaledire il progresso tecnologico (salvando solo qualche balocco come internet e il telefonino), praticare il culto tribale dei cibi naturali e vagheggiare stupidamente di pericoli dovuti alle vaccinazioni e ai farmaci, o di vantaggi ottenibili usando medicine cosiddette alternative o anche naturali (omeopatia, erboristeria, psicoanalisi, eccetera) sono un viatico sicuro per tornare ai tempi in cui i bambini e le puerpere morivano come mosche, l'aspettativa di vita non arrivava a quaranta anni e le diseguaglianze economiche e sociali nell'accesso alle cure erano disgustose secondo i criteri di una morale umana anche minimamente altruista. Tempi non lontani come racconta Savignano. E quel che appare più disturbante nella vulgata tecnofobica e antiscientifica che ammorba i Paesi occidentali in declino, come l'Italia, è l'ingratitudine verso il lavoro degli scienziati e dei medici, da cui sono venuti i soli mezzi per tutelare finalmente e davvero la qualità della vita propria e delle persone che si amano. Le riflessioni di Savignano non nascondono i problemi e il capitolo finale è un'ottima sintesi anche di questi. L'autore critica l'aziendalizzazione e le logiche econometriche che guidano la sanità pubblica, anche se il suo ragionamento scivola forse in modo troppo scontato verso i luoghi comuni. Ovvero vede le cause principali di alcuni squilibri fuori dal sistema sanitario, piuttosto che proprio dentro di esso e in una logica che, di fatto, sociologizza e politicizza la salute. Nel senso che nel momento in cui, con lo sviluppo del welfare state sanitario, la medicina è stata investita del compito di promuovere la salute, piuttosto che limitarsi, più ragionevolmente e nel rispetto di valori un po' più liberali, a curare e prevenire le malattie, si è andati verso quella che il medico e scrittore inglese Michael Fitzpatrick ha chiamato «tirannia della salute». Nel senso che i medici occidentali, ispirati da una concezione sociologico-politica e davvero poco scientifica della medicina, hanno evoluto un nuovo paternalismo, sentendosi caricati del mandato morale e inquisitorio di diffondere una consapevolezza ossessiva dei rischi e promuovere un salutismo esasperato e costoso. E non c'è ragione di essere ottimisti per l'arrivo di una medicina, quella fondata sulla genomica, indubbiamente più scientifica in linea di principio. Ma anche già troppo piegata da logiche di facile consumo. In questo quadro d'incertezza sarebbe "salutare" rileggere le pagine scritte nel lontano 1959 dal prestigioso batteriologo e grande intellettuale René Dubos in The mirage of health. Dubos svolgeva una spietata critica dell'idea positiva di salute, che stava per essere abbracciata dal welfare state sanitario. Ragionando a partire da una visione evoluzionistica della salute e della malattia, visione che i medici faticano ovviamente a capire anche per il modo fuorviante in cui viene insegnata la medicina, Dubos prevedeva che l'aspettativa utopica di superare le sofferenze e la morte, inevitabili data la nostra biologia, avrebbe pesanti frustrazioni e alla lunga, per un'eterogenesi dei fini, un nuovo genere di danni. A cominciare da una crescita inarrestabile dei costi, prodotta da una domanda di salute in costante crescita e, di fatto incomprimibile dato che la salute è, appunto, un miraggio. Senza contare gli irresponsabili inviti a invecchiare il più possibile, senza dire che i vecchietti più o meno arzilli che vanno in televisione a dire cose quasi sempre intellettualmente penose, sono la punta di un iceberg che nasconde una popolazione in crescita di persone dementi e cronicamente sofferenti, che minaccia il dinamismo e l'efficienza, cioè la sopravvivenza di una società aperta al futuro. Curiosamente proprio quella che loro hanno costruito. Ma da giovani.
Abitare lo spazio della fragilità. Oltre la cultura dell'«homo infirmus» libro di Giovanni Cucci. "Il messaggio che viene trasmesso fin dalla più tenera età è che siamo troppo fragili per affrontare le difficoltà della vita e che è possibile al massimo limitare i danni, facendosi curare. È il paradosso del salutismo, che ha creato nuove forme di dipendenza: più ci si sottopone a cure e controlli, peggio si continua a stare." La nostra cultura è sempre più sensibile al tema della salute, fino all'ossessione. Una ossessione alla base del suo attuale disagio di vivere: più ci si cura e più ci si scopre fragili, ansiosi, impauriti. Da qui la tendenza a esasperare l'aspetto malato delle persone, non solo nell'ambito della salute mentale ma nei contesti più diversi della vita, come la politica, le relazioni affettive, l'educazione. Con effetti devastanti. Nel libro si presentano le molteplici sfaccettature di questa preoccupante novità del nostro tempo, cercando di risalire alle sue radici culturali. La salute a tutti i costi ha comportato un grave impoverimento culturale e spirituale che sta lentamente spegnendo il gusto di vivere dell'uomo occidentale.
SCOPPIATI DI SALUTE. Scrive Massimo Recalcati il 27 maggio 2011 su “La Repubblica”. L' anziano protagonista di uno degli ultimi film di Woody Allen, Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, recitato da un raro Anthony Hopkins, esulta scoprendo che il suo DNA gli garantirà una vita inaspettatamente protratta. Il rifiuto dell'avanzare degli anni lo mobilita alla ricerca di una giovinezza perpetua che non implica solo il progetto tragicomico di sposare una escort in carriera, ma anche l'assoluta dedizione al potenziamento atletico e alla purificazione salutista del suo corpo come per suffragare scaramanticamente la previsione esaltante offertagli dal discorso medico. Questo personaggio non è un alieno ma una maschera tipica del nostro tempo. Il corpo diventa un tiranno esigente che non lascia riposare mai. In uno dei suoi ultimi libri titolato Il governo del corpo (Garzanti 1995), Piero Camporesi aveva abbozzato l'idea che una nuova "religione del corpo" si stesse imponendo nella nostra Civiltà. Peccato non abbia avuto il tempo per elaborare con la giusta ampiezza questa intuizione che oggi si impone ai nostri occhi come un'evidenza. Aveva ragione Camporesi: il nostro tempo ha sposato l'ideale del corpo in forma, del corpo del fitness, del corpo in salute, come una sorta di comandamento sociale inedito. Si tratta di una religione senza Dio che eleva il corpo umano e la sua immagine al rango di un idolo. Così il corpo sempre in forma, obbligatoriamente in salute, assume i caratteri di un dover-essere tirannico, di un accanimento psico-fisico, di una prescrizione moralistica: ama il tuo corpo più di te stesso! La nuova religione del corpo si suddivide in sette agguerrite. Ma il loro comune denominatore resta l'esasperazione della cura di sé che diventa la sola forma possibile della cura come tale. Quella dimensione - la dimensione della cura - che per Heidegger definiva in modo ampio l'essere nel mondo dell'uomo e la sua responsabilità di fronte al fenomeno stesso dell'esistenza, sembra oggi restringersi al culto narcisistico della propria immagine. La nuova religione del corpo rine? Le espressioni psicopatologiche di questa cultura si moltiplicano. La classificazione psichiatrica dei disturbi mentali (DSM) si arricchisce in ogni edizione di nuove sindromi che sono spesso l'effetto diretto di questa invasione sconsiderata della cura eccessiva di sé. Si pensi, per fare solo un esempio, alla cosiddetta ortoressia che etimologicamente deriva dal greco orhtos (corretto) e orexis (appetito). Si tratta di una nuova categoria psicopatologica che definisce, accanto all' anoressia, alla bulimiao all' obesità, una particolare aberrazione del comportamento alimentare caratterizzata dalla preoccupazione eccessiva per il "mangiare sano". Ma come è possibile che una giusta attenzione a quello che si mangia sia classificato come una patologia? L'ortoressia esibisce un tratto essenziale del nostro tempo; il perseguimento del benessere, dell'ideale del corpo in salute, del corpo come macchina efficiente, può diventare un vero incubo, un'ossessione, può trasformarsi da rimedio a malattia. Il corpo che deve essere perennemente in forma è in realtà un corpo perennemente sotto-stress. La vita medicalizzata rischia di diventare una vita che si difende dalla vita. Il corpo si riduce ad una macchina di cui deve essere assicurato il funzionamento più efficiente. Il medico non è più, come indicava Georges Canguilhem, l'"esegeta" della storia del soggetto, ma il "riparatore" della macchina del corpo o del pensiero. La malattia chiede infatti una dedizione assoluta per se stessi. Volere il proprio bene, volersi bene, diventa il solo assioma che può orientare efficacemente la vita. Ogni sacrificio di sé, ogni arretramento rispetto a questo ideale autocentrato, ogni operazione di oltrepassamento dei confini del proprio Ego, ogni movimento di dispendio etico di se stessi viene guardato con sospetto dai fedeli di questa nuova religione. La stessa domanda rimbalza come una mantra dalla stanza dello psicoterapeuta sino negli studi dei talk show televisivi: perché non ti vuoi bene, perché non vuoi il tuo ben o n è un'occasione di trasformazione, ma un semplice disturbo da eliminare il più rapidamente possibile cancellandone ogni traccia. L' ortoressia riflette questa curvatura paradossale dell'ideologia del benessere mostrando come le attenzioni scrupolose alla protezione del proprio corpo possano trapassare nel loro contrario. Roberto Esposito ha da tempo messo in valore nei suoi studi di filosofia della politica sul paradigma immunologico questa contraddizione interna all' igienismo ipermoderno: il rafforzamento delle procedure di protezione della vita rischia di capovolgersi nel loro contrario facendo ammalare la vita. Lo sfondo antropologico della nuova religione del corpo è quello del narcisismo ipermoderno che costituisce l'esito più evidente del tramonto di ogni Ideale collettivo. Se la dimensione dell'Ideale si è rivelata fittizia, se il nostro tempo è il tempo che non crede più alla potenza salvifica e redentrice degli Ideali, ciò per cui vale la pena vivere sembra allora ridursi al solo culto di se stessi. La nuova religione del corpo è un effetto (non certo l'unico) del declino nichilistico dei valori, del perdere valore dei valori. Il corpo eletto a principio assoluto sfida, nel suo furore iperedonista, ogni Ideale per mostrarne tutta l'inconsistenza di fronte alla sola cosa che conta: il proprio corpo in forma come realizzazione feticistica dell'Ideale di sé. L' igienismo contemporaneo opera così un rovesciamento paradossale del platonismo. Il corpo salutista non è affatto il corpo liberato, ma è un corpo che da carceriere è divenuto carcerato. Se per Platone il corpo era il carcere dell'anima, se era la sua follia impropria, il corpo salutista appare invece come un corpo che è divenuto ostaggio, prigioniero di se stesso, carcere vuoto, puro feticcio, idolo senza anima. Il comandamento del benessere, come accade per tutti gli imperativi che si impongono come obbligazioni sociali, come misure standard alle quali dover uniformare le nostre vite perché siano considerate "normali", rischia di scivolare verso l'integralismo fanatico del salutismo ortoressico. Soprattutto se si considera che questo comandamento punta a rigettare lo statuto finito e leso dell'uomo, la sua insufficienza fondamentale. L' ideologia del benessere è infatti una ideologia che prova ad esorcizzare lo spettro della morte e della caducità. In questo svela il suo fondamento perverso se la perversione in psicoanalisi è il modo di rigettare la castrazione dell'esistenza, cioè il suo carattere finito. L' ideologia del benessere che alimenta la nuova religione del corpo sbatte la testa contro il muro della morte. E' questo ostacolo inaggirabile che il nostro tempo vorrebbe espellere, cancellare, sopprimere e che invece ci rivela tutto il carattere di commedia che circonda il culto ipermoderno del corpo. Dobbiamo ricordarci che la cura di sé non esaurisce la dimensione della vita. La cura è innanzitutto cura dell'Altro. Nietzsche aveva indicato la virtù più nobile dell'umano nella capacità di saper tramontare al momento giusto. Rara virtù nei nostri tempi, da celebrare come una preghiera. (L' autore è psicanalista e saggista, il suo ultimo libro "Che cosa resta del padre?", è pubblicato da Raffaello Cortina).
Scrive Carlo Lottieri. Lo Stato salutista? Fa male alla salute. Il paternalismo trionfante, proiettato al controllo della corporeità di tutti e di ognuno è sotteso da un vasto e sinistro progetto politico. Quella del proibire è una pratica antica. Fin nelle epoche più lontane si rinvengono tabù e interdetti, e ogni società esige regole che definiscano un quadro legale ben preciso, che limiti l’imprevedibilità dei comportamenti altrui. Ma un certo tipo di proibizionismo è abbastanza recente, poiché è legato a specifici cambiamenti culturali che hanno caratterizzato la civiltà occidentale degli ultimi cent’anni. Un ottima introduzione a questi temi si deve a Mark Thornton, un ricercatore del Mises Institute di Auburn (in Alabama) che nel suo volume del 1991 intitolato L’economia della proibizione – ora disponibile in italiano grazie all’editore Liberilibri di Macerata – ha sviluppato un’ampia riflessione su tale aspetto peculiare della modernità: esaminando dapprima il proibizionismo sugli alcolici (e il suo fallimento conclamato) e di seguito quello sulle droghe (e l’analogo fallimento, che però molti faticano ad ammettere). Le tesi principali della riflessione di Thornton non sono estranee al dibattito italiano sul tema, poiché almeno in parte egli usa argomenti dibattuti anche da noi: specie quando evidenzia che la proibizione porta a un aumento del prezzo degli stupefacenti e di conseguenza induce la criminalità a investire somme massicce per commercializzare tali sostanze. Il risultato è che oggi le droghe sono ovunque e a caro prezzo, arricchiscono mafie e politici corrotti, causano un gran numero di morti, riempiono le carceri, sono una fonte costante di conflitti e tensioni internazionali. Ma c’è anche dell’altro. Thornton mostra ad esempio come le origini del moderno proibizionismo – che nasce contro l’alcol e poi investe pure la droga – siano tutt’altro che limpide. L’ispirazione degli intellettuali che vollero bandire birra e whiskey era un mix di greve positivismo e di puritanesimo secolarizzato. Quella che si voleva era un’America più industriosa e addomesticata, e il campione di tale prospettiva culturale – l’economista Irving Fischer – non nascose che il suo progetto di un’umanità senza alcol doveva condurre ad un ordine tecnocratico e socialista, orientato verso una crescente produttività. L’argomento principale di Fischer era che la proibizione arrecava all’America un beneficio di circa 6 milioni di dollari ogni anno: la cifra era buttata lì e senza il minimo fondamento, ma serviva a giustificare la legislazione liberticida. Quel proibizionismo crollò su se stesso, nei duri anni della Grande Depressione, travolto dagli effetti disastrosi che aveva prodotto. Ma, come Thornton sottolinea, lo spirito millenaristico che l’animava, incapace di fare i conti con l’imperfezione umana, non è scomparso. Il disinteresse per la libertà individuale che caratterizzava la propaganda del primo proibizionismo si ritrova in larga misura nell’igienismo di Stato del nostro tempo. La guerra alla droga condotta dagli Usa e anche da altri Stati va per giunta collocata ormai entro un quadro più ampio: se da un lato trae origine dalla stessa cultura che ha proibito gli alcolici, d’altro lato è molto connessa allo svilupparsi di crescenti attenzioni regolamentari volte a proibire non solo la pratica suicidante dell’eroinomane, ma anche il fumo delle sigarette e dei toscani, i cibi grassi e artefatti, la sedentarietà. Specialmente in Nord America l’isteria salutista sta infittendo di proibizioni la vita di ognuno, al punto che vi sono taluni comuni della California in cui è proibito fumare una sigaretta nelle abitazioni private e perfino in automobile. Dopo gli studi pionieristici dello psichiatra libertario Thomas S. Szasz, ormai sono molti gli autori che denunciano apertamente l’avvento di uno “Stato terapeutico”, quale ultima versione dello Stato moderno. Lo ha fatto ad esempio James L. Nolan in The Therapeutic State: Justifying Government at Century’s End, del 1999, mostrando come il potere s’insinui sempre più nelle nostre scelte personali, decidendo al nostro posto e per il nostro bene. Se un tempo il diritto indicava norme che avevano la funzione fondamentale di proteggere i diritti altrui, adesso pretende di sostituirsi a noi in tutto: dicendoci cosa dobbiamo fare anche quando le eventuali conseguenze negative della nostra condotta non sono invasive dell’esistenza di altri. È insomma un vasto programma biopolitico (per usare la terminologia foucaultiana) quello che sottende il paternalismo trionfante, proiettato al controllo della corporeità di tutti e di ognuno. Uno degli intellettuali più vicini a Barack Obama, Cass Sunstein, è arrivato a elaborare la formula paradossale del “paternalismo libertario”, al fine di giustificare un progressivo intervento pubblico che ci tratti da minori con lo scopo di allargare il raggio delle nostre facoltà. L’idea è che bisognerebbe perdere la libertà per rafforzarla. Ma quando lo Stato mette in discussione la possibilità di agire in maniera viziosa anche se questo comportamento non è aggressivo (mentre, nella sua saggezza, San Tommaso d’Aquino aveva ben chiaro che vi sono peccati che non sono reati), ci si trova su una china che conduce verso prospettive totalitarie. Da economista della scuola austriaca e quindi attento alla lezione di Mises e Hayek, l’autore de L’economia della proibizione evidenzia che “la domanda di politiche interventiste quali quella della proibizione nasce dalla percezione che il processo di mercato ha fornito risultati insufficienti o che non correggerà le sue inefficienze”. Il proibizionismo o è illiberale o non è, dato che incarna una pericolosa presunzione del ceto politico, che punta ad arrestare ogni evoluzione imprenditoriale: “il processo di scoperta del mercato porta alla circolazione di prodotti meno costosi, di qualità migliore e più sicuri. La proibizione pone fine al processo di scoperta e lo rimpiazza con un mercato nero e un processo burocratico, ognuno con i suoi mali”. È come se il mondo si fermasse e nessun futuro migliore fosse possibile. Gli imprenditori escono di scena e il loro posto è preso da politici e burocrati. Ma come rilevò Mises, “se si abolisce la libertà dell’uomo di determinare il proprio consumo di beni, si tolgono tutte le libertà”. Vi è allora un’ultima, decisiva questione da tenere presente: e cioè che la responsabilità individuale può crescere solo nella libertà. Un’umanità regolamentata ed eterodiretta può forse evitare le conseguenze nefaste dei trigliceridi, degli oppiacei, della nicotina e dell’alcol, ma non riuscirà certo ad acquisire la forza interiore di chi resiste a questa o quella tentazione in virtù della propria temperanza: e quindi della propria maturità. Il paternalismo, insomma, ci condanna a un’esistenza da eterni bambini. Va anche aggiunto che chi come Thornton difende la libertà contro la proibizione non intende promuovere la diffusione di pratiche irresponsabili: dal consumo eccessivo di alcol all’assunzione di cocaina. Semplicemente, egli evidenzia come il proibizionismo sia inefficace e – quel che è peggio – irrispettoso della dignità dell’uomo. Il quale, quando regna lo Stato terapeutico, si vede negare la libertà di sbagliare. E non si tratta di una libertà di poco conto. Da Il Giornale, 14 ottobre 2009.
Schiavi del salutismo Un futuro (troppo) vicino. Ne " prigionieri del Caduceo", Moore racconta un mondo dominato da dottori e tecnici dello star bene. Una dittatura buonista ma feroce, scrive Luca Gallesi Venerdì 29/05/2015 su “Il Giornale”. L'idea che ogni desiderio dell'uomo sia finalmente realizzabile, e che, grazie al progresso scientifico, si possano valicare i limiti della realtà oggettiva è alla base di alcune illusioni dalle conseguenze assai pericolose per molti e altrettanto redditizie per, pochi, altri. Immaginare, a esempio, che si possa sconfiggere la morte usando trattamenti estetici o grazie a protocolli farmacologici è semplicemente ridicolo, anche se molto proficuo per case farmaceutiche e chirurghi senza scrupoli. Allo stesso modo, ritenere che la vecchiaia sia una malattia da affrontare con cure adeguate, o che l'iperattività infantile debba essere trattata con psicofarmaci, oppure che le turbe dell'adolescenza vadano sempre portate davanti allo psicoanalista sono atteggiamenti sbagliati, che finiscono per togliere libertà e sicurezza agli individui, aumentando contemporaneamente il potere della classe medica. Come gli sciamani euroasiatici o gli uomini di medicina nordamericani di un tempo, spesso, oggi, sono i medici ad avere l'ultima parola su questioni che riguardano scelte fondamentali come la vita e la morte degli individui. La dilagante moda salutista del «mangiare bene», possibilmente biologico, per «vivere bene», ci avverte che «il fumo uccide», condannando tutte le abitudini un tempo considerate bagaglio ineludibile della condizione umana, come la passione per il rischio o l'amore per la sfida, oggi disapprovate da una società sempre più medicalizzata, che ha finito per ridurre definitivamente in cenere Bacco, Tabacco e Venere. Cosa potrebbe succedere se queste tendenze diventassero obblighi di legge, e se i medici finissero per conquistare il potere politico è raccontato nel romanzo di fantascienza I prigionieri del Caduceo, scritto da Ward Moore nel 1978 e presentato oggi per la prima volta al pubblico italiano nel fascicolo di maggio della collana Urania. La storia si svolge in un futuro prossimo, dove il mondo è stato definitivamente globalizzato e sottoposto alle amorevoli cure della Mediarchia, ovvero della classe medica. I camici bianchi, radunati sotto il simbolo del Caduceo, sono l'unica classe dirigente del pianeta, Gran Bretagna esclusa, e impongono la dolce dittatura salutista e le sue regole, che prevedono la «tanatizzazione» a chi è troppo debole per vivere, la vasectomia obbligatoria per tutti, la riproduzione consentita solo a chi è in forma fisica eccellente, e il controllo ossessivo di tutti i parametri fisiologici, come la pressione arteriosa e i valori ematici, trascritti su cartelle cliniche diventate documenti di identità obbligatori. Nessuno, o quasi, tenta di ribellarsi, dato che «i dottori e gli scienziati sono coloro che sanno», e quindi non possono che agire per il nostro bene. Tutti i libri sono stati bruciati, per le stesse ragioni di monopolio del sapere, e il motto mondiale è diventato «In DOC we trust», con i dottori che hanno preso il posto di Dio. Il lutto viene scoraggiato, la buona salute è obbligatoria, e ai bambini viene insegnato a segnalare alle Autorità Mediche ogni violazione delle regole sanitarie da parte dei genitori, regole che un ristretto gruppo di ribelli, definiti Anormali, decide di rifiutare. Come fanno notare i curatori, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, nella loro introduzione (da cui, forse un po' pavidamente, sembra prendere le distanze il direttore della collana Giuseppe Lippi), la Mediarchia ipotizzata da Moore sta diventando una realtà in molte parti del mondo: se in Cina viene imposta la politica del figlio unico, in Occidente il fumo viene proibito anche all'aperto e i carnivori sono considerati orrendi selvaggi, mentre i figli troppo grassi vengono tolti alle famiglie e cominciano a dilagare apparecchietti da polso che tengono costantemente monitorati i valori della nostra pressione, il battito cardiaco etc...Il Governo, insomma, vuole preoccuparsi di noi, come il Grande Fratello orwelliano, «dalla culla alla tomba», con la presunzione di sapere sempre, e meglio di noi, cosa ci fa bene, e quello che dobbiamo fare. L'arroganza di certe «maestrine dalla penna rossa», che pretendono di cancellare il passato per plasmare il futuro, è ben descritta da Moore, che non avrebbe probabilmente immaginato che quanto da lui raccontato quasi quarant'anni fa si sarebbe materializzato così presto, anche se, per ora, la classe medica non è al potere, ma si limita a mettersi al servizio di quella politica, ansiosa di mostrarsi più realista del Re, prostrandosi al Moloch del politicamente corretto.
Lűtz: «Sì alla vita sana, ma non fate i sadici», scrive Andrea Galli il4 febbraio 2015 su “Avvenire”. La Germania detta la linea in Europa. Per ora quella dei conti, domani chissà, anche quella del girovita. Tra i settori in crescita dell’economia teutonica spicca infatti l’industria del fitness: un tedesco su dieci, tra i 15 e i 65 anni, è iscritto a una palestra, un numero che dovrebbe toccare nel 2017 quota 10 milioni, con relativi 200mila lavoratori nell’indotto. Cosa non sorprendente in un Paese che è tra i primi in Europa e nel mondo per sensibilità ecologica, per campagne sulla qualità dell’alimentazione, per la promozione del cibo bio ecc. A far da controcanto a questa euforia da vita salubre, tonica e asciutta è ormai da diversi anni Manfred Lütz, psichiatra, teologo, saggista di successo, membro del Pontificio Consiglio dei laici e della Pontificia Accademia per la vita. Tra i suoi libri figurano Dio. Una piccola storia del più grande (Queriniana 2008) bestseller in patria, e il recente Il piacere della vita. Contro le diete sadiche, i salutisti a tutti i costi e il culto del fitness (San Paolo).
Professor Lütz, l’uomo occidentale ha lottato per secoli per l’avanzamento della scienza, della medicina, della farmacologia, per migliorare le sue condizioni di vita. Ora siamo giunti a un paradosso, anzi a diversi paradossi: più si allunga la vita e più il welfare, le pensioni diventano difficili da sostenere; più si allunga la vita e più si allunga la vecchiaia, l’età che tutti vorrebbero evitare… e molti, anzi, pensano ora di accorciare con il suicidio assistito… sembra una nemesi. C’è qualcosa che non torna in questa dinamica. Dove sta l’errore?
«Qual è una società felice, quella che onora la gioventù o quella che onora gli anziani? C’è solo una risposta logica: è quella che onora gli anziani. Se una società onora in primo luogo la gioventù, un sedicenne che guardasse al proprio futuro vedrebbe un orizzonte oscuro. Se onora l’età della vecchiaia, quel sedicenne può pensare al giorno in cui, seduto nel senato della vita, guardato con rispetto e sazio di anni, come dice in modo l’Antico Testamento, morirà. L’odierno culto dell’essere giovani è una via all’infelicità, perché, come fa notare lei, la vecchiaia diventa sempre più lunga grazie all’avanzamento della medicina, ma allo stesso tempo viene sempre più svilita. A chi è vecchio, malato, portatore di handicap o limitato in altro modo, alcuni vogliono offrire la possibilità di non essere più un peso per se stesso, per la famiglia e la società. L’introduzione nella legislazione del suicidio assistito sarebbe la rottura dell’argine, che metterebbe in pericolo il proprio diritto all’autodeterminazione dell’anziano, del malato, del disabile e che sarebbe radicalmente in contraddizione le nostre costituzioni e il principio cristiano che ancora portano in sé, quello dell’uguale dignità di ogni essere umano, incluso il più debole. Per questo le associazioni mediche e le Chiese sono contrarie. Bisogna vedere quanto a lungo l’argine reggerà».
Anche quell’ansia collettiva che è il salutismo sembra un paradosso: non abbiamo mai vissuto in una società così salubre come quella odierna… non pensa?
«Un medico mio collega, piuttosto spiritoso, ha detto una volta: sana è la persona che non è stata visitata abbastanza. Già Aldous Huxley disse: la medicina ha fatto tali progressi, che nessuno si può più ritenere sano...»
Lei ha parlato a più riprese, in libri e interviste, di una vera e propria "religione della salute". Quali sono i tratti "religiosi" che vede nel salutismo? Quanto c’entra la volontà di esorcizzare la morte?
«La mia impressione è che oggi molti non credano più in Dio ma nella salute e tutto quanto una volta si faceva per il Dio – pellegrinaggi, digiuni e opere buone – oggi lo si faccia per la salute. Ci sono persone che non affrontano più la vita in modo lineare, ma vivono in modo "preventivo" e alla fine muoiono sane. Però anche chi muore sano, purtroppo è morto. Così anche le manifestazioni tipiche dell’esperienza religiosa sono entrate nel campo della salute. Si può osservare il passaggio dalle tradizionali processioni alla visite in processione dal medico, ai pellegrinaggi dallo specialista. Nelle palestre si possono incontrare persone che vivono una vita di rinunce e mortificazioni in confronto alle quali la regola degli ordini religiosi di più stretta osservanza sembra una passeggiata. E la morte è il nemico mortale di questa religione della salute. Per evitare la morte si corre per strada, nei boschi, si mangiano granaglie e peggio... per arrivare a morire lo stesso, purtroppo».
Tra i tratti "religiosi" del salutismo possiamo annoverare anche il fatto che pratiche come il fumo sono percepite oggi come veri e propri peccati, personali e sociali? O che la bruttezza (avere difetti fisici, essere grassi, ecc.) è spesso squalificante e fonte di imbarazzo?
«Certamente, il peccato è un concetto presente oggi quasi solamente nell’ambito della religione della salute. Perfino in chiesa i parroci sono diventati prudenti a usare l’espressione "peccato". È una parola che non si pronuncia più volentieri, perché suona dura, sgradevole, molto meglio dire "essersi allontanati dalla via". Se in Germania uno osserva in quale contesto la parola peccato risuona ancora, si può accorgere che è appunto quello della salute, dove c’è un dio che punisce subito anche i più piccoli peccati… Tutto ciò ha delle conseguenze rilevanti. Se l’uomo autentico è quello sano, allora l’uomo malato, soprattutto malato cronico, diventa un uomo di seconda o terza classe. Il che porta alla discriminazione dei non sani, dei non giovani, dei non belli è dietro l’angolo. E la pressione sociale su queste categorie cresce sensibilmente».
Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 25 dicembre 2015. Facci, la terribile profezia sul futuro: "Perché vieteranno pizza e caffè". Nella Terra dei fuochi hanno spento il forno a legna, almeno quello: a San Vitaliano (6mila abitanti, provincia di Napoli) il sindaco pensa che lo sforamento dei limiti sulle polveri sottili sia colpa delle pizze, cioè dei forni a legna, dunque ha imposto costosi impianti di abbattimento oppure niente pizze. L' ordinanza vale sino ad aprile ma potrà essere prorogata. Ora: siamo nel napoletano e in pratica vietano le pizze (immaginatevi le scene pazzotiche) ma non interessa, ora, difendere la degnissima categoria dei pizzaioli che peraltro hanno anche e probabilmente ragione: non si capisce, infatti, perché incolpino i forni a legna quando la vicina Napoli (meno inquinata) ne ha molti di più. Che cosa pensiamo di tutti i discorsi sulla "vera pizza" già lo scrivemmo quando le associazioni dei pizzaioli volevano escludere le catene McDonald' s dagli sponsor dell'Expo: è una categoria che fa spallucce mentre due pizze su tre, in Italia, sono fatte con farina e pomodoro e mozzarella e olio non italiani, inoltre la presunta mozzarella è fatta con cagliate dell'est Europa, il pomodoro è cinese o americano, l'olio tunisino o spagnolo mentre la farina è francese o tedesca o ucraina. Si straparla della superiorità della pizza italiana anche se è infornata quasi sempre da extracomunitari e anche se la maggioranza degli americani e dei cinesi ignora che la pizza sia italiana, e il maggior fornitore di "mozzarelle" mondiale è neozelandese. Ma è un altro discorso, appunto. Il discorso, rassegnato e un po' da vecchi, è su un certo mondo che ci attende. I pizzaioli di San Vitaliano hanno poco da illudesi: i forni a legna vecchia maniera, prima o poi, li vieteranno tutti e dappertutto. Ufficialmente per lo smog, certo, per gli odori e le esalazioni: qui al Nord, del resto, molte città hanno già vietato i caminetti e le stufe a legna. Il trend è quello, ma non è solo una questione di inquinamento, il punto è che il mondo moderno parla con nostalgia dei vecchi profumi ma tende a scacciarli dalla vita quotidiana, è una specie di sindrome mirata al desiderio di un solo odore: nessuno. Un paio d' anni fa il sindaco di Mosca si era messo in testa addirittura di piazzare dei giganteschi diffusori nelle zone strategiche della città, voleva scacciare le puzze residue del socialismo reale: nafta e benzina col piombo, miasmi industriali di chi se n' è sempre fottuto dell'inquinamento, olezzi di cavolfiore alimentati dai milioni di fornellini per il pranzo che si accendevano nei retrobottega della Russia socialista. E via, scio', allontanare i tabaccai e le fabbriche di sigarette, le torrefazioni e gli odori di caffè. Intransigenze alla Putin? Per niente. In alcune zone del Canada e degli Usa, da anni, hanno messo al bando i profumi: dicono che disturbino l'olfatto. Avete mai fatto caso che certi prodotti già riportano la scritta "non profumato"? In alcuni uffici sono vietati persino deodoranti e dopobarba e colluttori. A Ottawa i mezzi pubblici sono interdetti a chi usa l'acqua di colonia: i profumi hanno cominciato a nutrire le stesse ossessioni maturate contro il fumo e sono stupidamente associati a batteri e a sostanze inquinanti. Sono stati chiusi centinaia di panifici e tostature di caffè, e questo anche negli Usa, e vedrete che - more solito - le peggiori fobie d' oltreoceano presto o tardi sbarcheranno anche qui. Alcune chiese cattoliche hanno già abolito l'incenso (l'incenso passivo) e persino le candele. Hanno già inventato una malattia senza senso (la "sensibilità chimica multipla") che associa ogni odore a un campanello d' allarme. Figurarsi se prima o poi non spunteranno associazioni di allergici ai forni a legna: andranno dai vari Santoro e grideranno tutta la loro indignazione per le malattie dei loro figli. Anche lasciando da parte l'inquinamento, laddove il benessere crea allergie praticamente a tutto (quella al glutine è solo l'ultima) è chiaro che i forni a legna hanno le pizze contate.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 13 gennaio 2015: "Vogliono vietare il fumo persino al parco". «Viva l’Occidente e viva libertà»: poi ti arriva la Lorenzin che vuole vietare il fumo persino in spiaggia o nei parchi, in ossequio a quell’altra religione fondamentalista che è diventata il salutismo. Ma niente battute, anzi ricominciamo da capo, che il tema merita repliche razionali e informate, non solo di principio. Allora: si apprende che il ministro della Salute Beatrice Lorenzin si accinge a una stretta ulteriore in materia di fumo e sigarette, ossia: niente sigarette nei parchi pubblici, negli stadi e nelle spiagge attrezzate; niente sigarette nella tua auto se hai minori a bordo; non possono fumare neppure gli attori dei film (nei film) o meglio non più di tanto. Questi i tre caposaldi, imperniati su ragionamenti e luoghi comuni che il ministro rilancia beatamente anche se appaiono perlomeno discutibili.
1) Il primo luogo comune vuole che la famosa Legge Sirchia, varata nel 2005, sia stata una legge toccasana e apprezzatissima in tutto e per tutto: dunque il suo percorso andrebbe proseguito, dice ora il ministro. Orbene, cominciamo col riconoscere i meriti della legge: in pratica ha significato il divieto di fumare nella maggioranza dei ristoranti (le salette con gli impianti di areazione sono costose) e c’è molta più attenzione in mezzi pubblici, scuole, ospedali, uffici e aziende: che è quanto in teoria già prevedeva la legge amministrativa del 1975. La norma dell’ex fumatore Sirchia (gli ex sono i più intransigenti) è dunque servita a ridonarci l’educazione necessaria per non fumare laddove era già vietato. Di recente si sono aggiunti i divieti di fumare negli spazi esterni delle scuole, e la vendita di prodotti legati al tabacco - anche le sigarette elettroniche, che col tabacco non c’entrano niente - è interdetta ai minorenni. Detto questo, la legge Sirchia è stata un fallimento per quanto riguarda i famosi «sceriffi antifumo» (che non esistono più per una sentenza del Tar) e per i cosiddetti «luoghi aperti a utenti» intesi come studi professionali, condomini, stazioni, circoli, club, feste private e nondimeno il Parlamento italiano: in questo caso c’è stato un accomodamento all’italiana e si continua elasticamente a fumare come prima. Il fatto che a un anno dall’applicazione della Legge ci fossero state solo 327 infrazioni accertate (perlopiù per l’irregolarità dei cartelli, perché i fumatori beccati in flagrante furono 112) fu un viatico per la situazione attuale: le multe sono una rarità assoluta. Una sentenza del Consiglio di Stato del 2009 ha annullato ogni sanzione ai proprietari di locali che non segnalino i fumatori in contravvenzione: tanto che gli strappi alla regola, se nessuno protesta, non si contano. L’importante è non esibire posacenere, perché dimostrerebbero una complicità. L’entourage del ministro fa sapere che solo il 2% delle 35.800 ispezioni fatte dai Nas hanno beccato persone che fumavano, e traducono il dato in un successo: non nella probabilissima ipotesi che i Nas abbiamo altro da fare che sanzionare i ragazzini che fumano nelle discoteche, i quali - aggiungiamo noi - per farsi cogliere in flagrante devono essere anche discretamente stupidi.
2) L’altro luogo comune vuole che la lotta al fumo debba essere proseguita costantemente con campagne di sensibilizzazione che comprendono provvedimenti - aggiungiamo noi - khomeinisti. Divertente, anzitutto, che l’Organizzazione mondiale della sanità suggerisca - e il ministro pure - che le sigarette in Italia dovrebbero costantemente aumentare di prezzo: forse non ricordano che è quanto già accade regolarmente perché i governi vogliono fare cassa; il giorno in cui gli italiani dovessero smettere di fumare sarebbe anzitutto una catastrofe per l’erario, e parliamo di miliardi di euro. Ma a parte questo, si insiste con la direttiva europea (aprile 2014) secondo la quale sul 65% della superficie dei pacchetti dovranno apparire immagini dissuasive: non solo le scritte iettatorie, anche foto con polmoni incatramati come già accade in Brasile e in altri Stati. Ora: senza annoiare con troppi dati, la verità che salta all’occhio palesemente è che le campagne di dissuasione non funzionano; il calo dei fumatori come numero assoluto in Italia è inferiore a quello di altri Stati che hanno leggi molto più permissive, senza contare che i dati sul decremento (dal 23 al 19% in dieci anni) sono fondati solo sulla vendita legale di sigarette e non considerano il contrabbando, che è tornato a prosperare per via dei continui aumenti; non sappiamo poi - non lo sappiamo davvero - quanto i dati considerino il grandissimo aumento delle vendite di cartine e tabacco sfuso. Il primo dato mondiale è che in Occidente le sigarette andavano sparendo perché perdevano appeal e facevano socialmente arretrato, mentre l’altro dato mondiale (e italiano) è che proprio le campagne di sensibilizzazione stiano facendo aumentare il fumo tra i minori e le donne, categorie che, in modi diversi, associano la sigaretta all’emancipazione. Ai ministri e all’Oms non viene il sospetto che i famosi giovani - proprio perché sciame, orda, gruppo - abbiano già tranquillamente in mente quel che dovrebbero apprendere, e che proprio da questa consapevolezza muova il loro desiderio di devianza. Il ministro, semmai, rovescia il ragionamento: «Le statistiche dicono che c’è stato un incremento importante tra i fumatori giovanissimi, in età 11-12 anni, e questo vuol dire che si è abbassato il livello di guardia e di consapevolezza ma anche di una stigmatizzazione del fumo». Ossia? Forse che i dodicenni fumano perché il ministero non gliel’ha proibito abbastanza? Non è che fumano - come per l’alcol, la velocità in auto eccetera - proprio perché un tempo faceva sfigato, mentre oggi, grazie alle campagne khomeiniste, la cicca è tornata a far trasgressione?
Si chiamano domande retoriche, queste. Fondate su dati. E le poniamo senza far volare stracci, come pure meriterebbe il solo pensiero che non si possa fumare più nella propria auto o in spazi apertissimi come un parco o una spiaggia. Non vorremmo, poi, che i lettori pensassero che i fanatici siamo noi.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 8 luglio 2015: "Vietano le sigarette in auto. Ma i politici cosa fumano". A causare le peggiori sciagure è sempre della gente che vuole il tuo bene e quello dell'umanità, ma forse non c'è da farla tanto lunga per commentare l'ennesimo tentativo di vietare il fumo nella propria auto. C'è solo da dire che il problema è statistico: prima o poi rischiano di farcela, rischiano di approvare un divieto del genere, anche perché per due cose non esiste limite: per la deriva salutistica e per la stupidità. Ma ricominciamo dall'inizio, anche se la storia è sempre quella: è spuntata una pattuglia di senatori (di Forza Italia, oltretutto) che vuole vietare le sigarette dentro le auto. Primo firmatario è Antonio Razzi più altri senatori tra i quali Domenico Scilipoti, il che dovrebbe garantire l'insuccesso del disegno di legge: ma siccome il divieto è un pallino anche della ministra della Salute Beatrice Lorenzin (presunta liberale) non si sa mai che cosa possa succedere. I senatori comunque vorrebbero modificare il codice della strada (articolo 173 bis, «È vietato al conducente fumare durante la marcia») con pene fino a 646 euro e ritiro della patente per chi venisse beccato due volte in due anni. Ragione ufficiale: la solita di «ridurre gli incidenti stradali» con rimando esterofilo genere «lo fanno anche Inghilterra e Svezia». Parentesi: se il discorso è questo, allora potrebbero informarsi meglio e aggiungere che dal 2008 il divieto c'è anche a San Marino e in alcune regioni del Canada e a Bangor, una città degli Usa, nel Maine. Invece la nostra pattuglia ha preferito spiegarci che «il conducente getta fuori dal finestrino il mozzicone acceso con conseguenze imprevedibili per l'ambiente esterno» e non bastasse «può causare incendi all'interno del veicolo stesso». Una vera emergenza nazionale. Vogliamo commentare? No, prima va ricordato che nel 2013 la Lorenzin aveva già provato ad introdurre il divieto (ma solo in presenza di minori, che è già un altro discorso) e che presentò una legge ad hoc in Consiglio dei ministri: poi fu convinta a lasciare il tema al dibattito parlamentare e, nel febbraio scorso, a tentare d'infilarla nel Milleproroghe o in qualche altro taxi parlamentare. Andò buca. Ora rispuntano Razzi e Scilipoti - una garanzia - che in realtà stanno riciclando un'altra genialata dell'Italia dei valori più un paio di parlamentari del Pd: nella primavera 2010 proposero la stessa cosa (modificare l'articolo 173 del Codice stradale) anche se non fecero che riciclare, pure loro, un emendamento dell'ex senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, altra garanzia. Che vogliamo dire? L'assurdità di una legge del genere dovrebbe balzare all'occhio immediatamente: se tanto mi dà tanto, presto, il Codice della strada potrebbe vietarci direttamente di guidare. La sigaretta può essere una fonte di distrazione e causare incidenti, non c' è dubbio, ma se la scienza statistica divenisse a tutti gli effetti fonte di legge, beh, sarebbe davvero finita. Dire che presto vieteranno anche di parlare in auto - e ascoltare musica, mangiare, insomma tutto - sempre una battutaccia benaltristica, ma forse non sapete che il nuovo codice stradale inglese lo dice sul serio: mangiare o bere, inserire il cd nel lettore, cercare una stazione radio, ascoltare musica ad alto volume o discutere coi passeggeri, ebbene, tutto questo «può essere usato come prova a carico in un processo». Perfetto, ma allora vietino anche di sposarsi, perché avere la moglie affianco spesso è un fattore stressante che aumenta la probabilità di incidenti; vietino le auto ai bambini, soprattutto alle suocere: pericolo di morte. Vietino di pensare troppo intensamente - non so se Razzi e Scilipoti abbiano presente - perché pensare è senz'altro la prima fonte di distrazione. Anche guidare, come detto, aumenta sicuramente la probabilità di incidenti. E comunque non è il caso di fare troppo gli esterofili, perché all'estero si trova di tutto. Nei paesi tedeschi sono molto più tolleranti. È vero che in Inghilterra hanno vietato di fumare nella propria auto: ma in alcune città statunitensi, in compenso, si può fumare solamente nella propria auto. A Hollywood vogliono vietare ai minori tutti i film dove si vedono attori che fumano (qualcuno l'ha proposto anche in Italia: sorvoliamo) e la Rai, qualche giorno fa, ha fatto sapere che non trasmetterà una mia intervista (fatta a me, all'aperto) perché si vede che fumo. In Canada e negli Stati Uniti ci sono chiese dove hanno proibito l'incenso perché equiparato al fumo passivo. L'Unione europea, tempo fa, ha dato il benestare alla possibilità di non assumere un fumatore in quanto semplicemente fumatore, questo mentre le autorità britanniche mettono i fumatori e gli obesi agli ultimi posti delle liste sanitarie. È già da un pezzo che un terzo dei datori di lavoro americani, ai neo assunti, chiede esami del sangue e delle urine: cercano tracce di nicotina. Dite pure che il discorso è fuorviante, dite pure che stiamo parlando solo di vietare il fumo in automobile perché oggettivamente distrae. Ma l'auto è uno spazio privato per definizione: presto, di conseguenza, potrebbero vietare di fumare in casa, come in alcuni condomini degli Usa: questo ridurrebbe sicuramente la probabilità di incendi. Dopodiché passeremmo, probabilmente, ad altre neo-fobie occidentali. Del tipo: occhio a vivere troppo, che a quanto pare la cosa - dicono le statistiche - aumenta le probabilità di morire.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 29 ottobre 2015: Mangio carne e me ne fotto. La prima causa di morte al mondo - dice la battuta - è la vita. Oppure: basta nascere e hai una probabilità su tre di avere un tumore, e questa è già meno una battuta. Altre piccole verità sono che una parte del mondo non riesce a mangiare e che l'altra metà non riesce a non farlo, e che i libri più venduti d' Occidente sono rispettivamente i manuali di cucina che servono a ingrassare e i prontuari dietetici che servono a dimagrire. In mezzo a tutto questo, basandosi su studi epidemiologici su base statistica, tutto può essere detto e sostenuto: sta a noi (noi singoli, perché è inutile spalmarsi sugli esperti) restituire senso delle proporzioni a ciò che è causa di morte perché inevitabilmente fa parte della vita. E ci piacerebbe chiuderla qui, ma non è possibile: perché non passa giorno senza che un'alterata percezione del rischio trasformi in cause di morte, appunto, anche le cause di vita. Ora il macro-messaggio è «la carne è cancerogena» e così ritroviamo le salsicce accanto all'arsenico e all'amianto nel gruppo 1, quello in cui l'Organizzazione mondiale della sanità racchiude gli agenti più pericolosi per la salute. Tra l'altro non c' è nessun nuovo studio rivoluzionario: hanno banalmente revisionato 800 studi già esistenti e fondati sul solito criterio statistico. Il punto è che si sa da decenni che la prima causa di morte è il cibo: ma sino a poco tempo fa era considerata una causa «non rimovibile» e allora ci si accapigliava sul tabacco. Ora che la battaglia sul fumo pare vinta (il calo è costante in tutto l'Occidente) si passa meno timidamente all'alimentazione. C'è qualcosa che non sapevamo? La dieta mediterranea è la migliore e gli eccessi di carne rossa (o lavorata e in scatola) non sono il massimo per la salute: lo sapevamo eccome, la differenza tuttavia può stare nell'organizzazione di una campagna mediatica e «scientifica» da parte di una sanità che tende a inglobare anche le dimensioni comportamentali dell'esistenza, in pratica uno Stato-madre che nel libero arbitrio veda una minaccia da ridurre a malattia e che decida a tavolino i prossimi nemici della nostra salute. Sparare da un giorno all'altro che «la carne provoca il cancro» tende a terrorizzare l'opinione pubblica come fanno quei governi che vorrebbero negare la mutua agli obesi, e preparano etichette per cibi e vini come quelle dei pacchetti di sigarette, questo mentre in alcuni stati americani il peso dei bambini è diventato un voto sulla pagella. Eppure sì, con un po' di buonsenso sapevamo già tutto: l'attenzione spasmodica al rapporto tra salute e alimentazione risale agli anni Sessanta, quando il World Cancer Research Fund annunciò al mondo che il 40 per cento dei tumori avrebbe potuto essere evitato semplicemente cambiando dieta. Da allora abbiamo scoperto che fa male tutto: lo zucchero e il sale, i carboidrati e la carne, certa frutta e certa verdura, il latte e i formaggi, l'olio, il burro, la margarina, il cioccolato e le merendine, le caramelle, il caffè, l'acqua gassata e quella del rubinetto, la Coca-Cola, il vino e ovviamente tutti gli alcolici, nondimeno i fumi di cucina, le pentole, quelle antiaderenti, i contenitori di plastica, le bottiglie di plastica, le lattine, il forno a micro-onde, i fritti, i conservanti, i quattro salti in padella, i pesticidi, il cibo in scatola. Fa maleanche il digiuno. Fanno male le diete. E i farmaci per dimagrire. E dimagrire. Per dimagrire peraltro c'è questo modo: fumare. E per morire c'è quest'altro modo: non mangiare. Questo non è un modo di buttarla in caciara o di peccare di benaltrismo, inteso come sostenere che ci siano cause di morte più gravi di cui dovremmo occuparci: ma, se tutto è cancerogeno, nulla lo è più. In molti studi dell'Oms si legge che ogni anno il fumo causa un milione di morti per cancro, l'alcol 600mila e l'inquinamento 200mila: bene, ora la carne figura nella stessa lista del fumo. È legittima un po' di confusione? Piccolo esempio: il Sunday Times, l'8 giugno 1997, scrisse che il governo britannico aveva approvato un rapporto secondo il quale una percentuale dal 30 al 70% di tutti i tumori (l'intervallo di rischio è po' vago, ma le statistiche sono così) era attribuibile al tipo di alimentazione. Questo mentre, nello stesso periodo, il 90% dei tumori al polmone era attribuito al fumo. Questo mentre, nello stesso periodo, una ricerca dell'Environmental Protection Agency spiegava che il gas radon era responsabile del 30% delle morti per tumore ai polmoni. Questo mentre, nello stesso periodo, un altro studio attribuiva alla professione del deceduto il 40% delle morti per tumore ai polmoni. Questo mentre altre percentuali, ricavate da altri studi, legavano i morti per tumore ai polmoni nondimeno a cause disparate come i motori diesel, il caffè e persino gli uccellini da voliera. Ora: capite bene, anche qui, che un po' di confusione è legittima: eppure sono tutti studi «scientifici» e pubblicati anche sui giornali. La sostanza è che i titoloni allarmistici restano nell'immaginario anche se gli studi rilanciati dall'Oms, a legger bene, ne contengono gli antidoti: perché alla fine, a badarci, nessuno studio ha ancora stabilito che che la dieta migliore sia quella vegetariana o che bisognerebbe limitarsi a carne di pollo o a pesce; né è stata stabilita una dose massima o minima (anche minima: perché la carne è nutriente) di carne rossa. Da anni si raccomanda di consumare dai 160 ai 300 grammi di carne alla settimana: lo studio rilanciato in questi giorni ha cambiato le cose? Non risulta. Morale: è meglio limitare il consumo di carne. Grazie tante. Anzi buon appetito.
Il salutismo dell'impiegato medio tv-dipendente e consumista, scrive Nico Valerio. L'impiegato - meglio se pubblico, perché ha più tempo a disposizione e può, al limite, giocare alle parole crociate e navigare a sbafo su Internet - è diventato l'uomo-simbolo della società di massa. Basta il confronto quotidiano con i colleghi, con l'inevitabile ripasso di tutti i luoghi comuni, i pettegolezzi del "Villaggio Globale", le ironie sul Capo e le leggende metropolitane, a farne una perfetta e oliatissima rotellina del meccanismo perverso per il quale "chi meno sa, più sa", "chi meno comanda, più comanda", e perfino "se tutti sono stupidi, il Gruppo però è intelligentissimo". E così via, di paradosso in paradosso. Insomma, esattamente quello che accade, in piccolo, al futuro impiegato e "praticante" uomo-massa, cioè allo studente a scuola. Al contrario, l’uomo antico delle società familiari e patriarcali era saggiamente ignorante e non informato. Era un bel vantaggio. Comunicava con i suoi simili, per sapere o confrontarsi sulle leggende di allora, solo nelle periodiche assemblee di tribù o villaggio. Invece, l’uomo moderno della società di massa è informatissimo in tempo reale sul Tutto e sul Nulla, grazie al dannato passa-parola, e ai veloci, inutili e ottusi mezzi di comunicazione di massa. Ma in realtà è sempre ignorantissimo, sia pure ad un diverso livello di ignoranza. Infatti, non afferra o non ritiene i “perché” e i “come”, i “se” e i “tuttavia”, i "ma" e i "purché", che gli altri uomini-massa adibiti alla trasmissione delle notizie, sempre necessariamente parziali e perciò leggendarie, non dicono o sfiorano en passant alla penultima riga, o per brevità o perché poco simpatiche e fotogeniche, come tutte le eccezioni che contrastano con un titolo accattivante e da scoop che è stato messo a priori dal titolista sulla notizia che non ha letto. Così anche il salutismo spicciolo, insomma le norme per la buona salute tradotte in suggerimenti consumistici adatti all'uomo-massa, viene letto in modo stralunato, nevrotico, umoristico e paradossale. Sfugge completamente all'Uomo-medio la logica del tutto. Così, figurando di sapere Tutto, non sa Nulla. La giovane dottoressa di base, per esempio, dopo aver inserito davanti al paziente (aggettivo) paziente (sostantivo) il disco elettronico di dietologia, gli appioppa oltre alle bustine di Polase una dieta di banane, solo perché la lista dei cibi ricchi di potassio comincia giustamente in ordine alfabetico (ananas, banana ecc). Ignora o sottovaluta, poverina, che tutti gli alimenti sono straricchi di potassio, e specialmente i vegetali. E allora, com'è che le analisi denunciano una "carenza di potassio"? Non sarà, per caso, che il paziente è, appunto, malato, e dunque il suo equilibrio salino è saltato, e che comunque la sua dieta è rovinata dall'eccesso di sodio (sale da cucina, patatine, salumi ecc) che è il naturale antagonista elettrolitico del potassio nell'organismo? Macché, le "verità", anche quelle scientifiche, nella società di massa si dicono sempre a metà. Questo lo scotto che dobbiamo pagare per “sapere tutto” oggi: sapere tutto a metà. Contenti noi...Ma l’uomo medio è contento lo stesso nella sua sapienza ignorante: è la prima volta nella Storia che sa qualcosa, più o meno alla pari con gli esperti. Cent'anni fa neanche conosceva - ma solo perché non esisteva il casco da parrucchiere - quei risibili spezzoni di verità che oggi fanno apparire ogni massaia quasi una Madame Curie della scienza dell'alimentazione, per esempio che il pomodoro contiene il tenace rosso licopene, che resiste anche al ragù di otto ore della nonna Antonietta di Ragusa, e che la solita banana, poveretta (ma perché solo la banana?), è "ricca di potassio". Beati gli Antichi che non lo sapevano. Vivevano felici. Certo, senza l'ironia dissacrante dell'impiegato-tipo, e quindi senza le sue ulcere psico-somatiche. Almeno, non avrebbero capito male le pseudo-verità del Villaggio Globale pubblicitario, dette a metà e per secondi fini consumistici, come testimonia il racconto divertente, arrivatomi per posta elettronica, di ogni impiegato medio attento alla tv e succube di ogni messaggio "promozionale" e subliminale: Si sente nevrotico e ipocondriaco, e dunque "intelligente", ma in realtà è solo cretino. E il suo humour amabilmente reazionario lo dimostra:
"Dicono che tutti i giorni dobbiamo mangiare una mela per la salute in generale, gli spiaci per il ferro e una banana per il potassio.
Anche un'arancia per la vitamina C e una tazza di tè verde senza zucchero, per prevenire il diabete.
Tutti i giorni dobbiamo bere due litri d'acqua (sí, e poi pisciarli, che richiede il doppio del tempo che hai perso in berteli).
Tutti i giorni bisogna bere un liquido biancastro e acidulo "probiotico" e uno yogurt speciale per avere i "L. Casei", che nessuno sa bene che cosa cavolo sono, peró sembra che se non ti ingoi per lo meno un milione e mezzo di questi bacilli tutti i giorni, inizi a vedere sfocato.
Ogni giorno un'aspirina, per prevenire l'infarto, e un bicchiere di vino rosso per la circolazione in generale.
E un altro di bianco, per il sistema nervoso.
E uno di birra, che giá non mi ricordo per che cosa era.
Se li bevi tutti insieme, ti puó venire un'emorragia cerebrale o il mal di fegato, peró non ti preoccupare perché non te ne renderai neanche conto.
Tutti i giorni bisogna mangiare fibra. Molta, moltissima fibra, finché riesci a cagare un maglione.
Si devono fare tra i 4 e 6 pasti quotidiani, leggeri, senza dimenticare di masticare 100 volte ogni boccone. Facendo i calcoli, solo in mangiare se ne vanno 5 ore.
Ah, e dopo ogni pranzo bisogna lavarsi i denti, ossia: dopo lo yogurt e la fibra lavarsi i denti, dopo la mela i denti, dopo il banano i denti... e cosí via finché ti rimangono dei denti in bocca, senza dimenticarti di usare il filo interdentale, massaggiare le gengive, risciacquarti con l'apposito liquido disinfettante per la bocca...
Meglio ampliare il bagno e metterci il lettore cd, perché tra l'acqua, le fibre e i denti, le pisciatine, il bidet e le docce, ci passerai varie ore lí dentro.
Bisogna dormire otto ore e lavorare altre otto, piú le 5 necessarie per mangiare = 21.
Te ne rimangono 3, sempre che non ci sia traffico.
Secondo le statistiche, vediamo la tv per tre ore al giorno...
Giá, ma non si puó, perché tutti i giorni bisogna camminare velocemente per almeno 45 minuti. Dopodiché doccia, ovviamente.
Poi bisogna mantenere le amicizie perché sono come le piante, bisogna innaffiarle tutti i giorni. E anche quando vai in vacanza, suppongo.
Inoltre, bisogna tenersi informati, e leggere per lo meno due giornali e un paio di articoli di rivista, per una lettura critica.
Poi leggere almeno un libro al mese, perché se no le statistiche ci bollano come trogloditi. Quindi, almeno mezz'ora al giorno di libro.
Ah!, poi si deve fare sesso tutti i giorni, peró senza cadere nella routine: bisogna essere innovatori, creativi, e rinnovare la seduzione. Tutto questo ha bisogno di tempo. A patto che si trovi a tempo debito un partner pronto alla cosa. E senza parlare del sesso tantrico, oggi indispensabile.
Bisogna anche avere il tempo di spazzare per terra, lavare i piatti, i panni sporchi. E non parliamo se hai un cane o peggio dei figli!
Insomma, per farla breve, i conti mi danno 29-30 ore al giorno. L'unica possibilitá che mi viene in mente é fare varie cose contemporaneamente; per esempio: ti fai la doccia con acqua fredda e con la bocca aperta cosí ti bevi i due litri d'acqua. Mentre esci dal bagno con lo spazzolino in bocca fai l'amore (tantrico) al compagno/a, che nel frattempo guarda la tele e ti racconta, mentre tu lavi anche per terra. Ti é rimasta una mano libera? Chiama i tuoi amici! E i tuoi familiari!
Bevi il vino (dopo aver chiamato i tuoi ne avrai bisogno).
Il BioPuritas con la mela te lo puó dare il tuo compagno/a, mentre si mangia la banana con l'Actimel, e domani fate cambio.
E meno male che siamo cresciuti, se no dovremmo trangugiare un Alpinito Extra Calcio tutti i giorni. Uuuuf!
Peró se ti rimangono due minuti liberi, invia questo messaggio ai tuoi amici (che bisogna innaffiare come una pianta), fallo mentre mangi una cucchiaiata di Total Magnesium, che fa un mondo di bene. Adesso ti lascio, perché tra lo yogurt, la mela, la birra, il primo litro d'acqua e il terzo pasto con fibra della giornata, giá non so piú cosa sto facendo, sento peró che devo andare urgentemente al cesso. Così ne approfitto per lavarmi i denti....Un caro saluto uomini e donne moderni!". L'impiegata pubblica che scrivendo questo pezzo brillante ha sottratto allo Stato, cioè a tutti noi, una buona oretta di lavoro retribuito ha dimenticato - per fortuna - altri "obblighi" del nuovo consumismo salutisticamente corretto, come la spesa nella bottega di alimenti bio e la tisana di erbe, se no, l'avrebbe fatta ancora più lunga, e avrebbe perso e fatto perdere ancora più tempo nelle solite battute in corridoio...
Salute, non salutismo. E lasciateci mangiare. Lo stop dell'Oms alle carni rosse non è una novità, gli allarmi si ripetono da anni. Alla fine ognuno fa le sue scelte, valutando pro e contro e tenendo conto del piacere del cibo, scrive Corrado Benzio su “Il Tirreno” del 27 ottobre 2015. Negli anni Sessanta arrivò il primo allarme serio. Le carni alla griglia potevano provocare il cancro. In particolare le parti bruciaticce, carbonizzate. E già prima degli anni Sessanta salumi e carni rosse erano sott'accusa in America per i livelli altissimi di colesterolo dei maschi adulti benestanti. L'allarme lo lanciò Ancel Keys, l'inventore della dieta mediterranea e prima ancora, da dietologo, quello che rivide il rifornimento in combattimento dei soldati americani, inventando le mitiche razioni K (che sta appunto per Keys). Utile premessa per segnalare che dagli anni Cinquanta gli allarmi salutistici sulle carni rosse si ripetono con monotona frequenza. Come gli allarmi sull'inquinamento da allevamento bovino. Per produrre miliardi di hamburger si consumano acqua e terreno (senza dimenticare le emissioni gassose delle bestie) come neppure la peggiore Ilva. C'è un altro aspetto che in passato è stato esaminato. Per lungo tempo si è pensato che l'alta incidenza di tumori allo stomaco che colpiva la Toscana di terra fosse dovuto all'alto consumo di carni rosse. Poi la colpa si è data all'eccessiva radioattività dei nostri terreni. E poi, alla fine, all'inquinamento nel suo complesso. Il medico Vasco Merciadri: danni anche da ormoni e antibiotici, senza carne si vive 9-10 anni di più. Il buon Dario Cecchini, macellaio-poeta del Chianti, ha facile gioco a ricordare che ne uccide più la strada che la carne. Aggiungiamo che nei fatidici anni Sessanta un nome celebre della salumeria (la Molteni di Arcore, sponsor di Eddy Merckx) venne sputtanato per lo scandalo che passò alla storia come “Le mortadelle alla merda”. Certo rispetto ad un petto di pollo o ad una fesa di tacchino la Fiorentina ha ben altri contenuti di grassi e di zuccheri. Ma non ti sembra di cenare in corsia, come accade con le carni bianche. Ed infatti i nostri mezzadri pollo e coniglio lo facevano fritto, tanto problemi di colesterolo non ne avevano. Insomma c'è la salute e c'è il piacere. La carne di manzo più buona al mondo arriva dal Texas: tenera, grassa, saporita. «Ma come l'allevano? Con cosa? Boh» commenta Michele Marcucci che sulla brace ha fondato 25 anni di successo come ristoratore. I francesi grandissimi consumatori di carni rosse - loro le razze più pregiate, dalla Charolais alla Limousine - hanno bassissimi livelli di colesterolo. E' il famoso “paradosso francese” scoperto (guarda caso) da uno studioso americano...Poi certo abbiamo avuto la mucca pazza e anche questo non ha invogliato il consumo. Ma resta, per chi si siede a tavola, l'eterno problema: la carne e i salumi fanno bene o male? Il più grande studioso di tumori in Italia, il professor Umberto Veronesi, è vegetariano e non smette mai di ribadirlo. Ma, sottolinea sempre, per scelta personale non per decisione ideologica o altro. Forse dovremmo fare come lui: mangiare o meno le carni rosse, ma come scelta consapevole, quasi personale, non in virtù di mode o ideologie. Bilanciando salute e piacere. E ricordando che solo gli anni Cinquanta ci hanno liberato da malattie come il gozzo e la pellagra, provocate da uno scarso apporto proteico. E' sempre meglio ricordarsi da dove siamo venuti, prima di lanciare anatemi.
Salutismo Anti-salutismo: un dibattito superato, scrive Filippo Ongaro il 14 marzo 2012 su “Il Fatto Quotidiano”. Mi è capitato recentemente di partecipare ad un talk show televisivo insieme a Pierangelo Dacrema, autore del libro “Fumo, bevo e mangio molta carne”. Dacrema di mestiere fa l’economista ma in questo caso si avventura in un nuovo territorio, con un libro dal titolo e dai contenuti provocatori che è una sorta di ribellione istintiva a quello che lui percepisce come un insopportabile e invadente attacco dei talebani della salute alle sue scelte di vita. Pur non condividendone l’impostazione di base credo che il libro di Dacrema possa essere uno spunto interessante per innalzare il livello della discussione sulla salute che è senza dubbio un argomento più complesso di come spesso viene descritto dal dibattito ormai superato tra salutismo e anti-salutismo. Oltre ad invocare, maggiore tolleranza e atteggiamenti meno dogmatici e giudicanti da parte di chi promuove una vita sana, Dacrema mette in gioco giustamente il concetto di piacere che rimane il primum movens della maggior parte delle nostre scelte. E’ senza dubbio vero che le scelte che non portano ad un certo grado di piacere possono diventare sacrifici intollerabili nel tempo ma allo stesso tempo è sbagliato supporre che vivere in modo più sano possibile significhi non godersi la vita. Scegliere la salute non equivale a rinunciare ad ogni piacere ma semplicemente a cambiare la scala delle proprie priorità per passare da un piacere immediato ad uno a lungo termine, da una veloce scarica di energia ad un’energia sostenibile sul piano individuale e collettivo. Un pò come abbandonare fonti di energia inquinanti per abbracciare la pulizia delle rinnovabili, senza per questo dover rinunciare all’energia stessa. La tosse dopo aver fumato troppo il giorno prima, il mal di testa dopo aver bevuto eccessivamente alla serata con gli amici o l’incidente in macchina dopo aver goduto dell’ebbrezza della velocità sono esempi di piaceri immediati seguiti da successivi dispiaceri di gravità variabile. L’elenco potrebbe essere molto più lungo. Un altro argomento frequente di chi non vuole sentire parlare di prevenzione è che non vale la pena fare alcun sacrificio perché tanto prima o poi moriamo tutti. Meglio vivere come si vuole, ci dicono, e morire prima. Peccato però che di mezzo ci sia la malattia non necessariamente la morte. Una variabile non da poco che può farci entrare in una spirale di sofferenze. La verità è che la nostra impotenza di fronte alla morte ci obbliga ad accettarla ma non ci permette affatto di scegliere come morire e tantomeno di cosa ammalarci. Non badare alla propria salute non equivale affatto ad essere più liberi ma aumenta semplicemente il rischio di ammalarsi e un malato è certamente meno libero di una persona sana di fare ciò che vuole. Il menefreghismo e la leggerezza nei confronti della malattia tengono solo fino a quando siamo sani. Poi franano e lasciano il posto in tutti alla paura e alla disperazione. E a questo proposito viene da chiedersi se qualcuno dei sostenitori della “non-salute” sia in grado di rinunciare alle cure nel momento del bisogno per rimanere fedele al proprio ideale di una vita godereccia che assomiglia al gioco d’azzardo. Se così fosse sarebbe per lo meno un modo coerente di non incidere sui costi della sanità pagata da tutti, anche da coloro che si sforzano di rimanere sani. Si certo, ci sono anche persone che fumano, bevono e mangiano male per tutta la vita che non si ammalano e muoiono felici. Così come ce ne sono altre attente e consapevoli che si ammalano. E’ un altro argomento frequente di chi deride i tentativi di migliorare la salute degli altri. Per rimanere all’esempio automobilistico, sarebbe come sostenere che le cinture di sicurezza non servono perché alcuni guidano tutta la vita senza e non si ammazzano o altri si ammazzano per avendo la cintura. Un argomento assurdo che contrappone singoli casi fortunati o sfortunati a una mole impressionante di dati statistici. Insomma il dibattito tra salutismo e anti-salutismo è fondamentalmente inutile e fondato su argomenti piuttosto insensati. Meglio sarebbe discutere di come rendere le scelte di vita sana più semplici, naturali e soprattutto piacevoli per tutti puntando su una seria educazione alla salute a partire dai giovani.
I TALEBANI DEL SALUTISMO.
Il progresso, si sa, porta sviluppo tecnologico e sociale, ma produce anche inquinamento. Inquinamento prodotto dalle industrie, prodotto dalla circolazione dei veicoli, prodotto dal riscaldamento domestico. In inverno, spesso, si sente che le grandi città limitano la circolazione dei veicoli e l’uso del riscaldamento domestico, connubio velenoso, per render più respirabile l’aria. Proprio a Taranto l’ex sindaco Rossana Di Bello emise un’ordinanza di divieto al transito in città alle corriere della Sud Est che portavano i pendolari dalla provincia. Nei paesi sottosviluppati dove si muore ancora di fame il problema dell’inquinamento non esiste: aria pura e panza vuota. Ecco perché a nessuno verrebbe in mente di vietare i riscaldamenti o impedire la circolazione dei veicoli per le strade urbane ed extraurbane, ne tanto meno si proverebbe a chiudere qualsiasi attività economica, che direttamente o indirettamente produce inquinamento. Certo è che vige un principio: tutta quanto è dannoso deve stare lontano da noi, in casa d’altri!! Purtroppo spesso gli altri siamo noi e dobbiamo farci una ragione. Ovviamente non manca chi auspica la giunglalizzazione delle città, ma, per fortuna, ancora sono in pochi. Inoltre, c’è da considerare un altro aspetto, a proposito di inquinamento, non c’è solo l’Ilva e non c’è solo Taranto. Ma anche Gela, Priolo, Bagnoli, Porto Torres, le miniere dell’Iglesiente, Marghera e decine di altri siti industriali ancora in funzione o abbandonati. Quelli di interesse nazionale sono 57. Da una stima approssimativa, per la bonifica servirebbero 30 miliardi di euro, ma nel bilancio del ministero dell’Ambiente, alla voce “bonifiche” sono disponibili 164 milioni. E la salute delle persone che lavorano negli impianti ancora in funzione, quelle che vivono nelle vicinanze, cosa rischiano? Nessuno osa negare, compresi i dirigenti e i proprietari delle aziende, che qualche problema c’è. E il perenne ricatto è: bonificare vuol dire chiudere la fabbrica e mandare a casa decine di migliaia di lavoratori. Ma cosa si è fatto nel passato, cosa si fa oggi e quali sono i programmi futuri per sanare i siti? Una cosa da non dimenticare: le persone coinvolte sono più di 6 milioni. In Italia si calcola che i siti potenzialmente inquinati siano circa 13 mila e di questi 1.500 impianti minerari abbandonati, 6 mila e 500 ancora da indagare e 5 mila sicuramente da bonificare. Poco meno di 13 mila siti sono di competenza regionale (dai distributori di benzina alle piccole fabbriche che lavorano i combustibili), mentre 57 sono sotto la giurisdizione statale. Questi ultimi sono definiti dalla sigla SIN, vale a dire Siti di Interesse Nazionale. Allora ci si chiede: perché si parla tanto e solo di Taranto e di ILVA? «Perché a Taranto ci sono i “talebani”, ossia chi non sente ragioni contrarie alle proprie – spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio su Taranto ha scritto un libro. – Quelli che nel privilegio dell’impiego pubblico si dedicano alla pseudo tutela dell’ambiente. Questi, nel nome della tutela della salute, non chiedono la sanificazione dell’Ilva, ma pretendono la sua chiusura. Non dell’Eni o della Cementir, anch’esse gravemente inquinanti: no, dell’Ilva. Questi che vogliono la chiusura dell’Ilva sono nati con l’Ilva o dopo che questa ha iniziato a produrre. Sono cresciuti con essa ed anche grazie ad essa. Però, si sa, non c’è gratitudine in questo mondo. E’ vero che sin da piccolo (ed i decenni son passati) quando mi apprestavo ad entrare in Taranto, la città da lontano la vedevo avvolta da una cappa di fumo, ma è anche vero che con l’Italsider (odierna Ilva) la gente non emigrava più. Tutti lavoravano in Ilva e tutti lavoravano per l’Ilva. Taranto senza l’Ilva e le altre grandi industrie sarebbe solo una città di cozzari. Ripeto. Non c’è gratitudine. Per esempio, anche Trieste ha la sua Ilva. Lì è stato perseguito per calunnia l’ambientalista che denunciava l’esistenza dell’inquinamento. Paese che vai, usanza che trovi. A Taranto affianco agli ambientalisti di maniera troviamo chi da operaio è stato traviato dall’azienda e per gli effetti gli si ritorce contro. Troviamo ancora il capo della procura con i suoi sostituti e l’ufficio del Gip-Gup che, in generale dai dati elaborati in Italia, delle procure è la longa manus. Uomini della Procura che nell’inerzia quarantennale ha deciso di essere deus ex machina senza controllo alcuno e di decidere, da uomini soli, per un’intera nazione. A proposito degli ambientalisti sprono della magistratura. Il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, e il presidente di Peacelink Taranto, Alessandro Marescotti hanno fornito i dati dello studio del progetto “Sentieri”. Nel periodo 2003-2008 a Taranto è stato rilevato un aumento del 24% dei tumori del fegato e dei polmoni, del 38% per i linfomi e del 38% per i mesoteliomi. Bonelli e Marescotti hanno dichiarato “Il dato veramente preoccupante è quello dei bambini, per i quali si registra un +35% di decessi sotto un anno di età e per tutte le cause. Per quanto riguarda le morti nel periodo perinatale +71%. Questi sono i dati dell’aggiornamento che il ministro Balduzzi non ha voluto comunicare perché diceva che erano in fase di elaborazione. E’ falso perché questi dati sono stati elaborati, stampati e comunicati alla procura della Repubblica il 30 marzo di quest’anno”. Corrado Clini sostiene che questi dati siano falsi. Per questo motivo ha dato mandato all’avvocatura dello Stato di procedere nei confronti di Bonelli, che ha ripetutamente accusato il ministro dell’Ambiente di nascondere i dati sulla mortalità e di fornire informazioni false sullo stato della salute degli abitanti di Taranto. Clini ha detto “Fra l’altro mi preoccupa la diffusione di notizie false che generano allarme tra la popolazione e mirano a intimidire le autorità competenti in materia di protezione ambiente e tutele della salute”. Certo è che l’annunciata chiusura dell’Ilva di Taranto potrebbe rappresentare uno dei più grandi disastri industriali e sociali del nostro Paese degli ultimi anni, così come il suo funzionamento sembrerebbe esserlo stato per le condizioni di salute della città. E’ questa la considerazione che viene più spontaneo fare di fronte ai numeri sconvolgenti che lo stop degli altoforni di Taranto potranno portarsi come conseguenza più immediata. D’altronde stiamo parlando di un’azienda che rappresenta il 20esimo gruppo siderurgico del mondo, e dunque non è difficile immaginare l’impatto che ci sia sull’economia nazionale, sia in termini occupazionali che finanziari. E cominciamo allora proprio da qui, dal mettere in fila le prime drammatiche cifre sugli effetti umani e sociali di una sempre più probabile serrata dell’Ilva. Nella sola zona di Taranto andrebbero in fumo circa 12mila posti di lavoro, che rappresentano gli addetti diretti allo stabilimento, cifra che sale però a quota 20mila se si considera l’indotto. Quello di Taranto infatti rappresenta il più grande sito produttivo siderurgico d’Europa e allo stesso tempo lo stabilimento industriale con più addetti in Italia. Un particolare non da poco se si pensa che sorge in un contesto cittadino dove recenti statistiche parlano di un tasso di disoccupazione che viaggia intorno al 30%. In pratica chiudere l’Ilva potrebbe significare mettere in ginocchio l’economia di Taranto e a cascata di altre zone della Provincia e della Regione Puglia, visto che dei citati 12mila addetti diretti, solo 4mila sono tarantini, mentre gli altri vengono da fuori. Ma le conseguenze negative non finiscono qui sul fronte occupazionale, perché lo stop di Taranto si porta come conseguenza il blocco della produzione anche del sito Ilva di Genova, dove altri 1.760 dipendenti sono in agitazione perché vedono a rischio il proprio posto di lavoro. E il fatto che la chiusura dello stabilimento di Taranto si porti dietro conseguenze occupazionali così pesanti, si lega, come accennato, al rilievo che la sua produzione di acciaio riveste per l’intera economia italiana. Secondo i dati forniti dalla Confindustria pugliese infatti, la capacità produttiva di circa 10 milioni di tonnellate l’anno di acciaio che arrivano da Taranto, rappresentano circa il 40% del fabbisogno nazionale. Se l’Italia dovesse essere costretta a importare quantità di questo rilievo, andrebbe incontro ad una spesa del valore di circa 9 miliardi di euro. Una cifra che rappresenta circa un punto di Pil nazionale, e il 7-8% del Pil regionale pugliese. Un vero e proprio disastro economico dunque per il nostro Paese, che rischia, come accennato, di sfociare in dramma sociale a Taranto, dove monta la rabbia degli operai rimasti senza lavoro dalla sera alla mattina. Ma chi vive sulle spalle degli altri con la busta paga pubblica degli operai se ne fotte (l’intercalare spiega bene l’idea). Gli operai, talebani anche loro. Pronti a marciare su Taranto o a bloccare la circolazione dei veicoli, usando violenza sui malcapitati che si son trovati a passar dalle loro parti. Spintoni o gomme tagliate per chi non solidarizza con loro. L’esasperazione dirà qualcuno. In Italia, infatti, lavorano solo 23 milioni di persone e il nostro è il paese europeo col minor tasso di occupazione. In compenso, come è noto, abbiamo 16 milioni di pensionati oltre a un bel po’ di disoccupati e un sacco di altra gente che il lavoro manco lo cerca. E’ emergenza disoccupazione. Secondo le ultime stime provvisorie dell’Istat il tasso generale si è attestato all’11,1%. Per questo quando si dice che l’Italia lavora, non è vero. L’Italia non lavora e se ne fotte degli altri, ma il punto è che non vota sfiduciata da questa politica. Mai così tanti disoccupati, mai così tanti non votanti. C’è difetto di rappresentanza e la contrapposizione tra interessi è l’effetto. Per questo motivo, nel venire incontro a tutti gli interessi in campo il decreto legge varato dal Consiglio dei ministri “stabilisce che la società Ilva abbia la gestione e la responsabilità della conduzione degli impianti e che sia autorizzata a proseguire la produzione e la vendita per tutto il periodo di validità dell’Aia”. Il rilascio a ottobre 2012 da parte del Ministero dell’Ambiente dell’autorizzazione integrata ambientale ha anticipato gli obiettivi fissati dall’Unione europea in materia di BAT – best available technologies (tecnologie più efficienti per raggiungere obiettivi di compatibilità ambientale della produzione) di circa 4 anni. Con il provvedimento – spiega il comunicato di Palazzo Chigi – all’Aia è stato conferito lo status di legge, che obbliga l’azienda al rispetto inderogabile delle procedure e dei tempi del risanamento. Qualora non venga rispettato il piano di investimenti necessari alle operazioni di risanamento, il decreto introduce un meccanismo sanzionatorio che si aggiunge al sistema di controllo già previsto dall’Aia. “I provvedimenti di sequestro e confisca dell’autorità giudiziaria – spiega ancora il comunicato stampa – non impediscono all’azienda di procedere agli adempimenti ambientali e alla produzione e vendita secondo i termini dell’autorizzazione”. “L’Ilva – spiega il comunicato stampa – è tenuta a rispettare pienamente le prescrizioni dell’autorizzazione ambientale”. Palazzo Chigi definisce il decreto legge “un cambio di passo importante verso la soluzione delle problematiche ambientali, il rispetto del diritto alla salute dei lavoratori e delle comunità locali interessate, e la tutela dell’occupazione”. “In questo modo – prosegue la nota – vengono inoltre perseguite in maniera inderogabile le finalità espresse dai provvedimenti assunti dall’autorità giudiziaria”. Il Cdm stabilisce che la società “abbia la gestione e la responsabilità della conduzione degli impianti e che sia autorizzata a proseguire la produzione e la vendita per tutto il periodo di validità dell’Aia (sei anni). L’Ilva è tenuta a rispettare pienamente le prescrizioni. Le bozze del decreto sono state continuamente limate e ritoccate nel corso del Consiglio. Importante era evitare lo scontro frontale con la magistratura. Confermata, l’introduzione di una ‘figura di garanzia’, una ‘figura terza’ che possa dare fiducia a tutte le parti coinvolte: non un commissario ma un ‘garante’ che vigili sull’applicazione rigorosa ed efficace delle prescrizioni Aia. “Il garante – ha spiegato il sottosegretario Antonio Catricalà – deve essere persona di indiscussa indipendenza, competenza ed esperienza e sarà proposto dal ministro dell’Ambiente, dal ministro dell’Attività Produttive, e della Salute e sarà nominato dal presidente della Repubblica”. Il Garante acquisirà dall’azienda, dalle amministrazioni e dagli enti interessati le informazioni e gli atti ritenuti necessari, segnalando al presidente del Consiglio e al ministro dell’Ambiente le eventuali criticità riscontrate nell’attuazione delle disposizioni e potrà proporre le misure idonee, tra le quali anche provvedimenti di amministrazione straordinaria. “Qualora non venga rispettato il piano di investimenti necessari alle operazioni di risanamento, il decreto introduce un meccanismo sanzionatorio che si aggiunge al sistema di controllo già previsto dall’Aia”, si legge nella nota di Palazzo Chigi. In caso di inadempienze per l’Ilva – ha spiegato a questo proposito il ministro dell’Ambiente Corrado Clini – “restano tutte le sanzioni già previste e in più introdotta la possibilità di una sanzione sino al 10% del fatturato annuo dello stabilimento”. Non solo. “Abbiamo introdotto interventi possibili sulla proprietà stessa – ha aggiunto il ministro dello Sviluppo Corrado Passera – che potrebbero togliere enorme valore a quella proprietà: se non fa quello che la legge prevede, vede il suo valore fino al punto di perderne il controllo di fronte a comportamenti non coerenti. E’ possibile che variamo la procedura di amministrazione controllata. Insomma, se non si fanno gli investimenti e gli adempimenti di legge, viene messo qualcun altro a farlo”. “Non possiamo ammettere – ha detto Monti in conferenza stampa – che ci siano contrapposizioni drammatiche tra salute e lavoro, tra ambiente e lavoro e non è neppure ammissibile che l’Italia possa dare di sé un’immagine, in un sito produttivo così importante, di incoerenza. L’intervento del governo è stato necessario perchè Taranto è un asset strategico regionale e nazionale”, ha aggiunto. “Questo caso è la plastica dimostrazione per il passato degli errori reiterati nel tempo e delle incoerenze di molte realtà, sia imprenditoriali che pubblico-amministrative, che si sono sottratte, nel corso del tempo, alla regola della responsabilità, dell’applicazione e del rispetto della legge”. La strada del decreto è stata intrapresa per evitare – aveva spiegato Monti – “un impatto negativo sull’economia stimato in otto miliardi di euro annui”. Il provvedimento salva i 12mila dipendenti di Taranto e i lavoratori dell’indotto pugliese. Ma anche Genova, Novi Ligure, Racconigi. La possibilità di togliere l’azienda alla proprietà era stata prospettata anche da Clini intervenuto a Servizio Pubblico: aveva fatto intendere che il governo sarebbe stato pronto a prendere in mano la situazione nel caso in cui la famiglia Riva non voglia o non possa far fronte alle prescrizioni. “Sappiamo – aveva spiegato – che per essere risanato quel sito deve continuare ad essere gestito industrialmente. I Riva hanno detto che sono ponti a farlo. Il piano degli interventi prevede parchi minerari, altoforni, batterie delle cokerie. Se non fai questo, è la nostra posizione, non puoi continuare a gestire gli impianti. Se non sono in grado dobbiamo farci carico noi con un intervento che consenta di garantire la continuità produttiva ed il risanamento”. Questo è il potere esecutivo, il cui operato sarà convalidato dal potere legislativo. I magistrati, però hanno una loro ben definita contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo, di fronte ad una situazione complessa e con gravi ripercussioni occupazionali, si è assunto la grave responsabilità di vanificare le finalità preventive dei provvedimenti di sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la salute di una intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi danni», dice il segretario dell’Associazione magistrati (Anm), Maurizio Carbone, proprio a Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da verificare la effettiva disponibilità dell’azienda ad investire i capitali necessari per mettere a norma l’impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute nell’Aia», tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi sottrarre all’esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora non ha lesinato critiche al provvedimento d’urgenza di Palazzo Chigi: «È un’invasione di campo, dov’è finito il principio della separazione dei poteri? Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi dai magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così facendo, si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di Taranto Patrizia Todisco la nuova Aia per l’Ilva «non si preoccupa affatto della attualità del pericolo e della attualità delle gravi conseguenze dannose per la salute e l’ambiente». L’attività produttiva dell’Ilva è «tuttora, allo stato attuale degli impianti e delle aree in sequestro, altamente pericolosa». I tempi di realizzazione della nuova Aia sono «incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione locale e dei lavoratori del Siderurgico», scrive il gip. Tutela che «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali» (articoli 32 e 41). Come è possibile, sulla base di quanto emerso dalle indagini, «autorizzare comunque l’Ilva alle attuali condizioni e nell’attuale stato degli impianti in sequestro, a continuare da subito l’attività produttiva», senza «prima pretendere» gli interventi di risanamento? aggiunge il gip dicendo no al dissequestro degli impianti. La partita con l’Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare», sorride amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che proprio non ci sta a passare per «il talebano», così come viene definito sui giornali, «il pazzo nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per un caffè con il presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei bambini che qui nascono già malati di tumore…», si sfoga il vecchio magistrato. La Procura solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge di Palazzo Chigi, chiedendo l’intervento della Corte Costituzionale. Il diritto all’eguaglianza, ad esempio: la legge è uguale per tutti, no? Ma se la legge è nata per l’Ilva, dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto, oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti tarantini, alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia. Così come per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati compresi. L’inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale della Cisl e un presente da dirigente locale del Pd. Un’informativa di 182 pagine in parte mutilata da omissis e allegata all’ordinanza di custodia cautelare che aveva già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli arresti domiciliari l’ex assessore all’ambiente Michele Conserva, lo fulmina in poche righe. “Si evidenzia – scrivono i militari della Finanza – che alla luce di quanto accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della Provincia di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di concussione o, in subordine, di violenza privata”. Certo è che qualcuno dovrebbe spiegare ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non è un potere. Se l’articolo 1 della Costituzione detta che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello Legislativo che legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in modo straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.” Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.” Ergo: i magistrati devono applicare la legge, rispettarla e farla rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono sentirsi portatori di una missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può essere ammessa, in special modo quando vi sono interessi più grandi che quelli castali. E si deve ricordar loro, ai magistrati ed alla clache che li santifica, che c’è anche quella legge ambientale che prevede il dogma “chi inquina paga”. Non esiste il dettato tutto di stampo tarantino: “chi inquina, chiude i battenti e tutti a casa”, specialmente se l’industria che viene chiusa, con le tasse che paga, mantiene i suoi detrattori.»
LE BUGIE DEGLI AMBIENTALISTI.
"Le bugie degli ambientalisti" presentato da Antonio Gaspari, giornalista e scrittore; coordinatore del Master in Scienze Ambientali dell’Università Europea di Roma. «Il titolo del libro è provocatorio, ma non era nostra intenzione, né mia né di Riccardo (Riccardo Cascioli, coautore del libro), di giudicare qualcuno: abbiamo solo cercato di verificare fatti e approfondire la verità su alcuni diffusissimi luoghi comuni. Abbiamo anche analizzato l’approccio ai problemi ambientali, che ha cambiato la concezione dell’uomo e ha operato un vero stravolgimento della concezione antropologica.
L’attenzione all’ambiente: ecologia o ecologismo?
L’accresciuta sensibilità nei confronti dei problemi ambientali è un segno di civiltà. Investire denaro e risorse per migliorare il nostro ambiente naturale, per ridurre l’impatto delle nostre attività sull’ambiente, per arricchire l’ambiente e renderlo più bello, è un fatto molto positivo. Dietro questa azione di miglioramento del creato da parte dell’umanità, negli ultimi trenta anni abbiamo visto apparire un’ideologia che chiameremo “ecologismo”: questa ideologia non si è preoccupata di agire e di creare una cultura per migliorare il nostro rapporto con l’ambiente, ma si è occupata esclusivamente di mettere in contrapposizione l’essere umano e la natura. L’attenzione nei confronti di piante, animali o elementi inanimati,è stata contrapposta ai diritti dell’uomo, indicato addirittura come il cancro del pianeta. Nella storia dell’umanità ci sono state tante filosofie nichiliste di contrapposizione alla natura umana, ma mai una ideologia era stata così diffusa e così pervasiva. La contemplazione del creato genera grandi suggestioni: guardare il cielo, le montagne o il mare, arricchisce la persona, sostiene la speranza,fa pensare all’infinito. Ma, nell’immaginario culturale ambientalista, ogni volta che si parla di ecologia si evocano catastrofi, inquinamento, scomparsa di specie e di foreste, malattie, carestie, alluvioni,uragani. Per questa ideologia il mondo naturale è in guerra con quello degli esseri umani. Per i cristiani flora e fauna sono sorella e fratello, sono figli di uno stesso creatore; per questa ideologia rappresentano invece i contendenti di un conflitto selvaggio, in cui l’unico colpevole è sempre l’uomo con le sue attività lavorative. L’ideologia è sostenuta da un massiccio apparato propagandistico. Un esponente della compagnia petrolifera Shell mi raccontò che Greenpeace ha un ufficio stampa dieci volte più grande della Shell: “Questi sono bravissimi, sono capaci di inscenare un’aggressione a una nave, e finire su tutti i giornali e le TV del mondo, e su questa base raccolgono denaro”. Azioni dimostrative che utilizzano i mezzi di comunicazione e fanno pressione sull’opinione pubblica e sul mondo politico:questo tipo di campagna ha avuto un effetto significativo, tanto che oggi è quasi impossibile costruire un parcheggio, un termovalorizzatore,un impianto industriale. Mi è capitato di discutere in TV con un rappresentante di un’associazione ecologista, il quale si vantava di avere impedito la costruzione di un auditorio e riceveva anche approvazione dai personaggi presenti: la costruzione di un edificio in cui si sviluppa la cultura musicale è ritenuta azione inquinante, e si ritiene un merito l’averla impedita.
Difesa dell’ambiente e attacco all’uomo.
Questa ideologia ha influenzato anche l’aspetto legislativo, facendo nascere paradossi spaventosi. Faccio un esempio: in Olanda se andate a pescare col verme vivo rischiate fino a tre mesi di galera; c’è una legge di protezione degli animali per cui è vietato pescare col verme vivo,perché è un atto di crudeltà. Nella stessa Olanda il Parlamento ha votato l’eutanasia attiva anche nei confronti dei bambini. Un altro esempio: l’anno scorso c’è stata una grande campagna ambientalista per salvare gli alberi ultracentenari; le stesse persone che portavano avanti questa campagna hanno però proposto in Parlamento una legge per l’eutanasia. Se l’albero ha cento anni va salvato, ma se il nonno è vecchio e malato va eliminato; questa purtroppo è una logica molto diffusa nell’ideologia ambientalista. Un ultimo esempio: ci sono state campagne contro i fitofarmaci, in cui si diceva di non mangiare la mela “avvelenata”, trattata con antiparassitari;una campagna, quindi, contro sostanze che avrebbero potuto danneggiare la salute dell’uomo; le stesse persone però sostengono la diffusione massiccia e l’utilizzo della RU486, una pillola tossica che uccide il concepito e strazia la mamma. Nessuno evidenzia la contraddizione che esiste fra difendere in maniera radicale la flora e la fauna, e poi contrapporsi alla vita umana. C’è addirittura una associazione ambientalista negli Stati Uniti che si chiama Voluntary Human Extinction, associazione per l’estinzione volontaria degli esseri umani; sostengono che siamo troppi sulla terra e che la terra ha una sua dimensione spirituale: essa è Gaia, è una dea, e chi sconvolge l’armonia di questo pianeta è l’uomo, per cui ogni uomo in meno sulla terra è un beneficio per Gaia. Propongono di non fare figli, propongono l’eutanasia volontaria, il suicidio. Siamo a livelli assurdi, ma nessuno ride di questo, molte persone ci credono, praticano questo verbo, ne discutono e lo diffondono.
Ideologia nichilista, neopagana, negatrice del Dio creatore.
La questione più grave di questa ideologia è l’aspetto nichilista, la sfiducia negli esseri umani,che crea notevoli conflitti sociali. Non si vuole la pelliccia: contro la pelliccia si liberano gli animali allevati, si rompono le vetrine alle pelliccerie, si butta la vernice addosso alle donne che hanno la pelliccia; tutte azioni che creano un conflitto. Avvengono anche attentati che vanno sotto la categoria di ecoterrorismo, per impedire la costruzione del treno ad alta velocità, per far saltare tralicci: in Italia basta dire “vogliamo costruire questa cosa, qui” e subito persone scendono in piazza per impedirlo,utilizzando argomenti ambientalisti. Un altro aspetto negativo è la divinizzazione della natura. Recentemente a Roma c’è stata una manifestazione, con Greenpeace, CGIL, WWF, e diverse associazioni ambientaliste: i manifestanti, per protestare contro gli organismi geneticamente modificati (OGM), sono andati alla statua della dea Cerere, per una cerimonia con offerta di semi. Fenomeni neopagani di questo tipo si stanno espandendo: la divinizzazione della natura, minacciata dall’essere umano, si sta diffondendo in maniera pervasiva. I fenomeni naturali catastrofi ci vengono indicati come “la natura che si ribella all’uomo”,mentre in realtà si tratta di fenomeni che preesistono all’uomo e che ci sono sempre stati;l’uomo viene considerato come colui che ha offesola dea Gaia, e la dea Gaia si ribella rivoltandosi contro l’uomo: un’idea precristiana, siamo tornati al panteismo. Altro fenomeno preoccupante: questa ideologia, pur presentandosi in alcune forme“spirituali”, presuppone la cancellazione del Dio creatore. Ci sono state diverse riunioni di associazioni ambientaliste internazionali sulla questione spirituale: cercano forme di spiritualità indiana,primitive, e forme di spiritualità nelle piante. L’ideologia verde è pagana, ha uno spiritualismo che nega e si contrappone al concetto di Dio creatore,soprattutto al concetto cristiano, perché i cristiani vengono identificati come coloro che hanno portato avanti la cultura del fare, la cultura che ha generatola scienza.
Bugia n. 1: “The population bomb”.
Addentriamoci ora nelle bugie. A Stoccolma,nel 1972, si svolse la prima conferenza dell’ONU sull’ambiente, con una chiara impostazione neomalthusiana. Il pastore anglicano Malthus [1766-1834] era un economista e insegnava alla scuola che formava i quadri della Compagnia delle Indie(in pratica i quadri dirigenti dell’Impero Britannico):sviluppò la teoria secondo cui la crescita della popolazione non è coerente con la crescita della produzione, ed è quindi causa di impoverimento,malattie, carestie. Nel 1968 le teorie malthusiane vengono riprese dal libro di Paul R. Ehrlich “The population bomb”: è il libro fondamentale che fa nascere il movimento ambientalista nel mondo. Qual è la tesi?La popolazione cresce troppo e consuma troppo,quindi inquina; dobbiamo ridurre la popolazione, altrimenti il pianeta sarà invivibile. Viene messo sotto accusa l’uomo e il suo sviluppo, sia in termini5numerici sia in termini economici e tecnologici. Tutte le previsioni contenute nel libro e in libri successivi non si sono verificate, però l’ideologia è rimasta: la crescita della popolazione è vista come cosa minacciosa, più di una bomba atomica. Avevano previsto che nel 2000 saremmo stati ottomiliardi, mentre eravamo poco più di sei miliardi;già un errore del 25% è grave, ma soprattutto noi oggi abbiamo il problema contrario: le culle vuote. Nel pensiero neomalhtusiano, le culle vuote avrebbe dovuto significare benessere, ricchezza, posti di lavoro, ma si è visto che è vero il contrario: non avere fiducia, non far nascere bambini significa rallentare i processi produttivi e sociali, creando gravi problemi economici. Nel 2020 andrà in pensione il “baby boom”,cioè i nati negli anni ’50; gran parte della società diventerà pensionata e saranno sempre meno le persone giovani che lavorano: in termini sociali questo è il disastro tipico di una società decadente. Siamo ricchi, materialmente non abbiamo mai avuto tante cose come oggi, ma siamo poveri dentro, non abbiamo fiducia nella vita e non investiamo sul futuro. Dicevano che non ci sarebbe stato cibo per tutti, invece la produzione mondiale di cibo continua ad aumentare ovunque, e paesi come Cina,India, Brasile sono diventati esportatori di cibo. Ci sono più di 800 milioni di persone denutrite, ma non a causa della crescita della popolazione: la maggior parte di loro vivono in paesi sottosviluppati a bassa densità demografica. Potremmo inoltre produrre molto più cibo: siamo nella situazione paradossale e immorale per cui ci sono quote di produzione; c’è gente che muore di fame, ma noi, per tenere alti i prezzi su alcuni prodotti, non produciamo più.
Bugia n. 2: il calo delle foreste.
Hanno detto che le foreste stanno scomparendo,hanno detto che ogni anno scompare una porzione grande come l’Austria o la Svizzera solo nella foresta amazzonica. E’ vero, ma hanno dimenticato di dire che la foresta amazzonica è grande 100 volte la Svizzera, quindi è l’1%, e che il Brasile è uno dei paesi che pianta più alberi al mondo. Hanno dimenticato di dire che, se c’è una minaccia di riduzione della flora, è legata non allo sviluppo, ma al sottosviluppo: gli agricoltori poveri tagliano le foreste, bruciano gli alberi, usano la cenere come fertilizzante, poi, quando le piogge lavano le terre, passano avanti. La flora nel mondo è in crescita: lo constatiamo non solo contandogli alberi o sommando i dati locali, ma anche fotografandola situazione del mondo direttamente dai satelliti. C’è anche da considerare il rapporto delle forme di vita sul pianeta. In termini numerici la specie umana è lo 0,01% di tutte le specie viventi. In termini di massa i 6 miliardi e 800 milioni di persone hanno lo stesso peso delle formiche che vivono sulla terra. Il 97% di questo pianeta è flora,il 2,5% è fauna. Un continente gigantesco come l’Australia ha 19 milioni di persone; l’Argentina è sette volte l’Italia, con 40 milioni di persone; la Cina con un miliardo e mezzo di persone ha una densità demografica cinque volte inferiore all’Italia. La valutazione quantitativa è necessaria, se davvero vogliamo capire.
Bugia n. 3: riscaldamento globale e protocollo di Kyoto.
Hanno detto che i mari si sarebbero alzati:la temperatura cresce, i ghiacci si sciolgono e i mari si sollevano. In realtà l’unico dato certo è che stiamo vivendo un periodo relativamente caldo, mezzo grado di temperatura in più: quasi certamente questo fatto non dipende dalle attività umane, perché il clima è regolato da forze enormi varia secondo leggi nelle quali l’uomo è una parte infinitesimale. Innanzitutto chiariamo i termini, distinguendo tra “effetto serra” e “riscaldamento globale”. L’effetto serra è un effetto benefico: il nostro pianeta,grazie all’atmosfera, rallenta i raggi del sole che arrivano e li trattiene quando “rimbalzano” sulla terra, cosicché la temperatura media rimane a+15°. Se l’effetto serra non ci fosse, la terra avrebbe una temperatura media di -18°. Quello di cui si parla sempre è invece la“teoria del riscaldamento globale”, secondo la quale l’uomo, bruciando carburanti fossili, produce troppa anidride carbonica che va nell’atmosfera e aumenta le temperature. Vediamo i dati: l’anidride carbonica rappresenta il 2% di tutti i gas serra, più del 90% dei gas serra è rappresentato da vapore acqueo. Di questo 2% di anidride carbonica, le attività umane ne producono il 4%, il 96% è prodotto naturalmente. L’eruzione di un vulcano produce più anidride carbonica di tutta la produzione annuale delle industrie del mondo occidentale. L’oceano e le foreste producono (e assorbono, ma producono)tanta di quella anidride carbonica per cui verrebbe da dire: “Ma di cosa stiamo discutendo?”. Il protocollo di Kyoto è una frode. Vi faccio un esempio: il protocollo ambisce a ridurre le emissioni di anidride carbonica. L’Italia ha sottoscritto l’accordo e ha continuato ad aumentare la sua quota di anidride carbonica; adesso deve ridurla. In che modo? Sta comprando quote da paesi che hanno crediti, paesi che ne producono meno della quota concordata: quindi non c’è nessuna riduzione reale. Pagheremo 500 milioni di euro l’anno sulle nostre bollette, ma non ridurremo di un grammo l’anidride carbonica: è solo un gioco e una normativa ipocrita. Se fosse vera la teoria del protocollo di Kyoto,la riduzione della produzione di anidride carbonica ridurrebbe la temperatura del pianeta di 0,02° in50 anni con una spesa spaventosa: questo è il motivo per cui Stati Uniti, Australia, Cina, India, non hanno aderito al protocollo. Però voi provate a dire questo pubblicamente. Utilizzare i cambiamenti climatici per sostenere una teoria è come usare la sfera di cristallo: se c’è una cosa che varia ogni giorno e che non è mai stata uguale nella storia del pianeta è il clima, e quanto l’uomo riesca a influenzare il clima è cosa molto incerta. Il sole è un’esplosione termonucleare continua,una minima variazione del sole e il nostro clima varia in una maniera spaventosa; ma anche le forze degli oceani, la velocità di rotazione,l’inclinazione dell’asse terrestre, sono fenomeni in grado di influenzare pesantemente il clima:dobbiamo studiare e capire queste cose, ma dire che il cambiamento di clima è colpa dell’uomo è ridicolo.
Bugia n. 4: la scomparsa delle specie.
Hanno detto che le specie stanno scomparendo,e che la crescita dell’attività urbana sta facendo scomparire le specie. Nelle nostre città non abbiamo mai avuto una varietà tanto grande di specie, a Roma abbiamo i gabbiani a Piazza Venezia, abbiamo tutti i tipi di uccelli, abbiamo gli scoiattoli nei parchi. A livello mondiale noi conosciamo solo una parte della fauna esistente. Tre anni fa è partito un grosso censimento della fauna marina (400 scienziati di tutti i paesi con le tecnologie più avanzate): in tre anni hanno scoperto 5.500nuove specie. Si pensava che nel mare a una certa altezza ci fosse il massimo della fauna e poi sottonon ci fosse più niente, invece hanno scoperto che sotto c’è più di sopra. Molte specie ritenute estinte sono state ritrovate. Il caso più eclatante è quello del celacanto, un pesce esistente già al tempo dei dinosauri e ritenuto estinto: una ricercatrice americana,in vacanza alle isole Comore, lo ha “ritrovato”al mercato, dove veniva venduto e mangiato. Per non parlare poi delle specie che si dicevano in via di estinzione: sullo Stelvio adesso i cervi sono troppi e dovranno ucciderne; lo stesso accade nei parchi africani con gli elefanti, lo stesso sta succedendo con le balene e gli avvoltoi. Ci sono specie che probabilmente emergono e noi non le conosciamo, perché sono in zone dove non ci sono uomini.
Altre bugie.
Abbiamo anche vissuto la demonizzazione dell’energia nucleare. Sta di fatto che l’Italia oggi importa il 18% del suo fabbisogno energetico da paesi che lo producono nuclearmente: noi non lo produciamo, però lo compriamo. L’ENEL ha anche acquistato impianti nucleari in Slovacchia: sono impianti più vecchi di quelli che avevamo, però lì non c’è l’opposizione dei Verdi, quindi l’ENEL li ha comprati, ci investe, ha mandato lì i nostri tecnici e da lì produrrà energia per l’Italia. Hanno detto che la desertificazione sta avanzando mentre negli ultimi 10 anni il deserto sta arretrando. Hanno detto che la società moderna è troppo inquinata, ma in realtà la vita delle persone si allunga. E così via: nel libro abbiamo raccolto molte bugie. Anche sugli OGM i Verdi ci hanno raccontato bugie e le accompagnano con scenari catastrofici, una vera fabbrica delle paure.
La vera concezione dell’uomo.
La cosa più grave è che hanno voluto cancellare l’ottimismo e la speranza e hanno stravoltola concezione dell’uomo. Guardiamo la realtà: il nostro pianeta è un mistero grande e in tutto il sistema solare non c’è vita. La terra non ha solo la vita, la flora, la fauna, i laghi, le piante, gli animali,ma ha gli uomini e gli uomini sono una specie di vita straordinaria, che supera tutti i limiti della fauna. L’uomo è un essere pensante, può concepire l’infinito, studia le leggi che regolano l’universo e le utilizza per svilupparsi: noi voliamo, navighiamo,andiamo nello spazio. L’umanità è qualcosa di straordinario, altro che cancro del pianeta. La caratteristica antropologica che definisce la specie umana è la sua capacità di produrre cultura, cultura che va oltre le esigenze del mangiare,bere e costruire la casa. Parliamo di uomo quando troviamo dipinti, immagini, culto dei morti, cioè quando troviamo qualcosa che astrae, che va oltre l’aspetto materiale. L’uomo è un essere intelligente e sociale che utilizza la socialità e il linguaggio per affrontare con una nuova cultura i problemi che si trova di fronte. La comunità di fronte a un problema, ad esempio la fame, sviluppa l’agricoltura: nell’agricoltura non c’è niente di naturale, è produzione dell’uomo, è una riproduzione di ciò che avviene in natura, però ordinata dall’uomo con l’utilizzo del seme, con la crescita delle piante, con la selezione di piante. L’uomo osserva, studia, produce una cultura, affronta e risolve il problema. Un’altra caratteristica fondamentale dell’uomo è la socialità basata sulla famiglia. Il Creatore avrebbe potuto creare un essere che si riproduce da sé, un ermafrodita, però sarebbe stato l’essere più egoista del mondo; ha creato due esseri differenti, uomo e donna, e la continuazione della specie passa attraverso l’atto d’amore di questi due, un’unione non solo sessuale, ma d’amore,di donazione, di uscita dal proprio egoismo. La famiglia è la più grande sfida all’egoismo: tante cose si fanno per la famiglia, tanti sacrifici che, se uno vivesse da solo, non farebbe. Nella società umana c’è anche la trasmissione della cultura, l’educazione, quella che in economia viene chiamata “la formazione del capitale umano”: la ricchezza del pianeta non sono le piante, gli animali, le materie prime, il denaro; la ricchezza del pianeta è il capitale umano. I cristiani direbbero: la persona. Perché rappresenta una ricchezza? Perché le persone riescono a definire, a produrre, a pensare, a produrre amore, a produrre per il bene comune, perché sono fatte per questo. C’è un disegno del Creatore, sono fatti per il bene,altro che cancro per il pianeta. Questi piccoli spunti antropologici ci dicono che dobbiamo superare il modo con cui l’ecologismo ha trattato il rapporto uomo - ambiente; dobbiamo produrre una nuova cultura, più positiva,più ottimista, una cultura che migliori l’ambiente utilizzando il meglio delle capacità umane, una cultura che non criminalizzi gli uomini, ma che usi il meglio degli uomini per migliorare il pianeta: ciò che Giovanni Paolo II chiamava “ecologia umana”. Il nostro libro tenta di superare questa cultura catastrofista e nichilista, e di dare un approccio culturale nuovo al rapporto con l’ambiente; la crescita dell’umanità è ovvio che crea problemi di rapporto con la natura, ma non sono rapporti conflittuali,sono rapporti che noi possiamo risolvere. Noi possiamo risolverli, non la natura: non sarà la natura a salvare noi, come pensano gli adoratori di Gaia, ma saremo noi a salvare la natura e a salvare noi stessi.»
DOMANDE e INTERVENTI
Nel libro ci sono moltissime parti che parlano dell’ONU, mentre nel suo discorso non l’ha citato.
«L’ONU è un’istituzione internazionale che ha dei compiti chiari, con molti fallimenti e grandi difficoltà, e riflette il modello culturale dominante;l’ONU è condizionato dai poteri forti e i poteri forti hanno sposato la cultura ecologista. Il WWF ha proprietà terriere più di un impero coloniale, fra parchi, oasi, ecc. E’ diretta da persone molto legate ai poteri forti, cominciando dal principe Filippo di Edimburgo, e nel suo consiglio di amministrazione siedono presidenti di banche, di multinazionali, ecc.: non c’è nessuno di quelli che voi immaginereste come ecologisti. L’ONU riflette la stessa filosofia. C’è un ufficio dell’ONU che si occupa di ambiente, ed è stato fondato dalle stesse persone che hanno fondato il WWF, in particolare da Julian Huxley. La famiglia Huxley è una delle famiglie britanniche più potenti, il primo Huxley di cui si parla veniva chiamato il mastino di Darwin ed è quello che ha lanciato la teoria dell’evoluzionismo prima di Darwin, e alcuni dei familiari sono diventati famosi (c’è anche il premio Nobel Huxley che ha scritto il libro “Il mondo nuovo” in cui descrive la società che gli Huxley e i poteri forti pensavano, cioè una società in cui non c’è più la famiglia, in cui tutte le persone vengono prodotte da una grande incubatrice, in cui si decide le categorie di persone che devono nascere alfa, beta, gamma: vi consiglio di leggerlo perché è esattamente quello che stanno cercando di fare oggi).Ma la cosa più incredibile di questo gruppo di potere è che erano anche i fondatori delle società eugenetiche, che negli anni ‘20 e ‘30 hanno lanciato quel tipo di programma, sempre legato a Malthus, per cui bisognava ridurre le nascite, che dovevano essere selezionate, staccate dalla famiglia; teorie che poi Hitler, in maniera molto teutonica, ha applicato alla lettera: nell’immediato dopoguerra non si poteva parlare di eugenetica proprio per questo motivo. Oggi gli Stati Uniti si sono opposti alla cultura malthusiana, sia perché sono pragmatici, sia perché si sono resi conto che la cultura malthusiana significava la morte di una civiltà, e per loro, che si considerano l’unica superpotenza,questo significava la fine dell’impero. Dal 1972 ci sono state diverse riunioni internazionali sulla questione dell’ambiente; l’ultima si è tenuta a Johannesburg nel 2002 e ha ribaltato i parametri culturali che erano stati imposti nel 1972 a Stoccolma. A Stoccolma si era detto: siamo troppi sulla terra, bisogna ridurre i consumi, lo sviluppo è il problema, dobbiamo contenere e limitare i consumi, impedire le attività produttive, limitare la scienza. A Johannesburg nel 2002 si è detto: il vero problema dell’inquinamento non è lo sviluppo, ma il sottosviluppo. Quelli che consumano più alberi non sono i paesi ricchi che vanno a tagliare gli alberi nella foresta amazzonica (anche perché è molto antieconomico, è meglio piantarli e poi tagliarli), ma sono i paesi poveri che non hanno carburante e tagliano tutto il legno che trovano. Il 90% dei morti per le conseguenze dell’inquinamento ambientali sono nei paesi poveri, non nei paesi ricchi. La prima cosa da fare è dare casa e acqua potabile alle persone: questo è il più grande contributo ambientale che possiamo dare. L’approccio neomalthusiano è arrivato al capolinea, occorre cominciare a lavorare per un modello culturale alternativo e propositivo.»
L’ostilità degli ambientalisti verso la popolazione mondiale è dovuta a una causa semplicemente“spirituale” correlata all’antica dea terra o è dovuta a un notevole introito economico per loro? Si sa che molte persone agiscono quando ne hanno un guadagno: è il caso anche degli ambientalisti?
«Vorrei distinguere tra “ideologia ambientalista”e “ambientalisti”. Ci sono dirigenti ambientalistiche sono disonesti, ma la gran parte delle persone che aderisce ad associazioni ambientaliste lo fa in buona fede. Sul guadagno di denaro non ci sono dubbi: vendendo paure hanno creato un impero. Associazioni come WWF, Greenpeace, Legambiente,hanno bilanci miliardari, superiori in alcuni casi a quelli delle multinazionali; se andiamo a vedere da dove vengono questi soldi, scoprirete che in parte vengono da gruppi e fondazioni che hanno sostenuto la politica malthusiana del “siamo troppi sulla terra”, finanziando enormi piani di riduzioni delle nascite. Sono state sterilizzate 150 milioni di donne, in maggioranza povere e non scolarizzate, a cui hanno fatto accettare la sterilizzazione9attraverso aiuti alimentari e accesso al credito, e in alcuni casi con violazioni palesi dei diritti umani. In Italia, durante la campagna sul nucleare, alcune compagnie petrolifere hanno versato un’enorme quantità di denaro. Da una indagine fatta negli Stati Uniti è venuto fuori che un’alta percentuale di dirigenti di associazioni ambientaliste siede nei consigli di amministrazione delle 500 ditte più inquinanti del paese. Il responsabile ambientale dell’Union Carbide, responsabile del disastro di Bhopal in India, era uno dei fondatori del WWF. Nell’amministrazione del Parco Nazionale d’Abruzzo, gestito da Fulco Pratesi, i dirigenti si sono aumentati gli stipendi, hanno aperto uffici a New York, a Venezia, tutti con soldi dello Stato, si sono affittati le case che loro abitavano; ci sono denunce, c’è una sentenza: Fulco Pratesi deve riconsegnare il denaro [Si riferisce alla sentenza 1/2004 della Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione Abruzzo, con condanna al pagamento per Franco Tassi, ex direttore, e Fulco Pratesi, presidente, NdR]. Non si sa come, ma queste notizie non appaiono sui giornali. Non c’è mai un rappresentante dei Verdi che parli tranquillo e sereno; sono aggressivi,esprimono giudizi, accusano gli altri. Questo dà l’idea del poco rispetto che hanno delle persone,come dimostra il recente caso di Mario Tozzi, conduttore di Gaia, il quale in una trasmissione radio in cui si discuteva di “unioni di fatto”, ha detto che il Cardinal Ruini è il peggior rifiuto da eliminare ad ogni costo, che farà la fine di una porchetta con un pezzo di limone in bocca, che lui conosce persone che per 500 euro sono in grado di eliminare Ruini e i tabernacoli, che la Spagna degli anni ’30 ha avuto un enorme progresso sociale da quando ha ucciso i sacerdoti e distrutto le chiese, ed è assurdo che in Italia continuiamo a costruire chiese, e al posto di San Pietro bisognerebbe fare come a New York…Le campagne catastrofiste hanno un fine:aumentare la propria influenza, essere sempre sulle pagine dei giornali, riuscire ad avere peso politico e costruirsi una vera e propria lobby. Tra l’altro molte campagne ambientaliste consentono di favorire certi prodotti e penalizzarne altri, senza essere accusati di concorrenza sleale. Una campagna contro le pellicce naturali favorisce le pellicce sintetiche. Promuovi l’energia solare e poi scopri che rappresentanti verdi sono nella dirigenza delle ditte che producono il solare.»
Sono un iscritto Verde. Vorrei ricordare che l’attuale Ministro dell’Agricoltura, che non è Verde, è convinto che gli OGM siano un pericolo. Inoltre chiedo perché ritiene Kyoto una frode, visto che tanti stati l’hanno sottoscritto, ultimamente anche la Russia. Poi due problemi locali: foto dal satellite hanno evidenziato che l’Emilia Romagna ha un super inquinamento dovuto a PM10 e ad altri fattori. La Regione sta cercando di fermare una percentuale di traffico: lei cosa ne pensa? Inoltre,visto che lei è favorevole al nucleare, può dirci quali benefici abbiamo ricavato in Italia quando c’era il nucleare?
«Io non sto attaccando i Verdi per motivi ideologici: dal punto di vista ideologico ci sono persone a destra molto vicine all’estrema sinistra. L’ambientalismo storicamente è nato dalle società eugenetiche che erano di estrema destra ed erano al potere. Uno dei fondatori dell’ecologismo italiano si chiama Alessandro Ghigi (1875-1970): è stato rettore dell’Università di Bologna e fu uno dei firmatari della carta utilizzata per la promulgazione delle leggi razziali; poi nel dopoguerra è stato sostenuto da organizzazioni di sinistra. Quindi a me non fa impressione che il ministro del centro destra Alemanno sia, su certe questioni, molto vicino al Verde Pecoraro Scanio. L’opposizione allo sviluppo e al progresso di una certa destra è uguale a quello dell’estrema sinistra. Sugli OGM la questione è più articolata, anche qui ci sono interessi specifici. Il mondo sta andando in quella direzione, perché è ottimale dal punto di vista ambientale: sono l’unico modo per ridurre l’utilizzo di fitofarmaci in agricoltura in zone dove i fitofarmaci non riescono più a contenere i parassiti. Ho fatto una ricerca per la Santa Sede, durata due anni: non c’è istituzione scientifica internazionale che non si sia pronunciata su questo argomento e che non abbia fornito la stessa identica valutazione. Per quanto riguarda Kyoto, bisogna ricordare che la maggior parte dei paesi l’ha sottoscritto sulla base del fatto che il protocollo non comporta nessun impegno per loro. La Russia prima della sottoscrizione ha presentato documenti opponendosi alla teoria del riscaldamento globale, poi ha firmato il protocollo. C’è una ragione: la Russia avanza crediti, la Russia adesso vuole essere pagata per aver sottoscritto il protocollo; avendo dismesso moltissime attività di vecchia tecnologia, eredità del regime comunista, adesso ha dei crediti a livello di CO2 e aspetta il denaro. Per quanto riguarda l’inquinamento in Emilia Romagna: la zona è particolare, ospita il 15% delle attività produttive della pianura padana, assieme a molte vie di comunicazione. La presenza dei PM10 credo sia dovuto soprattutto alle condizioni climatiche, all’umidità che schiaccia a terra le particelle inquinanti. In Emilia Romagna ci sono problemi ambientali ma è anche una regione con altissimi livelli di vita, quindi si deve trovare una soluzione per migliorare le condizioni ambientali senza perdere questa capacità; tante energie sono state spese per farne una regione produttiva e avanzata: se le medesime energie si sposteranno anche sulla questione ambientale, le soluzioni si possono trovare. Comunque, guardando i dati del passato, la situazione ambientale è migliorata: mi riferisco soprattutto all’impatto degli allevamenti di suini, agli scarichi nelle acque, ai valori sull’aria. Le leggi sono diventate più rigorose e più applicate, mentre nel passato non c’erano leggi o non venivano applicate. Gli alti livelli di vita implicano più attività e più macchine, però non si può fermare il progresso, il progresso è anche un miglioramento delle attività ambientali. Qui c’è un equivoco di fondo che l’ecologismo ha creato. L’ideologia ecologista dice: c’è un luogo incontaminato; vogliono fare un albergo; no, non si può fare l’albergo. Invece si dovrebbe dire: sì, si fa l’albergo, ma si fa il miglior albergo del mondo, quello con il minor impatto ambientale, quello che usa il solare come energia, eccetera. Per quanto riguarda il nucleare, col petrolio a 70 dollari al barile, è evidente che noi abbiamo sbagliato. Compriamo energia elettrica dalla Francia che la produce nuclearmente, compriamo vecchie centrali nucleari in Slovacchia, perché è energia più economica e meno inquinante. Siamo l’unico paese del mondo avanzato che invece di ridurre la dipendenza dal petrolio l’ha aumentata: è ipocrita firmare il protocollo di Kyoto e poi aumentare l’utilizzo delle fonti fossili. Abbiamo impiegato 30 anni per far crescere tecnici capaci di fare il nucleare, e quella ricchezza l’abbiamo spazzata via. Nella bolletta stiamo ancora pagando lo smantellamento delle centrali: siamo l’unico paese al mondo che paga per non produrre energia. Il bilancio sul nucleare è semplicissimo: avevamo tre impianti nucleari che producevano energia, li abbiamo cancellati pagando lo smantellamento senza avere benefici. Quindi è un bilancio assolutamente in perdita.»
Faccio parte dell’Esecutivo provinciale dei Verdi. La mia cultura d’origine è cattolica, lontana dall’excursus eugenetica – catastrofismo - ambientalismo. Sono ottimista, credo nell’intelligenza dell’uomo, credo che l’uomo debba preservare la terra dai pericoli che si creano durante lo sviluppo. Credo che lei abbia preso solo argomenti che servono per valorizzare la sua tesi, che è quella di denigrare l’ambientalismo in generale. Premetto che c’è un problema di competenza: tutti noi dipendiamo da quello che dicono gli scienziati. Io sono uno che approfondisce e che invita il mio movimento a studiare, a essere competente, ma ugualmente non sono in grado di valutare elementi così complessi che solo uno scienziato può argomentare. In questa sala molti dipendono solo dalle sue parole; però penso che poi si documenteranno, andranno a verificare se le cose che lei dice sono vere. Ho raccolto un dossier di scienziati che dicono il contrario delle cose che lei dice. Chi ha ragione? Bisogna verificare, cercare di prendere più elementi possibili. E’ bene che ciascuno di noi cerchi di approfondire, di vedere i dati interessanti e anche quelli negativi che ci sono sul libro.
«Sono contento di questo intervento: uno degli obiettivi del libro era quello di cercare di argomentare, perché la verità è complessa. La maggior parte delle cose che ho citato (con bibliografia) sull’ideologia verde sono tratte da pubblicazioni e dichiarazioni fatte da esponenti verdi. La discussione su questi temi è molto vasta, esattamente il contrario di come viene presentata. Ad esempio, il protocollo di Kyoto fu votato in prima istanza con l’Amministrazione Clinton e il Senato lo respinse 98 a 2; inoltre c’è un manifesto firmato da 19.000 scienziati che si oppongono a Kyoto e argomentano. Se il nostro libro non fosse stato scritto, queste argomentazioni critiche non sarebbero apparse sulla stampa italiana. Sono d’accordo che non c’è una verità assoluta su queste questioni: io sono in totale contrasto con coloro che dicono che il clima funziona così perché lo diciamo noi. Il clima è una cosa complicatissima. Dire che tagliando le produzioni di CO2 il clima si raffredda è un’affermazione ideologica, non sappiamo nemmeno se l’aumento della CO2 riscalda o raffredda: le stesse identiche persone che hanno portato avanti la teoria del riscaldamento globale, 25 anni fa sostenevano che l’aumento della CO2 avrebbe portato a un raffreddamento del clima. Anche l’approccio scientista non mi convince. Un approccio scientifico che non tiene conto del bene degli uomini chiaramente non è sufficiente: occorre ristabilire un principio più alto in cui il rapporto uomo - ambiente sia visto non come conflitto, ma come una possibilità di trovare soluzioni puntando sul bene degli esseri umani. Questo per me è il principio di fondo. Per quanto riguarda i Verdi, mi dispiace se ho suscitato la suscettibilità di qualcuno. Per me la persona è sacra, sono un credente e rispetto ogni persona, ma non rispetto certe opinioni; e siccome certe idee sono state portate avanti, scritte, documentate con odio contro l’umanità, perché non dovrei dirlo? Qual è il fine di queste politiche, cosa ha prodotto questo approccio culturale, quale è la concezione dell’uomo che sta dietro a questa ideologia? Questo ho cercato di approfondire, ho anche fatto un manifesto per i cristiani ambientalisti; stimo le persone che hanno una sensibilità ambientale, però considero un certo approccio culturale come deleterio, contrario al bene dell’umanità e quindi lo denuncio, lo scrivo in un libro, mi pongo in una discussione pubblica, ma lungi da me, soprattutto sulla questione scientifica, credere al pensiero unico. Purtroppo sulle questioni ambientali c’è il pensiero unico. Ad esempio, sulla questione degli inceneritori c’è il pensiero unico. Se lei va a Vienna, nel tour della città la portano anche a vedere un inceneritore, fatto con una tecnologia molto vecchia, del1976. Addirittura adesso lo triplicano, nel centro della città. Perché? Perché in questo momento noi abbiamo un problema di rifiuti e lo avremo sempre più grande; portare i rifiuti in discarica significa non trattare i rifiuti. L’Italia è un paese piccolo, stretto,urbanizzato, ha le montagne, poche pianure, un po’ di colline: se potenziamo le discariche, questo paese dal punto di vista ambientale e umano peggiora. Il modo più efficiente che si conosce per affrontare questo problema è il termovalorizzatore, la tecnologia attuale ci permette questo. Ovviamente non c’è una sola soluzione, ci sono soluzioni articolate, ma la quantità di rifiuti prodotti è enorme: o lei trova il modo di ridurli, addirittura producendo energia, oppure il problema c’è. Lei può pensare al compostaggio, alla riduzione, a ossidarli, ma la soluzione ottimale è quella. Poi ci sono altre piccole e varie soluzioni, da studiare e verificare. L’importante è impostare un metodo in cui non si contrappone un interesse a un altro,ma si cerca di unificare gli interessi all’interno del bene comune.»
Non sono un verde, ma ho una preoccupazione. Persone che hanno cominciato ad interessarsi di ambiente con uno spirito positivo, sono finite nella ideologia ecologista, alleati di fatto con i vari Rockfeller che sostengono le organizzazioni ambientaliste e contemporaneamente promuovono le sterilizzazioni forzate, le pratiche eugenetiche e l’eutanasia di massa. Non vorrei però che la controinformazione sull’ecologia venisse sfruttato dall’altra faccia della medaglia. Non vorrei che uscissimo da questa sala, dopo quello che lei ha smitizzato il movimento ecologista, dicendo “si può tornare a far tutto”. Una cosa del genere rischia di diventare funzionale a un sistema di tipo diverso che comunque non è in armonia con l’antropologia cristiana. Ho votato contro l’energia nucleare e me ne sono pentito; magari mi ripentirò anche sugli OGM, però al momento sto col ministro Alemanno, che non sarebbe contento dell’accoppiamento che lei ha fatto con l’estrema sinistra, perché per esempio l’organizzazione Fare Verde, legata a quella parte politica, diverge dall’estrema sinistra sui problemi della vita umana.
«Quello che lei ha detto è vero. Le soluzioni che puntano solo al materialismo o all’efficienza economica o al benessere non sono le soluzioni migliori; la tecnologia e la scienza non sono l’essenza della vita, sono qualcosa che aiuta la vita, ma non sono cose che danno senso alla vita. Così come la materia, il possesso, non dà senso alla vita. Il senso della vita è qualcosa di più profondo, di più grande, e va oltre l’aspetto materiale, quindi non è che noi risolveremo i problemi ambientali solo costruendo i termovalorizzatori, che sono una soluzione intermedia e parziale come tutte le tecnologie che noi sviluppiamo. Le nostre conoscenze sono ancora molto limitate, perché il mondo è più grande di quanto noi immaginiamo; è paradossale che molte delle ideologie verdi si oppongano all’utilizzo della scienza e della tecnologia, poi però identificano l’uomo come onnipotente, capace di cambiare il clima, di stravolgere la società Le catastrofi naturali ci dimostrano che noi siamo piccoli, che c’è ancora molta strada da fare. Noi per esempio non sappiamo difenderci dalle catastrofi naturali, un terremoto uccide migliaia di persone, in Giappone ne uccide un po’ meno; l’uragano è ancora una cosa disastrosa che uccide tante persone, è un fenomeno che c’è da sempre, e noi dobbiamo crescere per difendere l’umanità dalle catastrofi naturali. Il problema è che, per motivazioni ideologiche e politiche, e per i propri interessi, molte persone impediscono di alzare il livello della discussione: questo è totalmente sbagliato. C’è un interesse comune che è la crescita, lo sviluppo dell’umanità su questo pianeta, su cui noi sappiamo pochissimo; siamo l’unica specie vivente fatta in questo modo e su questo noi dobbiamo lavorare per cercare di capire qual è il senso della nostra vita e come migliorare per il bene comune. Per noi credenti questo è evidente, il Signore ci ha creato per il bene, ci ha creato con questa tensione, però dobbiamo cercare in qualche modo di migliorare questa capacità scientifica, tecnologica, ma anche umana di lavorare insieme per risolvere i problemi. Non dobbiamo discutere ai livelli più bassi per contrastarci l’un l’altro. Viviamo in un mondo di fortissime contraddizioni, l’umanità non ha mai avuto uno sviluppo materiale come oggi, produciamo una quantità di merci immensa, siamo enormemente ricchi. Nello stesso tempo però vediamo che una parte degli uomini ha perso il senso dell’umanità. Il Papa la definiva una crisi epocale: siamo progrediti nella scienza, ma nello sviluppo morale non abbiamo fatto i salti necessari;c’è un tentativo di ridurre i rapporti umani, di ridurre le persone a cose; abbiamo timore di mettere al mondo bambini, però cerchiamo il modo di farlo in maniera tecnologica, come in una fabbrica, e parliamo di libertà quando sopprimiamo i bambini. Che libertà è, se nega la vita? E poi, libertà di chi? Sicuramente non di quello che viene soppresso;siamo tornati al tempo del diritto di vita o di morte sul nascituro. Torniamo con la mente a San Benedetto: i benedettini da un punto di vista ambientale hanno fatto moltissimo, perché per primi hanno sviluppatole tecniche di rimboschimento quando il legno era la cosa più preziosa. E soprattutto “ora et labora” e sii lieto, questa era l’atteggiamento. Io credo che se riuscissimo a riprendere quei principi, soprattutto il “sii lieto”, andremmo molto meglio.»
PORTA IL NIPOTE IN CAMPAGNA: MULTATO!!!
«In una nazione dove tutto va a catafascio, o come dicono alcuni a scatafascio, ossia alla deriva morale e materiale, il sistema di parassiti le pensa tutte per potersi mantenere vessando in tutti modi i cittadini, sudditi di una classe dirigente (politica ed istituzionale) corrotta ed incapace. Classe dirigente che con i media genuflessi alle cricche induce il paese ad essere governato da nani, ballerine ed oggi anche da comici. Questo da aggiungersi al sistema di potere cristallizzato di mafie, lobbies, caste e massonerie. Si sorvola sul fatto che a riformare l’ordinamento forense ci sono gli stessi avvocati in Parlamento a tutela dei loro privilegi ed a chiusura della concorrenza (salvo che per amici e parenti), i medesimi che, oltretutto, sono periodicamente in sciopero per le riforme da loro stessi predisposte. Ma passiamo oltre. In una Italia dove si sottace l’usura e l’estorsione di Stato, ovvero la nomina e la retribuzione amicale dei consulenti dei magistrati. Una nazione, dove il più onesto merita l’Asinara, ci dimostra che né toghe, né divise possono pretendere l’esclusiva della legalità, né possono permettersi il monopolio del parlarne agli studenti in incontri nelle scuole e nei convegni organizzati dalla sinistra – dice il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che ha scritto e pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. - Bene. Detto questo, un fatto merita di essere conosciuto.
Quando tutto è perduto, e quel tutto ti accorgi di essere vacuo, non rimane altro che tornare a fare i contadini. Ma ecco qui. Ci impediscono anche di fare questo. Si passa oltre sul fatto che il duro lavoro dei nostri antenati di sanificazione dei terreni da sterpaglie e pietre o di bonifica dalle paludi, al fine di renderli terreni fertili da coltivare, sia stato reso vano dall’invasione su quelle stesse terre di pannelli fotovoltaici e del ritorno delle sterpaglie. Truffaldini intenti ambientalisti di falsa tutela della natura, ma che nasconde l’odio verso gli umani od addirittura speculazioni mafiose, ci impongono l’invasione di alternative fonti di energia e ci impediscono di tagliare le sterpaglie, che oggi sono protette. Oggi tu tagli e pulisci le strade o il podere dai rovi? Giù multe perché tagli piante protette. Ed ancora. Da sempre i contadini hanno bruciato nello stesso campo gli avanzi delle potature degli alberi o le foglie cadute. Oggi tu li bruci? Giù multe perché inquini. Ma il colmo di questa Italia e che in campagna non ci puoi più proprio andare, salvo che accompagnato dal commercialista o dal consulente del lavoro, se no giù multe per violazione di norme sul lavoro.
“Vendemmia amara: 5mila euro per aver portato il nipote in campagna” è il titolo del fatto avvenuto e pubblicato su “La Voce di Manduria”. Un fatto che merita di essere conosciuto in tutta Italia, perché fatti analoghi succedono in tutto il “Mal Paese”, ma nessuno si degna di parlarne. “Una multa di cinquemila euro per lo zio e una denuncia penale per i genitori di un quindicenne che prima dell’inizio dell’anno scolastico si era recato nella campagna dei parenti per assistere al taglio dell’uva. Quell’esperienza costerà cara alle due famiglie di agricoltori manduriani che durante la passata vendemmia in uno dei propri poderi hanno avuto la visita degli ispettori dell’Ufficio provinciale del lavoro di Taranto. La sanzione pecuniaria riconosciuta allo zio è per impiego di minore e lavoro irregolare mentre il papà del ragazzo è in attesa di una contestazione di reato penale per sfruttamento di lavoro minorile. L’episodio risale al 6 settembre 2012, ma solo ora è stata notificata l’intimazione a pagare. I protagonisti della vicenda sono due cugini manduriani che per la campagna dell’uva avevano organizzato il cantiere di vendemmia, assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il signor M. oltre alla moglie, componente del nucleo lavorativo familiare, porta con sé anche il figlio P. Il giovane oltre a frequentare lo Scientifico di Manduria, studia pianoforte (quinto anno) presso il conservatorio musicale “Paisiello” di Taranto (scuola privata). P. non ha iniziato ancora le lezioni in quanto le scuole non erano aperte alla data del 6 settembre. Decide allora di assistere alla vendemmia. Si mette affianco alla madre senza prendere parte ai lavori. Lo studente di fatto non vendemmia e questo perché il padre è un agricoltore che rispetta la legge. Quel giorno però arrivano in campagna gli ispettori del lavoro (un uomo e una donna), fanno i dovuti controlli e trovano tutto in regola salvo, per loro, la presenza di P. che viene considerato come un lavoratore, in quanto ha in mano delle forbici antinfortunistiche. Il tutto viene contestato dagli ispettori e a domanda al ragazzo se stesse lavorando Piero risponde di no, dice che si trovava affianco alla madre e non su un filare di vite e senza un secchio per la raccolta. A non convincere gli ispettori circa quella casualità è stato l’arnese che aveva tra le mani: le forbici antinfortunistiche che seppure non adatte al taglio dei grappoli sono state comunque considerate come un utensile da lavoro.”
Il fatto è successo a Manduria, comune sciolto ed in odor di infiltrazione mafiosa. Eppure, quando una denuncia partì dal Dr Antonio Giangrande, anche in occasione di concorsi pubblici truccati svolti in quel comune, i carabinieri delegati alle indagini scrissero nel rapporto che tutto quanto denunciato non era vero, anzi, erano propalazioni del Giangrande ed il magistrato archiviò. Del fatto si occupò la Gazzetta del Sud Africa e il magistrato per ritorsione denunciò a Potenza il Giangrande per diffamazione. I magistrati a Potenza furono pronti ad incriminare. Vuol dire che è più importate multare i campagnoli che lottare contro i mafiosi.
In questa Italia c’è solo da vergognarsi di farne parte. Non sanno più da dove prendere i soldi. Se una famiglia ha un piccolo appezzamento di terreno ereditato dagli avi, coltivato ad uliveto o vigneto o altro tipo di coltura, ed il capo famiglia portasse con sé moglie e figli, per raccoglierne i miseri frutti per i bisogni familiari, e vorrebbe farsi aiutare dai parenti il sabato o la domenica per sbrigarsi prima perché affaccendato in altre mansioni durante la settimana? Non può. Deve passare prima dai burocrati che devono stampargli in fronte il timbro della validazione e pagare tributi e contributi. Aprire la partita iva ed assumere i parenti con tanto di sfilza di norme da rispettare. Se non lo fa: giù multe e processi per caporalato. Ma qui ci impediscono addirittura le salutari scampagnate di una volta. Qui più che non ci sono più le tradizioni di una volta, mi sa che non c’è più religione. Ed allora sì che la campagna viene abbandonata, l’unica vera e certa fonte di sostentamento. Che ci invoglino a rubare e finire in carcere? Almeno lì si mangia e si beve a sgrascio…e multe non te ne fanno. Ben venga allora quel sonoro vaff… di quel comico che, a quanto pare, fa ridere meno dei nostri governanti ed aspira a governare un paese abitato da macchiette colluse e codarde.»
PARLIAMO DEI POZZI ABUSIVI.
Prendendo spunto dall’inchiesta di Margherita D’Amico su “La Repubblica”. Un paese groviera: 10 milioni di pozzi. Troppi scavi abusivi per trovare l'acqua. Poca pioggia e tanti sprechi, l'Italia ai tempi della siccità. Nel nostro Paese si utilizzano più di cinquanta miliardi di metri cubi l'anno, ma una grossa parte viene sperperata. Nel bacino del Tevere negli ultimi 50 anni si sono persi più di due miliardi cubi d'acqua. Solo a Torino sono stati censiti più di trentamila pozzi.
50.700 I pozzi denunciati nella sola provincia di Torino
31.000 i pozzi destinati all'uso domestico
50 milardi di metri cubi annui l'utilizzo dell'acqua in Italia
70% per l'allevamento e l'agricoltura
15% all'industria
15% per uso potabile
2 miliardi i metri cubi d'acqua che si sono persi nel bacino del Tevere negli ultimi 50 anni
- 47% di precipitazioni nel grossetano
Secondo l'Autorità di bacino del fiume Po, fra censiti, abusivi, attivi e abbandonati, sono una quantità enorme. Molti attingono per bere o irrigare un orto, ma anche per riempire una piscina, in modo incontrollato e pericoloso. Un bene prezioso che non è infinito. Mentre il caldo anomalo e protratto raddoppia i consumi idrici e la siccità affligge severamente quasi tutte le nostre regioni. Mancano norme chiare e limiti uniformi. Si perde in un pozzo la storia dell'uomo, che affonda la mano nel buio per dissetarsi: presso un pozzo, a Lacai-Roi, Isacco va dopo la morte di Abramo, è al pozzo di Sicar che la samaritana riconosce il Messia, mentre in un pozzo artesiano, nel giugno 1980, il bambino Alfredo Rampi perde la vita e l'Italia alla tv varca per sempre un limite. In silenzio oggi, nel nostro Paese, milioni di pozzi attingono incontrollabili a un bene che si esaurisce: l'acqua. Il caldo anomalo e protratto raddoppia i consumi idrici, niente affatto compensati dalle precipitazioni scarse, oppure da temporali inadatti a ricaricare le falde, così la siccità affligge severamente quasi tutte le nostre regioni. Intanto però, grazie a economiche tecnologie di perforazione profonda diffuse fin dagli anni 70, per realizzare un pozzo si arriva a scavare fino a baratri inauditi, anche 300-400 metri. Non solo per l'orto, ma per prato all'inglese o piscina, si vanno ormai a raggiungere falde preziosissime, che dovrebbero rimanere inviolabili, non di rado unendole a quelle più superficiali e contaminandole per sempre. Il fatto è che da noi le concessioni di acque pubbliche sono ancora regolamentate da una legge degli anni Trenta, il Regio Decreto dell'11 Dicembre 1933, n.1775, redatto quando ancora si scavava a mano: benché modificato e integrato nel tempo, il testo unico rimane il corpo normativo in vigore. "Dieci milioni fra censiti, abusivi, attivi e abbandonati è la stima ragionevole dei pozzi in Italia, ma il numero esatto non lo conosce nessuno" dice Francesco Puma segretario generale dell'Autorità di Bacino del fiume Po. "Sarebbe già importante incominciare a mettere il contatore, valutare l'entità dei prelievi. Non si può sperare di gestire ciò che non si conosce in un clima di risorse all'osso. Noi qui ci ritroviamo a controllare in 30 un bacino di 70mila kmq." Qua e là, si possono scorrere i dati di qualche catasto. La Provincia di Torino per esempio elenca 50.700 pozzi denunciati, di cui 31.000 a uso domestico. Ma ogni regione ha i propri regolamenti, ciascun territorio le sue caratteristiche. In Piemonte, Lombardia, Liguria, è la regione a rilasciare le concessioni, che per i vari usi richiedono il pagamento di oneri, in Emilia Romagna sono le province, in Umbra il permesso viene direttamente dai comuni. Nelle aree padane e non solo la prevalenza dei pozzi è irrigua (ortofrutta e allevamento) e industriale, la Toscana invece dichiara un 50% di pozzi a uso idropotabile, 27% per usi irrigui e 23% per usi industriali. Ma il piccolo, innocente pozzo domestico, quasi ovunque non richiede alcun permesso, se non l'autocertificazione. "Nasce per lavarsi la faccia e annaffiare l'orto, in realtà è concettualmente legato a un unico nucleo familiare," spiega Roberto Mazza, docente di Idrogeologia e Geologia Applicata all'Università di Roma3. "Per chi non è raggiunto dall'acquedotto il discorso cambia, certo, ma quanti millantano l'uso personale e poi fanno altro? Si scava a centinaia di metri, si mettono in comunicazione falde di superficie con quelle più protette, corrompendo e inquinando." Acque carbonatiche, alluvionali, pregiatissime vulcaniti, a causa delle maxi trivelle possono entrare in promiscuità e pure ricevere detriti, concimi, pesticidi. "Inoltre, si usano sistemi di pompaggio incredibili. E poi non piove. C'è l'emergenza idrica, i privati si lamentano, i comuni sono strozzati e nelle more si approfondiscono i pozzi, creando disastri. Una seria politica sull'acqua per gli amministratori è scomoda, andrebbe fatta anche quando la sorgente non è secca." Ci si misura con l'impresa di raggiungere i parametri stabiliti dalla Direttiva quadro UE 2000/60/CE, che impone a tutti gli stati membri il conseguimento di buoni standard qualitativi del corpo idrico e recupero dei costi, ma "persino l'ultima programmazione finanziaria ha completamente ignorato la risorsa idrica: sembra che ci si stia muovendo adesso, forse. Ma la situazione è molto grave," avverte Vera Corbelli, segretario generale dell'Autorità di Bacino Liri Garigliano Volturno, che abbraccia tutto l'Appennino centro meridionale. "Da noi i pozzi rappresentano una questione critica in uno scenario ancora più critico. Nella realtà del Mezzogiorno permettono di attingere e trasferire a agricoltura e industria anche acqua di altissima qualità. Scarsissimi controlli: obblighiamo gli enti locali al monitoraggio e richiediamo i risultati; alcune amministrazioni li mandano, altre no. La maggior parte degli scavi qui non è conforme," prosegue. "Come in altre zone d'Italia, a causa di forti pompaggi si sono verificati cunei salini, acqua di mare che ha corrotto le falde dolci, sia nel Salento che a Reggio Calabria, nell'area del Fucino e nella piana del Volturno." Sulla base di emergenze passate, c'è chi ha posto dei limiti: "Con la crisi idrica del 2002 la Regione Umbria, salvo problemi igienico-sanitari, ha vietato di perforare a uso domestico oltre i 30 metri" dicono dal Servizio Difesa e Gestione Idraulica Provincia di Perugia. "Da allora vediamo autodichiarazioni a 29 metri e mezzo, magari poi arrivano a 100. I lavori andrebbero fatti a norma, il direttore è un geologo, emette una certificazione. Gli organi di controllo sono polizia comunale e provinciale, carabinieri, corpo forestale: fanno quello che possono." "Esistono ditte serie, ma quanti preferiscono risparmiare, rivolgendosi ai pozzaroli che promettono: 'se non trovo l'acqua non mi paghi'," racconta Manuela Ruisi, dell'Ordine Geologi del Lazio. "Non solo puoi distruggere una falda incontaminata, ma con una pompa più forte rubi pure l'acqua al pozzo del vicino. Ed è ben difficile che la polizia provinciale misuri le profondità calando il freatimetro." Ligi o scorretti, i trivellatori non hanno albo professionale, eppure manovrano un bene primario. "In Italia i parametri di riferimento per l'utilizzo d'acqua sono di 50 miliardi di metri cubi l'anno: 30 miliardi vanno a allevamento e agricoltura, 10 all'industria, 10 al potabile, per una superficie di 300mila km quadrati," spiega Giorgio Cesari, segretario dell'Autorità di Bacino del Fiume Tevere. " Nel bacino del Tevere negli ultimi 50 anni si sono persi 2 miliardi di metri cubi d'acqua. Albano, Nemi, il Trasimeno, i bacini a debole ricarica si sono ridotti, anche di alcuni metri, con pesanti conseguenze sulla biodiversità. Qui siamo viziati, Roma è l'unica capitale al mondo alimentata integralmente da acqua di sorgente prelevata in quota. L'incidenza dei pozzi è difficile da valutare, ma indubbia. In teoria il privato emunge circa 0.2-0,5 litri al secondo, 1,500-2000 metri cubi l'anno." Ma pozzi per raffreddamento degli impianti arrivano a 50-100mila metri cubi l'anno. Il fenomeno del cuneo salino ha toccato quasi tutte le aree costiere italiane, da Castel Porziano all'Adriatico: "Già negli anni 80 a San Benedetto del Tronto abbiamo avuto un importante problema di questo tipo, a causa di congelamento ortofrutticolo e del pesce. E' stato contenuto realizzando acquedotti industriali che prelevano dall'interno," racconta Giancarlo Casini segretario dell'Autorità del bacino Interregionale del Tronto. La Regione Toscana intanto, al pari dell'Umbria, porta avanti un progetto di monitoraggio delle falde sotterranee (www. sir. toscana. it) e a breve si studieranno anche le sorgenti, allo scopo di analizzare in tempo reale l'andamento delle risorse. Niente di allegro nei dati recenti: quasi tutti i fiumi sono in grande sofferenza e sotto il cosiddetto dmv-deflusso minimo vitale; se nel grossetano si è registrato un deficit di precipitazioni del 47%, il Cecina è al di sotto dei valori storici di riferimento. Gaia Checcucci, segretario generale dell'Autorità di Bacino del fiume Arno, annuncia rispetto alla scorsa estate l'abbassamento del 10% di tutti i bacini, con picchi del 40% in Val di Chiana e nel Casentino. Il futuro non promette precipitazioni, se finora ci siamo creduti ricchi di pioggia, è tempo di cambiare registro: "Adesso non va più sprecata nemmeno una goccia d'acqua."
PARLIAMO DELLA CACCIA. DOPPIETTA ASSASSINA.
La lunga lista di vittime.
Negli ultimi quattro anni oltre cento persone hanno perso la vita e i feriti sono stati più di trecento. In mancanza di dati ufficiali mese dopo mese l'Associazione Vittime della caccia mette insieme una parziale lista di caduti.
42 morti e 94 feriti nel 2008/2009
31 morti e 86 feriti nel 2009/2010
25 morti e 75 feriti nel 2010-2011
16 morti e 48 feriti nel 2011-2012
La caccia uccide anche gli uomini. Vittime innocenti di troppi fucili, scrive Margherita D’amico su “La Repubblica”. Pochi ne parlano ma di pratica venatoria non muoiono soltanto gli animali. Negli ultimi quattro anni, 114 morti e 303 feriti provocati dai pallini dei cacciatori. Non più una faccenda legata alla difesa della fauna e del territorio bensì qualcosa che tocca le persone e la loro incolumità. L'Italia è il primo produttore europeo di armi sportivo-venatorie. E' la mattina del 13 ottobre e Vincenzo Pulicicchio, settant'anni, è stato a raccogliere funghi. Torna all'auto con il paniere pieno; cammina lungo la strada sterrata, frequentata da pedoni e veicoli, che divide la provincia di Catanzaro da quella di Cosenza, quando scorge un paio di esemplari irrinunciabili. Si sporge appena verso il cespuglio e dall'alto un colpo di carabina gli trapassa la spalla, spezzandogli l'aorta. Dissanguato, secondo l'Associazione Vittime della Caccia, è il nono dei 16 morti e 48 feriti provocati dalle armi venatorie dalla pre-apertura di questa stagione - 1 settembre - a oggi. Seguono di pochi giorni un ragazzo di sedici anni, ucciso per errore vicino Pavia dall'amico di diciassette, e Onorio Dentella, raggiunto nel Bergamasco dal proiettile del nipote inciampato durante una battuta. I cacciatori hanno fatto strage fra i loro colleghi (12 morti e 34 feriti), ma anche tra persone che avevano il solo torto di passare davanti alla canna dei loro fucili: 4 morti (2 bambini) e 14 feriti (3 bambini). Di caccia allora non muoiono solo gli animali, ma non se ne parla mai: perché? A sentire i parenti di molte vittime, gli scampati, diverse associazioni che si occupano di diritti umani, un fitto velo di omertà copre questi fatti, che spostano l'asse rispetto alla questione venatoria. Non più una faccenda legata alla difesa della fauna e del territorio, roba da animalisti e ambientalisti, bensì qualcosa che tocca le persone e la loro incolumità, e ha al centro gli strumenti con cui il pericoloso hobby è praticato: le armi. Quanti cittadini italiani finiscono dunque nei bersagli destinati agli animali? Quante armi, in virtù della caccia, circolano fra la popolazione civile? In mancanza di dati ufficiali, richiesti con insistenza alle istituzioni, ogni anno l'Associazione Vittime della Caccia mette insieme una parziale lista dei caduti, dedotta da notizie di stampa locale poi verificate. Se la stagione 2010-2011 risulta particolarmente tranquilla, 25 morti di cui uno solo non cacciatore e 75 feriti (subito prima del periodo venatorio peraltro, vicino Altamura in provincia di Bari viene abbattuto da un bracconiere don Francesco Cassol, addormentato nel sacco a pelo durante un ritiro spirituale), il 2009/2010 registra 31 decessi e 86 feriti, e nel 2008/2009 i morti sono 42, di cui 27 estranei alla caccia, e i feriti globali 94. Negli ultimi quattro anni, (pur con una tendenza in calo) è una strage: 114 morti e 303 feriti. "Il nostro elenco si limita alle vittime dei fucili da caccia, sia in ambito venatorio che, quando riusciamo a saperlo, extra venatorio," spiega Daniela Casprini, presidente dell'associazione. "Escludiamo incidenti come cadute, infarti, e pure i suicidi ameno che questi ultimi non siano stati commessi da minorenni" Ciò nonostante la nota che si scorre sul sito dedicato alle vittime della caccia è assai nutrita: il bambino di Lucca impallinato al volto mentre gioca nel cortile di casa, le sorelline colpite dalle schegge del fucile dello zio, l'automobilista incolonnato e raggiunto da proiettile vagante, la segretaria comunale di Venosa colpita in giardino, il giovane che a Siena stramazza in campo mentre gioca a pallone, quando a Palermo, sempre con un fucile da caccia, un uomo spara dal balcone e uccide l'ex genero. Oltre a essere, infatti, grazie all'articolo 842 del codice civile, gli unici depositari del diritto a entrare nelle proprietà altrui a meno che non siano recintate a norma (chiudere quattro ettari costa 15-20mila euro) potendo sparare fino a 150 metri dalle abitazioni e a 50 dalle strade, i cacciatori sono anche autorizzati a possedere un numero illimitato di fucili e carabine, con cui, al contrario di chi ha un revolver per la difesa personale, possono esplodere colpi anche in luoghi pubblici. In base alla direttiva 91/477/CEE e ss. mm. ii. a loro è inoltre consentito di viaggiare con i fucili al seguito per tutti gli stati membri con la carta europea armi da fuoco, e anche fuori dalla UE, grazie a permessi rilasciati senza grandi difficoltà dalle questure. Come mai tanti favori a una minoranza - si stima che i cacciatori siano poco più di 700mila - non così amata dall'opinione pubblica, che oggi sembra più a favore di animali, ambiente e vita pacifica? L'Italia è il primo produttore europeo di armi sportivo-venatorie, copre circa il 60% dell'intera offerta comunitaria, arrivando al 70% se si considerano solo le armi lunghe da caccia e tiro, ed è il più importante paese esportatore nel mondo di armi sportive, commerciali e munizioni, con aziende leader nel settore come Beretta e Fiocchi. "Secondo dati Eurispes 2008 il comparto ha un giro d'affari valutato poco meno di 2 miliardi di euro, invece per il Consorzio Armaioli Italiani nel 2010 l'indotto delle armi civili realizzava più di 3 miliardi" dice Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell'Archivio Disarmo. "La Rete Italiana Disarmo indica oggi in Italia 10 milioni di armi detenute ufficialmente, di cui la metà presso civili. Tra le categorie in possesso di licenza ci sono 50.000 guardie giurate, 178.000 sportivi del tiro a segno e circa 720.000 cacciatori." Spiegano dall'ANPAM, Associazione Nazionale Produttori Armi e Munizioni Sportive e Civili: "Non sappiamo il numero esatto di armi da caccia vendute in Italia. Ma tutte le armi sportive e civili prodotte qui o importate devono essere testate, approvate, immatricolate e punzonate presso il Banco Nazionale di Prova. Conoscendo quindi la nostra produzione totale, esportata per il 90%, e quante armi lunghe vengono importate, stimiamo che ogni anno da noi ne vengano vendute intorno alle 50 mila, fra caccia e tiro sportivo." Ma quante e quali armi può avere un cacciatore? Quali esami psicofisici occorre superare per utilizzarle? "Un cacciatore possiede tutte le armi che vuole, ma fuori può portarne una sola, e se la lascia incustodita è reato penale" dice Gianluca Dall'Olio presidente di Federcaccia. A parte le carabine a canna rigata impiegate nella caccia agli ungulati, cervidi, mufloni e cinghiali, potenti quanto armi da guerra e capaci di raggiungere gittate di migliaia di metri "di regola si usano fucili ad anima liscia, principalmente calibro 20 e calibro 16, e ai nostri 450mila tesserati distribuiamo precisi vademecum." C'è chi dubita però che sia opportuno favorire ancora la massiccia presenza di questi utensili fra la gente. Nel 2005 Christian Maggi ha 19 anni, vive a Sori in provincia di Genova e una sera, rientrando in motorino, si sente apostrofare dal terrazzo sopra il garage. "Vi siete divertiti?" chiede il vicino, 81 anni. Christian alza gli occhi e l'ex cacciatore gli scarica addosso 150 pallini. "Era in cura alla Asl, prendeva farmaci antimaniacali, ma gli lasciavano in casa due fucili" racconta il fratello Daniele. "Il processo penale si è chiuso subito, il gip non lo imputò di tentato omicidio ma di lesioni personali aggravate. Ha sparato nella schiena di Christian, inoperabile e costretto a convivere con tutto quel piombo in corpo, e non si è fatto un giorno di fermo." Ed è ancora in una frazione di Sori, a Sussisa, che nel 2010 incontrano la morte le guardie zoofile Elvio Fichera e Paola Quartini, lei della LIPU, per mano di un cacciatore a cui stanno notificando una sanzione per le pessime condizioni di detenzione dei suoi cani. Renzo Castagnola uccide entrambi, quindi si toglie la vita. "Parliamo di tragedie, ma non sottovalutiamo il disagio di dover tollerare estranei armati in casa propria" commenta Danilo Selvaggi, responsabile dei rapporti istituzionali della LIPU-Birdlife Italia. "Esiste inoltre una zona grigia fra caccia legale e bracconaggio, popolata di cacciatori che commettono piccole ma continue infrazioni." Tanti sicuramente sono ligi, ma c'è pure chi s'impone tagliando reti, uccidendo per rappresaglia animali d'affezione; conversazioni sui blog rivelano disinvoltura nell'ammettere frodi e abusi. Il clima è teso anche altrove, lo raccontano gli otto volontari italiani e tedeschi del CABS-Committee Against Bird Slaughter che nei Pirenei sono stati inseguiti dalle pallottole dei bracconieri a cui avevano disattivato quasi 700 trappole illecite. Per le guardie zoofile delle nostre associazioni più impegnate, fra cui Lipu, Lac, WWF, non è mai una passeggiata. Il 18 ottobre a Lumezzane, Brescia, finito un sequestro tre guardie del WWF tornano all'automobile, incustodita. Ripartiti, scoprono che qualcuno ha provveduto a tagliare i tubi del liquido dei freni, e solo un testacoda li salva da un burrone. Possibile che le istituzioni al servizio del cittadino siano così evasive? A quanto pare il Ministero degli Interni non è disponibile a trattare il tema, né sui guai combinati dalle armi da caccia la Polizia di Stato sa fornire alcun dato, informazione, commento. E dire che varie cronache riferiscono persino fenomeni di ricettazione di questi strumenti. "Papà è morto alle 10.40, noi però siamo stati avvisati dai carabinieri alle 14.10, quando la notizia già circolava su internet; non abbiamo visto nemmeno un verbale" racconta Antonio Pulicicchio, figlio del cercatore di funghi ucciso a Soveria Mannelli. "A chi ha sparato pare fosse stato sospeso il patentino, si era unito lo stesso a una battuta al cinghiale e un amico medico gli ha prestato la carabina. Ha centrato mio padre da dieci metri. A causa dei cinghialai, squadre di rambo che si muovono anche in cinquanta, da queste parti la gente ha paura a uscire di casa." Luciano Cerutti invece viene stroncato a 56 anni in Val di Cadore, novembre 2005, da un selecacciatore, autorizzato ai cosiddetti abbattimenti di selezione fuori stagione. Femmine sterili, esemplari malati che verrebbero individuati a colpo sicuro, anche se per i requisiti minimi stabiliti dal Ministero della Salute con decreto 28/IV/1998 può rinnovare il porto d'armi chi veda con un solo occhio e abbia 8/10 di acutezza corretti da lenti e occhiali, chi decifri fonemi a non meno di sei metri di distanza pure per mezzo di impianti acustici (sotto questa soglia, ci si può consolare con la caccia in appostamento); nessuna prescrizione contro l'impossibilità di deambulare, mentre in caso di minorazioni agli arti superiori si può ricorrere alle protesi. "Mio marito era salito alla sua piccola baita, bruciava ramaglie, l'uomo gli ha sparato da 55 metri. Non c'era nebbia, il fucile era dotato di binocolo; cercava un cervo e ha centrato Luciano al cuore" racconta la vedova Marcella Del Longo. "Non ha mai detto nemmeno 'mi dispiace'. Ho due figli, il più piccolo ha perso il padre che adorava a tredici anni. Oggi a quell'uomo vorrei chiedere: cos'ha visto, quella mattina? Non mi risulta che mio marito avesse orecchie a punta, lunghe corna . Alcuni cacciatori hanno avuto il coraggio di chiedermi com'era vestito, come se bisognasse andare in giro a palle e strisce per non finire ammazzati." "Le vittime vanno contate nel modo giusto. Ma per la sicurezza si può fare di più". Parla Osvaldo Veneziano, Presidente Nazionale Arcicaccia, associazione venatoria con 51 mila iscritti in un’intervista rilasciata a Gregorio Romeo su “La Repubblica”. Ammette che il problema esiste, ma aggiunge: "Noi da sempre promuoviamo comportamenti che riducano al minimo i rischi". Le regole sulla custodia delle armi. Evitare che con la licenza di caccia si possano detenere armi da difesa personale. Ad un certo punto, esasperato, ha fissato un cartellone fuori dal cancello di casa: "Vendesi villa causa bracconieri". Dopodiché Cesare Scuderi, proprietario di un baglio ai piedi dell'Etna, ha attaccato: "Non ne posso più, i cacciatori sparano fin dentro la mia proprietà, senza rispettare la distanza minima dalle abitazioni. Hanno già ucciso a fucilate 4 gatti di famiglia, e sicuramente non per errore". Erano i primi di settembre e da allora, in Italia, 13 persone (fra cui 4 "civili" che niente avevano a che fare con la caccia) sono state uccise dal fuoco delle doppiette. I feriti hanno raggiunto quota 33. "Ma bisogna contare le vittime nel modo opportuno - replica Osvaldo Veneziano, Presidente Nazionale Arcicaccia, associazione venatoria con 51 mila iscritti -. A volte, nei bilanci vengono inseriti anche i morti per altre cause, come infarti o cadute mortali".
Non in questa lista, Presidente, che tiene conto solo le vittime dei fucili. In quattro anni 111 persone sono state uccise dalle doppiette. Come giudica questi numeri?
"Il tema della sicurezza va affrontato senza pregiudizi. Il fatto che andando a 180 chilometri orari in autostrada si rischi di fare un incidente mortale non può impedire che si vendano auto. Ma è vero: sulla sicurezza si può fare di più. Infatti, Arcicaccia promuove da sempre comportamenti in grado di ridurre al minimo ogni rischio".
Ad esempio?
"In casa si dovrebbe sempre custodire il fucile in un armadio blindato, per evitare che l'arma venga utilizzata da mani inesperte. Inoltre, il grilletto va tenuto bloccato con un'apposita sicura. In campagna, invece, per i cacciatori si potrebbe rendere obbligatorio l'abbigliamento ad alta visibilità, in modo da essere facilmente riconosciuti dagli escursionisti. In Italia, inoltre, le doppiette devono rispettare delle distanze di sicurezza dalle case e dalle strade. Il problema, però, è che la presenza di questi luoghi non è mai segnalata. Andrebbero, dunque, aggiunti dei cartelloni che indichino la prossimità di aree sensibili. Certo, non tutti i problemi si risolverebbero così, ma almeno i rischi diminuirebbero".
Facciamo un passo indietro e parliamo delle licenza di caccia. Lei non pensa che andrebbero rivisti i criteri per ottenerla?
"Partiamo dal presupposto che, prima di ricevere la licenza di caccia, il candidato deve sottoporsi ad approfonditi esami psicofisici e deve superare un test a risposta multipla sulle specie cacciabili e sull'uso dell'arma. Tuttavia, io cambierei alcune cose. Ad esempio, non trovo necessario che la licenza di caccia autorizzi anche la detenzione di armi corte, palesemente inutili per l'attività venatoria. Bisogna riconoscere che, soprattutto in passato, molti hanno utilizzato la licenza di caccia - più facile da ottenere rispetto a quella per la difesa personale - per detenere armi con lo scopo di proteggere i propri beni privati. Infine, sarebbe giusto rendere obbligatorio un serio corso di tiro da svolgere al poligono, prima del rilascio della licenza. Avere cacciatori più abili a maneggiare i fucili aumenterebbe di certo la sicurezza".
Non pensa che anche le associazioni venatorie potrebbero lavorare di più per sensibilizzare i cacciatori?
"La maggior parte dei cacciatori è molto educata. Ma è chiaro, si può sempre fare di più. L'importante è non affrontare il problema in chiave ideologica. Arcicaccia, diversamente dalle altre associazioni venatorie, cerca di cooperare con gli animalisti. Con Legambiente, ad esempio, abbiamo attivato diversi progetti di collaborazione in varie parti d'Italia. In generale, apprezziamo le persone in buona fede. Tuttavia, capita che l'ambientalismo diventi radicale o, molto peggio, strumentale. Magari cavalcato da certi politici solo a fini elettoralistici...".
Ha in mente qualche nome in particolare?
"Certo, quello dell'ex ministro Michela Vittoria Brambilla. Oggi dalla parte degli animali ma silente quando - tanto per fare un esempio - il Presidente del Consiglio Berlusconi regalò un pregiato fucile da caccia al presidente russo Vladimir Putin".
PARLIAMO DI SCIENZIATI CON LA TOGA.
Una barbarie le toghe che fanno gli scienziati. "Grazie a magistrati senza responsabilità e irresponsabili stiamo diventando un Paese di barbari", scrive Franco Battaglia su “Il Giornale”. Grazie a magistrati senza responsabilità e irresponsabili stiamo diventando un Paese di barbari. Barbarie è stato l'arresto di un imprenditore di 86 anni accusato di aver ucciso adulti e bambini con le emissioni della sua acciaieria. Abbiamo già scritto che il rapporto epidemiologico di cui s'è servita la magistrata è scientificamente carente e redatto da signori che già in passato si erano distinti per puntare il dito contro l'inesistente inquinamento elettromagnetico. Questi signori, anziché essere oggetti di una indagine che valuti i presupposti del procurato allarme, sono i consulenti della nostra magistratura. I dati ci dicono che a Taranto non si muore né si contrae tumore più che altrove in Italia, eppure è da due giorni che tutte le agenzie di stampa strillano perché un rapporto, chiamato «shock», rivelerebbe che a Taranto si sarebbe riscontrato un «eccesso del 419% di mortalità maschile per mesiotelioma pleurico». Soltanto chi conosce solo la statistica di Trilussa si allarma. In tutta la Puglia, negli 8 anni 1993-2001, vi furono 197 maschi con mesiotelioma pleurico certo, di cui 13 nel 1993, 32 nel 1996, e 20 nel 2001. Diremmo che nel 1996, in Puglia, ve ne fu il 146% in più che nel 1993? Lo diremmo se fossimo Trilussa o abituati a procurare, impuniti, allarme, anziché riconoscere che sono numeri troppo piccoli per fare quella statistica. (Peraltro, i Trilussa avrebbero anche dovuto dire che nel 2001 ve ne furono il 38% in meno che nel 1996, ma questo non fa notizia). Dicono che il colpevole sarebbe il benzopirene misurato con concentrazioni di 1.8 nanogrammi per metro cubo, ma sembra che ignorino che chi fuma una sola sigaretta al giorno di benzopirene ne aspira 20 di nanogrammi. Ora, siccome ci sono gli elementi per rassicurare (cioè, a dispetto delle frottole di questi giorni, non è vero che a Taranto si muore o ci si ammala di più che altrove in Italia) è nostro dovere rassicurare. Rischiando così di essere sbattuti in galera da chi ha il potere - impunibile se sbaglia - di sbatterci in galera. E questa è barbarie. Come quella che ha fatto condannare a 6 anni di galera alcuni stimati uomini di scienza - uomini che dovremmo tenere in conto come nostro fiore all'occhiello - per omicidio colposo plurimo. Su questo dobbiamo però essere precisi, perché a ridere del fatto che siano stati condannati per non aver previsto il terremoto, non si rende giustizia della barbarie in atto. E, soprattutto, si giustificherebbe la barbarica condanna nel momento stesso in cui essa dovesse rivelare motivazioni diverse da quelle per le quali oggi si ride sgomenti. Non è per non aver previsto il terremoto che sono stati condannati, né di questo erano accusati, ma - hanno dichiarato i pubblici ministeri - «per una carente valutazione degli indicatori di rischio e una errata informazione». Insomma, i condannati sono colpevoli di avere rassicurato la gente. Siccome le dichiarazioni del professor De Bernardinis sono ascoltabili in rete, le riporto testuali: «Dobbiamo mantenere uno stato d'attenzione senza avere uno stato d'ansia, capendo che abbiamo da affrontare situazioni per le quali dobbiamo essere sì, pronti, ma anche sereni di poter vivere la nostra vita quotidiana». Per la magistratura italiana questo sarebbe omicidio colposo plurimo. De Bernardinis, invece, non ha fatto altro che il proprio dovere: rassicurare. Non per minimizzare il terremoto (che è stato sì devastante, ma solo col senno di poi) ma perché di fronte all'ignoranza (nessuno può prevedere né tempi né intensità dei sismi) il primo dovere è non creare i presupposti per un panico destinato ad avere, quello sì con certezza, conseguenze devastanti. Nel momento in cui scrivo un terremoto di magnitudo 3 è stato registrato sul Pollino: evacuerà la magistratura Castrovillari? La magistratura o, più precisamente, alcuni magistrati sono il nostro problema: ignoranti di statistica, di gestione dei rischi, di scienza, malati di protagonismo, imbevuti di preconcetti ideologici, sono liberi di muoversi senza freno e senza responsabilità. A cominciare dal fatto che possano far conoscere le motivazioni di una sentenza non contestualmente alla stessa, lasciando così il dubbio che possa essere aggiustata a seconda delle reazioni conseguenti. Una barbarie. Che non giova né al Paese né alla Magistratura stessa.
Travaglio. C'è un solo uomo in Italia che difende il giudice dell'Aquila. Indovinate chi? Il vicedirettore del Fatto Quotidiano sulla sentenza di condanna alla Grandi Rischi per il sisma del 2009: la colpa è dei giornali pecoroni e degli scienziati che non fecero gli scienziati, scrive “Libero Quotidiano”. Tutti contro pm e giudice dell'Aquila che ha condannato a sei anni i sismologi colpevoli di non aver dato l'allarme per il terremoto dell'aprile 2009. Politici, giornali, comunità scientifica italiana ed internazionale. I membri della commissione Grandi Rischi, falcidiata dalla sentenza di primo grado, si è dimessa in blocco. C'è una sola persona, giudici a parte, fuori dal coro. Secondo questa persona la colpa delle polemiche e dello scandalo non è della sentenza, appunto, ma dei politici e dei giornali. E magari pure degli scienziati che, sottinteso, si fanno traviare da politici e giornali. Questa persona, manco a dirlo, è Marco Travaglio, vicedirettore del Fatto Quotidiano. Stampa pecorona - Nel suo editoriale sul numero di mercoledì 24 ottobre, l'editorialista più manettaro che c'è si scatena. Sotto il titolo Rischi per fiaschi mette alla berlina la stampa pecorona non in grado di leggere le motivazioni della sentenza, che ancora non sono state depositate (naturalmente non le può avere lette nemmeno lui, ma questo non ha importanza), e in balia dei sentimenti di pancia. Po via alla filippica: "A nessun magistrato è mai saltato in mente di accusarli (i sismologi) di non aver previsto il terremoto: semmai di aver previsto che il terremoto non ci sarebbe stato, dopo una finta riunione tecnica (durata 45 minuti) a L'Aquila, 'approssimativa, generica e inefficace', in cui non si valutarono affatto i rischi delle 400 scosse in quattro mesi di sciame sismico. E alla fine, di aver fornito 'informazioni incomplete, imprecise e contraddittorie sulla natura, le cause, la pericolosità e i futuri sviluppi dell'attività sismica in esame'". Travaglio ricorda che per questa sottovalutazione del rischio almeno 29 aquilani non uscirono di casa, come in genere facevano negli ultimi mesi, la sera del 6 aprile e finirono sepolti vivi. Attacchi a Bertolaso - Quindi il vicedirettore va all'attacco di Franco Bertolaso, ex capo della Protezione civile: "Che lo scopo della riunione fosse tutto politico e per nulla scientifico, l'aveva confidato a una funzionaria Bertolaso alla vigilia: 'Vengono i luminari, è più un'operazione mediatica, loro diranno: è una situazione normale, non ci sarà mai la scossa che fa male'. E, prim'ancora che i tecnici si riunissero, dichiarò: 'Non c'è nessun allarme in corso'". E ricorda come "nessuno verbalizzò nulla (il verbale, debitamente ritoccato, fu firmato in fretta e furia sei giorni dopo, a sisma avvenuto)". Conclusione consequenziale: gli scienziati, allora, non hanno fatto gli scienziati, proprio come in Italia i politici non fanno i politici e i giornalisti i giornalisti. Mentre i giudici, questo lo diciamo noi, non sbagliano mai.
TERREMOTO DELL’AQUILA: CONDANNATI I MEMBRI DELLA “COMMISSIONE GRANDI RISCHI”.
Il resoconto su una sentenza epocale raccontato da tanti punti di vista. Terremoto dell'Aquila, condannati membri commissione Grandi rischi. Ricordate il terremoto che rase al suolo L'Aquila nel 2009? Secondo la giustizia italiana poteva essere previsto. Condannati a sei anni tutti i membri della commissione Grandi rischi. Così scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale” Dopo trenta udienze il giudice del tribunale dell’Aquila ha condannato a sei anni di reclusione i membri della Commissione Grandi rischi che parteciparono alla riunione del 31 marzo 2009 sugli eventi sismici all’Aquila, rassicurando i cittadini. L’accusa aveva chiesto la condanna a quattro anni. La difesa aveva puntato, invece, sulla impossibilità di prevedere i terremoti, posizione sostenuta da diversi ricercatori internazionali. Nella sentenza di condanna il giudice ha disposto, a titolo risarcitorio, una provvisionale che sfiora i sei milioni di euro per le parti civili di cui oltre due milioni di euro immediatamente esecutiva. Il giudice Marco Billi ha ritenuto i sette membri della commissione - l’organo tecnico-consultivo della presidenza del Consiglio, nella sua composizione del 2009 - tutti colpevoli di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Ecco chi sono i condannati: Franco Barberi, presidente vicario della Commissione Grandi rischi; Bernardo De Bernardinis, già vicecapo del settore tecnico del Dipartimento della protezione civile; Enzo Boschi, all’epoca presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia; Giulio Selvaggi, direttore del Centro nazionale terremoti; Gianmichele Calvi, direttore Eucentre; Claudio Eva, ordinario di Fisica all’Università di Genova; Mauro Dolce, direttore Ufficio rischio sismico della protezione civile. I pm: volevamo solo capire i fatti. "Non ci sono commenti da fare - dice il pm Fabio Picuti - se non quelli del giudice che ha letto la sentenza: tutto il filo conduttore del processo non era la ricerca di colpevoli, ma quella di capire i fatti, perché noi con il compianto procuratore capo, Alfredo Rossini, volevamo solo capire i fatti. L’Aquila - ha spiegato - ha consentito che si tenesse questo processo delicato e si arrivasse a sentenza". Gli avvocati: ci saranno grosse ripercussioni. "Una sentenza sbalorditiva e incomprensibile, in diritto e nella valutazione dei fatti", ha detto l’avvocato Marcello Petrelli, difensore del professor Franco Barberi. "Una sentenza che non potrà che essere oggetto di profonda valutazione in appello". "Questa sentenza avrà grosse ripercussioni sull’apparato della pubblica amministrazione. Nessuno farà più niente", ha evidenziato l’avvocato Filippo Dinacci, difensore dell’ex vicecapo della Protezione civile e attuale presidente dell’Ispra, Bernardo De Bernardinis, e del direttore del servizio sismico del dipartimento della Protezione civile, Mauro Dolce. De Bernardinis: innocente davanti a Dio e agli uomini. Uno dei condannati, il professor De Bernardinis, commenta così la sentenza: "Mi ritengo innocente di fronte a Dio e agli uomini. La mia vita da domani cambierà, ma se saranno dimostrate le mie responsabilità in tutti i gradi di giudizio - ha aggiunto - le accetterò fino in fondo". "Il processo ha sviscerato molte cose che dovranno trovare conferma negli altri gradi di giudizio". Poi ha aggiunto: "Non c’erano le condizioni per fare scelte diverse, quelle erano le scelte che potevo fare. Io avrei voluto evitare non solo questi morti, ma anche quelli del ’94 in Piemonte e in Irpinia". Boschi: sono avvilito e disperato. L'ex presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), Enzo Boschi: "Sono avvilito, disperato. Pensavo di essere assolto. Ancora non capisco di cosa sono accusato". I geologi: ingiuste accuse al mondo scientifico. Se la sentenza "dovesse riguardare la mancata previsione del sisma, ciò significherebbe mettere sotto accusa l’intera comunità scientifica che, ad oggi, in Italia e nel mondo, non ha i mezzi per poter prevedere i terremoti", ha detto il presidente del Consiglio dei geologi, Gianvito Graziano. "Tuttavia - precisa - penso che l’accusa non vertesse sulla mancata previsione del terremoto, bensì su un comportamento omissivo della commissione rispetto ad una situazione di rischio, sottolineando comportamenti non diligenti. Se di ciò si tratta - conclude il presidente dei geologi - è necessario leggere attentamente la sentenza per capire in cosa, esattamente, i membri della Commissione Grandi rischi abbiano peccato". Il sindaco dell'Aquila: vogliamo giustizia per il dopo. Quando nell’assemblea a piazza Duomo all’Aquila, convocata dal sindaco Massimo Cialente per parlare della restituzione delle tasse, è arrivata la notizia della sentenza è partito un lungo applauso. Cialente ha spiegato che "volevamo questa sentenza per capire, ma il dramma non si cancella. Il comune si era costituito parte civile per chiedere giustizia: ma ora la giustizia la vogliamo anche per tutto quello che è successo dopo il 6 aprile". Pezzopane: finalmente giustizia. Stefania Pezzopane, che il 6 aprile del 2009 ricopriva la carica di Presidente della Provincia dell’Aquila, è soddisfatta: "Ci voleva coraggio e i giudici ne hanno avuto. Finalmente un po' di giustizia per L’Aquila. Avevo già denunciato l’inganno e la superficialità dei quali si era resa colpevole la Commissione Grandi Rischi. Oggi più che mai sento tutto il dolore per l’inganno che abbiamo subìto". Schifani: sentenza imbarazzante. "È una sentenza un po' strana e un po' imbarazzante" per cui "chi sarà chiamato in futuro a coprire questi ruoli si tirerà indietro". Lo ha detto il presidente del Senato, Renato Schifani a Porta a Porta la sentenza. "Bisogna vedere le motivazioni", ha aggiunto, sottolineando di augurarsi che da lì "emergano scelte inoppugnabili da parte dei magistrati in questa sentenza".
Storica condanna per i membri della commissione Grandi rischi: sei anni di reclusione per tutti gli imputati, sei esperti e il vice direttore della protezione civile, Bernardo De Bernardinis. Così scrive “Il Corriere della Sera”. È questa la decisione del giudice unico Marco Billi che ha condannato i componenti della commissione Grandi rischi, in carica nel 2009. I sette avevano rassicurato gli aquilani circa l'improbabilità di una forte scossa sismica che invece si verificò alle 3.32 del 6 aprile 2009. L'accusa nei loro confronti era di omicidio colposo, disastro e lesioni gravi, per aver fornito rassicurazioni alla popolazione aquilana, in una riunione avvenuta solo una settimana prima del sisma. I pm hanno chiesto per loro la condanna a quattro anni di carcere, mentre i legali degli imputati hanno chiesto per tutti la piena assoluzione. Grande era l'attesa all'Aquila sulle sorti degli imputati. La sentenza è stata letta dal giudice unico Marco Billi alle 17 circa, dopo quattro ore di camera di consiglio. A intervenire per ultimo l'avvocato difensore Antonio Pallotta, legale di Giulio Selvaggi. Sette gli esperti e scienziati imputati, accusati di aver dato ai residenti avvertimenti insufficienti del rischio sismico. Precisamente si contesta loro di aver dato «informazioni inesatte, incomplete e contraddittorie» sulla pericolosità delle scosse registrate nei sei mesi precedenti al 6 aprile 2009. La difesa ha puntato sulla impossibilità di prevedere i terremoti, posizione sostenuta da ricercatori internazionali. Tutta la comunità scientifica si interroga ora su un punto: le rassicurazioni eccessive possono indurre la gente ad adottare comportamenti rischiosi, ma può un errore di comunicazione valere una condanna per omicidio colposo? Il giudice ha ritenuto i sette membri della commissione tutti colpevoli di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. A Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Bernardo De Bernardinis, Giulio Selvaggi, Claudio Eva e Gianmichele Calvi sono state concesse le attenuanti generiche. Oltre alla condanna a sei anni, sono stati condannati anche all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. È «una sentenza sbalorditiva e incomprensibile in diritto e nella valutazione dei fatti» ha commentato l'avvocato Marcello Petrelli, difensore di Franco Barberi. «Una sentenza che - ha aggiunto - non potrà che essere oggetto di profonda valutazione in appello». Si è detto «avvilito, disperato» Enzo Boschi, ex presidente dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). «Pensavo di essere assolto - ha aggiunto - ancora non capisco di cosa sono accusato». «Mi ritengo innocente di fronte a Dio e agli uomini» ha aggiunto Bernardo De Bernardinis, ex vicecapo della Protezione civile e attuale presidente dell'Ispra. «La mia vita da domani cambierà, ma se saranno dimostrate le mie responsabilità in tutti i gradi di giudizio - ha aggiunto - le accetterò fino in fondo». Levata di scudi, sulla sentenza, da parte dei professori del mondo scientifico: «È la morte del servizio prestato dai professori e dai professionisti allo Stato - ha detto il fisico Luciano Maiani, attuale presidente della commissione Grandi rischi - non è possibile fornire una consulenza in termini sereni, professionali e disinteressati sotto questa folle pressione giudiziaria e mediatica. Questo non accade in nessun altro Paese al mondo». Sorpreso e amareggiato anche il mondo politico. «È una sentenza un po' strana e un po' imbarazzante: chi sarà chiamato in futuro a coprire questi ruoli si tirerà indietro» ha detto il presidente del Senato, Renato Schifani. «Questa sentenza è la morte dello stato di diritto e una follia allo stato puro - ha commentato il leader Udc, Pier Ferdinando Casini - . L'obbligo previsionale in ordine a eventi tellurici è sancito». «Le sentenze vanno sempre rispettate - ha puntualizzato Pierluigi Bersani - ma l'importante è che prosegua la solidarietà. La giustizia deve fare il suo corso ma anche la ricostruzione deve farlo».
Gli scienziati su “Il Corriere della Sera”: «ora avremo paura di esprimere opinioni». Dal mondo accademico è una levata di scudi, appresa la notizia della condanna dei sette scienziati per le omissioni e la sottovalutazione del rischio per il terremoto dell'Aquila. Se i sei condannati ondeggiano tra sbigottimento e stupore, è netto il commento del fisico Luciano Maiani, attuale presidente della commissione Grandi rischi, quella appunto messa all'indice dalla sentenza del tribunale «È la morte del servizio prestato dai professori e dai professionisti allo Stato: non è possibile fornire una consulenza in termini sereni, professionali e disinteressati sotto questa folle pressione giudiziaria e mediatica. Questo non accade in nessun altro Paese al mondo»»
GLI SCIENZIATI NON VORRANNO ESPRIMERE PIU' LA LORO OPINIONE? E pure l'INGV (L'istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) esprime tutta la sua preoccupazione per la sentenza: dell'istituto faceva infatti parte l'ex presidente Enzo Boschi. Secondo l'Istituto: «La sentenza di condanna di L’Aquila rischia, infatti, di compromettere il diritto/dovere degli scienziati di partecipare al dialogo pubblico tramite la comunicazione dei risultati delle proprie ricerche al di fuori delle sedi scientifiche, nel timore di subire una condanna penale. Quale scienziato vorrà esprimere la propria opinione sapendo di poter finire in carcere?»
«IMPOSSIBILE PREVEDERE UN TERREMOTO» - Secondo quanto affermato dalla letteratura scientifica internazionale, prosegue la nota dell'Ingv: «allo stato attuale è impossibile prevedere in maniera deterministica un terremoto. Di conseguenza, chiedere all’INGV di indicare come, quando e dove colpirà il prossimo terremoto non solo è inutile, ma è anche dannoso perché alimenta in modo ingiustificato le aspettative delle popolazioni interessate da una eventuale sequenza sismica in atto. L’unica efficace opera di mitigazione del rischio sismico è quella legata alla prevenzione, all’informazione e all’educazione della popolazione in cui istituzioni scientifiche, Protezione Civile e amministrazioni locali devono svolgere, in modo coordinato, ognuna il proprio ruolo».
TERREMOTO. L'Aquila, Grandi rischi: 6 anni agli imputati. Maiani: "Nella sentenza profondo errore". Così scrive “La Repubblica”. Il verdetto, compresa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, colpisce i sette membri della Commissione all'epoca in carica, che avrebbe fornito false informazioni circa l'improbabilità della forte scossa che la notte del 6 aprile 2009 causò la morte di 309 persone. L'accusa aveva chiesto quattro anni di reclusione. Condannati a sei anni per aver dato ai residenti avvertimenti insufficienti sul rischio sismico. Questa la sentenza per i sette componenti della commissione Grandi rischi, in carica nel 2009, che avevano rassicurato gli aquilani circa l'improbabilità di una forte scossa sismica, che invece si verificò alle 3,32 del 6 aprile 2009. L'accusa aveva chiesto quattro anni, ma Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Bernardo De Bernardinis, Giulio Selvaggi, Claudio Eva e Gianmichele Calvi, sono stati giudicati colpevoli di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Nonostante la concessione delle attenuanti generiche, sono stati condannati anche all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. "È la morte del servizio prestato dai professori e dai professionisti allo Stato" è stato il commento senza mezzi termini da parte del fisico Luciano Maiani, attuale presidente della commissione Grandi rischi, che ha aggiunto: "Non è possibile fornire allo Stato una consulenza in termini sereni, professionali e disinteressati sotto questa folle pressione giudiziaria e mediatica. Questo non accade in nessun altro Paese al mondo''. C'è "un profondo errore" nella sentenza che oggi ha condannato a sei anni i membri della commissione Grandi rischi, ha sottolineato Maiani. Le persone condannate oggi "sono professionisti che hanno parlato in buona fede e non spinte da interessi personali. Sono persone - aggiunge - che hanno sempre detto che i terremoti non sono prevedibili". A fronte della loro condanna, prosegue, "non c'è nessuna indagine su chi ha costruito in maniera non adeguata ad una zona antisismica. Questo è un profondo sbaglio". Il mondo politico non esprime un giudizio unanime sulla sentenza: per il presidente del Senato, Renato Schifani, si tratta di "una sentenza un po' strana e imbarazzante. Pone un problema serio e grave in relazione al quale chi sarà chiamato in futuro a ricoprire questi ruoli si farà da parte", ha dichiarato a Porta a Porta. "Le sentenze vanno sempre rispettate e la giustizia deve fare il suo corso. Ma è importante anche dare solidarietà a queste terre ed è per questo che tornerò ancora a visitarle'', ha detto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Non è d'accordo con il verdetto l'ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi: ''Ulteriore sentenza angosciante destinata a inibire assunzioni di responsabilità da parte di tecnici e scienziati e a determinare ingiustificati allarmismi e impraticabili proposte di ricorrente evacuazione''. Anche per il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini, la sentenza è ''una follia allo stato puro''. ''Credo che qualsiasi professionista - ha aggiunto Casini - di fronte a una sentenza di questo genere si tirerà indietro. Così è sancito l'obbligo professionale a non sbagliare''. Il giudice unico Marco Billi si è ritirato in Camera di consiglio alle 12,30 dopo l'ultimo intervento dell'avvocato difensore Antonio Pallotta, legale di Giulio Selvaggi. Gli imputati hanno aspettato quattro ore prima di avere il verdetto. Precisamente si contestava loro di aver dato "informazioni inesatte, incomplete e contraddittorie" sulla pericolosità delle scosse registrate nei sei mesi precedenti al 6 aprile 2009. La difesa ha puntato sulla impossibilità di prevedere i terremoti, posizione sostenuta da ricercatori internazionali. "Una sentenza sbalorditiva e incomprensibile, in diritto e nella valutazione dei fatti", ha commentato l'avvocato Marcello Petrelli, difensore del professor Franco Barberi, "non potrà che essere oggetto di profonda valutazione in appello". Ammonta a 7,8 milioni di euro il risarcimento disposto dal giudice. A questa cifra vanno sommate le spese giudiziarie delle parti civili che ammontano a oltre 100 mila euro. Si dice "avvilito e disperato" Enzo Boschi, ex presidente dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), nella prima reazione a caldo dopo la sentenza. "Sono frastornato, devastato, ero convintissimo che sarei stato assolto perché non ho mai rassicurato nessuno. Sfido chiunque a trovare scritta, detta a voce, su tv o da qualsiasi parte una mia rassicurazione concernente il terremoto dell'Aquila", ha sottolineato Boschi. "E questo perché - aggiunge - nessuno è in grado di prevedere terremoti quindi io non rassicuro nessuno. La qualità degli edifici in Italia è tale che anche una piccola scossa può causare un disastro". "Mi ritengo innocente di fronte a Dio e agli uomini", ha detto il professor Bernardo De Bernardinis, ex vicecapo della Protezione civile e attuale presidente dell'Ispra. "La mia vita da domani cambierà, ma se saranno dimostrate le mie responsabilità in tutti i gradi di giudizio - ha aggiunto - le accetterò fino in fondo". ''Non mi aspettavo sei anni, pensavo che la condanna sarebbe stata inferiore. Non provo nessun godimento, nessuna sentenza ci ripaga di quanto accaduto'' ha detto Giampaolo Giuliani, il tecnico di ricerca che studia il radon come precursore sismico e che nei giorni precedenti alla tragedia aveva lanciato l'allarme. Nella sua replica il pm, prima che il giudice Marco Billi si chiudesse in Camera di consiglio, ha ricordato Guido Fioravanti, figlio di Claudio, avvocato e giudice tributario, oltre che una delle 309 vittime del sisma del 6 aprile. Morto nella sua casa in via Campo di Fossa, dietro alla Villa Comunale, crollata insieme a molte altre. "Noi crediamo alle persone offese - ha detto il titolare dell'accusa in aula -. Questo processo nasce perché è venuto da me Guido Fioravanti e mi ha detto: 'mio padre è morto perché ha creduto allo Stato'. Questo è stato il punto di partenza". Per Guido Fioravanti quello di oggi "non è stato un processo alla scienza", ma a "ciò che ha detto la scienza e che ha mutato in noi aquilani l'approccio al terremoto". Quella notte, Guido si era sentito con la madre verso le 23, subito dopo la prima scossa. "Mi ricordo la paura che usciva dalle sue parole. In altri tempi sarebbero scappati ma quella notte, assieme a mio padre, si sono ripetuti quello che avevano sentito dalla commissione Grandi rischi. E sono rimasti lì". È preoccupato per le conseguenze che la condanna può avere il direttore dell'Istituto di geoingegneria del Cnr, Paolo Messina: "Una condanna durissima, e ciò che preoccupa sono le conseguenze che tale pronunciamento potrà avere: non vorrei passasse il messaggio che i terremoti si possono prevedere, perché ciò è impossibile. In linea di principio, allora, bisognerebbe evacuare l'intera popolazione ad ogni scossa?". La sentenza con la quale sono stati condannati i componenti della Commissione Grandi Rischi, "costituisce un precedente, in grado di condizionare in modo determinante il rapporto tra esperti scientifici e decisori,non solo nel nostro Paese", è scritto in una nota dello stesso istituto nazionale di geofisica e vulcanologia che esprime "tutto il suo rammarico e la sua preoccupazione" per la sentenza di primo grado. ''Ci voleva coraggio e i giudici ne hanno avuto. Finalmente un po' di giustizia per L'Aquila''. È soddisfatta Stefania Pezzopane che il 6 aprile del 2009 ricopriva la carica di Presidente della Provincia dell'Aquila, dopo aver appreso l'esito della sentenza. Il sindaco dell'Aquila, Massimo Cialente, ha spiegato che ''volevamo questa sentenza per capire, ma il dramma non si cancella. Il comune si era costituito parte civile per chiedere giustizia: ma ora la giustizia la vogliamo anche per tutto quello che è successo dopo il 6 aprile''. ''Sono pochi, hanno fatto bene, benissimo''. In piazza Duomo a L'Aquila i cittadini aquilani riuniti sotto al tendone per ascoltare il sindaco Cialente su tasse e tributi hanno così commentato a caldo le notizie sulla sentenza.
Le intercettazioni riportate da Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. L'Aquila, esperti a consulto sul terremoto: "Ma è soltanto un'operazione mediatica". E' la fine di marzo 2009, la città abruzzese da quattro mesi è ostaggio di uno sciame sismico e una nuova scossa di magnitudo 4.1 Richter ha appena fatto crescere la paura. Bertolaso racconta al telefono che sta organizzando una riunione di tecnici al solo scopo di tranquillizzare la popolazione. E sette giorni dopo, la tragedia. La riunione straordinaria della Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile, che si svolse all'Aquila durante lo sciame sismico sette giorni prima della scossa fatale, fu soltanto uno show. Una "operazione mediatica". I più importanti scienziati italiani furono inviati dal Dipartimento della Presidenza del Consiglio (dell'allora governo Berlusconi) nella città sotto shock per le quattrocento scosse di terremoto in quattro mesi solo per "tranquillizzare la popolazione", per comunicare alla pubblica opinione che si era di fronte a un "fenomeno normale". Lo rivela proprio Guido Bertolaso in un'intercettazione. Un'intercettazione contenuta tra le duemila e duecento conversazioni registrate dai carabinieri del Ros di Firenze, formalmente inserita negli atti del processo sullo scandalo G8 alla Maddalena, ma che non fu mai trascritta. E che adesso Repubblica è in grado di documentare e di farvi ascoltare. E' il pomeriggio del 30 marzo 2009. Da quattro mesi la città dell'Aquila balla sotto i colpi dello sciame sismico. Alle 15.38 arriva un'altra forte scossa (magnitudo 4.1 della scala Richter). In città scoppia di nuovo il panico e scatta ancora una volta l'allerta per la Protezione Civile. La sera stessa, Bertolaso chiama Daniela Stati, assessore regionale alla Protezione Civile dell'Abruzzo. "Sono Guido Bertolaso...". La Stati: "Che onore...". Bertolaso: "Ti chiamerà De Bernardinis il mio vice, perché gli ho detto di fare una riunione lì all'Aquila domani, su questa vicenda di questo sciame sismico che continua, in modo da zittire subito qualsiasi imbecille, placare illazioni, preoccupazioni... Eccetera...". Ancora Bertolaso: "La cosa importante è che domani... Adesso De Bernardinis ti chiama per dirti dove volete fare la riunione. Io non vengo... ma vengono Zamberletti (l'unico che poi non parteciperà, ndr), Barberi, Boschi, quindi i luminari del terremoto in Italia. Li faccio venire all'Aquila o da te o in prefettura... Decidete voi, a me non me ne frega niente... In modo che è più un'operazione mediatica, hai capito? Così loro, che sono i massimi esperti di terremoti, diranno: è una situazione normale... sono fenomeni che si verificano... meglio che ci siano cento scosse di quattro scala Richter piuttosto che il silenzio, perché cento scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa quella che fa male... Hai capito? (...) Tu parla con De Bernardinis e decidete dove fare questa riunione domani, poi fatelo sapere (alla stampa, ndr) che ci sarà questa riunione. E che non è perché siamo spaventati e preoccupati, ma è perché vogliamo tranquillizzare la gente. E invece di parlare io e te... facciamo parlare i massimi scienziati nel campo della sismologia". La Stati: "Va benissimo...". E, in effetti, il giorno dopo gli esperti andranno all'Aquila e ripeteranno esattamente le parole dette da Bertolaso alla Stati al telefono. La riunione durerà appena sessanta minuti e al termine si terrà una conferenza stampa. De Bernardinis parlerà ai microfoni di una situazione "normale...". "... La comunità scientifica conferma che non c'è pericolo, perché c'è uno scarico continuo di energia. La situazione è favorevole..." ."Si colloca diciamo in una fenomenologia senz'altro normale". A leggerla e ad ascoltarla ora, questa intercettazione, quasi tre anni dopo la tragedia, mentre è in corso all'Aquila un processo nei confronti proprio della Commissione Grandi Rischi, accusata di omicidio colposo plurimo e disastro colposo - per non aver correttamente valutato in quella riunione lo sciame sismico in atto - quella di Bertolaso suona come un'ammissione. Una confessione. Questa intercettazione - fino ad oggi sconosciuta alla Procura dell'Aquila - verosimilmente cadrà come un macigno sul processo, sul suo esito e sul ruolo che ebbe Bertolaso in quella vicenda. L'ex capo della Protezione Civile non fu iscritto nel registro degli indagati perché non era presente alla riunione. Ora si scopre che la convocò (senza andarci) al solo scopo di tranquillizzare (e tacitare la popolazione). Si adoperò affinché una riunione di importanti scienziati, formalmente chiamati a valutare uno sciame sismico su una zona ad alto rischio terremoto, fosse solo "un'operazione mediatica". Sette giorni dopo la catastrofe: 309 morti, 1500 feriti, e una città che, probabilmente, non tornerà mai più come prima.
INQUINAMENTO AMBIENTALE: NON SOLO ILVA. C’E’ PIOMBO PURE NEL BIBERON.
Piombo, mercurio, PBC, diossina, polveri sottili. Sono le sostanze in esame nei grandi scandali ambientali, dall'Ilva di Taranto alla Caffaro di Brescia, ma anche quelle che inquinano le nostre città. Nel libro 'Biberon al piombo' la ricercatrice Maria Cristina Saccuman spiega come, oltre a provocare il cancro e altre patologie, danneggiano lo sviluppo neuronale dei più piccoli. L’ha intervistata Lara Crinò su “L’Espresso”. I ricercatori francesi Philippe Grandjean e Philip Landrigan la chiamano "pandemia silenziosa". Perché spesso non ha effetti eclatanti ma subdoli e protratti nel tempo. E perché, rispetto ad altri pericoli per la salute nostra e dei nostri figli, su questo argomento l'informazione dei media è frammentaria. E' l'effetto dei neurotossici (una lunga serie di sostanze chimiche, dal piombo al mercurio alle polveri sottili) hanno sulle funzioni neurologiche dei più piccoli, dalla fase embrionale dello sviluppo umano alla soglia dell'età adulta. Ora su questo argomento una ricercatrice italiana, Maria Cristina Saccuman, ha pubblicato Biberon al piombo (Sironi editore, pp. 192, euro 17), un saggio molto documentato sugli studi più recenti che riguardano patologie, fattori di rischio e possibili precauzioni. Senza allarmismi ma con un invito ai genitori: essere attenti ai propri figli vuol dire essere attenti alla propria comunità, alle politiche ambientali e ai fattori di inquinamento. Perché, se non possiamo proteggerli facendoli crescere sotto una campana di vetro, possiamo preparare per loro un mondo migliore.
Dottoressa Saccuman, lei spiega che molte sostanze inquinanti, dal mercurio al piombo, provocano non solo neoplasie, asma e malformazioni, ma modiche nello sviluppo del cervello. Perché di questo tipo di danno alla salute dei più piccoli si parla poco? I neurotossici sono una classe molto ampia di sostanze chimiche e i ricercatori e i medici le studiano da molti anni. Ad esempio il piombo è una sostanza che ha fin dall'antichità moltissimi utilizzi e di cui si è sempre conosciuta la tossicità. Ma quello che si è capito, grazie a studi che hanno cambiato il modo stesso di concepire l'epidemiologia, è che non è necessario arrivare al saturnismo, la patologia più grave, perché il piombo sia tossico. Già a dosi bassissime l'esposizione al piombo ha effetto sulla madre in gravidanza, sul feto e sul bambino. E si correla a una serie di patologie: dal ritardo mentale ai disturbi dell'apprendimento fino alla sindrome DHD (deficit di attenzione e iperattività). Negli ultimi anni la situazione è migliorata perché il piombo è stato eliminato dai carburanti delle auto e dalle vernici, ma permane in molti ambienti. Si calcola che tuttora rubi un paio di punti di QI ai bambini europei. Lo stesso discorso vale per gli effetti dei PBC, emessi per anni da industrie come la Caffaro di Brescia, e per le polveri sottili che inquinano l'aria nelle aree urbane. Purtroppo si parla poco di questo tipo di danno perché, rispetto ad esempio alle neoplasie, è più difficile fare studi epidemiologici sulle neuropatie che coinvolgano i bambini e i neonati.
Perché i bambini sono più sensibili ai neurotossici? In primo luogo perché il loro cervello è in formazione, plastico e duttile. E poi perché i bambini rispetto al loro peso corporeo, interagiscono molto di più con l'ambiente: mangiano più cibo, consumano più aria, hanno più contatti fisici con l'ambiente. Un bambino che gattona o gioca in un cortile entra in contatto con la terra o la polvere moltissime volte in più di un adulto.
Lei parla dei grandi scandali ambientali ma anche della battaglia contro i gas di scarico che si combatte nelle nostre città. Qual'è la situazione italiana rispetto alle altre nazioni dell'Occidente? In Italia ci sono alcune situazioni assolutamente critiche: oltre a quelle create dall'Ilva di Taranto o dalla Caffaro di Brescia, ovviamente la situazione della diossina in Campania. Il problema è che spesso le zone inquinate sono anche quelle a più basso sviluppo socioeconomico. Ed è stato dimostrato da molti studi che la povertà aumenta i fattori di rischio per i danni neurologici. A livello internazionale, invece, l'Italia non ha ratificato l'accordo di Stoccolma sugli inquinanti organici. Le leggi sono fondamentali perché fanno sì che vengano fissati limiti alle emissioni.
Che cosa può fare un genitore per proteggere i propri figli? Ci sono delle raccomandazioni valide sempre? La prima raccomandazione che mi sento di dare è: siate attivi nella società. Il che significa informarsi, anche se non è sempre facile avere accesso a informazioni corrette, e partecipare alla politica. Votare per chi è attento all'ambiente, per chi vuole limitare il traffico delle auto. Non possiamo tenere i piccoli sotto la campana di vetro, ma possiamo migliorare il loro mondo. E' inutile fissarsi con il cibo biologico e pensare di poter dare ai piccoli una casa 'pura'. Ma ci sono alcuni accorgimenti che nel libro elenco. Ad esempio stare attenti ai giocattoli vecchi o 'vintage' che potrebbero contenere piombo, eliminare nelle case le vecchie tinteggiature, i vecchi infissi e rinnovare le tubature. E altre cose: meglio non scaldare i cibi nel microonde con contenitori di plastica, meglio non dare ai ragazzi pesci di grossa taglia come tonno o pesce spada. E questo vale anche per le donne in gravidanza, che allattano o che sono in età fertile.
CHI INQUINA PAGA? DIPENDE!
L'obbligo di bonificare i siti altamente a rischio sanitario deve avvenire "ove possibile e economicamente sostenibile". Insomma, si deve disinquinare solo se non costa troppo. E così, stando alla bozza del prossimo dl Semplificazione, lo stabilimento di Taranto può continuare a lavorare, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. Ilva salva e inquinatori al sicuro. Sono questi due dei principali effetti che potrebbe produrre il dl Semplificazioni che il governo approverà nei prossimi giorni. La bozza, entrata nel Consiglio dei ministri della settimana scorsa ma poi non licenziata, non sembra infatti lasciare molto spazio all'immaginazione in materia ambientale. A cominciare proprio dal caso di Taranto che tiene banco in questi giorni. "Nei siti contaminati, in attesa degli interventi di bonifica e di riparazione del danno ambientale - recita il provvedimento all'articolo 22 - possono essere effettuati tutti gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di infrastrutturazione primaria e secondaria, nonché quelli richiesti dalla necessità di adeguamento a norme di sicurezza, e più in generale tutti gli altri interventi di gestione degli impianti e del sito funzionali e utili all'operatività degli impianti produttivi ed allo sviluppo della produzione". Tradotto: lo stabilimento di Taranto può continuare a lavorare, nonostante il blocco della produzione disposto dalla magistratura. E poco importa che movimentando acque e terreni contaminati si rischi di peggiorare la situazione e di vanificare gli effetti del risanamento già effettuato, come denunciano i Verdi, che parlano apertamente di una norma "ad aziendam". Ma è l'articolo precedente (il 21) a dare il colpo di grazia al principio su cui si fonda la politica ambientale dell'Unione europea, ovvero "chi inquina, paga". Di fatto le nuove norme sostituiscono con procedure più "snelle" l'articolo 243 ("Acque di falda") del Codice dell'Ambiente, approvato nel 2006. Questo il risultato: nei casi in cui le acque di falda contaminate determinano una situazione di rischio sanitario, "l'eliminazione della fonte di contaminazione" deve avvenire "ove possibile e economicamente sostenibile". «L'obbligo di disinquinare, insomma, sussiste solo se non costa troppo» attacca il presidente dei Verdi Angelo Bonelli. «In pratica da Porto Torres a Priolo, da Milazzo a Piombino passando per Taranto chi ha inquinato sarà di fatto esentato dalla bonifica». Potenzialmente, un regalo da miliardi di euro. Senza considerare gli effetti sanitari che potrebbe comportare il blocco degli interventi di risanamento. In Italia sono 57 i siti del Programma nazionale di bonifica: raffinerie, poli petrolchimici, impianti metallurgici, aree industriali in attività, dismesse, in corso di riconversione o oggetto di smaltimento incontrollato di rifiuti pericolosi. A novembre 2011 il rapporto Sentieri (Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento), coordinato dall'Istituto Superiore di Sanità e condotto su 44 di questi 57 siti, ha stimato in 3.500-10.000 le morti "aggiuntive" rispetto alla media a causa dell'inquinamento diretto o indiretto nel periodo compreso tra il 1995 e il 2002. Con una casistica differenziata in base alle lavorazioni effettuate: tumore polmonare e malattie respiratorie a Gela, Porto Torres, Taranto e nel Sulcis per effetto delle emissioni delle raffinerie e degli stabilimenti metallurgici. Malformazioni congenite a Massa Carrara, Falconara e Milazzo e insufficienze renali a Massa Carrara, Piombino e Orbetello a causa dei metalli pesanti. Malattie neurologiche a Trento Nord, Grado e Marano a causa del piombo e del mercurio e linfomi a Brescia per effetto della contaminazione da policlorobifenili. Un autentico bollettino da guerra, che fra l'altro non tiene conto di quanti si ammalano di simili patologie in forma non letale. E sul quale adesso pende il rischio di un colpo di spugna del governo.
PUGLIA, UNA REGIONE AVVELENATA.
Non c'è solo l'Ilva: i siti considerati pericolosi sono quasi 500. E tre sono nella lista nera d'Europa. Un disastro che uccide l'economia, ma soprattutto le persone scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Se Taranto è il centro dell'inferno e l'Ilva la bocca di Satana, anche il resto della Puglia non se la passa bene. Inquinamento alle stelle, emissioni di CO2 da record, tracce di diossina nel latte materno, incidenza di tumori troppo alta vicino ai poli industriali: la regione dei trulli è il tacco nero d'Italia, il luogo dove sorgono le fabbriche più inquinanti del Belpaese. L'Agenzia europea dell'Ambiente lo scorso anno ha stilato una classifica delle industrie più "sporche" del Vecchio Continente. Nelle prime cento posizioni ci sono cinque fabbriche italiane. Tre sono in Puglia e due in Sardegna. Se l'Ilva di Taranto è cinquantaduesima, la centrale termoelettrica dell'Enel di Brindisi è piazzata addirittura al diciottesimo posto, mentre l'altra centrale di Taranto (sempre dell'Enel) è all'ottantesimo posto. Non è tutto: secondo gli studi dell'Arpa tra Foggia e Santa Maria di Leuca si contano centinaia di altri siti potenzialmente pericolosi. In tutto sono 498, di cui 70 di origine industriale, 145 discariche, 11 luoghi a rischio contaminazioni da amianto. «Non stupisce», chiosa Annibale Biggeri, epidemiologo, professore ordinario a Firenze e perito del gip di Taranto che ha ordinato il sequestro dell'Ilva, «che in alcune zone della Puglia i dati epidemiologici siano così allarmanti». Taranto è il caso più devastante. Lo studio "Sentieri" ha definito la zona vicino l'Ilva«area insalubre», e la procura ha deciso - dopo anni di inedia da parte di istituzioni locali e nazionali - di intervenire bloccando la produzione. Il Gruppo Riva, oggi nel mirino dei magistrati, ha comprato il sito alla fine degli anni '90 e ha inquinato allegramente per quindici anni l'aria e il mare della città, ma sono almeno tre decadi che gli esperti degli istituti di ricerca andavano spiegando dei pericoli mortali dell'acciaieria più grande d'Italia. «A Taranto in 13 anni di osservazioni, che vanno dal 1998 al 2010», ricorda Biggieri, «sono attribuibili alle emissioni industriali (misurate come polveri sottili) ben 386 decessi. Circa 30 l'anno. Un eccidio».
A settanta chilometri dall'Ilva, a Brindisi, c'è un altro dei siti d'interesse nazionale (Sin) che fa tremare gli esperti. Comprende la zona industriale della città, il porto e una fascia costiera che si estende per oltre 30 chilometri quadri. Qui sorge la Syndial, la Polimeri Europa, l'Enipower, la Powerco, senza dimenticare le due enormi centrali dell'Enel, campioni nazionali nell'emissione di CO2. Gli studi in mano agli scienziati sono scioccanti. La mortalità per l'area di Brindisi è stata analizzata nel periodo 1990-1994, quando vennero segnalati eccessi di mortalità per tutte le cause e per tutti i tipi di tumore. Un report più recente, pubblicato nel 2004, riguardò l'area residenziale vicino al petrolchimico: i risultati evidenziarono un incremento «moderato» nel rischio di mortalità per tumore del polmone, della vescica e del sistema linfoematopoietico per chi risiedeva in un raggio di due chilometri dalle industrie inquinanti. L'Arpa recentemente ha effettuato nuovi rilievi del suolo e delle falde acquifere, trovando di tutto: l'arsenico supera i limiti del 63 per cento, lo stagno del 42, il mercurio del 14, ci sono troppi idrocarburi, composti cancerogeni di vario tipo, clorobenzeni. Nello studio "Sentieri" gli esperti ricordano pure la presenza massiccia di amianto, che potrebbe aver causato«l'eccesso di mortalità per tumore alla pleura», e le troppe malformazioni congenite presenti a Brindisi. Il ministero dell'Ambiente, nella conferenza di servizi del marzo 2011, ha chiesto al Comune di presentare un progetto di bonifica della zona, e di fare rapidamente gli interventi di messa in sicurezza d'emergenza delle acque di falda. Chissà a che punto stanno i lavori. Di sicuro la commissione bicamerale d'inchiesta, che ha pubblicato lo scorso giugno una relazione sulla situazione pugliese in tema di illeciti e criminalità ambientale, sul tema delle bonifiche ha bacchettato l'amministrazione guidata da Nichi Vendola, rea di essere troppo lenta negli interventi di pulizia. «Il piano di stralcio delle bonifiche (pubblicato nel bollettino ufficiale del 9 agosto 2011, ndr) non riporta né una definizione degli interventi prioritari né un quadro chiaro dei meccanismi di finanziamento degli stessi». L'unica eccezione positiva, nota il Parlamento, è il sito inquinato di Manfredonia. Qui, grazie alla «spinta propulsiva» di una procedura d'infrazione della Comunità europea (che avrebbe portato a pagare multe da centinaia di migliaia di euro al giorno) la Regione ha investito una quarantina di milioni ed ha bonificato tre discariche pubbliche che aspettavano di essere pulite da 13 anni. La situazione in città è migliorata, ma c'è ancora molto da fare. Innanzitutto nell'area della Syndial (Ex Enichem), che nel 1976 finì sulle prime pagine dei giornali per un'esplosione che provocò una nube tossica di arsenico. Dieci tonnellate di veleni caddero sotto forma di polveri, come ricorda la commissione bicamerale, «nei pressi dello stabilimento e fino all'estrema periferia» di Manfredonia, ricoprendo i tetti delle case, le strade, i campi e i giardini. Uno studio ha segnalato per la città - per quanto riguarda la mortalità- trend temporali in crescita per tutti i tumori. «Su quell'evento bisognerebbe indagare meglio: è un incidente tipo Seveso, non si sa cosa sia davvero successo alla salute delle persone, i possibili danni di chi fu esposto dovrebbero essere studiati con maggiore cura», ragiona Biggeri. Il quarto sito di interesse nazionale è quello di Bari, area Fibronit. Qui l'assassino è l'amianto, che ha ucciso negli anni (per asbestosi, tumori e malattie dell'apparato respiratorio) centinaia di persone, gli operai che andavano al lavoro, le mogli che venivano in contatto con le polveri nascoste nelle tute da lavoro, i figli che le respiravano. Nella zona, sostengono gli scienziati, c'è ancora un eccesso di malattie. La fabbrica ha chiuso da lustri, ma incredibilmente ci sono ancora migliaia di metri quadri da bonificare, con residui di eternit che rischiano di far ammalare, oggi, gli abitanti dei quartieri vicini: solo a Japigia vivono oltre 50 mila persone. Lo studio "Sentieri" dà alcuni suggerimenti: «Considerata la particolare complessità della città di Bari (ambiente urbano, area portuale, altri insiedamenti produttivi) si ritiene opportuna una caratterizzazione ambientale più ampia, e un approfondimento del quadro di salute della popolazione». I biomonitoraggi, però, costano caro, e i loro risultati non sempre piacciono ai politici. Le bonifiche sono operazioni complesse e richiedono enormi sforzi economici: è impossibile fare una stima precisa, ma di sicuro mettere in sicurezza i quattro Sin pugliesi non costerebbe meno di una decina di miliardi di euro. Soldi che nessuno (né il pubblico né tantomeno i privati) ha mai voluto investire. La commissione bicamerale alza il dito anche contro la gestione commissariale in tema di rifiuti e bonifiche. «In Puglia come in altre regioni ha prodotto scarsi risultati, dal momento che il primo censimento dei siti contaminati è stato pubblicato nel 1994 dall'Enea, e quindi da allora si aveva contezza dello stato di degrado ambientale del territorio». Un disastro che ammazza anche l'economia: se i mancati investimenti dovuti all'inquinamento pesano sul Pil regionale per centinaia di milioni di euro l'anno (nel 2006 uno studio della Ue quantificò un costo annuale per le mancate bonifiche in un range che andava, per quanto riguarda l'Italia, tra i 2,4 e i 17,3 miliardi di euro), i veleni hanno penalizzato anche l'agricoltura, «martoriata», scrive la Commissione, «dalle emissioni industriali degli insediamenti di Brindisi e Taranto e dallo sversamento illegale di rifiuti». La commissione non risparmia nessuno, e se la prende anche con il ministero dell'Ambiente, che non avrebbe mai emanato il regolamento relativo agli interventi di bonifica. In assenza di norme precise, ogni situazione viene gestita «caso per caso, rendendo di fatto inefficaci le richieste di intervento». Senza un quadro normativo di riferimento, in pratica, tutto è demandato ai Tar. Che, in caso di ricorso, possono bloccare il lavoro di bonifica. Come è capitato alla Fibronit di Bari: il Comune voleva trasformare l'area in un parco cittadino dedicato alle vittime dell'amianto, il Tar ha bocciato il progetto, i lavori sono stati bloccati e i veleni sono rimasti a terra.
PARLIAMO DELL’ITALIA DEI VELENI: MORIRE DI FAME O DI INQUINAMENTO?
SCEGLIERE TRA LAVORO E SALUTE.
Il caso Ilva ha riportato agli onori della cronaca una questione annosa nel nostro paese: l’industrializzazione selvaggia e sregolata. Un capitalismo senza freni che spesso non ha guardato in faccia né alla gente né al territorio, sacrificati all’altare della produttività e del risparmio. L’Ilva è stata sequestrata e sarà giustamente costretta a bonificare i propri impianti a causa dei quali tutta Taranto è coperta da una patina rossastra, invasa dagli scarafaggi e dove i tumori negli ultimi anni sono aumentati del 600%. Il diritto al lavoro è sacro, ma quello alla vita di più e purtroppo solo gli interventi eclatanti della magistratura possono costringere gli imprenditori a rimettersi in regola. Il caso Ilva è solo l’ultimo del decennale scontro tra industria e ambiente. La popolazione è una variabile a parte: a volte si schiera compatta a favore della fabbrica, a volte in difesa della propria salute e della propria terra. Nel luglio del 2005 le proteste battendo sulle casseruole delle mamme di Cornigliano convinse l’industriale Emilio Riva ad abbattere l’altoforno dell’Italsider: ora si occupa solo di laminati a freddo. Sono stati invece i sindaci, con Massimo Cacciari in testa, a spingere e a finanziare, con 5 miliardi pubblici e privati, la riconversione dell’immensa area industriale di Porto Marghera. È sotto accusa lo storico petrolchimico di Gela voluto da Enrico Mattei in cui lavorano duemila persone. Venti persone su settantacinque del reparto Clorosoda, chiuso nel 1994, sono morti per timore, altrettanti hanno il sistema immunitario distrutto dal mercurio. Nel 2006 ci sono state denunce da parte di 100 famiglie contro l’Eni e nel 2008 è stata aperta un’inchiesta. A Brindisi sono stati rinviati a giudizio tredici dirigenti della centrale a carbone dell’Enel: secondo il GIP le polveri del nastro trasportatore hanno avvelenato 400 ettari di terreni agricoli. Centrale a carbone chiacchierata anche a Civitavecchia: il sindaco PD Pietro Tidei la vuole chiudere perché i fanghi vengono essiccati senza essere depurati e la città è avvolta da una costante nebbia gialla, a causa delle polveri. L’Enel però fa orecchie da mercante. Polveroni rossi hanno investito anche l’isola di Carloforte, in Sardegna, a causa dei fanghi prodotti dall’Alcoa di Portovesme. Sempre sulla costa nel Sulcis il GIP ha contestato all’Eurallumina il reato di disastro ambientale doloso con inquinamento delle acque di falda. Fluoruri, boro e arsenico nelle acque e nell’aria hanno portato al rinvio a giudizio degli ultimi tre amministratori delegati della centrale Enel di Porto Tolle in provincia di Rovigo. Seimila operai della Carnia si sono invece opposti alla chiusura delle cartiere di Burgo di Tolmezzo a causa degli scarichi irregolari. La gente si è invece comportata in modo opposto altrove. Nel processo contro l’Acciaieria Valsugana di Borgo per l’emissione di diossine e monossidi si sono costituite parte civile 554 persone i cui terreni erano stati distrutti e il valore delle case crollato. A Bottegone-Badia-Agliana nel Pistoiese, i cittadini hanno sottoposto i candidati sindaci a un pre-referendum contro il progetto Repower, un turbogas. Tutti tranne uno si sono espressi come voleva la gente: niente centrale. Industrializzazione e ambiente, un rapporto di rose e spine, con la gente a fare da giudice.
Non solo Ilva. Il ricatto dei colossi che ci avvelenano: pane o salute? La domanda di Simona Martini su “Oggi 24". Salute o lavoro? Impossibile scegliere. Anzi non si dovrebbe. Eppure le recenti vicende dell’Ilva di Taranto il più grande polo siderurgico d’Europa hanno evidenziato l’esatto contrario. Il problema esiste: non si può chiudere ma non si può neanche andare avanti così. “Occorre evitare la chiusura, se si chiudono quegli impianti non si riaprono più”. E’ la posizione del Ministro Passera. Il problema occupazionale è forte e più immediato. La paura per la salute c’è ma non la certezza di essere colpiti dalle malattie causate dall’inquinamento. Il ‘forse non succede a me’ contro la paura molto più sentita di perdere il posto di lavoro anche se la decisioni della procura di Taranto parlano chiaro: il sequestro, confermato dal riesame, di sei impianti dell’area a caldo con utilizzo finalizzato alla messa in sicurezza e al risanamento in aggiunta ai reati di disastro ambientale, getto di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico contestati ai vertici dell’azienda. La situazione è grave e i cittadini di Taranto lo sanno e lo sapevano: senza bisogno di studi o analisi, quelle colonne di fumo che si alzavano dall’Ilva non promettevano nulla di buono. Adesso il polo è sotto i riflettori. Giornali e giustizia se ne stanno occupando ma l’Italia è piena siti industriali ed energetici pronti ad esplodere come altri casi ‘Ilva’. A Gela il gigante industriale è la raffineria Eni, con una capacità di 100 mila barili al giorno per la produzione di greggi pesanti e impianti petrolchimici. Secondo Legambiente il pet coke, che viene utilizzato nella raffineria è di fatto tossico o meglio lo sono i fumi derivati dal suo utilizzo. Lo scarto della lavorazione del petrolio ‘riabilitato’ a combustibile rilascerebbe nell’aria sostanze come mercurio, cadmio, nichel e cromo. Agenti cancerogeni! Teoria sostenuta anche da una ricerca del Dipartimento di Chimica e Fisica della Terra dell’Università degli Studi di Palermo, ‘Inorganic pollutants associated with particulate matter from an area near a petrochemical plant’, dedicata all’area di Gela dove avevano appunto riscontrato la presenza di diversi metalli. I pericoli per la salute vengono confermati dall’Istituto Superiore di Sanità: “Per gli incrementi di mortalità per tumore polmonare e malattie respiratorie non tumorali è stato suggerito un ruolo delle emissioni di raffinerie e poli petrolchimici” perché da quelle parti l’incidenza di patologie del genere è superiore alla media regionale di un inquietante 15%. Sul banco degli imputati c’è anche l’Enel e le centrali a carbone di ultima generazione. A Brindisi in concomitanza con il caso Ilva la magistratura ha citato in giudizio per inquinamento ambientale 15 dirigenti della centrale termoelettrica di Cerano. L’accusa: aver disperso polveri di carbone sui terreni circostanti provocando seri danni all’agricoltura e ai contadini che si sono visti togliere gli appezzamenti perché non più coltivabili. Le polveri avevano avvelenato la terra e forse non solo: alcuni agricoltori si sono ammalati e sono morti di cancro. Coincidenza? Intanto a fine 2011 il rapporto “Revealing the costs of air pollution from industrial facilities in Europe” dell’Agenzia Europea per l’Ambiente catalogava i 20 impianti industriali più inquinanti, per emissioni atmosferiche: al 18esimo posto la centrale di Brindisi. Greenpeace fa di più: punta il dito accusando apertamente l’Enel di ‘omicidio colposo’. Secondo i dati diffusi dall’associazione ambientalista il carbone provocherebbe una morte al giorno: nel 2009 366 decessi prematuri e 1,8 miliardi di euro di danni economici, principalmente in capo agricolo. Ma Brindisi, che pure ha la maglia nera, non è l’unica e a Civitavecchia il sindaco Tidei tuona contro la centrale: “Mi auguro di poter firmare un’ordinanza e di disporre la chiusura di Torrevaldaliga nord entro agosto”. Il motivo: il troppo inquinamento. Ma la centrale a carbone è stata decisa da un accordo fra l’allora Ministero delle attività produttive, Comune e Regione perché si riconosceva nella riconversione un’occasione di “sviluppo occupazionale e di crescita economica e professionale per le maestranze, le imprese e le professionalità locali”. E ancora a tutela dell’ambiente un Osservatorio ad hoc, limite di emissioni stabilite preventivamente. Questo almeno sulla carta dove si trova la prima anomalia: il medesimo accordo stabilisce che l’Enel dovrà “contribuire alla gestione dell’Osservatorio attraverso l’erogazione di un contributo annuo pari alla somma di 1 milione di euro”. Il controllato paga i controllori. Non solo: gli fornisce anche gli strumenti! Cede infatti al Comune le centraline per il monitoraggio della qualità dell’aria. Il primo cittadino sembrerebbe voler prendere comunque una drastica decisione ma sul piatto della bilancia, come al solito, si trovano salute o lavoro. A Civitavecchia, come negli altri siti, l’industria incriminata ha creato occupazione sia per il suo funzionamento che l’indotto senza contare le interconnessioni che il colosso dell’energia ha creato nel tessuto economico e sociale. Difficile rinunciarci, impensabile quasi in tempo di crisi nonostante i dati epidemiologici della zona riportino un aumento di tumori polmonari così come i ricoveri ospedalieri per asma bronchiale. “La chiusura dell’Enel creerebbe sicuramente un problema. Ci sono più di 300 dipendenti e 6-700 persone che lavorano nell’indotto ma se le istituzioni avessero la schiena dritta potrebbero pretendere da Enel una riconversione in fonti energetiche rinnovabili o attività accessorie come la formazione di personale o centri di ricerca”. Questa l’opinione di Simona Ricotti, esponente dei No coke Alto Lazio e rappresentante del Forum Ambientalista. “Quando si stava decidendo sulla riconversione a carbone di Torrevaldaliga il tessuto sociale si è spaccato in due, si sono rotte amicizie, spezzate famiglie . Nei pro c’erano solo ed esclusivamente i lavoratori dell’Enel e dell’indotto e coloro che vivevano nel sottobosco dei finanziamenti Enel. Esiste una consapevolezza della classe politica che però non produce gli atti conseguenti perché c’è una sorta di collusione con l’azienda. L’Enel a Civitavecchia finanzia tutto: non c’è società sportiva o culturale che non prenda soldi dal colosso dell’energia, tutti in qualche maniera sono complici”. Anche se Simona Ricotti spera che dopo le dichiarazioni del sindaco Tidei “si vada fino in fondo e non si utilizzi questo disagio della popolazione per alzare il prezzo con l’Enel”. Delle vicende dell’Ilva non si stupisce: “Noi non ci siamo spaventati perché eravamo consapevoli di quello che succedeva a Taranto così come eravamo consapevoli di quello che stava accadendo a Brindisi. Noi avevamo consapevolezza che c’erano, a essere buoni, delle omissioni se non delle vere e proprie falsificazioni e siamo convinti che la stessa cosa stia succedendo a Civitavecchia. I dati epidemiologici già parlando di danni profondi nella salute della popolazione. A breve ci attendiamo i danni economici che già ci sono stati a Brindisi e a Taranto. Danni per esempio al patrimonio ittico di Civitavecchia dove sono stati trovati altissimi livelli di mercurio. Siamo consapevoli ed è questa la cosa che ci manda avanti da 10 anni a combattere contro questa centrale”.
Non solo Taranto. Le "altre" Ilva in Italia. Almeno 60 siti italiani nella lista dei 622 più “tossici” del continente. Il primato va alla centrale Enel di Brindisi. Queste sono le risultanze di un’inchiesta di Marino Petrelli pubblicata su “Panorama”. Taranto, ma non solo. Ci sono oltre 60 fabbriche italiane dove ci si ammala per l'inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali. Per un costo complessivo, per i cittadini europei, di quasi 169 miliardi annui. Lo stabilisce il rapporto 2011 dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) sull'inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali in Europa, secondo il quale nella lista dei 622 siti più “tossici” del continente, almeno 60 sono del nostro paese. Il triste primato non spetta all'Ilva di Taranto, ma alla centrale Enel termoelettrica a carbone “Federico II” a Cerano, pochi chilometri a sud di Brindisi, la seconda più grande del paese dopo quella di Civitavecchia. Come ha testimoniato Panorama.it, una lunga storia accompagna questa centrale che dista da Taranto non più di 70 chilometri. Dal 2007 ha emesso 14,2 tonnellate di Co2, almeno 3 volte tanto quello delle altre fabbriche, aggiudicandosi il ben poco invidiabile titolo di centrale più inquinante d'Italia. Secondo il rapporto dell'Agenzia europea per l'ambiente, da sola genera costi connessi ad inquinamento tra i 536 e i 707 milioni di euro l'anno. Nello stesso anno, l'allora sindaco Domenico Mennitti firmò un'ordinanza che vietava la coltivazione dei 400 ettari di terreno che circondano la centrale. Da allora i contadini chiedono a gran voce cosa abbia avvelenato i loro campi. E, forse, anche i loro polmoni. Alla fine hanno presentato un esposto, a partire dal quale la procura di Brindisi ha aperto un'inchiesta. Tra i quindici indagati, ci sono dirigenti Enel e imprenditori addetti al trasporto del carbone che alimenta la centrale, accusati di gettito pericoloso di cose, danneggiamento delle colture e insudiciamento delle abitazioni. Il processo partirà il prossimo 12 dicembre. La provincia di Brindisi ha annunciato che si costituirà parte civile e chiederà, secondo quanto apprende Panorama.it, un risarcimento di 500 milioni di euro relativamente ai danni di immagine, ambientali, alla salute, alla perdita di chance per il territorio e per altri eventuali e potenziali voci di danno patrimoniali e non subiti dalla provincia e dai cittadini. Una notizia che, da indiscrezioni raccolte in città, avrebbe lasciato stupiti i vertici di Enel che reputano la richiesta "infondata e inammissibile". In Italia ci sono 57 aree tossiche, pari a 298 comuni, i cosiddetti Sin (Siti di interesse nazionale) compresi nel “Programma nazionale di bonifica” e coincidenti con i maggiori agglomerati industriali nazionali. Siti “a rischio” come Taranto, sono da anni sotto la lente d'ingrandimento del ministero della Salute, per i problemi causati alla popolazione che vive nella zona. Ad esempio, in Sicilia, le aree intorno al petrolchimico di Gela, quello di Augusta e le raffinerie a Milazzo. Queste aree sono state dichiarate “a elevato rischio ambientale” da uno studio dell’Istituto superiore di sanità, che ha osservato un’alta incidenza di patologie tumorali sia negli uomini che nelle donne. I siciliani che lavorano o abitano attorno a questi stabilimenti industriali, secondo l'Iss, si ammalano soprattutto di “tumore maligno del colon retto, della laringe, della trachea, bronchi e polmoni”. È quello che denuncia anche il sindaco di Civitavecchia Pietro Tidei, che ha minacciato di far chiudere la centrale Enel a carbone di Torrevaldaliga Nord per l’inquinamento prodotto dai fumi. Bisogna scendere al 52 esimo posto per trovare gli stabilimenti dell’Ilva di Taranto, con l’emissione di 5.160.000 tonnellate di anidride carbonica all’anno e che ci costa dai 283 ai 463 milioni, circondati dalle raffinerie e dalle centrali termoelettriche di Eni, all’80esimo posto della lista Eea. Un po' più giù, al 69esimo posto a livello europeo, ma tra le prime in Italia, le “Raffinerie Sarde Saras” di Sarroch, in provincia di Cagliari, di proprietà della famiglia Moratti. La raffineria più grande d’Italia, con oltre 2200 lavoratori e una capacità di produzione di 15 milioni di tonnellate annue di petrolio, pari al 15% dell'intera capacità italiana di raffinazione. Anche qui la procura della Repubblica ha aperto un fascicolo sulla attività della Saras e sulle presunte conseguenze per la salute degli operai e degli abitanti di Sarroch. Nella raffineria nel maggio 2009 tre operai sono morti intossicati dall’azoto nel corso di una operazione di lavaggio di una cisterna, e quattro dirigenti sono stati rinviati a giudizio per non aver garantito agli operai le condizioni di sicurezza necessarie sul posto di lavoro. Nella nefasta classifica, seguono la centrale termoelettrica E.on di Fiume Santo, a Sassari, all'87esimo posto; l'impianto termoelettrico Enel di Fusina al 108esimo posto; la centrale di Vado Ligure di Tirreno Power al 118esimo posto. E ancora: la centrale di San Filippo del Mela al 128esimo posto, la raffineria Esso di Augusta, in Sicilia, al 145esimo posto, quella Eni di Sannazzaro de' Burgondi, Pavia, al 148esimo. Come detto, il costo complessivo a livello europeo si aggira sui 169 miliardi di euro. Per la precisione, a seconda delle metodologie adoperate per calcolare gli oneri che vengono esternalizzati dalle imprese sull'ambiente circostante, le emissioni di agenti inquinanti nel 2009, ultimo dato disponibile nella ricerca, pesavano tra i 102 e i 169 miliardi l'anno, ovvero dai 200 ai 330 euro a persona. Colpisce di più che ben il 50 per cento dei costi aggiuntivi, tra 51 e 85 miliardi, sono generati da soltanto 191 impianti. Si tratta del 2% del totale di quelli censiti, quelli più “sporchi” in assoluto. Il 75% del totale delle emissioni è prodotto invece da soli 622 siti industriali. A guidare la classifica sono le centrali termoelettriche, in particolare a carbone o a olio combustibile. Il discutibile primato di industria più inquinante in assoluto d'Europa se lo aggiudica la famigerata centrale elettrica di Belchatow, nei pressi di Lodz, in Polonia, un “mostro” alimentato a lignite da 5.000 Megawatt. Tra le prime venti troviamo anche la centrale di Brindisi. Il rapporto dell'Aea utilizza gli ufficialissimi dati del registro europeo delle emissioni (E-PRTR) che registra 10 mila impianti industriali e si basa su strumenti e metodi certificati. Le emissioni delle grandi centrali elettriche sono quelle più costose, tra 66 e 112 miliardi. In secondo luogo, i paesi dove i costi ambientali “nascosti” sono in assoluto più elevati sono quelli a storica vocazione industrializzata: Germania, Polonia, Gran Bretagna, Francia e Italia. Per l'Italia si stimano costi aggiuntivi tra gli 8 e i 12,2 miliardi. Rispetto alla grandezza delle economie, però, in testa ci sono i paesi dell'ex Europa socialista: Bulgaria, Romania, Estonia, Polonia e Repubblica Ceca. Il paese più virtuoso in assoluto è invece la Lettonia.
Non solo Taranto, ecco tutte le Ilva d’Italia, questa, invece è il reportage di Lidia Baratta su “L’Inkiesta”. Non solo Taranto, anche in altre zone d’Italia ci si ammala per l’inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali. In base al rapporto 2011 dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) sull'inquinamento degli stabilimenti industriali in Europa, più di 60 fabbriche italiane compaiono nella lista dei 622 siti più "tossici" del continente. E, a sorpresa, l’Ilva di Taranto del Gruppo Riva non è al primo posto tra le italiane. La maglia nera del sito più inquinante d’Italia (al 18esimo posto della lista Eea) se la aggiudica la centrale Enel termoelettrica a carbone Federico II di Cerano, in provincia di Brindisi. Non solo Taranto, anche in altre zone d’Italia ci si ammala per l’inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali. In base al rapporto 2011 dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) sull'inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali in Europa, più di 60 fabbriche italiane compaiono nella lista dei 622 siti più "tossici" del continente. E, a sorpresa, l’Ilva di Taranto del Gruppo Riva non è al primo posto tra le italiane. La maglia nera del sito più inquinante d’Italia (al 18esimo posto della lista Eea) se la aggiudica la centrale Enel termoelettrica a carbone Federico II di Cerano, in provincia di Brindisi, la seconda più grande del Paese dopo Civitavecchia. Qui, al confine con il Salento, dal 2007 il sindaco ha indetto una ordinanza che vieta la coltivazione dei 400 ettari di terreno che circondano la centrale. Da molti anni i contadini chiedono a gran voce cosa abbia avvelenato i loro campi. E forse, anche i loro polmoni. Alla fine hanno presentato un esposto, a partire dal quale la procura di Brindisi ha aperto una inchiesta. Tra i quindici indagati, ci sono dirigenti Enel e imprenditori addetti al trasporto del carbone che alimenta la centrale, accusati di gettito pericoloso di cose, danneggiamento delle colture e insudiciamento delle abitazioni. A contaminare i terreni, le colture, l’acqua e l’atmosfera, secondo la perizia affidata a Claudio Minoia, direttore del laboratorio di misure ambientali e tossicologiche della Fondazione Maugeri di Pavia, sarebbe la polvere del combustibile usato nella centrale. Stessa conclusione a cui è arrivato uno studio della Università del Salento e Arpa Puglia, che individua «la centrale Enel Federico II, con particolare riferimento alla gestione del carbonile» come «fonte potenziale più probabile delle emissioni». Il processo partirà il prossimo 12 dicembre e la provincia di Brindisi ha annunciato che si costituirà parte civile. Dopo Cerano, bisogna aspettare il 52esimo posto per trovare gli stabilimenti a rischio chiusura dell’Ilva di Taranto, con l’emissione di 5.160.000 tonnellate di anidride carbonica all’anno, circondati dalle raffinerie e dalle centrali termoelettriche di Eni (all’80esimo posto della lista Eea). Alla 69esima posizione compaiono le Raffinerie Sarde Saras di Sarroch, in provincia di Cagliari, di proprietà della famiglia Moratti. Si tratta della raffineria più grande d’Italia, con una capacità di produzione di 15 milioni di tonnellate annue di petrolio, ossia il 15% della capacità italiana di raffinazione. Una vera e propria città del petrolio addossata al paese di Sarroch, in cui molte case sono state costruite quasi a ridosso dei serbatoi. Anche qui la procura della Repubblica ha aperto un fascicolo sulla attività della Saras e sulle presunte conseguenze per la salute degli operai e degli abitanti di Sarroch. Nella raffineria nel maggio 2009 tre operai sono morti intossicati dall’azoto nel corso di una operazione di lavaggio di una cisterna, e quattro dirigenti sono stati rinviati a giudizio per non aver garantito agli operai le condizioni di sicurezza necessarie sul posto di lavoro. Non solo Saras. L'aria della Sardegna risulta altamente inquinata anche a causa della presenza della centrale termoelettrica E.on di Fiume Santo (Sassari), nell’area industriale di Porto Torres, e della centrale “Grazie Deledda” di Portoscuso, nel Sulcis. Rispettivamente all’87esimo e al 186esimo posto della classifica Eea. Il Sulcis, nell’area di Portovesme, è un bacino che accoglie aziende diverse, dalla produzione di alluminio (Alcoa, Eurallumina), bitume e polistirolo, al trattamento dei gas e alla gestione di rifiuti speciali e mercantili. E, ciliegina sulla torta, c'è anche una miniera di carbone (Carbosulcis spa). «Non ci possono essere corsie preferenziali per le bonifiche ambientali: Porto Torres e il Sulcis sono nelle stesse condizioni dell’Ilva di Taranto e devono essere immediatamente avviate», ha dichiarato il deputato Pdl Mauro Pili nei giorni scorsi. «Bisogna ricorrere anche qui alla magistratura, rischiando di far crollare tutto il sistema industriale sardo?», si chiedono in tanti sull’isola. Secondo il Wwf, nell’area industriale di Porto Torres «sono state scaricate acque reflue industriali in violazione dei limiti fissati dalla legge con conseguente inquinamento del suolo e immissione di sostanze cancerogene e altamente tossiche per l’ambiente e la fauna marini», generando «un gravissimo pericolo per la pubblica incolumità», con «l’incremento della mortalità per tumore polmonare, altre malattie respiratorie non tumorali, malformazioni alla nascita». In particolare, «nei pressi dell’insediamento petrolchimico è stata rinvenuta una lunga serie di contaminanti tra cui sostanze organiche clorurate, mercurio, solventi, diossine e pesticidi». E anche la salute del Sulcis sarebbe malata: secondo un dossier realizzato da TzdE “Energia e Ambiente”, solo nell’area di Portoscuso tra il 1997 e il 2003 siu sarebbe registrata un0incidenza del tumore ai polmoni superiore al 30% rispetto alla media regionale. Non si salva neanche l’altra isola, la Sicilia, con il polo petrolchimico di Gela, quello siracusano (Augusta-Priolo) e le raffinerie di Milazzo (Messina). Queste aree sono state dichiarate «a elevato rischio ambientale» da uno studio dell’Istituo superiore di sanità, che ha osservato un’alta incidenza di patologie tumorali sia negli uomini che nelle donne. I siciliani che lavorano o abitano attorno a questi stabilimenti industriali, secondo l'Iss, si ammalano soprattutto di «tumore maligno del colon retto, della laringe, della trachea, bronchi e polmoni». È quello che denuncia anche il sindaco di Civitavecchia Pietro Tidei, che ha minacciato di far chiudere la centrale Enel a carbone di Torrevaldaliga Nord per via dell’inquinamento prodotto dai fumi. «Questa mattina Civitavecchia sembrava la pianura padana e non per colpa della nebbia», ha dichiarato il primo cittadino nel corso della conferenza dei sindaci della Asl Rmf il 31 luglio scorso. «Quella polvere gialla che proviene dalla centrale Enel non possiamo più sopportarla». Ma Enel risponde che «tutti i controlli sulla funzionalità dei sistemi di monitoraggio delle emissioni sono stati effettuati da ditte specializzate, secondo le scadenze previste dall’autorizzazione integrata ambientale e sono state costantemente verificate dagli organi di controllo competenti». Altra regione in cui sono state individuate numerose aree ad alto rischio ambientale è il Veneto. L’impianto termoelettrico Enel di Fusina è alla posizione 108 delle fabbriche pericolose segnalate dalla Eea, mentre la raffineria di Venezia-Porto Marghera dell’Eni è al posto 403. Senza dimenticare che nell’area industriale c’è un piccolo impianto dell’Ilva con un centinaio di dipendenti che rischiano di stare a casa se gli impianti di Taranto venissero chiusi. Nel 1994 la magistratura avviò un'indagine per il disastro del polo industriale: 157 morti, 120 discariche abusive, 5 milioni di metri cubi rifiuti tossici. E anche qui ora i politici locali alzano la mano e chiedono che non si pensi solo a Taranto e all’Ilva. La differenza è che a Venezia ci sono stati i «risarcimenti» delle aziende che hanno versato quasi 500 milioni di euro per l'inquinamento prodotto, a Taranto invece per l'Ilva lo Stato stanzia direttamente quasi 360 milioni per bonificare e ridurre l'impatto ambientale dello stabilimento.
Ecco la mappa delle aree industriali inquinanti italiane segnalate dalla Agenzia europea per l'ambiente.
ECOLOGISMO ED AMBIENTALISMO: LA TRUFFA IN DANNO DELL’UMANITA’.
Un mondo pulito ma di morti di fame, scrive Franco Battaglia su “Il Giornale”. Mi ritrovai a dibattere con Pecoraro Scanio nel programma televisivo Otto-e-mezzo condotto su La7 da Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni. Non appena aprii bocca, il ministro, immemore di essere sventolatore di bandiere della pace e a dispetto della presenza in studio di una signora, andò in escandescenze, urlando come un forsennato e augurandomi, più o meno, di marcire tra le scorie radioattive. Avevo appena affermato che tra i grandi mali che ha dovuto subire l'umanità a causa di sè stessa - la schiavitù, il nazismo, il comunismo, il terrorismo - l'ambientalismo li superava tutti: più precisamente, dissi che l'ambientalismo è più pericoloso di comunismo + nazismo + terrorismo messi insieme. L'affermazione mi era (e mi è) talmente evidente che provai enorme meraviglia nell'apprendere che essa fu disapprovata da quasi tutti i miei amici e conoscenti che mi avevano seguito in trasmissione: «è stata una inopportuna provocazione», fu il commento più benevolo; ma mi è rimasto il dubbio se fu considerata «provocazione» perchè ritenuta falsa o perchè ritenuta vera, una di quelle verità che non sta bene dire, insomma. Pensate che un mio collega e amico mi invitò a tenere una conferenza pubblica all'università di Bologna - moderata dal grande Piero Angela - ma si fece promettere solennemente che non avrei ripetuto quella evidentemente indicibile frase. Io continuo a non capire come agli esperti di fotochimica dell'ateneo più antico del mondo si consenta di affermare pubblicamente che l'efficienza della trasformazione dell'energia solare in biomassa è «quasi del 100%», una palese menzogna visto che quell'efficienza è inferiore all'1%, mentre si vieti di affermare una palese verità come quella da me enunciata. Pur non capendo, mi adeguai e mantenni la promessa. L'occasione di tornare sull'argomento tabù me la fornisce niente meno che Vaclav Klaus, già primo ministro e poi presidente della Repubblica Ceca, valente economista, ottimo conoscitore della lingua italiana e ospite del presidente Napolitano. Orbene, nel presentare il suo ultimo libro - Modrà, nikoli zelenà planeta, di cui attendo con ansia un'edizione in una lingua a me nota (in italiano dovrebbe fare "Un pianeta blu, non verde") - il presidente Klaus ha dichiarato: «Il pericolo che sta correndo il nostro pianeta non è quello che viene dall'effetto serra, che è una colossale menzogna; il vero pericolo, e che ci viene dai Verdi e dalle loro menzogne, è la perdita della libertà. L'ambientalismo è potenzialmente più pericoloso del comunismo». La preoccupazione principale di Klaus è l'ineluttabile perdita di libertà che seguirebbe dall'affermazione delle tesi ambientaliste: ne leggeremo le argomentazioni nel suo libro, non appena disponibile. Per il momento, forte di questa illustre consonanza di pareri, consentitemi di condividere con voi le mie semplicistiche argomentazioni per ribattere a Pecoraro Scanio con quella frase tabù. Il ministro aveva affermato che, se dipendesse dai Verdi, le emissioni di anidride carbonica del mondo sarebbero, oggi, del 70% di meno. Vediamone le conseguenze. Siccome il 90% dell'energia che usiamo proviene dai combustibili fossili, e siccome l'80% dei costi di ciò che mangiamo sono, direttamente o indirettamente, costi energetici, allora, se dipendesse dai Verdi, la disponibilità di cibo del mondo sarebbe ridotta del 50%, come si calcola moltiplicando 70x90x80. Circostanza che, per noi, significherebbe saltare il pranzo e limitarsi alla colazione e alla cena; ma per un paio di miliardi della popolazione mondiale significherebbe passare dalla condizione di limite di sopravvivenza alla condizione di estinzione per fame. Che le cose stiano così, e a dispetto del fatto che vorrebbero farci credere di poter colmare con l'energia dal sole quel 70% (per ragioni tecniche l'energia dal sole non può colmare neanche il 10%), ne sono consapevoli anche i Verdi: fateci caso, ma sta infatti diffondendosi l'idea della «decrescita felice». Immagino che la felicità stia nel fatto di non essere tra quei 2 miliardi destinati a morire di fame.
E sempre Franco Battaglia su “Il Giornale” parla del grande bluff dell’energia solare. Credo di aver capito perchè Prodi e Padoa-Schioppa sono stati obbligati ad aumentare vieppiù le tasse: Alfonso Pecoraro Scanio si sarebbe messo in affari. Promuove egli la vendita di pannelli fotovoltaici (FV), che naturalmente - nonostante gli aiuti che, da quando ha in mano il potere di amministrare il nostro denaro, il ministro intende elargire - nessuno compra perchè, anche se fossero gratis, continuano a essere proibitivi: i soli costi di installazione e manutenzione non valgono, neanche impercettibilmente, il risparmio energetico che ne consegue. Il ministro s'è allora industriato e ha scritto a 8000 sindaci, suggerendo loro di installare i pannelli FV sugli edifici pubblici e avvertendo che se non lo fanno «spontaneamente» sarà il governo a imporre questa pazzia. Ed è una pazzia: installare tanti pannelli FV quanti ne occorrono per erogare 1 GW elettrico (il 2% del nostro fabbisogno) richiede una spesa di 50 miliardi, cui bisogna aggiungere, pronto ad avviarsi quando il sole non brilla, un impianto convenzionale di pari potenza (che costa mezzo miliardo se a gas, 1 miliardo se a carbone e 2 miliardi se nucleare). Se assumiamo che i pannelli FV mantengano immutata la loro efficienza per 30 generosi anni, il combustibile nucleare che si consumerebbe dopo 30 anni di esercizio di un reattore da 1 GW comporterebbe una spesa di meno di 1 miliardo. Insomma, per non spendere 3 miliardi Pecoraro Scanio e il governo tutto si apprestano a spenderne 52. Capiamo ora tutti perchè Prodi e Padoa-Schioppa ci obbligano a queste elevate tasse: dobbiamo tutti pagare molto affinchè i pochi amici di Pecoraro Scanio facciano i loro affari. Se uno - sfidando tutte le figure retoriche - provasse a chiedere ragione della pazzia, il ministro risponde candidamente che «quello del combustibile spento è un problema non risolto, le scorie nucleari sono pericolose per 100.000 anni, e sono minaccia di proliferazione e un obbiettivo dei terroristi». Almeno così ha dichiarato in un'intervista televisiva ad un giornalista di Repubblica, il quale palesemente non capiva un'acca ma si adeguava in tutto. Innanzitutto, cominciamo col dire che il combustibile nucleare spento non è un rifiuto: esso consiste per il 95% di uranio (l'elemento naturale di partenza) e per l'1% da plutonio, ed entrambi, se opportunamente riciclati, sono perfettamente utilizzabili come combustibile in reattori a ciclo chiuso. Il restante 4% è la componente energeticamente inutilizzabile: ma 3.5% contiene nuclidi che o sono stabili o dimezzano la loro attività ogni 24 ore, mentre 0.4% contiene nuclidi che dimezzano la propria attività in meno di 10 anni. Alla fine, del combustibile spento meno dello 0.1% (principalmente stronzio-90 e cesio 137) dimezza la propria attività in circa 30 anni. In definitiva, è solo la componente energeticamente inutilizzabile del combustibile nucleare che va trattata come rifiuto e tenuta sotto controllo come già si fa ora, e per soli 100 anni circa e non per i 100.000 fantasticati da Pecoraro Scanio: se l'energia elettrica che ciascuno di noi consuma fosse tutta da fonte nucleare, le scorie annualmente prodotte da ciascuno di noi occuperebbero il volume di una tazzina di caffè, sono perfettamente gestibili, e quelle esistenti in 60 anni di nucleare non hanno mai fatto male a nessuno. Secondo Pecoraro Scanio «i francesi usano il nucleare perchè hanno la bomba atomica». Già, e usano i coltelli perchè avevano la ghigliottina. Come le recenti cronache sull'Iran ci hanno informato, la verità è che è infinitamente più semplice ottenere il materiale esplosivo per una bomba da un impianto di arricchimento dell'uranio che non dal combustibile spento di un reattore commerciale. Nè è pensabile che i terroristi possano avere il minimo interesse verso il combustibile spento: hanno obiettivi ben più facili da colpire, come il triste 11 settembre ci ha insegnato. Piuttosto, potessimo mai persuaderli a sottrarlo dai luoghi ove è conservato, avremmo trovato il modo per sbarazzarci di costoro. Non c'è nulla di non risolto nel problema della gestione del combustibile spento. L'unico problema è avere dei politici che, magari a prezzo di una manciata di voti, acconsentano che gli ingegneri facciano il lavoro necessario per curarsi responsabilmente di quelli che impropriamente vengono chiamati rifiuti nucleari. Il precedente governo, con grande e non apprezzato senso di responsabilità, ci aveva provato. Questo governo, però, incapace di affrontare il problema anche dei rifiuti ordinari in Campania, può almeno vantarsi che nel paese di Pecoraro Scanio, in Campania, sono installati più tetti FV che in qualunque altra parte d'Italia.
L'ecologia, un disastro nato per colpa di una favoletta. L’inchiesta de “Il Giornale” apre nuovi scenari. Compie 50 anni la "bibbia" ambientalista. Raccontava di una città morta per colpa del Ddt. Ma era tutto inventato. Mentre i grandi leader del mondo si riuniscono invano a Rio per l’inutile ecosummit, ricorre il 50mo anniversario della Primavera Silenziosa, la Bibbia degli ambientalisti. Chi mi legge sa che io ritengo che l'ambientalismo - assieme a schiavitù, nazismo, comunismo, terrorismo - sia uno dei grandi mali che hanno afflitto l’umanità. Qualcuno dice che sono severo, qualcun altro taglia corto e dice che sono provocatore e bugiardo. Facciamo così: giudicate voi. È indubbio che l'ambientalismo è animato da, apparentemente e a parole, ottime intenzioni, come peraltro ottime furono, almeno a parole, le intenzioni di nazismo e comunismo. L'ottima intenzione dell'ambientalismo - di cui, peraltro, proprio i gerarchi nazisti furono ardenti seguaci - è salvare il pianeta. Da chi e/o da cosa? Da chi, dall'uomo stesso: siamo noi il cancro del pianeta e come ogni cancro va estirpato con la forza. Da cosa, da una pletora di pericoli che, però, sono per lo più fasulli. Porre in essere azioni per alleviare rischi inesistenti o, peggio, per ignorare, non affrontare (o, sempre peggio, aggravare) rischi reali, può avere conseguenze fatali e pandemiche. Rachel Carson aveva iniziato gli studi universitari di biologia e, coerente con una pratica che sarebbe diventata ricorrente tra gli ambientalisti, non riuscì a completarli fino al dottorato: conseguì solo un bachelor (l'equivalente della nostra odierna laurea triennale) e con diversi anni di ritardo rispetto ai coetanei. Fallita come scienziata, si dette alla divulgazione contro la scienza. Nel 1948 Paul Muller era stato premiato col Nobel per aver inventato la molecola del Ddt, cruciale per la lotta contro il tifo e la malaria. Nel 1948, nella sola isola di Ceylon (odierno Sri Lanka), si contarono 2 milioni di casi di malaria che, grazie al Ddt, poi benedetto da Winston Churchill come «polvere miracolosa», si ridussero a 31 casi nel 1962. E nel 1962 uscì Primavera Silenziosa. Nel cui primo capitolo la Carson si inventò di sana pianta una città così avvelenata dal Ddt che le primavere sarebbero appunto silenziose, a causa della morte di tutte le specie di insetti e uccelli che altrimenti allietano le orecchie di chi va per prati. La città naturalmente non esiste, ma lo stesso il Ddt fu bollato nel libro come «l'elisir della morte», mentre invece stava salvando milioni di vite umane. Cosa che continuò a fare fino a quando la campagna lanciata dalla Carson e urlata dai movimenti ambientalisti (che stavano al tempo nascendo) lo mise al bando, proibendone l'uso in tutto il mondo. La conseguenza fu (è) che milioni di persone hanno ripreso (stanno continuando) a morire per la malaria: da 650mila fino a due milioni l’anno. Il che dovrebbe già rendere giustizia del paragone con nazismo e comunismo. Nel caso non ne foste ancora convinti, continuate a leggere. Non contenti della strage della malaria, i Verdi del mondo sono impegnati in altre non meno imponenti. La lotta all'agricoltura con organismi geneticamente migliorati (Ogm) è una di queste. Vi sono nel mondo oltre un miliardo di persone che, essendo la loro unica fonte di nutrizione il riso (vegetale di propria natura privo di vitamina A), soffrono di un grave deficit alimentare, che nei casi più severi causa cecità o anche morte prematura. Se solo quelle persone potessero coltivare golden rice che, geneticamente migliorato, è ricco di beta-carotene (un precursore della vitamina A), il loro destino sarebbe meno miserabile. Ma non possono perché gli ambientalisti del mondo hanno dichiarato la guerra agli Ogm. Un'altra tanto tragica quanto ignorante lotta dei Verdi del mondo è quella per la riduzione delle emissioni di CO2. Dovete sapere che l'85% delle azioni che facciamo sfruttano energia prodotta con emissioni di CO2 (il restante 15% no, grazie a nucleare e idroelettrico) e che l'80% dei costi del cibo nel nostro piatto sono costi energetici: in pratica, la moderna agricoltura altro non è che la trasformazione di petrolio in cibo. Orbene, ridurre le emissioni di CO2 del 50% come prefigurano i Verdi (tra i quali brillano personaggi come Al Gore o il Principe Carlo d'Inghilterra), a noi farebbe saltare la cena, ma porterebbe centinaia di milioni di persone dalla condizione di morti-di-fame a quella di morti per fame. E ora il vostro severo verdetto: ditemi se è vero o no che l'ambientalismo ha o non ha fatto danni enormi, tali da farlo di diritto entrare nella classifica dei grandi mali del mondo. E ancora più danni potrebbe fare se i suoi insani propositi non saranno fermati.
Ma ci sono ecologisti ed ecologisti, ambientalisti ed ambientalisti. Lì dove la sinistra non impone la sua ideologia e religione. Di Paolo Bracalini su “Il Giornale” una dettagliata analisi. Bianchi, azzurri e neri: ecco gli "altri" verdi. Nucleare, biotecnologie, infrastrutture: il dibattito è aperto. Il punto di partenza è comune: non demonizzare lo sviluppo. Interpreti delle varie anime del centrodestra rifiutano il catastrofismo di sinistra. Sono isolati, spesso quasi invisibili all’opinione pubblica, politicamente inesistenti oppure subalterni a un partito. Ma c’è una vera galassia di associazioni, volontari, movimenti di verdi non-verdi, una variopinta gamma di ambientalisti-ecologisti che però con il catastrofismo delle organizzazioni ambientaliste classiche, ben più potenti, non hanno nulla a che spartire. Eccoli qui, dunque, gli ambientalisti di destra. In realtà, appunto, più che di un movimento organizzato si tratta di una galassia che al suo interno mostra spaccature, differenze, e un’incapacità cronica di darsi un indirizzo comune. Per dire, non c’è a destra niente di lontanamente paragonabile a una corazzata come Legambiente, o tantomeno un’associazione planetaria come il Wwf. Le riviste sono di ultranicchia, circoscritte ai volontari stessi. È un ambientalismo spesso legato a iniziative territoriali, ad azioni concrete, che in qualche modo paga il fatto di non avere un messaggio apocalittico da diffondere, nessun allarme per l’innalzamento dei mari, nessuna spettacolare sparizione di città sotto giganteschi tsunami, nessun ghiacciaio artico che si squaglia, nessun Al Gore come testimonial. Ma chi sono gli ambientalisti di destra? Si va dagli ex rautiani agli ecologisti nazionalisti, dagli ambientalisti legati ad An alle associazioni cattoliche (anche qui differenziate: cattolici di tradizione dc, Comunione e liberazione, francescani) alle organizzazioni verdi padane, agli ambientalisti liberisti, agli esperimenti di cooperative di agricoltori-ecologisti che contestano l’ecologia alla Pecoraro Scanio. Partendo idealmente dalla destra di questa galassia, troviamo il mensile di destra Area che ultimamente ha lanciato un manifesto per un nuovo «patriottismo ambientale». «Ha ancora senso oggi - scrive su Area Salvatore Santangelo - parlare di un nazionalismo verde inteso come amore per la propria terra e come determinazione a difenderla dall’inquinamento, dalla speculazione, dall’usura, dallo scatenamento delle logiche dell’utile». È un modo di guardare al rapporto uomo-ambiente che richiama la tradizione del Msi e che si ritrova infatti in «Fare verde», l’associazione ecologista nata nel 1987 in seno al Fronte della gioventù e che oggi conta sedi in tutta Italia. Nel retroterra culturale di questo ecologismo comunitario, antiprogressista e antiutilitarista, si mescolano la critica al denaro di Ezra Pound, una visione mitico-pagana della natura alla Tolkien, la lotta alla globalizzazione e alla tecnologia come strumenti di alienazione dell’uomo, la contestazione del modello capitalistico di sfruttamento delle risorse. Qualcosa che evidentemente li porta a convergere spesso con l’ambientalismo di estrema sinistra. «Ma non vogliamo essere definiti di destra - spiega Massimo De Maio, presidente di “Fare verde” -, perché sia la destra che la sinistra italiane ormai sono subordinate al consumismo e all’idea che la crescita della produzione e dei consumi sia la strada per il benessere. Questo è falso. Anche il nucleare è un errore». Diverso l’approccio di un’associazione ecologista espressione di Alleanza nazionale come «Ambiente e vita» il cui presidente è Altero Matteoli, ex ministro dell’Ambiente dal celebre motto: «Con me è nata l’ecologia di destra». Sempre nell’area di centrodestra si colloca «Fare ambiente», movimento ambientalista con 20mila iscritti nato nel 2006 nell’ambito universitario, il cui manifesto contesta «una metodologia anacronistica per tutelare l’ambiente e l’ecosistema». Ancora in questo spazio si trova «Viva», l’associazione di Paolo Togni, ex capo di gabinetto di Matteoli. Viva è impegnata soprattutto sul fronte educativo, con convegni, seminari e pubblicazioni per combattere quello che nel programma della Onlus viene definita «la micidiale combinazione tra conformismo e interessi dei poteri forti di settore» che impedisce un’informazione completa e corretta in campo ambientale. Condivide questa impostazione «Ambiente azzurro», associazione che propugna «una politica propositiva e non di veto per la tutela ambientale e lo sviluppo compatibile». Da non confondere con «Movimento azzurro», sempre di area centrodestra ma di tradizione cattolica, o meglio democristiana. «Associazione ambientalista d’ispirazione cristiana» nata nel 1987, «Movimento azzurro» è impegnata nella ricerca e nella diffusione di «una cultura dell’equilibrio tra natura e sviluppo». È esattamente questa parola, «sviluppo», la linea di frattura a destra fra ecologisti progressisti ed ecologisti antiprogressisti. L’area cattolica appartiene alla prima categoria, a partire da «Movimento azzurro» fino ai più combattivi «Cristiani per l’ambiente» (sigla che comprende 17 associazioni) fondata da Antonio Gaspari, giornalista, scrittore e direttore del Master in Scienze ambientali dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Qui c’è una visione completamente diversa della natura rispetto all’ambientalismo «pagano» della destra sociale. «Noi mettiamo al centro l’uomo, che non è in conflitto con l’ambiente, ma anzi è in grado di salvarlo. E lo sviluppo non è un male, ma la chiave del miglioramento perché è in grado di rendere più efficiente tutto il sistema». Quindi sì al nucleare, alle nuove infrastrutture, alle biotecnologie. «È una nuova ecologia umana», riassume Gaspari. Ancora in ambito cattolico c’è da segnalare Svipop (Sviluppo e popolazione), agenzia on line guidata da Roberto Cascioli; Sorella natura, fondazione ambientalista ispirata a San Francesco d’Assisi; e Umana dimora, associazione ecologista appartenente alla Compagnia delle opere (ovvero Cl); Forza verde, associazione cattolico-moderata. Ma al di là degli ambientalisti cattolici, di quelli della destra ex missina o di An, ci sono altre espressioni di una cultura ecologista alternativa. Una è l’Istituto Bruno Leoni che promuove il pensiero libertario e con il dipartimento Ambiente guidato da Carlo Stagnaro è impegnato su due fronti: la critica del catastrofismo verde e la promozione di un approccio realistico che vede nello sviluppo la chiave del rapporto con l’ambiente. O ancora la rivista XXI Secolo, nata negli anni ’90 «per contrastare l’ideologia ambientalista che ha chiuso il nucleare in Italia», spiega il fondatore Massimo Martelli, «ma non si può prescindere dalla questione energetica per lo sviluppo del Paese». Un’altra linea è quelle aperta dalla Federazione ambiente e agricoltura (Faa), associazione nata da un gruppo di rappresentanti del mondo rurale italiano nel 2007. Dopo oltre vent’anni, la politica ambientalista in Italia ha mostrato tutti i suoi possibili limiti. «L’ambientalismo in Italia - si legge nel programma della Faa - ha dimostrato di non comprendere innanzitutto le ragioni di agricoltori, allevatori, pescatori, cacciatori. Il nostro obiettivo è ridare all’ambiente e all’agricoltura il giusto valore all’interno della società, favorendo l’integrazione tra la civiltà rurale e quella urbana». I piccoli imprenditori legati alla Faa rappresentano la parte del mondo agricolo e produttivo, in particolare del Nord, che ha trovato una rappresentanza nel ministro leghista dell’Agricoltura Luca Zaia, come anche nel movimento Padaniambiente, sempre della Lega nord. L’ambientalismo leghista però, pur distanziandosi dall’ecologia alla maniera dei verdi, non ha contorni del tutto precisi e comprende una forte componente di rivendicazione identitaria e localistica che guarda con sospetto, per esempio, alle biotecnologie, alle tecnologie, e anche all’energia nucleare. Insomma una galassia turbolenta: ambientalisti padani d’accordo con l’ecologismo anti antropocentrico della destra sociale su nucleare e ogm, ma all’antitesi dei cattolici che invece mettono l’uomo e i suoi bisogni al centro della natura, come fanno gli ecologisti liberali, ma da un’angolazione laica. Come si diceva, nell’area culturale del centrodestra c’è una sensibilità ecologica che non ha una direzione precisa, unitaria, che è divisa - o profondamente contrapposta - tra nostalgie romantiche e ottimismo tecnologico, tra tradizionalismo bucolico e fiducia nella tecnica come mezzo per il miglioramento dell’uomo e del suo ambiente.
Da sempre gli ambientalisti e gli ecologisti ci propinano eventi catastrofici dovuta alla cattiva gestione del patrimonio naturale. Per loro la cementificazione, la deforestazione, ecc. ecc.. sono la causa dell’ “effetto serra”. Spesso una pianta, secondo la loro ideologia politica, che è anche confessione religiosa, ha più diritto di un essere umano. Questa diatriba ha fatto si che le posizioni fossero inconciliabili: da una parte gli speculatori edilizi hanno distrutto ambienti unici e da salvaguardare, dall’altra parte si è impedito il progresso sociale ed economico in territori arretrati, ovvero hanno divelto le fonti di ricchezza e di sostentamento. La mancanza di buon senso ha impedito la regolarizzazione dello sviluppo. Quindi in virtù degli estremismi e dei fondamentalismi siamo in presenza di luoghi deturpati ovvero sotto fruttati. Tralasciando l’invasione dei sistemi eco-mafiosi di energia alternativa (solare, fotovoltaica, eolica) che hanno soppiantato, sui terreni occupati, le culture autoctone su cui era poggiata l’economia locale.
Bene in risposta alle tante bugie che inondano i media ecco la sorpresa.
Il patrimonio forestale italiano è aumentato di circa 1,7 milioni di ettari negli ultimi 20 anni raggiungendo oltre 10 milioni e 400 mila ettari di superficie, con 12 miliardi di alberi che ricoprono oltre un terzo dell'intero territorio nazionale. A questi importanti dati si affiancano oggi i risultati dell'indagine sulla quantità di carbonio contenuto nei suoli forestali italiani. Tale attività, unica in Europa su così vasta scala, mette in evidenza come il suolo forestale svolga un ruolo fondamentale nello ''stoccaggio'' di carbonio organico, addirittura superiore a quello della parte epigea del bosco. La quantità di carbonio trattenuta nei tessuti, nei residui vegetali e nei suoli delle foreste, infatti, è pari a circa 1,2 miliardi di tonnellate di carbonio, corrispondenti a 4 miliardi di tonnellate di CO2. Il 58 per cento di tutto il carbonio forestale è contenuto nel suolo, mentre quello accumulato nella vegetazione arborea e arbustiva è il 38 per cento. Il restante 4 per cento è presente nella lettiera, nei residui vegetali e nel legno morto. In particolare, il carbonio contenuto nel suolo è di oltre 700 milioni di tonnellate. Tali risultati sottolineano l'importanza dei suoli forestali, non solo per la loro funzione di difesa idrogeologica, di conservazione e tutela della biodiversità e di base per la produzione di legname, ma anche per la mitigazione dei cambiamenti climatici in atto. Questi i principali risultati emersi dall'ultimo Inventario Nazionale delle foreste e dei serbatoi forestali di Carbonio (INFC) del Corpo forestale dello Stato, realizzato con la consulenza scientifica del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura - Unità di Ricerca per il Monitoraggio e la Pianificazione Forestale CRA-MPF di Trento e contenuti in un nuovo volume tematico. I dati sono stati presentati il 19 aprile 2012 a Roma alla presenza di Mario Catania, Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, Corrado Clini, Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Cesare Patrone, Capo del Corpo forestale dello Stato e Giuseppe Alonzo, Presidente del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura.
Le foreste italiane, come contenitori naturali di carbonio, svolgono un ruolo fondamentale nel raggiungimento dell'obiettivo fissato dal Protocollo di Kyoto, strumento operativo vincolante della Convenzione quadro sui cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (Unfccc), frutto della Conferenza sull'Ambiente di Rio de Janeiro del 1992. Lo scopo del Protocollo è quello di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra su scala globale al fine di contenere l'innalzamento della temperatura del pianeta e i relativi cambiamenti climatici in corso, determinati dall'aumento della concentrazione di tali gas. I boschi ricoprono un ruolo centrale come assorbitori e contenitori di anidride carbonica, che e' il principale gas ad effetto serra, e sono fondamentali nella mitigazione e nell'adattamento ai cambiamenti climatici in corso. Il Protocollo di Kyoto ha iniziato la sua attività operativa il 1 gennaio 2008 e terminerà il primo periodo d'impegno il 31 dicembre 2012. Attualmente l'Italia è vicina al raggiungimento dell'obiettivo fissato dagli accordi internazionali, in quanto si è avuta una riduzione delle emissioni totali dei gas serra del 5,4 per cento, a fronte di un impegno pari al 6,5 per cento. Un obiettivo che sarà possibile raggiungere anche grazie alle foreste che assumono in questo contesto un'importanza non solo ecologica ma anche economica. La componente di carbonio forestale calcolata dal Protocollo di Kyoto, infatti, è quantificata in circa 1-1,5 miliardi di euro per il periodo 2008-2012, che l'Italia risparmierà evitando le possibili sanzioni dovute al mancato raggiungimento dell'obiettivo fissato.
Ma la tutela del patrimonio ambientale non è "Cosa ambientalista".
''Nel nostro Paese le foreste descrivono una grande ricchezza di diversità biologica e con 12 miliardi di alberi oggi occupano quasi il 35 per cento della superficie territoriale. Ma questo non basta - spiega la Cia - Solamente attraverso una corretta gestione delle foreste è possibile garantire tutte le funzioni che queste svolgono. C'è necessità, insomma, di recuperare e di rafforzare la gestione e la manutenzione delle foreste, anche perché rappresentano una delle principali risorse per lo sviluppo delle aree rurali e montane e sono fonti straordinarie non solo di ossigeno, ma di occupazione, reddito e materie prime rinnovabili''. ''Un compito che sembra cucito addosso agli agricoltori, non solo perché circa il 40 per cento delle aziende del settore è interessato dai boschi, ma anche perché già oggi gli agricoltori sono in prima linea nella salvaguardia del patrimonio forestale del Paese, fungendo da 'guardiani' del territorio contro gli incendi e il degrado dei versanti e da 'custodi' delle tradizioni del mondo rurale - conclude - Di conseguenza si candidano naturalmente a essere parte attiva nella manutenzione delle foreste, e quindi del 'polmone verde' d'Italia''.
UNO STUDIO RIDIMENSIONA IL BENEFICO CONTRIBUTO DEGLI ALBERI NELLA RIDUZIONE DEI GAS SERRA
Chiamando in causa i microscopici organismi che popolano il suolo e la loro pericolosa produzione di gas. La capacità delle piante di catturare anidride carbonica dall’atmosfera è sempre stata considerata un’arma efficace contro il pericoloso aumento dei gas serra. Tuttavia lo studio pubblicato su Nature da Kees Jan van Groenigen (Trinity College di Dublino), Craig Osenberg (University of Florida) e Bruce Hungate (Northern Arizona University), sottolinea come si sia trascurata un’importante conseguenza. Una più intensa attività degli alberi e la conseguente maggiore crescita, infatti, sfociano inevitabilmente in una maggiore disponibilità di nutrienti per i microorganismi che popolano il suolo. Peccato che il metabolismo di questi ultimi produca metano e protossido d’azoto, due gas serra ben più dannosi dell’anidride carbonica. I dati raccolti dai ricercatori in 49 esperimenti condotti in Europa, Nord America e Asia su foreste, zone umide, praterie e campi coltivati – comprese le risaie – hanno mostrato che questa produzione supplementare di gas serra finisce col ridurre di almeno il 16% la mitigazione del riscaldamento globale esercitata dalle piante. Un risvolto inaspettato del quale i climatologi dovranno necessariamente tener conto nel rifinire i loro scenari.
ECOLOGIA, AMBIENTE E MEDIA: LOTTA DI PARTE E DI FACCIATA.
Gli allarmi pretestuosi pubblicizzati con l'ausilio del megafono della stampa di sinistra.
Proponiamo come esempio il filmato, trasmesso da Matrix diretto da Enrico Mentana. Il video è stato prodotto dall'emittente britannica Channel Four. L'impianto non ammette repliche, davanti alla telecamera sfilano una decina di esperti che dimostrano, dati alla mano, l'infondatezza dell'effetto serra. Il riscaldamento globale viene presentato come l'effetto dell'attività solare, gli ambientalisti come una lobby che affama le popolazioni africane in nome delle fonti rinnovabili e la CO2 (anidride carbonica) una conseguenza della temperatura che periodicamente si innalza nei secoli e nei millenni. Il fatto curioso è che mentre in Inghilterra la trasmissione del servizio ha provocato enormi polemiche, in Italia la cosa è passata del tutto inosservata, tanto quanto il fiasco del mega concerto mondiale Live Earth. Tutto questo lascia molte domande aperte.
E’ un curioso paradosso quello per cui la sinistra, nel corso degli ultimi decenni, è riuscita a impossessarsi della “questione ambientale”, e ha finito con l’incarnarne la sensibilità e i contenuti. Le istituzioni e le organizzazioni che si occupano di ambiente sono invariabilmente affiliate alla sinistra. Non v’è manifestazione, commemorazione, fiera, festa o evento di sinistra che non ospiti stand di ambientalisti, conservazionisti, ecologisti. La parola ambiente, in breve, ha finito col far rima con sinistra. E quando è invece accostata alla destra, produce uno iato assordante. Ciò ha prodotto due conseguenze. La prima è che l’ambientalismo è divenuto ostaggio dell’opposizione ideologica al capitalismo, allo sviluppo, e all’Occidente. Si è trasformato esso stesso in ideologia radicale, nel perenne tema di tutti i “movimenti” che contestano l’ordine globale, il capitalismo, la società occidentale - e come sempre in questi casi, l’America. Per un presupposto ideologico tout court: l’America è il simbolo del capitalismo; il capitalismo è contro la natura, ed è di destra; l’ambientalismo è soltanto di sinistra, e pertanto non può che essere anti-capitalista e anti-occidentale. Ma più stupefacente è la seconda conseguenza - che in realtà è al contempo causa. E’ stata la destra a legittimare una simile “appropriazione indebita” dell’ambientalismo da parte della sinistra.
Come? Disinteressandosi dell’ambiente, ostinandosi a difendere posizioni indifendibili - come il supporto senza se e senza ma per qualsiasi tipo di capitalismo, o la negazione testarda e incomprensibile della minaccia che i cambiamenti climatici rappresentano per il futuro del pianeta. Scegliendo, in sostanza, di accettare la vulgata per cui l’ambiente è davvero roba di sinistra. E iniziando a parlare il linguaggio che i suoi detrattori - fautori dell’ambientalismo esclusivamente di sinistra e anti-occidentale - le hanno attribuito, senza alcuna reale motivazione o giustificazione se non un’opposizione ideologica e una strategia politica: il linguaggio della derisione delle ragioni dell’ambientalismo. Così facendo, la destra ha però non soltanto rinnegato alcune tra le più importanti e ricorrenti radici della propria identità – che storicamente si è nutrita della passione per l’ambiente e della riscoperta della natura come fonte di un’idea sana e vigorosa del popolo e della “nazione” (persino troppa passione, divenuta estrema, talvolta). Ha anche commesso un imperdonabile errore politico, lasciandosi scippare l’ambiente e l’immenso capitale elettorale che esso, oggi più che mai, rappresenta. L’abbandono dell’ambiente è uno dei peccati capitali della destra contemporanea. Perché la obbliga a recitare - ovunque siano in gioco tematiche ambientali anche cruciali come i cambiamenti climatici - la parte arcigna e impopolare dello sviluppo a tutti i costi e della derisione dell’ambientalismo. E siccome oggi la sensibilità ambientalista è diffusa ed è divenuta un capitale politico, elettorale e sociale gigantesco, la sinistra continua, per inerzia, a mietere consensi e a perpetuare l’immagine negativa di una destra distruttiva e priva di scrupoli ecologisti. Ma invece di riconoscere il problema, e cercarvi una soluzione che sfrutti il capitale umano, sociale, finanziario ed economico che lo stesso capitalismo è in grado di creare - a dispetto della retorica no global e anti-occidentale - la destra si arrampica sugli specchi. Per negare legittimità alla scienza, che ormai unanimemente concorda sulla minaccia dei cambiamenti climatici, e per ignorarne le ripercussioni, che pure sono già sotto gli occhi di tutti i cittadini - dalle conseguenze profetiche dell’uragano Katrina all’emergenza idrica in mezzo mondo. Continua ad accusare gli esperti e gli scienziati di allarmismo, insincerità, propaganda. Si arrocca su posizioni insostenibili, e soprattutto non giustificate. Non giustificate, semplicemente perchè è un’illusione ottica e un vizio mentale quello per cui l’ambientalismo debba essere appannaggio della sinistra.
Deforestazione, crisi dell'acqua, esplosione demografica, inquinamento atmosferico, buco dell'ozono, esaurimento delle risorse, effetto serra... Gli SOS lanciati dalle organizzazioni ambientaliste profetizzano la fine prossima del pianeta. In questo libro gli autori intendono dimostrare, attraverso dati e casi concreti, che il solo scopo di queste organizzazioni è raccogliere fondi per operazioni demagogiche, ideologiche e politiche che nulla hanno a che fare con la salvaguardia della Terra. Tutte le bugie della religione ambientalista secondo Benedetta Bellin. Il novecento potrebbe essere descritto dagli storici del futuro come il secolo dei sacrifici umani. Questi non si sarebbero verificati soltanto per l’avvicendarsi di due guerre mondiali, ma anche per l’affermarsi di una ideologia che affondando le proprie radici nell’illuminismo e nel darwinismo, si impone a tutto l’Occidente, identificandosi nel sogno di una umanità sempre più perfetta e autodeterminata, libera dal bisogno di Dio.
L’ideologia in questione è quella che gli scienziati chiamano ecologia. Le bugie degli ambientalisti di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari, è un’opera che mina alla radice il pensiero ‘Eco’ svelando, attraverso delle attente analisi, le reali intenzioni dei movimenti ambientalisti celate dalla loro solo apparente innocenza. L’ecologismo ha la sua “Bibbia” in numerosi saggi: in particolare, gli autori ricordano "Primavera Silenziosa" del 1962, scritto da Rachel Carson, la biologa statunitense che in un’intervista alla CBS denunciava la grave situazione dei suoli agricoli infestati dai pesticidi con queste parole:“Man is a part of nature, and his war against nature is inevitably a war againgst himself” (L’uomo è parte della natura e combattere contro la natura è inevitabilmente una lotta contro se stesso). L’allarme della questione ambientale è stato fatto risuonare al mondo da una rapporto del Massachusset Institute of Technology (MIT) con il titolo di “Limits to growth” (Limiti alla crescita) nel 1972. Il principale pericolo secondo il pensiero ecologista è da rintracciare nella crescita demografica: il pianeta secondo le stime del MIT dovrà sopportare un carico demografico raddoppiato nel prossimo secolo con la conseguente sovrappopolazione e l’aumento di domanda di risorse alimentari e naturali. La crescita demografica e l’uso eccessivo di risorse accelerano il degrado delle risorse: la desertificazione, l’erosione dei suoli, il prosciugamento delle falde, sono dei funesti esempi. Il politologo Giovanni Sartori ne “La Terra scoppia: sovrappopolazione e sviluppo” (Rizzoli 2003), scrive:“Se la follia umana non troverà una pillola che possa curare, e se questa pillola non sarà vietata dai folli che ci vogliono in incessante moltiplicazione, il regno dell’uomo arriverà a malapena al 2100. Tra un secolo di questo passo, il pianeta Terra sarà mezzo morto e gli esseri umani anche”. Tuttavia, i sacrifici umani invocati dagli illustri campanelli d’allarme, possono essere facilmente raggiunti: l’eugenetica, la pratica dell’aborto e il movimento di estinzione umana volontaria, notano Cascioli e Gaspari, sono i cavalli di Troia dell’ideologia ecologista.
L’ipotesi ‘Gaia’ di James Lovelock ("Gaia: nuove idee sull’ecologia", Boringhieri, 1981) è poi l’emblema dell’ecologismo come ideologia che denigra l’uomo quale cancro del pianeta:“Gli uomini sulla terra si comportano come un organismo patogeno o cellule di un tumore o di una neoplasia. La specie umana è oggi talmente numerosa da costituire una grave malattia planetaria”. L’ecologismo, pertanto, spiegano i due autori, si pone come un ritorno al paganesimo che tende a idolatrare la Madre Terra, Gaia o Demetra e a sostituirla al Dio della tradizione giudaico-cristiana e alla visione antropocentrica della Bibbia, dove gli esseri umani sono al centro del mondo poiché considerati qualitativamente superiori ad altre forme naturali. Questa forma di religiosità primitiva ha un unico obiettivo di fondo: attaccare il cristianesimo e con esso il Vaticano. A coloro che sostengono siffatta ideologia e religiosità pagana, a coloro che ricercano un mondo nuovo à la Aldus Huxlev (1932), dove regna il controllo mondiale e la libertà è sostituita dalla stabilità, possiamo rispondere con le parole di G. K. Chesterton (1935):“Nei tempi in cui Huxley, Herbert, Spencer e gli agnostici vittoriani strombazzavano sulla famosa idea di Darwin quasi fosse una verità definitiva, sembrò a migliaia di persone semplici, praticamente impossibile che la religione potesse sopravvivere. Ironia della sorte fu che è sopravvissuta non solo a tutti costoro, ma che è la dimostrazione ideale (forse l’unica dimostrazione concreta) di ciò che chiamavano la sopravvivenza del più forte”.
Le bugie degli ambientalisti. Il catastrofismo è ormai il gusto corrente. Lo scienziato americano Gregory D. Foster in un articolo pubblicato sul World Watch Institute Magazine, rivista edita dall’omonima “multinazionale” ambientalista, dichiara che «i disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici minacciano il futuro dell’ umanità in misura enormemente più grave rispetto al terrorismo. Dal 1968 i gruppi eversivi hanno ucciso 24 mila persone, ogni anno invece ne muoiono 240 mila per i danni del clima». E la catastrofe è dietro l’angolo. Secondo Foster, l’attuale surriscaldamento del nostro pianeta sta provocando dei cambiamenti climatici che provocheranno, in una sorta di tragico effetto domino, «un mondo futuro di Stati in guerra tra loro per la sopravvivenza», una sorta di guerra planetaria che vedrà l’umanità scontrarsi militarmente per aver accesso alle derrate alimentari. E non finisce qui, se proprio qualcuno fosse sopravvissuto a tale babele, dovrà fare i conti con il riscaldamento della massa terrestre, che darà luogo a catastrofi ambientali sempre più frequenti e che saranno l’anticamera di una nuova era glaciale.
Chi inizia ad aver dubbi sulla fondatezza degli allarmi lanciati dalle major ambientaliste, può leggere un libro molto interessante, fuori dal coro, che parla di eco-ottimismo: “Le bugie degli ambientalisti 2”. I due autori, Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari, smontano, pezzo per pezzo, tutti i falsi allarmi a cui abbiamo dovuto dar ascolto in questi ultimi decenni. Tanto per gradire: è stato detto che la popolazione mondiale sta per raddoppiare e questo condurrà gran parte di noi ad una morte sicura per fame. In realtà non è possibile prevedere un contemporaneo aumento della popolazione e della mortalità. Tale concetto nasce da due processi contrari che non possono coesistere: aumento della popolazione non significa aumento della mortalità. La popolazione riesce a svilupparsi solo se le condizioni di vita e l’alimentazione lo permettono. E’ stato detto che ogni giorni scompaiono dalla faccia della terra 30 km di boschi, ma nel libro si legge che le rilevazioni satellitari hanno mostrato che dal 1982 al 1999 le aree boschive sono aumentate del 6%. E’ stato detto che questo benedetto riscaldamento della terra è causato dalle crescenti emissioni di CO2 prodotte dalle industrie, mentre è stato scientificamente dimostrato che l’uomo incide solo per il 4% sul totale delle emissioni. Il dato più importante che emerge dalla lettura del libro è quello rappresentato dallo stretto collegamento fra alcune associazioni ambientaliste e le società di eugenetica inglesi ed americane, finanziate da ricchi magnati, che cercano, in sostanza, di combattere la povertà eliminando (fisicamente) i poveri. A conferma di quanto detto ci sono tutte le battaglie finora promosse dalle più potenti associazioni ambientaliste del pianeta. L’opposizione agli OGM, i messaggi terroristici sul riscaldamento globale, la presunta sparizione delle foreste, la promozione delle “domeniche ecologiche” e delle targhe alterne, hanno come denominatore comune il voler dimostrare che la sovrappopolazione della terra mette a rischio la natura e quindi è necessario ricorrere a tecniche di riduzione delle nascite (da attuare, naturalmente, nei paesi poveri). L’ecologismo dunque diventa esso stesso una religione in cui viene eliminata ogni differenza ontologica tra uomini e altri esseri viventi. La stessa natura diventa una divinità: Gaia. Ed in nome di Gaia sacrificheremo l’uomo celebrando il trionfo del matrimonio di interessi fra Eugenetica ed Ecologismo sul modello di Sparta: loro rincorrevano la perfezione della razza eliminando i più deboli, noi proteggiamo la nostra terra eliminando le popolazioni povere.
“Le bugie degli ambientalisti” di Riccardo Cascioli, Antonio Gaspari. I falsi allarmismi dei movimenti ecologisti. Le bugie degli ambientalisti sono tali e tante che un libro non è bastato per smascherarle tutte. Si trova nelle librerie dopo il primo volume "Le bugie degli ambientalisti" 2. I falsi allarmismi dei movimenti ecologisti, il seguito del testo di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari pubblicato dalla casa editrice Piemme dedicato all'ideologia ecocatastrofista nelle sue varie espressioni. Molti sono gli spunti di riflessione contenuti in questo secondo volume, che esce proprio mentre a Nairobi un vertice mondiale discute di cambiamenti climatici e problemi ambientali e in concomitanza con la presentazione del rapporto 2006 dell'Undp, il Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, intitolato «Oltre la scarsità: potere, povertà e crisi globale dell'acqua».
È da segnalare in particolare la prima parte del saggio («Tutto ciò che dovreste sapere sulla natura»), in cui molto giustamente gli autori documentano e quantificano ciò che gli ecologisti, tesi soltanto a contenere l'impatto della presenza umana sul pianeta, di rado prendono in considerazione: vale a dire che la natura stessa, il pianeta e le specie animali e vegetali che ospita, consuma e inquina incidendo a sua volta sui tanto temibili cambiamenti climatici. Sul fronte dei consumi di energia e di risorse naturali, un singolo fulmine consuma energia elettrica quanto migliaia di famiglie e, secondo i calcoli degli scienziati, sulla terra ne cadono in media almeno 100 al secondo. Nel regno animale, poi, le formiche contendono il primato dei consumi alimentari all'elefante e alla balenottera azzurra, il più grande dei mammiferi, che divora quattro tonnellate di crostacei al giorno per tutti i 90 anni della sua vita. Le formiche Rufe, che vivono esclusivamente sulle Alpi, sono circa 300 miliardi sparse in un milione di nidi. L'entomologo italiano Mario Pavan, dell'Università degli Studi di Pavia, ha calcolato che ogni Rufa operaia mangia ogni giorno una quantità di cibo pari a un ventesimo del proprio peso, il che porta il consumo totale della popolazione di formiche Rufe alpine a circa 24.000 tonnellate di cibo all'anno.
A inquinare irreparabilmente l'atmosfera, invece, sono prima di tutto i vulcani; una eruzione di grandi dimensioni emette circa 17 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio (uno dei gas responsabili dell'effetto serra), pari a due volte e mezza l'emissione annua mondiale derivante dalle attività umane; da solo il Monte Pinatubo, nelle Filippine, nel 1991 ha inoltre emesso circa 30 milioni di tonnellate di biossido di zolfo, il gas principale responsabile del fenomeno delle piogge acide. Inquinano anche, soprattutto nei maggiori centri urbani, le piante, rilasciando dei composti volatili organici che causano, ad esempio, il 15% delle polveri sottili di Los Angeles e il 6% di quelle di Milano. I bovini addomesticati, da parte loro, emettono metano e protossido di azoto producendo con le loro «fermentazioni enteriche» quantità di gas serra che in Francia ammontano ogni anno a 26 milioni di tonnellate, mentre lo stoccaggio delle loro deiezioni ne libera altre 12 tonnellate. Per questo in Nuova Zelanda tre anni fa si erano proposte variazioni nella dieta delle mucche, al fine di ridurre i danni ambientali arrecati dai loro processi digestivi: un'idea abbandonata perché comportava l'assunzione di olio di fegato di merluzzo, che avrebbe dato alle bistecche e agli arrosti gusto di pesce. Nel 2000, invece, l'Unione Europea aveva preso in considerazione l'idea di introdurre una «tassa sulle mucche» per i Paesi prevalentemente agricoli, come ad esempio l'Irlanda; un progetto per ora accantonato.
Non stupirebbe allora se, prima o poi, in controtendenza con le strategie ambientaliste finora adottate, qualcuno proponesse di abbattere le piante urbane o, in alternativa, di tassare le amministrazioni comunali e i privati cittadini in ragione del verde di cui sono responsabili. Nella stessa logica, l'Italia potrebbe subire sanzioni e imposte per i suoi troppi vulcani attivi?
Dalle auto ibride alle foreste: i falsi miti degli ambientalisti. Inchiesta provocatoria dell'Indipendent che smonta molti dei dogmi degli ecologisti a cura di Valerio Gualerzi su “La Repubblica”. Per qualche ambientalista potrà avere lo stesso effetto che le celebri vignette danesi hanno scatenato tra i musulmani più intransigenti. L'Independent, quotidiano inglese di certo non sospettabile di antipatie ecologiste, ha pubblicato infatti uno speciale per smontare molti dogmi verdi. Le conclusioni sono tutto sommato opinabili e destinate a far discutere all'infinito, ma decisamente sorprendenti. Nel bene come nel male. Nella prima categoria rientra ad esempio il giudizio sulla Cina, vista da molti ambientalisti (sempre meno in realtà), come il "Grande Satana" dell'inquinamento. In realtà, sottolinea l'inchiesta del giornale britannico, Pechino sta infilando una lunga serie di mosse positive ed è in pole position per diventare il vero leader della rivoluzione energetica verde. ''La Cina - scrive l'Independent - è sulla via per divenire un'economia a bassa produzione di CO2'' e ormai le sue industrie non producono solo giocattoli e paccottaglia a basso prezzo, ma anche pannelli solari, turbine eoliche e batterie ricaricabili. Nella seconda categoria, ovvero tra i miti "salvifici" che gli ambientalisti farebbero bene a mettere in soffitta, secondo il quotidiano c'è invece l'auto ibrida. Protagonista degli ultimi saloni motoristici internazionali e grande speranza di un'industria alla disperata ricerca di una via d'uscita verde dalla crisi, le vetture a doppia alimentazione benzina/elettricità per il giornale britannico possono inquinare in realtà più di un vecchio diesel. Tra i miti da dissacrare il giornale segnala anche la tutela delle antiche foreste. Non che siano dannose ovviamente, ma il loro contributo nella lotta al riscaldamento globale va drasticamente ridimensionato. Gli alberi vecchi, sostiene l'Independent in uno dei passaggi più discutibili dell'inchiesta, non assorbono infatti CO2 come quelli giovani e quando muoiono liberano tutta l'anidride carbonica che hanno utilizzato. Per questo - è la provocatoria tesi del giornale - meglio abbatterli e farci sedie, scrivanie, costruzioni, risparmiando in materiali chimici equivalenti. Purché naturalmente si proceda a sostituirli con alberi nuovi che nei primi 55 ani di vita assorbiranno il maggior quantitativo di anidride carbonica.
Altro dogma messo a dura prova dall'inchiesta è quello del "buy local", ovvero della spesa a chilometri zero. Il conteggio delle emissioni prodotte per ogni chilo di alimenti, si sottolinea, non dipende infatti necessariamente dalla distanza rispetto a chi li consuma, ma dall'efficienza energetica con cui vengono prodotti e distribuiti. L'Independent sposa infine due soluzioni che per gli ambientalisti sono vere e proprie bestie nere: utilizzo degli ogm in agricoltura e ritorno al nucleare. I primi, afferma il giornale, possono dare un importante contributo nella lotta alla fame nel mondo, mentre l'energia dell'atomo produce solo il 5% delle emissioni di CO2 rispetto al gas e rappresenta una fonte alla quale non si può rinunciare.
I crediti da anidride carbonica renderebbero il WWF ed i suoi partner molto più ricchi, senza nessuna effettiva riduzione della CO2, afferma Christopher Booker del The Telegraph Se il più grande e ricco gruppo ambientalista, il WWF, annuncia di giocare un ruolo cardine nell'ambito della preservazione di un'area della foresta amazzonica grande il doppio della Svizzera, molti applaudono, pensando che ciò sia semplicemente una delle cause per le quali il WWF è stato fondato. Da molto tempo l'Amazzonia è in testa alla lista delle preoccupazioni ambientali mondiali, non solo perchè ovviamente ospita la foresta pluviale più vasta e ricca di biodiversità del mondo, ma anche perchè i suoi miliardi di alberi rappresentano il più grande deposito naturale di CO2. Quindi ogni minaccia alla foresta rappresenterebbe anche un contributo all'aumento del riscaldamento globale. E' emersa però un'agenda nascosta circa la preservazione di questa parte di foresta che consiste nel permettere al WWF ed ai suoi partners di condividere la vendita di crediti di emissione di anidride carbonica per un valore di 60 miliardi di dollari, per permettere alle compagnie industriali di continuare ad emettere CO2 esattamente come nel passato. L'idea alla base di ciò è che i crediti connessi alla CO2 immagazzinata in questa specifica parte di giungla - così fuori mano da non temere minacce immediate - potrebbero essere venduti sul mercato internazionale, in modo da permettere a migliaia di compagnie nel mondo sviluppato di compensare la restrizione all'emissione di anidride carbonica. L'effetto pratico sarebbe semplicemente quello di rendere il WWF ed i suoi partner molto più ricchi senza minimamente contribuire ad abbassare il livello globale delle emissioni di CO2.
Il WWF, che già guadagna 400 miliardi di Sterline annualmente, la maggior parte dei quali provenienti dai governi e dai contribuenti, è da molto tempo il cardine del dibattito sulle minacce alla foresta amazzonica, come si evince anche dall'entusiasmo ricevuto da un ben pubblicizzato passaggio nel rapporto del 2007 dell'IPCC. Comunque la dichiarazione, da parte dell'IPCC, che il 40% della foresta è minacciata dal riscaldamento globale, si è scoperto che non è basata su nessuna evidenza scientifica, ma semplicemente sulla propaganda del WWF, che ha pienamente distorto i risultati di uno studio preliminare sulle minacce poste alla foresta, non dai cambiamenti climatici bensì dal taglio del legname. Questa curiosa saga risale al 1997, quando il protocollo di Kyoto allestì quello che è noto come CDM, vale a dire il Meccanismo sullo Sviluppo Pulito. Questa misura permette alle compagnie basate nei paesi in via di sviluppo che dichiarino di aver ridotto le proprie emissioni di gas serra, di guadagnare miliardi di sterline vendendo le loro quote di emissioni nei paesi sviluppati che siano obbligati dal protocollo di Kyoto a tagliare le proprie emissioni. Nel 2001 i paesi aderenti al procollo hanno raggiunto un accordo in base al quale gli alberi nell'emisfero meridionale possono essere considerati come "depositi di anidride carbonica" a beneficio delle compagnie che emettono CO2 nell'emisfero settentrionale. Nel 2002, dopo una lunga negoziazione col WWF ed altre organizzazioni non governative, il governo brasiliano approntò il progetto Arpa (Aree protette della regione amazzonica), sostenuto da circa 80 miliardi di dollari di finanziamento. Di questi, 18 miliardi furono dati al WWF dalla fondazione americana Gordon & Betty Moore, 18 miliardi forniti dal governo brasiliano al partner locale del WWF e 30 miliardi dalla Banca Mondiale. Lo scopo era di far amministrare aree della foresta pluviale brasiliana dalle organizzazioni non governative, capeggiate dal WWF, per assicurare sia che fossero lasciate intatte oppure gestite in modo "sostenibile". Fra queste la parte più vasta era costituita da 31.000 miglia quadrate situate presso l'inaccessibile frontiera settentrionale del Brasile, metà della quale designata come Parco Nazionale di Tumucumaque, la più vasta riserva naturale del mondo, mentre l'altra metà da sottoporre a sviluppo sostenibile lasciandola fondamentalmente intatta. La zona interessata è talmente fuori mano da non temere minacce da parte di taglialegna, minatori o agricoltori. Giunti a questo punto, tutto ciò può apparire come appartenente al mono degli ideali. A dispetto dell'accordo internazionale circa il considerare le foreste come "depositi" naturali di anidride carbonica, non esisteva ancora un sistema per tramutare questa CO2 "risparmiata" in merce scambiabile. Nel 2007, comunque, il WWF ed i suoi alleati presso la Banca Mondiale lanciarono la Alleanza Globale sulle Foreste, con un finanziamento iniziale di 250 milioni di dollari da parte della Banca, per lavorare con quella che fu battezzata "deforestazione evitata". Ad una conferenza a Bali, sotto gli auspici della Convenzione sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCCC), che amministra il CDM (Meccanismo sullo Sviluppo Pulito), fu raggiunto un accordo su uno schema chiamato REDD (Riduzione delle emissioni da deforestazione nei paesi in via di sviluppo). Lanciata in grande stile come "la nuova grande idea per salvare il pianeta da un cambiamento climatico oramai fuori controllo", questa iniziativa istituì un fondo globale per salvare vaste aree di foresta pluviale dalla deforestazione che rappresenta circa un quinto delle emissioni di CO2 di origine antropica. Ma ancora non esisteva un meccanismo per tramutare tutta questa CO2 "risparmiata" in merce vendibile. Allora il WWF trovò un alleato chiave nel Centro di Ricerca Woods Hole, Massachusetts, da non confondere con il vicino Istituto Oceanografico Woods Hole, un ente scientifico in buona fede. Nel 2008, con un finanziamento di 7 milioni di dollari da parte della Fondazione Moore e lavorando in partenariato col Progetto Tumucumaque, il Woods Hole se ne uscì con l'idea che mancava: un modo cioè di valutare l'anidride carbonica immagazzinata nelle foreste pluviali protette del Brasile, per fare in modo che questa potesse essere scambiata sotto il meccanismo CDM. Il programma Arpa quindi calcolò in 5.1 miliardi di tonnellate questa anidride carbonica "risparmiata". Basato su una valutazione da parte dell'UNFCCC di 12,50 dollari a tonnellata di CO2, questo permetteva di considerare gli alberi delle aree protette brasiliane aventi un valore di oltre 60 miliardi di dollari. Sostenuto dalla Banca Mondiale, questo progetto fu presentato all'UNFCCC. Ma vi erano ancora due ostacoli da superare. Il primo era che lo schema doveva essere adottato come parte del REDD dalla Conferenza di Copenhagen 2009, che avrebbe dovuto dare vita ad un nuovo trattato in sostituzione di quello di Kyoto. Questo avrebbe permesso di monetizzare la CO2 brasiliana sotto lo schema CDM. Il secondo era che gli USA avrebbero dovuto adottare lo schema "cap and trade" per imporre un severo limite alle emissioni di CO2 da parte delle industrie americane. Questo avrebbe incrementato il mercato internazionale della CO2, facendo schizzare alle stelle i prezzi non appena le industrie americane si fossero accalcate per comprare i crediti che avrebbero permesso loro di continuare ad emettere la quantità di CO2 necessaria alla loro sopravvivenza. Per quel che è dato di sapere, però, la storia non è andata secondo quanto previsto. Nella baraonda di Copenhagen a dicembre 2009, tutto ciò che si è potuto salvare delle proposte del REDD è stata una dichiarazione di principio, con l'auspicio di raggiungere un consenso più ampio in Messico a fine 2010. Nella confusione di Copenhagen è andato anche perso il minuscolo intento che avrebbe garantiti i diritti delle popolazioni che vivono nelle foreste pluviali, il cui tenore di vita - con le preoccupazioni di gruppi come Survival International e il Forest Peoples Programme - è stato altrove già seriamente compromesso dagli schemi ispirati dal REDD, come ad esempio in Kenya e Papua Nuova Guinea. Un'altro evento che ha allarmato il WWF ed i suoi alleati, che stavano sperando di ricavare miliardi di dollari dalle foreste brasiliane, è stata la mancata approvazione del progetto di legge del Senato Usa sul "cap and trade", sponsorizzato dal presidente Obama. Poichè l'Unione Europea ha escluso dal proprio schema di "cap and trade" le foreste pluviali, prendere nella rete gli USA è vitale per le speranze del WWF di trovare "soldi che crescono sugli alberi". Intanto il prezzo dell'anidride carbonica presso la Chicago Climate Exchange è appena piombato al suo minimo storico dio sempre, vale a dire 10 centesimi di dollaro a tonnellata. Il sogno del WWF è stato ostacolato - ma anche la sola rivelazione che sia parte di una tale disegno può avere una influenza considerevole sulla percezione che il pubblico ha di quella che è la più ricca fra le organizzazioni ambientaliste.
PARLIAMO DELL’ITALIA DEI VELENI
Tutta la stampa e la tv ne parla..finalmente! A Taranto, per colpa dell'inquinamento, ci si ammala più di tumore di quanto su dovrebbe. Salgono il numero di malattie cardiovascolari per via del benzoapirene, prodotto quasi esclusivamente dall'Ilva. E sono segnalate anche anomalie nei tumori che colpiscono i bambini. Questi i risultati della perizia epidemiologica depositata dai tecnici esperti nominati dal gip di Taranto, Patrizia Todisco, davanti alla quale si è svolto l’incidente probatorio nell´inchiesta per disastro ambientale ai cinque vertici Ilva. L'indagine, affidata a tre specialisti, ha accertato l'esistenza di una possibile connessione tra le malattie, le morti causate da tumori e l'inquinamento prodotto dalle emissioni dagli impianti industriali dell'Ilva. E' la seconda parte della maxi-indagine: la prima, svolta dai chimici, ha già accertato la pericolosità delle sostanze inquinanti per la salute di lavoratori e cittadini di Taranto. Oltre 500 pagine per mettere nero su bianco che dall'Ilva di Taranto vengono emesse in atmosfera sostanze come diossine e Pcb, pericolose per i lavoratori e la popolazione. E' la prima verità sull'inquinamento a Taranto, dove è stata depositata la relazione dei periti chimici che costituisce la prima parte della maxi perizia sull'Ilva, disposta nell'ambito di un incidente probatorio, che dovrà accertare se le emissioni di fumi e polveri dallo stabilimento siderurgico siano nocive alla salute umana nell'inchiesta al maxi colosso. I documenti sono ora al vaglio del gip Patrizia Todisco, che ha nominato gli esperti e disposto l'accertamento peritale durato oltre un anno. Ad essere indagati sono Emilio Riva, presidente dell'Ilva spa sino al 19 maggio 2010, Nicola Riva presidente dell'Ilva dal 20 maggio 2010, Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento Ilva, Ivan Di Maggio, dirigente capo area del reparto cokerie, Angelo Cavallo, capo area del reparto Agglomerato. Le accuse sono disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico. "L'esposizione continuata agli inquinanti dell'atmosfera emessi dall'impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell'organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte". E' quanto sostengono i periti Annibale Biggeri, docente ordinario all'università di Firenze e direttore del centro per lo studio e la prevenzione oncologica, Maria Triassi, direttore di struttura complessa dell'area funzionale di igiene e sicurezza degli ambienti di lavoro ed epidemiologia applicata dell'azienda ospedaliera universitaria Federico II di Napoli, e Francesco Forastiere, direttore del dipartimento di Epidemiologia dell'Asl di Roma. I periti sono stati incaricati dal gip Todisco nell'ambito dell'incidente probatorio sull'llva chiesto dal procuratore capo Franco Sebastio, dall'aggiunto Pietro Argentino e dal sostituto Mariano Buccoliero. "Nei sette anni considerati, per Taranto nel suo complesso, si stimano 83 decessi attribuibili ai superamenti del limite Oms di 20 microgrammi al metro cubo per la concentrazione annuale media di Pm10. Nei sette anni considerati per i quartieri Borgo e Tamburi - rilevano ancora i periti - si stimano 91 decessi attribuibili ai superamenti Oms di 20 microgrammi al metro cubo per la concentrazione annuale media di PM10". E ancora nei sette anni considerati per Taranto "si stimano - sempre secondo la perizia - 193 ricoveri per malattie cardiache attribuibili ai superamenti del limite Oms di 20 microgrammi al metro cubo per la media annuale delle concentrazioni di Pm10 e 455 ricoveri per malattie respiratorie". Le emissioni dello stabilimento Ilva causano malattie e 90 morti l’anno nella popolazione di Taranto. È quanto hanno stabilito i medici nominati dal gip Patrizia Todisco nella perizia epidemiologica per comprendere lo stato di salute dei tarantini in relazione agli inquinanti emessi dallo stabilimento siderurgico. Nelle 282 pagine che compongono il documento depositato, Annibale Biggeri, Maria Triassi e Francesco Forastiere, hanno risposto ai tre quesiti posti dal giudice. Su richiesta del pool di inquirenti, il gip ha infatti chiesto ai tre esperti di individuare le patologie derivanti dall’esposizione agli inquinati emessi dallo stabilimento industriale, il numero dei morti e degli ammalati attribuibili all’inquinamento prodotto dagli impianti di proprietà del gruppo Riva. A Taranto, secondo i periti, tra il 2004 e il 2010 vi sarebbero stati mediamente 83 morti all’anno attribuibili ai superamenti di polveri sottili nell’aria, mentre i ricoveri per cause cardio-respiratorie ammonterebbero a 648 all’anno. La media dei decessi sale però fino a 91 se si prendono in considerazione i quartieri Tamburi e Borgo, geograficamente più vicini alla fabbrica. “L’analisi per i quartieri Borgo e Tamburi – scrivono i periti – mostra che, nonostante la ridotta numerosità, una forte associazione tra inquinamento dell’aria ed eventi sanitari è osservabile e documentabile solo per questa popolazione”. Ironia della sorte però, il record per i decessi e ricoveri per malattie croniche spetta al quartiere Paolo VI, il rione costruito proprio per ospitare, dopo la nascita del polo siderurgico negli anni ’60, i nuovi cittadini di Taranto: coloro cioè che dalle campagne della provincia si trasferirono in città per diventare operai. A Paolo VI, infatti, vi è una percentuale maggiore rispetto alla media complessiva della città e i decessi dovuti a malattie dell’apparato respiratorio sono addirittura superiori del 64%. Ma non è solo la lunga esposizione a creare danni secondo i periti. Nei bambini e negli adolescenti fino a 14 anni, i periti hanno infatti accertato “un effetto statisticamente significativo per i ricoveri ospedalieri per cause respiratorie” e un’elevata presenza di tumori in età pediatrica. La situazione peggiore è quella che riguarda gli ex operai dello stabilimento siderurgico. L’analisi “dei lavoratori che hanno prestato servizio presso l’impianto siderurgico negli anni ’70-’90 – allora Italsider acquisita Gruppo Riva nel 1995 e denominata Ilva, ndr – con la qualifica di operaio ha mostrato un eccesso di mortalità per patologia tumorale (+11%), in particolare per tumore dello stomaco (+107), della pleura (+71%), della prostata (+50) e della vescica (+69%). Tra le malattie non tumorali sono risultate in eccesso le malattie neurologiche (+64%) e le malattie cardiache (+14%). I lavoratori con la qualifica di impiegato hanno presentato eccessi di mortalità per tumore della pleura (+135%) e dell’encefalo (+111%). Il quadro di compromissione dello stato di salute degli operai della industria siderurgica è confermato dall’analisi dei ricoveri ospedalieri con eccessi di ricoveri per cause tumorali, cardiovascolari e respiratorie”. Dopo la prima relazione sulle condizioni ambientali della città, questo nuovo documento, contribuisce a fare chiarezza sui danni causati dalle emissioni inquinanti.
Gli esiliati di Cerano. Da cinque anni non possono più coltivare le loro terre che si trovano ridosso della più grande centrale termoelettrica a carbone d'Italia, in provincia di Brindisi. L'Enel, proprietaria del sito, si difende: 'nessuna violazione di legge'. Intanto offre sei milioni di euro come contributo agli agricoltori. Ne parla l’inchiesta di “La Repubblica”. Il Reportage di Sonia Gioia. Coltivazioni proibite vicino alla centrale. L'ombra del carbone sui terreni contaminati. Quattrocento ettari avvelenati da arsenico, berillio e altri metalli pesanti. Sono le aree agricole a ridosso della grande centrale termoelettrica Federico II di Cerano, a pochi chilometri da Brindisi. Ora un'inchiesta della procura salentina cerca di accertare la responsabilità dell'impianto nell'inquinamento delle terre. La perizia disposta dai pm non lascia dubbi: "E' la principale via di contaminazione". Ma uno studio commissionato dall'Enel, proprietaria del sito, parla di "origine naturale". Polvere di carbone sui campi di Cerano. Polvere nera sulle mani, nelle case, sui panni stesi ad asciugare. Polvere nera sui campi fertili, coltivati un tempo a vite, carciofi, ulivi, che una volta davano da mangiare ai contadini e ai loro padri. Carbone forse anche nel sangue. Negli oltre quattrocento ettari di terre all'ombra della centrale Federico II di Cerano non si può più coltivare ormai da cinque anni per effetto di una ordinanza che ha intimato la distruzione dei frutti dei quali è disposto il divieto assoluto di commercializzazione. Ma anche l'esilio coatto degli oltre sessanta agricoltori che su quei campi non possono lavorare più di 180 giorni all'anno, pena il rischio di contaminazione da arsenico, berillio, vanadio, metalli pesanti dall'alto potenziale tossico rilevati in quantità superiori alle soglie considerate non pericolose per la salute. Come se per tenere in vita la terra bastassero cure a intermittenza. Da un lustro i contadini di Cerano chiedono di sapere cosa abbia avvelenato i campi e forse loro stessi. Lo hanno chiesto tramite un esposto indirizzato alla procura di Brindisi dalla quale è scaturita una inchiesta che solo oggi giunge al capolinea. Il pubblico ministero Giuseppe De Nozza ha notificato di recente l'avviso di conclusione delle indagini a carico dei quindici indagati, fra dirigenti Enel e imprenditori addetti al trasporto del carbone che alimenta la centrale, accusati di getto pericoloso di cose, danneggiamento delle colture e insudiciamento delle abitazioni. Sono le accuse che gravano tra gli altri sul direttore della centrale, i responsabili dell'area Ambiente e dell'impianto trasportatore. L'azienda, contattata da Repubblica, non rilascia dichiarazioni, ma in una nota si dice fiduciosa: "In merito alla decisione della Procura di Brindisi, Enel - si legge - nella piena convinzione di aver sempre operato nel rispetto delle leggi e nell'interesse della collettività, attende con fiducia i successivi sviluppi". Le conclusioni del pubblico ministero poggiano su quelle del perito al quale è stato chiesto di verificare se è vero oppure no che quella polvere nera sia polvere di carbone. Nessun dubbio per il consulente tecnico della procura Claudio Minoia, direttore del laboratorio di misure ambientali e tossicologiche della Fondazione Maugeri di Pavia, nonché responsabile della scuola di specializzazione in Medicina del Lavoro dell'ateneo pavese: la fonte di contaminazione di terreni, colture, falda acquifera e atmosfera è la centrale termoelettrica, non i camini delle villette come pure qualcuno ha sostenuto, né il traffico automobilistico. E' il vento che solleva il pulviscolo dal deposito (scoperto) del combustibile, ammantando le colture: "Il consulente tecnico ritiene - scrive Minoia - che in aree prospicienti la centrale Federico II ubicata a Cerano si siano determinate, anche se non con carattere di continuità ma piuttosto come diretta conseguenza di fenomeni eolici, dispersioni significative di polveri di carbone dal deposito carbonile. Questa ha sicuramente rappresentato la principale via di contaminazione delle aree prospicienti". E' esattamente quello che aveva sostenuto la Asl di Brindisi nel 2007, in una nota propedeutica al divieto di coltivazione emanato dal sindaco, avvertendo dei pericoli per la salute se ortaggi, frutta e polveri fossero arrivati dai campi alle tavole dei brindisini: "...è più che ragionevole sospettare la possibilità che le sostanze chimiche riscontrate possono entrare nel ciclo biologico di produzione sia vegetale che animale e, conseguentemente, passare nella catena alimentare con grave rischio per la salute dei consumatori". Le stesse conclusioni a cui giunge l'equipe di ricercatori ai quali nel 2009 il Comune di Brindisi aveva commissionato un'analisi di rischio, effettuata dall'Università del Salento e Arpa Puglia. Le analisi su prelievi e campionamenti rilevano la presenza di metalli pesanti nell'area, stigmatizzando come pericolosa per la salute dei coltivatori l'esposizione superiore ai sei mesi all'anno. Lo studio conclude individuando come "fonte potenziale più probabile" delle emissioni "la centrale Enel Federico II, con particolare riferimento alla gestione del carbonile". Nello stesso anno, un dossier divulgato da Medicina democratica avverte: "L'emissione di anidride carbonica è quindici volte superiore alla soglia nella centrale di Cerano. L'arsenico, il cadmio, il cromo, gli idrocarburi policiclici aromatici e il benzene, tutti cancerogeni in grado di provocare diversi tipi di tumori, superano abbondantemente la soglia". A tutt'altre deduzioni giunge invece uno studio commissionato da Enel all'istituto di ricerca Erm (Environmental resources management spa), sempre nel 2009, secondo cui "le concentrazioni rilevate sono di origine naturale". "Lo studio ha dimostrato - scrivono i ricercatori Erm - che la concentrazione dei metalli nei terreni non è riconducibile ad alcuna sorgente puntuale e/o specifica attiva, nel presente e/o nel passato, sull'area di interesse. Tale concentrazione è invece riconducibile a quanto viene universalmente riconosciuto, anche da Apat, come valore di fondo o fondo naturale". Nessuna relazione, dunque, fra la mole della centrale elettrica, il deposito-carbonile scoperto e la dispersione di polveri di carbone su carciofeti e vigneti andati distrutti. Le conclusioni di Erm vengono supportate e avvalorate da tre docenti di altrettanti atenei italiani, Giacomo Lorenzini dell'Università di Pisa, Pierluigi Giacomello dell'Università di Roma e Luigi De Bellis, a capo del dipartimento di scienze e tecnologie biologiche e ambientali dell'Università del Salento. Strano caso: l'università del Salento giunge dunque sul tema a esiti del tutto in antitesi. Anzi, è dalla stessa cattedra di Fisiologia vegetale dell'ateneo leccese che arrivano conclusioni opposte. Nello studio Erm-Enel il professore titolare del corso, Luigi De Bellis, dice che no, il livello di contaminazione da arsenico è del tutto nella norma. Nell'analisi di rischio condotta insieme ad Arpa, la stessa cattedra (sulla carta, altro ricercatore) dice che la quantità di arsenico è al limite del livello di guardia e che prudente per la salute dei lavoratori agricoli sarebbe non esporsi più di sei mesi all'anno. Una delle incognite alle quali dovrà rispondere il processo che verrà. Quel che è certo è che, nel frattempo, al danno si è aggiunta la beffa. Nel giugno del 2009 Enel ricorre al Tar, per scongiurare la pioggia di richieste risarcitorie provenienti dagli agricoltori, sostenendo la illegittimità della ordinanza, fondata su termini "possibilistici ed eventuali" di nessuna evidenza scientifica. La magistratura amministrativa dà ragione al colosso energetico per una ragione su tutte: l'analisi di rischio commissionata ad Arpa e Università del Salento è stata condotta in ritardo, due anni dopo l'emanazione della ordinanza sindacale, il percorso avrebbe dovuto essere esattamente contrario. Potenzialmente insomma, nei terreni di Cerano oggi si potrebbe coltivare, ma se lo fai la Asl ti trascina in tribunale, come è successo a uno degli agricoltori. Uno di quelli che si sono rifiutati di accettare soldi dal colosso energetico in cambio della rinuncia all'azione penale. Il punto resta un altro. I prodotti della terra maledetta non li vuole più nessuno, e i contadini stessi su quei campi hanno paura di lavorare, per timore di morire avvelenati dal cancro. Psicosi. Forse. L'ateneo del Salento, chiamato in causa da entrambe le parti, giunge attraverso due studi a conclusioni diverse. Il responsabile della relazione commissionata dall'Enel, Luigi De Bellis: "Valutazioni effettuate in tempi e con scopi differenti". Uno l'ateneo, due le conclusioni, sebbene il quesito a monte fosse lo stesso, ossia se i terreni di Cerano siano inquinati oppure no. La cattedra di Fisiologia vegetale dell'Università del Salento giunge sul medesimo tema a conclusioni in antitesi: nello studio commissionato ad Erm (l' Environmental Resources Management) da Enel il professore titolare del corso, Luigi De Bellis, dice che no, il livello di contaminazione da arsenico è del tutto nella norma. Nell'analisi di rischio condotta insieme ad Arpa, la stessa cattedra dice che la quantità di arsenico è al limite del livello di guardia e che prudente per la salute dei lavoratori agricoli sarebbe non esporsi più di sei mesi all'anno. "La contraddizione è solo apparente", spiega De Bellis, "allo studio dell'Università del Salento essendo in quel periodo consulente Enel, non ho partecipato, come facilmente verificabile da frontespizio del documento". Le conclusioni discordanti insomma, sarebbero secondo il docente "relative a due studi che non solo sono stati realizzati in tempi diversi e con presupposti e scopi differenti ma che, in particolare quello dell'Università del Salento, per ragioni varie, non hanno incluso o considerato il quadro di insieme costituito dai molti dati raccolti negli anni precedenti da altre fonti, ovvero studi realizzati da gruppi indipendenti e indipendentemente dall'esistenza e dalla attività della Centrale di Cerano". De Bellis rivendica la attendibilità delle conclusioni dello studio Erm che "erano e sono in perfetto accordo con le analisi effettuate da Sviluppo Italia nel 2005-2006, le quali hanno rivelato che metalli pesanti (in particolare arsenico) sono presenti a concentrazioni superiori ai valori soglia per i Siti ad uso verde pubblico, privato e residenziale (mentre non sono ancora stati definiti i valori soglia per i terreni agricoli) nei terreni limitrofi al nastro trasportatore di Cerano. Da notare che l'uso dei valori soglia relativi a siti ad uso verde pubblico è inappropriato per i terreni agricoli. Questo problema è ben noto nel mondo scientifico tanto che presso il Ministero delle Risorse Agricole è al lavoro, da anni, una commissione che ha il compito di definire una tabella specifica per i terreni agricoli". La cartina al tornasole dell'attendibilità delle conclusioni di Erm, secondo De Bellis sta anche nel fatto che le stesse analisi "rilevano generalmente concentrazioni di metalli pesanti più elevate in profondità (come indicato nella relazione di Sviluppo Italia un "incremento della diffusione della contaminazione da arsenico con l'aumentare della Profondità") cosa ben difficile da spiegare ipotizzando che la fonte di inquinamento sia polvere di carbone proveniente dal carbonile; se la fonte fosse il carbonile avremmo necessariamente maggiori concentrazioni in superficie". Le varie tipologie di carbone utilizzato da Enel secondo Erm ma anche secondo Luigi De Bellis mostrano un contenuto percentuale in metalli pesanti inferiore ai valori riscontrati nel terreno, "gli altri contaminanti organici presenti (pesticidi ed idrocarburi) nei terreni dell'area Cerano non hanno alcuna relazione con il carbone e, con la loro presenza, indicano che esiste (o è esistita) una diversa fonte inquinante". Per concludere il professore rivendica il diritto alle divergenze nel mondo accademico e scientifico, e arriva a scomodare Galileo: "Almeno nell'Università non esistono posizioni "uniche" ed ancora rimane la possibilità di dissentire. Infatti, nel mondo scientifico le varie tesi vengono messe in discussione in funzione di argomenti logici e scientifici con arbitri indipendenti che stabiliscono quale sia la migliore. Ma l'ipotesi che raccoglie la maggioranza dei pareri positivi non sempre è quella giusta (Galileo insegna), perché a volte gli arbitri non sono indipendenti o perché per ragioni varie omettono di considerare alcuni degli aspetti della questione". Sei milioni di euro dividono i contadini. E arriva Zamparini con i pannelli solari. Per scongiurare eventuali azioni penali degli agricoltori l'Enel ha offerto una somma per la riconversione produttiva dell'area. Ma le associazioni sono divise sulla firma dell'accordo. Intanto si è fatto avanti il patron del Palermo che punta a utilizzare i campi 'contestati' per installare un grande impianto fotovoltaico. "Nessuna responsabilità sulla presunta contaminazione dei terreni a Cerano", sul punto l'Enel non ammette repliche. E' dunque per "puro spirito di liberalità" che la società offre agli agricoltori (ma soprattutto a sindacati, associazioni di rappresentanza degli stessi oltre che al Comune di Brindisi), una somma pari a 6.100.000 euro per la riconversione produttiva dell'area. Riconversione produttiva che non sta per "risarcimento", attenzione. La parola va considerata tra quelle proibite. La cifra vale come un cadeux milionario che servirà in buona parte per la piantumazione di una barriera arborea, una muraglia verde che intrappoli il pulviscolo nero di carbone, dietro la quale eclissare centrale termoelettrica, carbonile e nastro trasportatore. Almeno alla vista. C'è un dettaglio, però, che ha fatto la differenza fra chi si è immediatamente dichiarato disponibile a sottoscrivere l'accordo e chi no. Il patto di sangue con Enel prevede infatti che con quei soldi i contadini continuino a rimanere proprietari delle loro terre, dalle quali dovranno sradicare filari di malvasia e carciofi che un tempo crescevano rigogliosi per piantare (a casa loro e con le loro braccia) eucalipti, falso pepe e oleandri. L'offerta, si capisce, ha avuto come conseguenza diretta quella di spaccare il fronte dei piccoli imprenditori agricoli, molti dei quali hanno sottoscritto l'accordo con il colosso energetico che in cambio ha chiesto la rinuncia all'azione penale. Nero su bianco, naturalmente. L'accordo-quadro è stato sottoscritto il 21 giugno 2011 dopo una trattativa durata anni. Le firme in calce sono quelle dell'ex sindaco Pdl Domenico Mennitti, che nel 2007 firmò il divieto di coltivazione, di Confcooperative, Cia, Coldiretti, Confagricoltura, Ugc-Cisl. Fra i firmatari figura anche l'associazione Agricoltura ambiente e natura, giunta alla sottoscrizione tramite un percorso tortuoso, a dir poco. A un certo punto della storia infatti, l'associazione sbatte la porta e si ritira dal tavolo insieme al Codiamsa, un altro degli organismi di rappresentanza dei contadini esiliati. Per entrambe le sigle l'accordo è un patto capestro a tutto danno di quelli che si pretende di beneficiare: con i soldi intascati i contadini devono acquistare gli alberi, le macchine agricole per piantumarli e provvedere alla manutenzione. Come dovranno fare dopo di loro i loro figli, e poi i nipoti, e i pronipoti: tanto per 15mila euro ad ettaro, una tantum. In sostanza, di questi sei milioni, alle sessanta famiglie arriverà solo una parte. Detratte le spese per gli alberi e le quote spettanti alle associazioni, ai sindacati e al Comune di Brindisi, a loro non resterà molto. Dopo avere ratificato la propria uscita di scena insieme a Codiamsa, l'associazione Agricoltura ambiente e natura rientra in extremis nella trattativa, suggellando l'accordo finale. Cosa è successo, nel frattempo? Che sui terreni di Cerano ci ha messo gli occhi Maurizio Zamparini. Il patron del Palermo calcio vuole costruire nell'area una distesa da 200 megawatt di pannelli fotovoltaici, l'impresa che si propone a nome del Zamparini nazionale è la Tre emme energia. A sorpresa però, l'iniziativa incassa la sonora bocciatura della Provincia di Brindisi che non concede le autorizzazioni. Il progetto, dice l'ente, fa acqua da tutte le parti e la documentazione per la richiesta di Via è piena di falle. Naturalmente, Zamparini & co non demordono. "Il progetto sarà rilanciato", lo giura l'avvocato Giovanni Brigante che per conto della Tre emme energia si è occupato dell'attività immobiliare, l'acquisto dei terreni o del diritto di superficie. Chi è Brigante? Personaggio uno e trino, consulente di Zamparini ma anche segretario dell'associazione Agricoltura ambiente e natura, rientrata in corsa nella ratifica dell'accordo di programma con Enel. Un repentino cambio di programma, che Brigante spiega in questi termini: "La premessa è che la cifra offerta da Enel non è un risarcimento, ma un contributo per la riconversione, che fa salva la possibilità di richiedere la liquidazione del danno ambientale in via amministrativa, così come previsto dal testo unico in materia. Enel ha, fra l'altro, già versato al ministero una somma a titolo di risarcimento del danno ambientale, noi chiederemo al dicastero stesso l'indennizzo per equivalente in favore degli agricoltori. Con le somme già incassate ci siamo costituiti inoltre in consorzio, e stiamo mettendo a punto dei progetti di riconversione, che vadano naturalmente oltre la piantumazione della barriera arborea consentendo un reddito sostitutivo". In cosa consistano questi progetti, Brigante non lo dice, tutto top secret per il momento. In realtà molti elementi fanno pensare che il progetto fotovoltaico di Zamparini possa effettivamente andare in porto. Basta che la Tre emme energia lo ripresenti adeguandolo alle prescrizioni della Provincia e adeguandolo alle nuove indicazioni della legge che vieta l'impianto di pannelli a terra. Ma aggiunge: "Molti degli agricoltori della nostra associazione sono alle prese con decreti ingiuntivi per i quali rischiano persino di rimanere senza casa, abbiamo fatto di necessità virtù percorrendo la via che ci sembrava più breve per consentire loro di garantirsi un'altra prospettiva, un'altra fonte di reddito". Una tesi che non convince il Codiamsa, assistito dall'avvocato Vincenzo Farina. L'agronomo Antonio Nigro, referente dell'associazione spiega perché: "Vorrei precisare intanto che non si tratta di una questione esclusivamente economica. L'Enel offre soldi per la riconversione produttiva, ma non a titolo di indennizzo o acquisto dei terreni. In sostanza gli imprenditori agricoli dovrebbero accettare di lavorare sui propri campi, quelli che fino a qualche anno fa producevano frutti che davano da mangiare a loro e alle loro famiglie, per l'impianto di una barriera arborea. La cifra insomma non tiene minimamente in conto dei redditi che le famiglie percepivano grazie alla coltivazione dei prodotti dell'agricoltura destinati al commercio. Il vantaggio è tutto del colosso elettrico, al quale occuparsi della barriera in proprio costerebbe enormemente di più di quello che propone ai contadini, piegati dal comprensibile terrore di lavorare in un'area che mette a rischio la loro salute. Val la pena di precisare inoltre che la somma proposta verrebbe versata a rate diluite in dieci anni esatti, alla scadenza dei quali la barriera non si potrebbe più espiantare per legge. Dopo quella data insomma, tutto ricadrebbe sulle spalle dei contadini e dei loro figli, sempre a favore dell'Enel. Un'ipoteca, di generazione in generazione".
L'ITALIA DEI VELENI
Sul tema dell’amianto e su altri veleni Emiliano Fittipaldi ed altri autori hanno scritto varie inchieste pubblicate da “L’Espresso”.
L'Italia dei veleni di Emiliano Fittipaldi. Amianto. Piombo. Diossine. Idrocarburi. Il rischio sostanze tossiche colpisce un quarto della popolazione. Spese negli anni cifre da capogiro. Ma spesso le bonifiche non sono neanche partite. Dici Orbetello e pensi alle spiagge bianche, alla Maremma incontaminata e agli allevamenti di spigole. A nessuno verrebbe in mente che il cuore dell'Argentario è inserito dal 2002 nella lista dei siti più inquinati d'Italia. La laguna è così compromessa che Altero Matteoli, sindaco del paesino durante i week-end e ministro delle Infrastrutture il resto della settimana, è riuscito ad inserirla per intero nell'area da bonificare per legge, che inizialmente prevedeva la pulizia solo della fabbrica di fertilizzanti della Sitoco. "La Sitoco? E chi la dimentica... Noi da ragazzi si andava a giocare nel bosco dietro le ciminiere", ricorda un ristoratore, "quando s'alzava il maestrale era uno spettacolo, la mia R4 bianca si ricopriva di una polverina arancione che non veniva più via. Con la fabbrica mangiavano duecento famiglie, ma devo ammettere che quella polverina dava noia alla gola. Pizzicava pure gli occhi". La polverina era in realtà anidride solforosa, che il vento ha portato a spasso da inizio Novecento fino al 1991, quando lo stabilimento ha chiuso definitivamente. Se eventuali danni alla salute non sono mai stati registrati, di sicuro terreni e acque portano ancora le ferite inferte dalle ciminiere: metalli, Pcb, diossine e idrocarburi pesanti sono sparsi per i 54 ettari del sito industriale. La fabbrica cade a pezzi, ma lo scheletro fatiscente accoglie ancora i villeggianti che scendono alla stazione. Il guardiano non fa entrare nessuno, "non per cattiveria ma per sicurezza: nei capannoni sono conservati le ceneri di pirite, amianto e altre schifezze. Io pure giro con la mascherina. Ma presto qui sarà tutto rinnovato, vogliono costruire un grande centro congressi". Sarà. A oggi sono stati messi sul tavolo oltre 8 milioni di euro, qualcosa è stata messa in sicurezza, ma dopo 18 anni di attesa la riqualificazione resta un miraggio. Così come la bonifica della parte di levante della laguna e del bacino di Ansedonia, dove nelle reti dei pescatori finiscono da mesi impigliate spigole piene di mercurio. In questa zona il problema non sono i residui chimici, ma le ex miniere della Ferromin del Monte Argentario. "Il metallo è rilasciato dai sedimenti del fondale, poi viene inghiottito dai pesci" spiega il Commissario al risanamento ambientale della laguna Rolando di Vincenzo, già assessore all'urbanistica per An. Nonostante i dati Arpat siano negativi, non c'è un esplicito divieto di pesca: il consorzio 'Orbetello pesca lagunare', che vanta l'esclusiva del Comune, semplicemente 'evita' di gettare le reti nelle zone compromesse. Ripulire la zona non sarà uno scherzetto: l'idea è quella di strappare i primi 70 centimetri del fondale, e spostare altrove terra e mercurio. Ma servono soldi a palate, e un sito ad hoc dove stoccare migliaia di tonnellate di rifiuti speciali.
La valle dei tumori. I veleni 'per sempre' di Orbetello sono in buona compagnia. Anche Trento aspetta la bonifica di una vasta area alla periferia nord. A fine anni '70 l'incendio a un deposito di sodio obbligò il sindaco a chiudere la Sloi, che produceva dai tempi del fascismo piombo tetraetile. A pochi chilometri dal centro cittadino nell'anno di grazia 2009 circa 150 mila metri cubi di terreno conservano gelosamente un cocktail di mercurio, piombo, fenoli, policiclici aromatici e solventi. Del recupero si discute da tre decenni. Costo stimato 50 milioni, qualcuno favoleggiava di un parco con le altalene, ma in città nessuno ci crede più. La storia dell'impianto e della bonifica mancata sarà protagonista persino di un film-documentario finito di girare un mesetto fa, 'La fabbrica degli invisibili'. Come invisibile è stato per settimane un dossier di settembre dell'Asl due di Roma e dell'Istituto superiore della sanità, che racconta la devastazione della Valle del Sacco. Dopo tre mesi di silenzi da parte di sindaci e istituzioni, centinaia di persone che vivono a Colleferro, Segni e Gavignano, paesoni vicino la capitale, hanno scoperto dai giornali locali di essere contaminati "in maniera irreversibile" dal beta-esaclorocicloesano, una sostanza cancerogena rilasciata da una fabbrica di pesticidi chiusa anni fa. Già nel 2005 la zona fu messa sotto osservazione dopo che decine di mucche morirono per aver bevuto l'acqua di un torrente. I veleni del distretto industriale sono rimasti in circolo: secondo gli esperti i pazzeschi livelli di contaminazione sono legati "all'uso dell'acqua dei pozzi locali e al consumo di alimenti prodotti in loco".
Business gigantesco. Materiali pericolosi di ogni genere sono sparsi in tutte le regioni d'Italia, senza eccezione alcuna, e contaminano suolo, falde acquifere e polmoni anche dopo decenni dalla chiusura delle ciminiere. Nonostante le cifre da capogiro spese (stimabili intorno ai 5-10 miliardi di euro) o solo annunciate, l'Italia resta uno dei paesi più inquinati del mondo occidentale. Gli inquinanti, quando va bene, vengono nascosti sotto il tappeto nemmeno fossero polvere, o separati dalle zone circostanti con muri speciali, come si progettava per Portoscuso, in Sardegna. A parte le 15 aree ad 'alto rischio di crisi ambientale' censite nel lontano 1986, il Cnr elenca a tutt'oggi 54 siti di interesse nazionale, i cosiddetti Sin, e ben 6 mila siti regionali da tenere sotto controllo. I ricercatori mettono le bandierine su altri 58 luoghi con elevata contaminazione da amianto e 1.120 stabilimenti industriali e chimici a rischio di incidente rilevante. In tutto, i siti inquinati sarebbero 10 mila, compresi i depositi di materiale radioattivo eredità della stagione nucleare. "Per avere una dimensione del problema", spiegano gli esperti del Consiglio nazionale delle ricerche, "segnaliamo che gli abitanti nei 311 comuni inclusi nei Sin sono tra i 6,4 e gli 8,6 milioni, escludendo o includendo i comuni di Milano e Torino". Se si considerano le altri fonti di inquinamento, il numero supera i 15 milioni, un quarto dell'intera popolazione. Gli allarmi degli scienziati e le leggi ad hoc non si contano, ma a parte le perimetrazioni e le analisi delle sostanze, gran parte delle bonifiche non sono neanche iniziate. "Non solo abbiamo cominciato a pulire dieci anni dopo la Germania e la Francia, ma il sistematico scarico di responsabilità tra aziende private e amministrazioni pubbliche blocca tutto, visti i tempi biblici della giustizia italiana", ragiona il vicepresidente del Wwf Stefano Leoni: "Il business è gigantesco. Non solo per le opere di messa in sicurezza, ma anche per l'affare della riconversione industriale". Impossibile, secondo l'esperto, calcolare un dato preciso delle spese sostenute finora: "Do solo due indicatori che definiscono la misura degli interventi: la bonifica del sito di Cengio, in Liguria, è costata 450 milioni di euro, e parliamo di un sito piccolo rispetto a quello di Gela o Porto Marghera. Il governo Berlusconi, poi, riprendendo un decreto voluto dall'ex ministro Bersani stanzierà la bellezza di tre miliardi di euro per il recupero dei Sin, che si aggiungono alla montagna di denaro spesa dagli anni '70 in poi". Nonostante gli sforzi economici, tranne poche eccezioni i risultati non si vedono. Secondo uno studio della Corte dei conti la lotta ai veleni combattuta con il programma nazionale di bonifica ha prodotto "risultati del tutto modesti". La stroncatura è del 2003, ma a tutt'oggi non esistono altre analisi dei progressi compiuti. Eppure il tema resta devastante. Per l'impatto ambientale e per le ripercussioni sulla salute. Nel 2002 l'Oms ha dimostrato che ad Augusta-Priolo, a Crotone, in Puglia, nel napoletano, nella parte della Pianura Padana più inquinata, in Val Bormida e nella zona del Lambro in Lombardia, in un quinquennio si sono registrati (rispetto alle medie regionali) oltre 4 mila morti in eccesso, di cui 660 per tumori. Una ricerca della Regione Sicilia ha stimato recentemente eccessi di mortalità e di tumori al polmone e colon retto anche a Biancavilla e Milazzo, mentre in Sardegna rapporti allarmanti sono stati stilati sulla zona di Portoscuso e Porto Torres. Per non parlare del cosiddetto 'triangolo della morte' del napoletano, dove secondo la Protezione civile in alcuni comuni si registrano aumenti significativi del rischio di malformazioni del sistema nervoso centrale e dell'apparato urinario e un incremento del 2 per cento della mortalità.
Scandalo Toscana. Se in qualche caso le analisi sono datate, in pochi credono che di recente la situazione sia migliorata. Anche perché il ripristino delle aree resta inchiodato, in pratica, all'anno zero. Il caso Toscana è emblematico: a parte Orbetello, nella black-list dei Sin la regione è ben rappresentata anche da Livorno, Massa Carrara, la discarica delle Strillaie e Piombino. Per mettere in sicurezza le aree servirebbero 500 milioni, in vent'anni ne sono stati spesi una trentina. Un fiume di soldi finito quasi tutto in analisi preliminari e nella perimetrazione. "A Piombino c'è inquinamento atmosferico da polveri, benzene, accumulo di residui di lavorazioni in attuali situazioni di rischio, la falda artificiale è contaminata, ci sono discariche di rifiuti pericolosi", recitava un decreto del 2001 voluto dall'allora ministro dell'Ambiente Matteoli. Finora è stata ripulita solo la banchina 'dei Marinai'. Anche a Massa Carrara, nella zona del vecchio polo chimico dove insistevano l'Enichem, l'Italiana Coke, la Dalmine, l'inceneritore Cermec e la Farmoplant, l'elenco degli inquinanti a terra è impressionante. Metalli, pesticidi, solventi e fenoli, idrocarburi, polveri derivanti dalla lavorazione del marmo. Il materiale da riporto ha creato una crosta di due metri. "E' uno degli scandali italiani", dice Erasmo D'Angelis, presidente della commissione ambiente del Consiglio regionale: "Si resta alle parole e alle promesse. Gli impegni presi dai governi sembrano firmati con l'inchiostro simpatico. Si bruciano miliardi per difendere l'italianità dell'Alitalia ma non c'è un euro per garantire i territori della Toscana, brand di successo per l'industria culturale e turistica nazionale".
Aspettando la bonifica. I tempi lunghi per le operazioni di bonifica riguardano anche esempi virtuosi. In Piemonte Casal Monferrato e una cinquantina di piccoli comuni limitrofi sono stati riconosciuti 'area critica' per l'amianto ben 12 anni fa. Le amministrazioni sono riuscite a sostituire oltre un milione di metri quadri di coperture pericolose, ma prima di altri quattro anni è difficile che i lavori vengano terminati. Persino a Fidenza, in Emilia Romagna, i cantieri per ripulire le aree dell'ex Cip (un'azienda fallita nel 1971, produceva piombo) e dell'ex Carbochimica sono ancora aperti: spesi finora una ventina di milioni, ad aprile ne sono arrivati altri 12. I più speranzosi puntano a chiudere nel 2011. Al Sud, dove dovrebbe finire l'83 per cento del denaro stanziato, la situazione è di stallo totale. In Campania i siti nazionali interessano una cinquantina di comuni, ma secondo il censimento dell'Arpac le aree compromesse sono in totale 3.972, tre volte il dato, già alto, della Lombardia. Nel napoletano e nel casertano il rischio viene in primis dalle discariche abusive. Il commissariato alle bonifiche, che fino allo scorso 31 gennaio era guidato dal governatore Antonio Bassolino, ha bruciato circa 400 milioni di euro. In sette anni tra i cantieri portati a termine ci sono quelli di Pirucchi, Paenzano e Schiavi, a Giugliano. Per il resto, ci si è limitati alle analisi e alla perimetrazione. Secondo la Procura di Napoli la società Jacorossi, vincitrice dell'appalto per eliminare i rifiuti tossici, avrebbe addirittura smaltito parte delle sostanze in varie cave spacciandoli per scarti edilizi: dei 60 milioni versati all'azienda, 46 sarebbero frutto, secondo i carabinieri del Noe, di una "gestione illecita". Sperperi monstre anche per risanare il Sarno, il fiume più inquinato d'Europa: tra il 1973 e il 2003 il commissariato preposto ha speso circa un miliardo, senza risultati di rilievo. Negli ultimi cinque anni sotto la guida del generale Roberto Jucci la situazione è migliorata, sono stati costruiti depuratori e fogne, ma secondo i dati Arpac le acque restano sporche. Anche a Bagnoli i lavori per risanare l'area Italsider (chiusa 18 anni fa) vanno a rilento. E i turisti al posto del lungomare con porticciolo ammirano ancora la colata a mare dell'ex acciaieria Ilva, in attesa che venga smontata e spedita a Piombino.
Chi inquina non paga. In Puglia è stato fatto ancora meno. Nella zona della vecchia Enichem, a Manfredonia, sono state messe in sicurezza alcune aree, ma secondo Legambiente attorno alla fabbrica restano accumulati 250 mila metri cubi di acidi, ammoniaca, arsenico, fanghi e altro. A Brindisi e Taranto di come fare piazza pulita si dibatte dalla notte dei tempi. L'ultimo accordo di programma è di un anno fa: 170 milioni, da aggiungere ai 150 già messi sul piatto per la bonifica. A oggi non è arrivato nemmeno un euro, tanto che il governatore Nichi Vendola ha protestato col governo. Il problema non è solo ambientale: il blocco dei finanziamenti impedisce anche l'apertura di nuove aziende (solo a Brindisi potrebbero svanire investimenti per 165 milioni) nelle aree "ad alto rischio". Anche a Gela, Priolo e Augusta, in Sicilia, i poli industriali che minacciano da decenni la salute di centinaia di migliaia di persone definiscono, immutabile, il panorama della costa. Finora, nonostante gli studi sull'aumento di tumori e malformazioni, nessuno ha mosso una foglia. A Gela sono stati spesi 15 milioni di soldi pubblici, messi a disposizione nei primi anni '90. Con il gruzzolo è stata portata a norma qualche discarica ed è stata restaurata la caserma dei pompieri. "Peccato che per bonificare la mia città serva un miliardo", spiega il sindaco Rosario Crocetta: "Il petrolchimico ha invece investito 150 milioni di tasca propria per riciclare l'acqua di falda, grazie a un accordo con noi. E' inutile aspettare lo Stato, bisogna applicare il principio che chi inquina, paga". Il caso della vicina Priolo fa da monito: in vent'anni, nonostante gli accordi quadro del 1990 che stanziavano ben 100 miliardi di lire, sono stati effettuati interventi tampone per 5 milioni di euro, circa il 10 per cento del totale. Restano i veleni degli impianti dismessi, mentre le fabbriche funzionanti continuano ad inquinare. "Quelle zone sono state usate anche come pattumiera illegale di rifiuti tossici" chiosa l'assessore regionale all'Industria Pippo Gianni: "C'è il sospetto che la criminalità abbia interrato centinaia di fusti di materiale radioattivo scarto della sanità lombarda. Tra Lentini, Carlentini e Francofonte è lievitato il tasso di leucemie infantili". Se finora non è stato rimosso un solo bidone, Gianni punta sull'ennesimo accordo di programma firmato a novembre. I finanziamenti come sempre sono faraonici: 776 milioni di euro, di cui 200 a carico dei privati. Molti gli scettici, ma qualche inguaribile ottimista giura che questa è la volta buona. Come recita il proverbio, chi vivrà, vedrà.
Sos bambini di Emiliano Fittipaldi. Crescono del 2 per cento l'anno le neoplasie infantili in Italia. Con picchi spaventosi in prossimità di aree industriali o inquinate. Colpa di smog e pesticidi. E della contaminazione della catena alimentare. Nelle Marche tra il 1988 e il 1992 il Registro tumori ha segnalato 93 bambini malati. Dieci anni dopo, sono diventati 171. Un raddoppio secco. A Parma i casi sono passati da 27 a 53. A Sassari, nello stesso arco di tempo, gli under 14 ammalati di tumore sono triplicati. Il bollettino è agghiacciante, la fonte autorevole: i numeri che nessuno vorrebbe leggere li sciorina il rapporto Airtum 2008, il primo del suo genere, cofirmato dal Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie, dall'Associazione di ematologia e oncologia pediatrica e dall'Istituto superiore di sanità. Lo studio evidenzia che nel nostro Paese, tra il 1988 e il 2002, c'è stato un aumento medio dei tumori infantili del 2 per cento l'anno. I tumori sono bastardi, nessuno sa esattamente quale sia la causa. Per ogni cancro ci sono diversi fattori di rischio possibili, e tutti lavorano insieme ad avvelenare l'organismo. Così davanti al trend gli epidemiologi intervistati invitano a non trarre conclusioni affrettate, ma quasi nessuno nega che tra i maggiori sospettati ci siano l'inquinamento, i pesticidi e la contaminazione della catena alimentare. Basta pensare alla diossina che, attraverso le carni, il latte e l'acqua, arriva direttamente sulle tavole: se da giorni l'Europa dà la caccia ai maiali e bovini irlandesi avvelenati, nei mesi scorsi la sostanza cancerogena ha già compromesso interi greggi di pecore che pascolavano a ridosso dell'Ilva di Taranto e migliaia di bufale vicino Caserta. Il dottor Gianfranco Scoppa il rapporto sui tumori infantili non l'ha letto. Ma la sua percezione sull'andamento delle malattie è addirittura peggiore dei dati pubblicati dall'Airtum. Il radioterapista, ex oncologo del Pascale, oggi dirige l'Aktis di Marano, uno dei più grandi centri di radioterapia della Campania. "Crescono sarcomi, linfomi, leucemie. Vedo entrare troppi bambini, stiamo diventando una struttura pediatrica", spiega. A 800 chilometri di distanza, a Mantova, pochi giorni fa uno studio di una società privata ha messo in allarme la città e la vicina Cremona: nelle due province la frequenza di leucemie infantili sarebbe rispettivamente 20 e dieci volte superiore a quella registrata mediamente in Lombardia. "I numeri sono abnormi, credo abbiano confuso i singoli casi con il numero, più alto, dei ricoveri", spiega Paolo Ricci, epidemiologo dell'Asl mantovana. "Ma in provincia un dato da approfondire c'è davvero". A Castiglione delle Stiviere, meno di 20 mila abitanti, negli ultimi anni sono stati accertati sette casi di leucemie infantili. "Un fatto anomalo, l'incidenza è rilevante. Ricordiamoci che si tratta della zona più industrializzata della provincia, un distretto dove la mortalità rincorre quella di Brescia". Anche a Lentini, in Sicilia, i bambini si ammalano con frequenza eccessiva: i tassi del periodo 1999-2003 del registro territoriale di patologia segnano una media dieci volte superiore rispetto a quella della provincia di Siracusa. Picchi anomali che hanno convinto la Procura ad aprire un'indagine per tentare di capirne le origini. Di sicuro in Italia il trend è anomalo rispetto al resto dei paesi industrializzati: doppio rispetto a quello europeo, addirittura cinque volte più alto rispetto ai tassi americani. Molti si affrettano a spiegare la tendenza con la diagnosi precoce e le nuove tecniche che permettono di cercare le malattie con strumenti più raffinati rispetto al passato. Ma la risposta, per gli esperti più attenti, è insoddisfacente: equivarrebbe a sostenere che tedeschi, francesi e svizzeri (dove l'incidenza è più bassa) sarebbero meno bravi di noi a individuare il male. Non solo: l'incremento è troppo rilevante. Entrando nello specifico, se nel Vecchio Continente i linfomi infantili aumentano con una media dello 0,9 per cento annuo, in Italia la percentuale sale al 4,6 per cento. Anche le leucemie viaggiano a tasso quasi triplo, mentre i tumori del sistema nervoso centrale crescono del 2 per cento, contro la riduzione dello 0,1 registrata in Usa. "I dati dei nostri registri trovano un utile complemento in quelli raccolti da registri ospedalieri e di mortalità", commenta secco Corrado Magnani del Centro di prevenzione oncologica del Piemonte: "I risultati concordano con le indicazioni di tassi di incidenza relativamente elevati nel panorama internazionale e indicano un incremento statisticamente significativo dell'incidenza". In Italia ogni anno si ammalano circa 1.500 bambini e 800 adolescenti dai 15 ai 19 anni. Soprattutto di leucemia (un terzo del totale), linfomi, neuroblastomi, sarcomi dei tessuti molli, tumori ossei e renali. I numeri assoluti sono bassi, e fortunatamente i tassi di mortalità diminuiscono grazie all'efficacia delle cure. L'incidenza, però, sembra destinata a crescere. "Per i bambini le previsioni non sono rosee", dice l'Airtum: "Le stime, calcolate utilizzando le informazioni raccolte nelle aree coperte dai registri e i dati di popolazione Istat, indicano che ci sarà un aumento dei casi". Se la tendenza resterà costante, nel periodo 2011-2015 si ammalerà il 18 per cento di under 14 in più rispetto al quinquennio 2001-2005. Il fenomeno riguarda sia il Nord che il Sud. Gli epidemiologi hanno preso in considerazione solo i registri che rilevavano i tre periodi presi in esame: quello che va dal 1988 al 1992, il periodo 1993-1997 e quello 1998-2002. A Sassari i bimbi ammalati passano da 12 a 40, a Napoli da 33 a 114. A Latina si passa da 38 a 52, a Modena, Parma, Ferrara e Reggio Emilia stesso rialzo, il registro della Romagna ha raddoppiato i suoi iscritti. Identico trend per l'Alto Adige, mentre l'aumento è meno preoccupante per il Friuli. In Liguria e in Piemonte, che può vantare il registro più antico, l'incidenza è invece stabile, come a Salerno e Ragusa.
Ma cosa sta succedendo? I medici dell'ambiente dell'Isde non hanno dubbi, e considerano l'aumento delle neoplasie dei bambini un indicatore assai preoccupante. Puntano il dito sull'inquinamento selvaggio, sui danni provocati dai rifiuti tossici e dall'uso dissennato di sostanze nocive in agricoltura e nella produzione dei beni di massa. Gli epidemiologi puri - in mancanza di evidenze dimostrate da studi scientifici definitivi -sono tradizionalmente più cauti su cause e fattori di rischio. Stavolta, però, anche loro non escludono che l'inquinamento ambientale e lo stile di vita di bambini e genitori possano avere responsabilità rilevanti sul fenomeno. Benedetto Terracini è uno dei luminari dell'epidemiologia dei tumori, e da qualche settimana ha iniziato un carteggio con alcuni colleghi per cercare di dare un'interpretazione al rapporto, insieme a indicazioni operative per possibili misure di salute pubblica. "Non si può affermare con certezza che l'aumento sia dovuto all'inquinamento", chiosa, "ma è plausibile che influiscano fattori esterni a quelli genetici: sono decenni che sappiamo che le frequenze tumorali sono correlate all'ambiente. I cinesi che emigrarono in Usa si ammalano oggi esattamente quanto e come gli americani, proprio come accade ai pugliesi a Milano e agli italiani partiti per l'Australia. Il lavoro dell'Airtum è il massimo che si può fare in termini statistici, ma ora bisogna agire". Terracini dubita che in tempi brevi gli scienziati potranno dimostrare definitivamente il coinvolgimento di fattori legati all'inquinamento. "Ma anche se non si può dire che benzene e smog fanno venire il cancro agli under 14, si possono applicare rapidamente politiche precauzionali: non servono certo altri studi per sostenere che vivere vicino a una strada a grande traffico non fa bene alla salute. Bisogna difendere i bambini a priori, senza fare allarmismo usando un tema delicatissimo come le neoplasie infantili". Se i 'ragionevoli dubbi' sul rapporto tra inquinanti e tumori non sono ancora diventati legge scientifica, serpeggiano con sempre maggior insistenza nelle conclusioni di autorevoli ricerche internazionali. Nel 2005 un report dell'ateneo di Birmingham ha evidenziato che i piccoli che abitano nel raggio di un chilometro da uno snodo di traffico 'importante' hanno un rischio 12 volte più alto di ammalarsi, mentre due anni fa ricercatori delle università di Milano e Padova mostrarono un legame tra inquinamento da diossina prodotto da inceneritori per rifiuti industriali e urbani e l'insorgenza di sarcomi nella provincia di Venezia. Anche a Mantova un rapporto dell'Asl (che a breve verrà pubblicato dall'Istituto superiore di sanità) ha ufficializzato un nesso tra sarcomi dei tessuti molli e le sostanze diossino-simili osservate intorno al polo industriale di Mantova, dove insistono il petrolchimico dell'Enichem, le Cartiere Burgo, tre centrali termoelettriche, tre discariche per rifiuti tossici e un inceneritore per rifiuti industriali e sanitari. Basata sul contributo di esperti di rilievo come Pieralberto Bertazzi, Pietro Comba, Paolo Crosignani e il compianto Lorenzo Tomatis, la ricerca spiega che il rischio più alto che ha la popolazione residente vicino all'area industriale di ammalarsi (bambini compresi) è legata probabilmente non solo alla diossina e ai Pcb, ma anche ad altri inquinanti: "Sempre comunque di origine industriale". Altre analisi hanno evidenziato i nessi tra leucemie e campi magnetici. La faccenda è molto discussa, ma a tutt'oggi, spiega Magnani, "il dato scientifico non è stato ancora confutato". Se il rapporto Airtum ha avuto scarsa pubblicità, gli scienziati non mancano di mettere insieme le indicazioni che arrivano da questi studi scientifici con le cifre delle neoplasie infantili in Italia. E non nascondono la loro preoccupazione. Tutti, dal decano Terracini a Franco Berrino dell'Istituto dei tumori di Milano, concordano sul fatto che occorre studiare le sostanze sospettate sia sul piano epidemiologico (ovvero andare a vedere come e quando si correlano agli aumenti di incidenza), sia su quello tossicologico e genetico, per capire in che modo possono indurre il male. All'indomani del rapporto Airtum, qualcuno si spinge anche più in là, e comincia a comporre il puzzle. Come Gemma Gatta, ricercatrice all'Istituto dei tumori di Milano: "L'aumento generale c'è di certo. E i fattori di rischio sono numerosi: radiazioni, farmaci antinfiammatori usati in passato in Europa, ormoni per l'interruzione della gravidanza. Poi, il consumo di tabacco e alcol da parte della madre in gravidanza, il traffico veicolare, le infezioni e la professione dei genitori". In particolare, l'esperta sottolinea il rischio di chi vive parte della giornata a stretto contatto con sostanze cancerogene come benzene e pesticidi. Ma non è tutto. "Negli ultimi anni le madri allattano meno al seno, fumano di più, i giovani si alimentano peggio: bisognerebbe, anche in assenza di studi definitivi, modificare stili di vita insalubri", chiosa la studiosa. Pure Luigia Miligi, dell'Istituto per lo studio e la prevenzione oncologica della Toscana, è cauta su cause e concause, e preferisce andare al sodo. "Ho mandato delle mail ai colleghi mettendo l'accento sulla gestione del rischio. Ci sono cose che possono essere fatte subito, quasi a costo zero. Si potrebbe diminuire l'inquinamento indoor delle scuole evitando l'uso di detersivi con solventi aromatici, ed eliminando i materiali che rilasciano formaldeide". Anche il controllo dei residui antiparassitari in agricoltura, dice la Miligi, dovrebbe essere sistematico: il principio di precauzione e il diritto alla salute deve essere prioritario rispetto a qualsiasi altro interesse. "Ma gli allarmi devono essere gestiti bene. Tre anni fa a Firenze ci fu un picco di leucemie in una scuola materna: le istituzioni si mossero all'unisono, in silenzio, per garantire la sicurezza dei piccoli. Analizzammo ogni rischio, misurammo persino l'eventuale presenza di radon, un gas radioattivo. Non trovammo nulla: a volte certi fenomeni sono del tutto casuali".
L'Italia è piena di amianto. di Chiara Organtini su “L’Espresso”. Negli anni '60 - '70 giocavano con la "neve", una polvere bianca che usciva dai sacchi in stazione. Gli abitanti di Casale Monferrato, l'amianto, quella "polverina magica", l'hanno conosciuta bene e non solo per gioco, purtroppo. Lunedì, 13 febbraio, si attende la sentenza del processo contro l'Eternit AG, l'azienda - dal 1906 a Casale - che ha mandato a morire 1.800 tra lavoratori, familiari e casalesi. A giudizio i proprietari della multinazionale: lo svizzero Stephan Schmideiny e il belga Jean-Louis de Cartier de Marchienne per disastro doloso e omissione volontaria di cautele infortunistiche. In un processo che ha visto 65 udienze, 6.000 parti civili in 26 mesi di istruttoria, il procuratore di Torino Raffaele Guariniello ha chiesto venti anni di reclusione per entrambi gli imputati. Schmideiny, propose mesi fa al Comune di Casale un'offerta di transazione di 18 milioni di euro, purché si ritirasse dalle parti civili. Dopo giorni di lotta e polemiche da parte degli abitanti, il sindaco di Casale ha rinunciato. E ora si chiude il procedimento penale più grande d'Italia, ma non l'unico. Dove si indaga per amianto in Italia. C'è il processo di Praia a mare (Cosenza) contro Lomonaco ex sindaco e responsabile all'interno della fabbrica tessile Marlane (24 febbraio, prossima udienza), quello diPadova contro alcuni ex capi di Stato Maggiore della Marina Militare (la sentenza 22 marzo); il processo contro l'Isochimica di Avellino di Elio Graziano che sta per partire e che ha visto 108 lavoratori ammalarsi in 20 anni; l'istruttoria, appena partita, contro Filippo Russo che ha abbattuto l'Ex Velodromo a Roma per conto dell'Eur Spa. Quest'ultimo, è l'unico processo dove non ci sono vittime, per quanto dopo l'esplosione della struttura che ha inondato di polveri il quartiere Eur, si siano contati 4500 chili di detriti con amianto, tanto che il pubblico Ministero è passato dall'imputazione di "getto di cose pericolose" a "disastro colposo". In realtà, i casi aperti su cui si indaga in Italia sono molti di più: l'ex stabilimento Fibronit Bronie di Bari (Lombardia e Puglia); l'ex stabilimento Michelin diCuneo; la Caserma di Prati di Caprara aBologna dove nonostante il tetto in eternit sgretolante sono stati accolti i profughi dal Nord Africa la scorsa primavera; l'ex opificio industriale di Mongrassano Scalo a Cosenza; e ancora l'Eternit, la Cementir e l'Italsider diBagnoli, dove si devono ancora smaltire 100mila tonnellate di amianto, accanto alle quali centinaia di ragazzi si raccolgono nelle discoteche contigue tutti i fine settimana. L'Italia, a venti anni dalla legge che lo ho bandito, è piena d'amianto: 32 milioni di tonnellate, 1 miliardo di manufatti per 4mila morti l'anno. Secondo i dati dello studio SENTIERI (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio Inquinamento) dell'Istituto Superiore di Sanità, sono almeno 31 i luoghi di interesse per una bonifica da amianto. Ma in tutti questi anni cosa ha fatto lo stato, la politica?
Amianto, male di Stato e di politica. La giustizia in Italia tenta sempre di fare il suo corso, anche quando è lo stesso Stato a mettergli i bastoni tra le ruote.Sergio Dini, Pubblico Ministero a Padova nel processo contro gli otto ex capi di Stato Maggiore della Marina Militare, nel bel mezzo dell'istruttoria ha dovuto vedersela con la legge 132/2010, introdotta dall'ultimo governo Berlusconi. Il processo aveva chiamato in causa per omicidio colposo alcuni ammiragli, responsabili di non aver segnalato la presenza di amianto ai marittimi delle navi. Le parti offese, un capitano di vascello e un meccanico (deceduti). In realtà i militari marittimi morti per cause d'amianto sono circa 700 a tutt'oggi. La legge 132, ridenominata "salva-ammiragli", solleverebbe dalla responsabilità penale gli ufficiali dei navigli militari, secondo il grimaldello di una legge del 1955 che ne permette solo l'imputazione ai fini civili. "E' chiaro che la legge 132 - spiega Dini - è il prodotto di una mentalità politica ad personam. E' incostituzionale." Ma i problemi non finiscono qui. C'è la questione delle certificazioni dell'INAIL per il prepensionamento dei lavoratori ex esposti all'amianto. L'ente previdenziale, infatti, grazie ad un altro decreto del marzo 2008 ha escluso i lavoratori delle aree portuali dalla possibilità di farne richiesta e nonostante un ricorso del TAR che ha dato loro ragione, ritarda ancora le procedure.
Chi paga allora per le vittime d'amianto? Esiste un Fondo per le vittime dell'amianto, istituito nel 2007 (legge 244) durante l'ultimo governo Prodi. Per renderlo operativo occorreva un decreto entro 90 giorni. E invece il decreto è arrivato solo il 12 gennaio 2011, come denuncia Felice Casson, vice presidente del Partito Democratico al Senato ed ex magistrato, il quale sulla questione ha presentato anche una Risoluzione in discussione a Palazzo Madama. Arrivato il decreto con il ministro del Lavoro Sacconi, sono stati però esclusi dall'accesso al Fondo le vittime per amianto non lavoratori! Il problema, tuttavia, non è solo a livello di politica nazionale. C'è, infatti, il caso del Comune di Roma che sull'ex velodromo, la struttura abbattuta nel 2008, ricca di amianto e mal bonificata, vorrebbe far costruire un complesso di torri ed abitazioni di pregio, accanto a qualche servizio pubblico per il quartiere, non curante del processo che è appena partito contro l'Eur Spa, la società mista tra Comune e Ministero del Tesoro. Una colata di cemento, il progetto comunale, che la Provincia sta tentando di bloccare nonostante la delibera del Comune possa essere votata in qualsiasi momento.
Responsabilità di Stato. La sete di giustizia che ha portato i cittadini di Casale Monferrato a rifiutare l'offerta di indennizzo della Eternit al Comune ed il Comune stesso a rimanere quindi parte civile nel processo, è un segno evidente che le vittime dell'amianto, sia malati che non, vogliono la partecipazione dello Stato. Le bonifiche per tutta Italia avranno dei costi proibitivi e non saranno risolutivi nemmeno i 750mila euro promessi dal Ministro della Salute Balduzzi a Casale. "Quel che è certo, però - sostiene l'avvocato Ezio Bonanni che segue l'inchiesta dell'Isochimica di Avellino ed è Presidente dell'Osservatorio Nazionale Amianto - è che un reato commesso non può rimanere senza responsabili. Presenterò l'esposto, già inoltrato alla Procura di Firenze per la vicenda dell'ex fabbrica Isochimica, anche all'Antimafia". Come a dire: L'Italia dell'amianto, per avere giustizia, deve lottare anche contro se stessa.
Nel paese che muore d'amianto di Andrea Milluzzi su “L’Espresso”. A Ferrandina, Basilicata, una discarica di Eternit sta facendo una strage. Qualcuno vuole intervenire? "Ma che cosa sta succedendo a Ferrandina?" Questa è la domanda che Nunzia si sente rivolgere all'ospedale di Matera, dove le hanno appena diagnosticato un tumore. Una sentenza ultimamente troppo ricorrente fra gli abitanti di questo paesino a una trentina di chilometri dalla città dei sassi. Ma una risposta i ferrandinesi se la sono data: sta succedendo che la pattumiera d'Italia ha iniziato a generare i suoi morti. All'ingresso del paese un corteo funebre sta salutando una donna di 57 anni portata via in un mese da un cancro. Sotto si estende la valle con i suoi calanchi, che nelle intenzioni di una volta doveva diventare un parco nazionale. Invece adesso ospita cinque discariche e il ministero dell'Ambiente progetta di costruirci pure un inceneritore e un'ennesima mega discarica di rifiuti tossici e nocivi. Ferrandina ha quasi diecimila abitanti e una grande storia alle spalle: è stata fondata ai tempi della Magna Grecia ed è stata un centro culturale anche in epoca bizantina. Nell'Ottocento i suoi abitanti si ribellarono più volte e anche durante la Seconda Guerra mondiale ci fu un'insurrezione contro i gerarchi e i latifondisti fascisti. Il paese è in cima a una collina e nel 1978 fu usato come location per il film 'Cristo si è fermato a Eboli', di Francesco Rosi. Ma molto tempo è passato da allora. Domenico La Carpia è un imprenditore locale che si occupa di trivellazioni, smaltimento rifiuti e bonifica del territorio. Il nome della sua ditta è uno dei tanti che campeggiano sui cartelli di divieto d'accesso per presenza di sostanze pericolose. Sta mettendo in sicurezza la discarica comunale di Casaleni, ha una discarica di amianto e ha in carico la bonifica dell'ex Materit, azienda della vecchia e famigerata Eternit che fra il 1973 e il 1989 ha fatto tutti i danni che poteva fare al paese e ai paesani. "I lavori di bonifica sono iniziati ma per mettere completamente in sicurezza la zona servono, direi, 2 milioni di euro e il Comune non ha più una lira", spiega La Carpia. Nel frattempo 10 operai degli 86 che ci lavoravano sono morti, 16 si sono ammalati e tutti gli altri vivono un'esistenza sospesa fra controlli medici e il sospetto di essere già condannati. Eppure che l'amianto fosse cancerogeno si sa da tempo. Non è più come 30 anni fa quando pur di lavorare i ferrandinesi accettarono di maneggiare quella strana polvere sconosciuta. Una relazione tecnica del 2005 ha rilevato amianto e manganese in quantità superiori alla norma nei terreni e nelle acque vicini alla ex Materit. Cinque anni dopo la fabbrica è sigillata alla meno peggio, con finestre infrante, un portone aperto e polvere per terra che si alza al minimo venticello stagionale. Dentro ci sono ancora 500-600 sacconi da mille chili di amianto ciascuno che aspettano di essere seppelliti e definitivamente dimenticati. Ma sono ancora là. E in paese si conta un malato a famiglia. A pochi metri dallo stabilimento passa la superstrada Basentana che collega tutta la valle. Un altro centinaio di sacchi di amianto e un altro telone - rotto - danno il benvenuto. Nessuna recinzione, un solo cartello che però capre e mucche non possono leggere e quindi brulicano tranquillamente l'erbetta accanto alla sostanza maledetta. Dal produttore al consumatore il passo è breve e a volte mortale. "Mio marito diceva sempre che mangiando i prodotti locali sapevamo bene cosa mangiavamo. No, lo sappiamo adesso". Nunzia ha 53 anni, da uno è rimasta vedova dopo che il marito è stato ucciso da un tumore. Adesso è lei a combattere con lo stesso male: "Mi sentivo stanca, pensavo fosse per quello che ho dovuto passare negli ultimi tempi. Invece ho fatto gli esami ed è venuto fuori che avevo un tumore al seno. Ma non ero preoccupata, so che si può guarire e ho fiducia nella scienza. Poi invece la Tac ha trovato metastasi ovunque e mi hanno detto che era inutile pure l'operazione". C'è un documentario della Ola (Organizzazione lucana ambientalista), dall'associazione Ambiente e legalità e da Pensiero Attivo, un'associazione giovanile di Ferrandina in cui il free lance Andrea Spartaco filma i sacchi di amianto e il percolato che defluisce dalla discarica di Casaleni. "Nemmeno far vedere il video in piazza è servito a smuovere le coscienze. La conseguenza più devastante di essere diventati la pattumiera d'Italia è che tutti si sentono legittimati a fare quello che vogliono", dice Spartaco. Se dici amianto e Eternit, la prima assonanza che viene in mente è Casale Monferrato, ma le pattumiere d'Italia sono di più, e tra queste Ferrandina. Gli effetti sono gli stessi, la consapevolezza, molto spesso, no. I morti d'amianto sono migliaia, ogni anno. In Italia, vaticinano gli scienziati, l'anno del picco sarà il 2025. Non è una profezia, ma un dato di fatto. Durante quei dodici mesi che verranno i morti d'amianto mangiati dal mesotelioma saranno centinaia, per un conto macabro che porterà a 30mila i caduti complessivi dall'inizio della carneficina. Uccisi dal mesotelioma pleurico, il più bastardo dei tumori. Trentamila morti. Non sono dati buttati a caso da qualche ecologista furente, sono stime scientifiche. Il massacro che verrà è una certezza matematica. A Casale Monferrato, a Sesto San Giovanni, a Napoli, a Siracusa, a Monfalcone. Toccherà agli operai, ma anche a chi con l'amianto non ci ha mai lavorato. Ai familiari intossicati dalle polveri portate a casa da padri e mariti, a chi vicino l'amianto ci ha abitato troppo a lungo. Ma per capire se esiste giustizia terrena, o se bisogna aspettare solo quella divina, aspetteremo meno tempo. Perché per questa tragedia, incredibilmente, un processo è stato aperto. Il processo del secolo si fa a Torino, e le parti in battaglia sono due: da una parte l'esercito dei morituri e dei parenti dei già morti, capitanati dal pm Raffaele Guariniello, dall'altra due miliardari. Chiamati da tutti, in Piemonte, semplicemente «lo svizzero e il belga». La loro storia si intreccia con quella dell'amianto italiano, uno dei veleni più pericolosi che esistano in circolazione. Nel 1941 il giovane Louis, oggi "l'imputato numero due", aveva vent'anni, e stava bruciando i suoi giorni in un lager nazista per prigionieri di guerra. Questa storia la racconta spesso, anche oggi che di anni ne ha 88 suonati. Nato bene, il barone de Cartier de Marchienne s'era arruolato quando Hitler aveva invaso il Belgio, ed era stato catturato dopo i primi combattimenti. Deportato in un campo, circondato da filo spinato e mine antiuomo, a centinaia. Capì che la fuga era cosa praticamente impossibile. Louis, che era ufficiale, ci provò lo stesso. Stremato dalla fame e da condizioni di vita disumane, tentò il tutto per tutto. Provando a correre dritto sul campo, come un pazzo. O la và, o pazienza. Chiuse gli occhi e cominciò a ruotare le gambe. Veloce era veloce: i tedeschi non lo videro, le bombe non esplosero, invisibile. La sorte gli fu amica, un miracolo, riuscì a fuggire. Nemmeno un graffio. Sfortuna volle che scappò dalla parte sbagliata, e incocciò le linee dei russi che arrivavano da est. «O ti arruoli con noi, o finisci nei gulag». Il barone non ci pensò su molto: si arruola con i comunisti, combatte in compagnie miste destinate al macello, sopravvive, ed entra a Berlino insieme all'Armata Rossa. La seconda guerra mondiale è finita. Tenta subito riparo dagli americani, che dopo qualche giorno di galera per gli accertamenti, lo lasciano libero. Negli anni a venire Louis diventerà ricco. Il barone dell'Eternit. Pare che il 22 luglio del 2009, cinquantaquattro anni dopo la grande fuga, quando ha saputo che la procura di Torino lo processerà per la morte di due migliaia di persone, non abbia fiatato. Stephan Ernest Schmidheiny, l'imputato "numero uno", la guerra non l'ha mai nemmeno vista. E' nato nel 1947 a Heerbrugg, cittadina verdissima della Svizzera, e oggi è uno degli uomini più ricchi del mondo. Per la precisione, il 288esimo. Secondo Forbes nel 2008 la sua fortuna toccava i 3,7 miliardi di dollari, un po' meno dei i cinque miliardi incamerati dal fratello Thomas e i 10 che rimpinguano il conto in banca del finanziere appassionato di Coppa America, Ernesto Bertarelli, l'uomo più liquido della patria del cioccolato, ma abbastanza per farne il quarto svizzero più ricco del mondo. Sthefan e Thomas sono figli di papà. Di papà Max, che grazie all'amianto ha fatto la fortuna della famiglia per le prossime venti generazioni. L'Eternit, l'impasto di cemento e asbesto, l'hanno brevettato gli austriaci, è vero, ma sono gli svizzeri ad averlo diffuso in mezzo mondo, Italia compresa. L'imputato numero uno era il successore designato dell'impero. Nel 1968 studia giurisprudenza a Roma, e partecipa al '68. Proprio allora diventa un ambientalista convinto. Sette anni dopo sale nella sala dei bottoni, prendendo la guida di una delle tante società del padre, e nel 1976 fa il balzo sulla poltrona di presidente, divenendo proprietario del gruppo nel 1984. Guariniello, che dopo un lavoro titanico e certosino ha raggruppato in un unico fascicolo tutti i morti e i malati d'amianto certificati in Italia, lo ha messo sotto accusa «nella qualità di effettivo responsabile della gestione delle società esercenti gli stabilimenti di lavorazione dell'amianto siti in Cavagnolo, Casale Monferrato, Bagnoli e Rubiera». Le sue colpe presunte: disastro e omissione di misure di sicurezza. I 2191 morti finora calcolati sono sul suo groppone, come la fine certa di altre migliaia di malati, secondo il giudice. E' lui il mostro, secondo la stampa.«E' semplicemente l'ultimo rimasto con il cerino in mano», secondo il suo avvocato.
Casale Monferrato. La città da cento anni respira amianto, mangia amianto, cammina sull'amianto. E' d'amianto. Amianto, dal greco "incorruttibile". L'altro nome del veleno, absteso, significa "inestinguibile". Come la paura di chi ne è stato contaminato. Qui lo stabilimento piemontese, 94mila metri quadrati di cui la metà coperti (da amianto) è stato un totem per ottant'anni. La cattedrale operaia della città, dal 1906. Le tute blu che ci hanno passato una vita sono migliaia, decine di migliaia le persone che costruiranno tetti, aie per i polli, muretti e strade con il polverino, gli scarti di lavorazione regalati dalla fabbrica per decenni. Fino al 1952 la proprietà è italiana, della famiglia Mazza. Poi il gruppo belga compra l'intera attività. Un affare: l'Eternit è il materiale perfetto per la ricostruzione del dopoguerra. Ha un costo basso, capacità costruttive elevata, è pubblicizzato come il materiale eterno. "I mille usi dell'amianto", strizzava l'occhio un volantino dell'epoca. Nessuno al tempo immaginava gli effetti devastanti delle fibre d'amianto e delle sue polveri sottili. Solo negli anni '60 la comunità scientifica lancia l'allarme. Peccato che la distribuzione di polverino vada avanti, di sicuro, fino al 1976. Mentre molti testimoni ricordano che proseguì anche più tardi. La Città e la campagna si sono riempite di asbesto, che non è stato ancora bonificato. I belgi, una volta assunto il controllo, si espandono, ed aprono altri capannoni a Bagnoli e in Sicilia. Le vendite vanno forte fino agli inizi del 1970, l'amianto si diffonde peggio della plastica. Ferri da stiro, tetti, guanti da forno, schermi cinematografici, filtri per pipe e sigarette mentolate, phon per capelli, carrozze ferroviarie, assorbenti interni, scuole coibentate con l'asbesto spruzzato. Tubature, tubi di scappamento, linoleum, freni per auto, canne fumarie, il veleno si annida ovunque. Poi la crisi del settore, nerissima. I belgi non vogliono investire, non ci credono più. Nel 1972 arrivano gli Schmidheiny, che sono i capitalisti dominanti del mercato. Comprano tutto il pacchetto di quote. «E dal 1975 al 1986, anno del fallimento e della chiusura definitiva, investono un fiume di denaro, una roba enorme, circa 46 miliardi di lire totali. Buona parte serviranno a ristrutturare gli impianti, che passano dalla produzione a secco, dove le polveri galleggiano nell'aria, a quella a umido, in cui la sostanza bagnata è più contenuta»spiega l'avvocato dell'imputato numero uno, il romano Astolfo Di Amato. Guariniello la pensa diversamente. Il processo messo in piedi a Torino contro i due imputati non ha precedenti sul pianeta. E' il più grande processo penale della storia. Due imputati, 2191 vittime accertate fra il 1952 e il 2008, 2889 tra organizzazioni e persone singole costituitesi parte civile, 557 test, ex dipendenti degli stabilimenti Eternit sentiti dal pm, 220mila pagine di atti giudiziari, 1200 posti a disposizione di chi vorrà assistere alle udienze. Da aprile 2008 i pullman da Casale pieni di testimoni fanno spola con la procura di Torino. Portano un carico di dolore, di dad man walking. Che vogliono esserci ancora, che chiedono giustizia. Stephan ha promesso indennizzi importanti, ma loro non vogliono quella che chiamano carità: 36mila abitanti, 2mila morti, il rapporto proporzionale è assurdo. «Un'ecatombe non si perdona, non si compra». Davanti alla procura, con striscioni e cartelli, i giorni delle udienze si possono incontrare anche francesi, svizzeri, belgi e tedeschi, che guardano al processo con interesse enorme: all'estero chi si è ammalato di cancro, asbestosi o mesotelioma riesce a prendere senza troppe difficoltà risarcimenti economici nei tribunali civili, ma non esistono processi penali come quello messo in piedi in Italia. Guariniello ce l'ha messa tutta. Ha trovato gli indirizzi di quasi tremila persone, per notificare gli atti. Ha ipotizzato, per la prima volta in assoluto, il reato di disastro non solo "interno" (che colpisce, dunque, i lavoratori) ma anche "esterno", con il coinvolgimento dei cittadini che hanno vissuto vicino la fabbrica. Ha portato alla sbarra non solo quadri e dirigenti secondari, ma i vertici massimi di una multinazionale. Davide contro Golia. Le responsabilità sono dei capi, questo il principio. Dovrebbe essere ovvio, ma è cosa rara nei processi di questo genere. Guariniello, soprattutto, ha messo insieme migliaia di carte, documenti, fotografie e testimonianze che hanno indotto il giudice per le indagini preliminari a disporre il giudizio.Una delle prove chiave della negligenza dei due imputati è una relazione tecnica del 23 febbraio del 1976. Da anni gli scienziati hanno già spiegato i gravi rischi per la salute collegati all'amianto. La lettera è firmata dal dottor K. Robock, il responsabile sulla sicurezza sul lavoro e tutela ambientale della Wirtshaftsverband Asbesrzement E.V., l'Associazione commerciale cemento-amianto a cui appartenevano i produttori più importanti. Destinatario: Luigi Reposo, direttore della fabbrica di Casale. Dieci paginette da leggere piano, pianissimo. Lasciano senza fiato.«La pulizia delle macchine non è da considerarsi soddisfacente. Per questa attività vengono impiegate esclusivamente scope. In tal modo le macchine e i pavimenti del capannone vengono certamente puliti in maniera irreprensibile, ma allo stesso tempo vengono sollevati dei vortici di polvere sottile che portano ad un innalzamento del livello di polvere complessivo...Come protezione contro la polvere sono state indossate quasi esclusivamente maschere protettive contro polvere grossa. L'effetto barriera di queste maschere contro le polveri sottili è decisamente limitato. Indossare queste maschere ha più che altro un valore psicologico. Qualora in Italia non venga subito prescritto da parte delle autorità l'utilizzo di maschere adeguate, consigliamo l'impiego delle maschere protettive contro polvere sottile». "Consigliamo". «Punti di misura 10 e 11: E' stato osservato che gli operai tolgono i blocchi di amianto pressato dai sacchi anche molto tempo prima dell'inserimento, non è da escludere che la circolazione d'aria possa in questo modo trasportare fibre...Punto di misura 13: al momento della misurazione il sistema di aspirazione era otturato. Il risultato mostra che, a causa di ciò, non solo viene liberato cemento, come già sappiamo, ma anche una considerevole quantità di fibre... Punto di misura 16: i sacchi di plastica utilizzati sono in parte danneggiati e vengono fatti arrivare al bocchettone di riempimento allentati. Durante il riempimento vi è quindi un notevole sviluppo di polvere...Punto di misura 22: qui l'aspirazione non è ottimale...Punto 23: Qui sussiste il rischio legato all'alta concentrazione di polveri sottili...è possibile che di tanto in tanto l'aria carica di polvere venga deviata dall'aspirazione. Sarebbe opportuno...Punto 31: Al termine del processo di taglio, quando dalla lastra viene rimosso del materiale, si alza una visibile nuvola di polvere. A mio avviso, questo inconveniente può essere evitato allungando la cappa». Negli altri appunti si parla di aspirazioni «non ottimali» e di tubi «difettosi», poi si chiude con il punto di misura 40. «Se si considera l'effetto a breve termine, l'impatto ambientale è minore di quanto non ci si aspetti. Il conducente del camion, che durante lo scaricamento si trova in mezzo ad una fittissima nuvola di polvere, è però fortemente a rischio». Il consiglio: indossi una maschera protettiva adeguata. Ergo: quando gli ispettori hanno fatto visita a Casale, non la usavano. Alla fine il dottor Robock è comunque più che soddisfatto. Addirittura «molto sorpreso»per la quantità bassa di polveri di amianto. L'impianto è promosso a pieni voti, tanto che «la priorità non è più quella di puntare sugli investimenti, ma su misure formative e preventive, in questo caso specialmente per quanto riguarda le attività di pulizia». Stephan Schmidheiny si è ripulito alla grande. L'Eternit italiana è fallita oltre venti anni fa, non ha più cariche formali nell'azienda di famiglia, ma i suoi investimenti hanno continuato ad andare a gonfie vele. E' tra i fondatori della Swatch, gli orologi di plastica a basso prezzo più venduti del mondo, ed è o è stato membro dei consigli di amministrazione di colossi aziendali, da Asea Brown Boveri alla Nestè, passando per l'Ubs. Ma oggi ama definirsi, più di ogni altra cosa, un filantropo. Già: per gli scherzi del destino, quello che qualcuno accusa di essere una sorta di avvelenatore seriale, dagli anni '90 promuove con la fondazione Fundes lo sviluppo di aziende ecosostenibili in Sud America; finanzia associazioni ambientaliste come Avina, che si occupa di cooperazione e assistenza sociale; diventa consulente di Bill Clinton e parla all'Onu e al Vaticano; scrive libri sullo sviluppo sostenibile; prende svariati premi e persino lauree honoris causa. Come quella, prestigiosa, assegnata dalla Yale University. «Sono cresciuto in una fattoria piena di vigneti, e con i miei parenti ero solito compiere escursioni in montagna» racconta «Le vacanze le passavamo nelle isole del mediterraneo, e lì ho iniziato a occuparmi della difesa dell'ambiente». Una conversione quasi religiosa, quella dell' ex Mister Eternit. Frasi quasi paradossali, da chi è accusato di non aver messo impianti e apparecchi per prevenire malattie e patologie da amianto, omesso di «sottoporre i lavoratori ad adeguato controllo sanitario mirato sui rischi specifici da amianto», di aver determinato, a Cavagnolo, Casale, Bagnoli e Rubiera «un'esposizione incontrollata continuativa e a tutt'oggi perdurante» scrive dura il gip nel decreto «senza rendere edotti gli esposti circa la pericolosità dei predetti materiali e per giunta indicendo un'esposizione di fanciulli e adolescenti anche durante attività ludiche». Un criminale, in pratica, nemmeno lontano parente dell'ecologista stimato nei consessi internazionali. Stephan si difende così: «Io stesso ho respirato fibre di aminato quando ero in Brasile, a fare formazione. Mi è capitato spesso di aver caricato sacchi di amianto... I nostri consulenti credevano che negli studi scientifici che evidenziavano gli effetti nocivi dell'asbesto c'erano delle contraddizioni. Io ho immediatamente installato nuove apparecchiature e filtri per ridurre al minimo la concentrazione di fibre nell'aria delle nostre fabriche. Abbiamo anche attuato programmi di formazione del personale per ridurre al minimo i rischi. Allo stesso tempo, ho annunciato pubblicamente che il gruppo avrebbe smesso di produrre prodotti contenenti amianto, molto prima che l'Unione europea imponesse il divieto. Mi ricorda ancora le parole di uno dei responsabili tecnici dopo il mio annuncio: "Il giovane Schmidheiny è pazzo!"». Sarà. Il destino di Sthepan il filantropo è ora in mano ai giudici, che dovranno decidere se lui sapeva davvero dei rischi e nulla ha fatto per salvare la vita ai suoi operai o se, al contrario, nulla poteva contro gli effetti del veleno. Ma una cosa è certa: al processo di Torino c'è un altro imputato di pietra, lo Stato italiano. Uno degli ultimi a bloccare ufficialmente le produzioni in amianto: se la marina inglese vieta la coibentazione a spruzzo già nel 1963, e l'Australia bandisce il veleno nel 1970, prima ancora che gli svizzeri scendessero dalle Alpi, nel Belpaese la prima direttiva che mette limiti alla quantità di polveri è del 1982, ma il divieto definitivo arriva nel 1992. La pubblicazione di ricerche scientifiche che inequivocabilmente dimostravano la pericolosità della sostanza avviene trent'anni prima, mentre nel 1976 l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro avverte che ogni tipo di asbesto è altamente cancerogeno. Se ne fregano tutti. I governi che si sono succeduti hanno consentito non solo la produzione massiccia, ma la diffusione selvaggia di amianto in tutto il Paese. Noi eravamo uno dei maggiori player del mondo. Solo negli anni che vanno dal 1984 al 1988, quando la Ue raccomandava la messa in mora e tutti i paesi scandinavi smantellavano le fabbriche e bonificavano il bonificabile, in Italia sono state piazzate tre milioni di tonnellate. Oggi si stima che esistano ancora 2,5 miliardi di lastre di cemento-amianto da rimuovere, pari a circa 32 milioni di tonnellate, in gran parte materiale friabile tossico. Sono dati del Cnr. Ripostigli, garage, condutture idriche, scuole e ospedali sono ancora foderati di Eternit. Interi quartieri galleggiano nelle invisibili polveri, almeno mille italiani ogni anno vengono uccisi dalla morte bianca. La dimensione sociale del fenomeno è enorme: basta dare un'occhiata ai dati Inail, che riceve 1400 denunce di malattie da amianto ogni 12 mesi. La legge prevede una pensione privilegiata per chi abbia lavorato a contatto con il veleno, e, visto che il periodo di latenza del mesotelioma può durare 40 anni, gli esperti sanno che i numeri andranno ad aumentare esponenzialmente negli anni a venire. Secondo l'Associazione italiana esposti amianto sono 210mila i cittadini ancora a rischio. Il killer invisibile è annidato dappertutto. La Spezia e Genova, si sa, ha uno dei tassi di asbestosi più alti del mondo: la sostanza arrivava nascosta nelle navi militari ed era conservata a decine di tonnellate nei depositi per il crisotilo, l'amianto blu. I porti sono zone franche. Altri punti sensibili, secondo i dati nazionali dell'Apat, sono le ex miniere di Balangero, in Piemonte, alcune fabbriche di Marghera a Venezia, la vecchia base aeronautica di Monte Venda, sui Colli Euganei, la solita, sfortunata Seveso, la Breda di Sesto e di Pistoia, dove si sono costruiti per lustri i convogli dei treni imbottiti di asbesto. Ancora. L'amianto è stato padrone ai cantieri navali di Trieste e alla Fincantieri di Monfalcone, nel paese di Biancavilla, in Sicilia, dove fino alla metà degli anni '90 lo sfruttamento di una cava ha diffuso polveri d'amianto in ogni angolo. Come alla ex fabbrica Fibronit di Bari, i cui residui di amianto sono stati per anni scaricati in mare, cosicché a poco a poco le fibre si sono depositate su una spiaggia. L'ecatombe è quotidiana: i ricercatori del Monaldi di Napoli, un polo di eccellenza per la diagnosi e la cura delle malattie respiratorie, ha redatto nel 2009 un rapporto-choc, studiando le cartelle cliniche di chi è morto nell'ultimo decennio in Campania per mesotelioma pleurico. Ebbene, tra il 2006 e il 2002 c'è stato un l'aumento di casi del 50 per cento rispetto al cinquennio precedente. E su 213 casi censiti, 198 hanno riguardato persone che non hanno mai lavorato in mezzo al veleno. Come mai un fenomeno così massiccio? «La rimozione e il deposito in discariche speciali dell'amianto, come previsto dalla legge, non è semplice»scrivono i ricercatori «per cui spesso l'amianto è gettato in discariche comuni e/o abusive, e quando gli agenti atmosferici penetrano nelle discariche ne possono derivare percolati che diffondono le fibre nocive nell'ambiente e nelle acque». Il rapporto ha una dedica speciale, «in ricordo di due cari amici morti di recente per il mesotelioma». Ancora oggi nessuno ha pubblicato una mappatura degli edifici pubblici contaminati, ma è sicuro che alcune Regioni, una volta venuti a conoscenza della quantità di veleno ancora in circolo, hanno preferito secretare la documentazione. Scelta che ha fatto la Toscana. Peccato, perchè la legge del marzo del 2001 ha stanziato per la mappatura nazionale ben 9 milioni di euro. Calabria, Lazio e Sicilia non hanno consegnato ancora nessuna tabella, mentre Campania, Puglia, Umbria, Veneto e Valle d'Aosta hanno inviato al ministero dell'Ambiente dati parziali e statistiche poco significative. Nessuno, in Italia, ha investito massicciamente sulla bonifica del territorio. Nemmeno per le condutture: quasi tutte le grandi città vengono usate migliaia di condutture in cemento-amianto per trasportare l'acqua nelle nostre case. «Non è un problema» dicono gli scienziati dell'Oms «Non è sicuro che l'amianto bevuto faccia male come quello che si respira». Allora sì, siamo tranquilli.
Acque velenose di Emiliano Fittipaldi. Nichel. Arsenico. Fosforo. Sostanze pericolose dai nostri rubinetti. E le Regioni lo nascondono alzando i limiti di legge. Un libro racconta i disastri d'Italia. I veleni sono in agguato. Nell'acqua che beviamo, nel cibo, nell'aria che respiriamo, nei cosmetici. Esce mercoledì prossimo 'Così ci uccidono' (Rizzoli), l'inchiesta di Emiliano Fittipaldi, giornalista de 'L'espresso' che racconta storie e segreti di avvelenatori e avvelenati, protagonisti di un disastro nazionale di cui nessuno vuole parlare. Anticipiamo un brano dal primo capitolo. Lo stato delle acque pubbliche italiane e la possibilità, accettata per legge, che si possano ingurgitare sorsi di sostanze tossiche al di sopra delle soglie massime è un fenomeno nascosto, che coinvolge centinaia di comuni in tutto il Paese. Città e piccoli centri dove ogni giorno dai rubinetti della cucina e dalla doccia sgorgano, mischiate alle molecole d'acqua, anche quelle dell'arsenico, dell'alluminio, del cromo, del nichel. Con l'aggiunta di un po' di piombo, vanadio, fluoro, selenio, trialometanio, atrazina. E spesso in quelle zone i tassi di mortalità sono più alti rispetto a quanto dovrebbero essere. "Atra... che?". "Atrazina, signora.". "E quindi?". "E quindi non la deve più bere né bollirci le patate". Così la signora Maria Rosa di Dossobuono da Villafranca di Verona, profondo Nord-Est, ha scoperto che l'acqua del suo comune era una schifezza. Il 30 settembre 2009 il sindaco Mario Faccioli ha stabilito con un'ordinanza "l'interdizione del consumo dell'acqua da parte della popolazione, fino all'avvenuto ripristino della qualità-idoneità dell'acqua erogata". Maria e 11 mila compaesani dalla sera alla mattina hanno imbracciato taniche e bottiglie vuote e fatto la fila per riempirle alle cisterne. L'acqua era un pericolo. Atrazina e desetilatrazina vogliono dire tracce di concimi azotati usati in agricoltura e di un diserbante vietato dal 1992. Ma quanta ne hanno bevuta prima di esserne informati? Una disposizione simile è in vigore anche a Civitavecchia, nel Lazio, dove nei bagni di certe aziende c'è scritto sopra i lavandini: 'Non bevete'... Qui a rendere torbida l'acqua sono gli organoalogenati, composti nocivi anche per semplice inalazione. Purtroppo non si tratta affatto di casi limite. Nell'ultimo anno, solo per fare qualche esempio, divieti assoluti sono scattati a Campomarino (Molise), Agrate Brianza (Lombardia), Satriano (Calabria), Mussomeli e Campobello di Licata (Sicilia). A Talamone, in Toscana, il sindaco ha invece ordinato di "far bollire l'acqua per almeno quindici minuti, se la si vuole utilizzare per usi alimentari". Tranquillizzante. Che cosa contamina le nostre acque e perché? Ci sono diverse spiegazioni: la morfologia del territorio, gli scarichi industriali, la carenza delle condutture. Talvolta in un solo territorio concorrono all'inquinamento tutte e tre le situazioni: nella zona dei Colli Albani, nel Lazio, in un'area che interessa 1.500 chilometri quadrati e quasi 600 mila persone, le acque sono intossicate dalle emissioni gassose sotterranee del Vulcano Laziale, ricche di anidride carbonica, che entrano in contatto con le rocce portando nelle tubature metalli pesanti. Il mix è inoltre arricchito dai liquami privati, che vengono scaricati nel terreno. Ne risulta una massiccia presenza di elementi cancerogeni o fortemente tossici come il fluoro, l'arsenico, l'uranio nelle falde sottostanti. A Crotone, in Calabria, se possibile va ancora peggio. Si sospetta che l'acqua sia contaminata e avvelenata da arsenico, cadmio e altri minerali tossici... Un altro disastro si è verificato nei pressi di Pescara, in una valle a 50 chilometri dalla città... Abruzzo, Colli Albani, Civitavecchia, Veneto sono solo esempi probabilmente abbastanza noti della devastazione massiccia del nostro territorio. Pochi sanno però che le nostre istituzioni ce la danno a bere, letteralmente, l'acqua avvelenata che ha invaso acquedotti e condutture. Non possono evitarlo, l'unico modo è lasciare a secco qualche milione di persone. Ma come ci riescono senza farsi notare troppo? Attraverso le cosiddette "deroghe". La questione risale ai primi anni Duemila, quando entra in vigore il decreto legislativo 31/2001, che disciplina le acque destinate al consumo umano. Le norme stabiliscono i valori limite dei parametri microbiologici e chimici che possono essere presenti nell'acqua per definirla "potabile". Ma, in particolari circostanze di degrado della risorsa idrica, l'articolo 13 del decreto concede alle amministrazioni "interessate" la possibilità di accordare deroghe ai valori prescritti, purché non comportino "potenziale pericolo per la salute umana e sempreché l'approvvigionamento di acque destinate al consumo non possa esser assicurato con altro mezzo". In pratica, se l'acqua comune presenta elementi potenzialmente nocivi, l'ente locale lascia aperti i rubinetti e fissa dei termini entro i quali dovrà provvedere a riportare i parametri a norma. Peccato che in genere le deroghe non durino pochi mesi, ma vengano rinnovate di anno in anno. Un controsenso anche per l'Unione europea: dal 2012, non sarà più possibile far ricorso ai regimi in deroga. Senza trucchetto, però, c'è il rischio concreto che milioni di famiglie possano rimanere senz'acqua. Dal 2002 almeno 13 regioni italiane hanno fatto uso massiccio di deroghe. La prima è stata la Campania, proprio quell'anno, per eccesso di fluoro nelle acque... Le deroghe accordate per 14 comuni della provincia di Napoli erano ancora in vigore nel 2009. Nel 2003 si sono aggiunte Sicilia e Toscana. Nell'acquedotto di Palermo e di altri comuni della fascia costiera ci sono troppi cloriti: i cittadini hanno bevuto livelli 'fuorilegge' fino al 2007. Stessa sorte per le deroghe nei comuni del massiccio etneo, in provincia di Catania, accordate anche per vanadio e boro; mentre nel 2008 a un comune della provincia di Trapani è stata concessa deroga per i nitrati, legati all'allevamento e all'uso di fertilizzanti. Per quanto riguarda la Toscana, dal 2003 si sono bevuti veleni in eccesso in ben 137 comuni... Gli elementi oggetto delle deroghe sono arsenico, boro, cloriti, trialometani... In genere le lievi contaminazioni da arsenico comportano lesioni, arti gonfi e perdita di sensibilità, mentre quelle più gravi possono portare fino al cancro alla vescica, ai polmoni e ai reni... Marco Betti, assessore della regione Toscana alla Difesa del suolo, si è detto sicuro che l'emergenza rientrerà presto... Nel 2004 le regioni che hanno adottato deroghe raddoppiano. Oltre a Campania, Sicilia e Toscana si sono aggiunte Lombardia, Piemonte, Trentino, Emilia-Romagna, Marche, Puglia e Sardegna. In Emilia e nelle Marche si è disposta per due anni la deroga in alcuni comuni dove erano presenti cloriti. Invece Lombardia e Piemonte fanno eccezioni per le località dove le acque sono ricche di arsenico... In Puglia sono state disposte deroghe (attive tuttora) per cloriti e trialometani... Pure la regione Sardegna ha dispensato alcuni comuni dai parametri legali di cloriti, trialometani e vanadio... Il Lazio è una delle aree italiane dove il problema delle contaminazioni delle risorse idriche è più forte. Come descritto in un rapporto di Cittadinanzattiva, se nel 2006 le deroghe riguardavano complessivamente 37 comuni, di cui 15 per tre parametri contemporaneamente, nel 2009 il totale dei comuni ammonta a 84 e in 59 tra questi le dispense riguardano quattro parametri: arsenico, fluoro, selenio e vanadio... Nel 2006 tocca al Veneto derogare le acque di un paesino della provincia di Verona, dati gli alti tassi di tricloroetilene e tetracloroetilene, contaminanti organici molto utilizzati nelle lavanderie e nelle industrie metalmeccaniche... Qui il caso è virtuoso: dopo un anno il Veneto ha deciso di non prorogare. L'ultima regione ad adottare dispense normative è stata l'Umbria, nel 2008: deroghe sull'arsenico attive ancora oggi, sebbene l'assessorato regionale assicuri: "Sono problemi di origine geologica, ci sono da sempre e si sostanziano in 14 microgrammi di arsenico a litro d'acqua". Ovvero poco al di sopra di quanto consentito dalla legge. Ora avete il petrolio, disse l'ingegnere. "Il petrolio? Mi creda, se lo succhiano - disse il professore - se lo succhiano. E così finisce col petrolio: una canna lunga da Milano a Gela, e se lo succhiano". Leonardo Sciascia aveva capito. Aveva scritto in un racconto del 1966, 'Il mare colore del vino', che il petrolchimico della città siciliana non avrebbe portato una lira nelle tasche dei suoi abitanti. Mai, però, avrebbe potuto immaginare che, dopo 40 anni, la città sarebbe diventata famosa in tutto il mondo per i tassi mostruosi di malformazioni e tumori. L'area di Gela è una delle più inquinate del mondo, ed è cosa nota. Ma ora l'Oms ha scoperto che nelle vene degli abitanti scorre anche arsenico. Il biomonitoraggio effettuato dal Cnr è durato mesi, e ha dato risultati choccanti: il sangue del 20 per cento del campione, composto in tutto da 262 persone, è pieno di veleno. Oltre all'arsenico ci sono tracce di rame, piombo, cadmio e mercurio. Non si tratta di operai esposti sul lavoro, ma di casalinghe, impiegati, giovani sotto i 44 anni. Residenti a Gela, Niscemi e Butera. Nelle loro urine sono stati trovati livelli di arsenico superiori del 1.600 per cento al tasso-limite. Facendo una proporzione sul totale dei residenti, a rischio avvelenamento potrebbero trovarsi più di 20 mila persone. Non stupiscono, visti i risultati delle analisi, i nuovi dati sulla mortalità e le malattie, statistiche che arrivano fino al 2007: "Nell'area in studio", si legge nel rapporto pubblicato su 'Epidemiologia&Prevenzione', si osserva una mortalità generale per tutti i tumori significativamente più elevata, sia negli uomini sia nelle donne". Il boom riguarda il cancro alla pleura, ai bronchi e ai polmoni, con eccessi di patologie per lo stomaco, la laringe, il colon e il retto. Un disastro sanitario che è evidente anche nelle tabelle sulle malattie generiche, con troppi ricoveri per malattie psichiatriche e avvelenamenti. Che a Gela si muore d'ambiente sembra provarlo anche un'altro report firmato dall'Istituto superiore di sanità: tra i lavoratori del petrolchimico, i più a rischio sono quelli che, finito il turno, tornano a casa in città. I pendolari non residenti hanno tassi di mortalità per cancro polmonare molto più bassi Lo studio è uno spartiacque. Per la prima volta gli scienziati hanno in mano un potenziale nesso tra inquinamento del territorio e mortalità in eccesso. Un legame che dovrebbe indurre le istituzioni a darsi una mossa, mettendo in campo politiche di prevenzione più efficaci: anche se non sappiamo ancora il tipo di arsenico che circola nel corpo dei gelesi (quello inorganico è cancerogeno, quello organico è tossico, ma assai meno pericoloso) gli scienziati chiedono subito maggiori controlli sugli alimenti, in particolare su verdure, pesci e crostacei. Fabrizio Bianchi, epidemiologo del Cnr, ha coordinato la ricerca e non nasconde la sua preoccupazione: "L'impatto ambientale è indubitabile. In mare, nelle acque, sulla terra ci sono concentrazione di metalli superiori fino a un milione di volte i livelli accettabili. L'arsenico non era già presente in forme naturali, come dice qualcuno, ma è stato immesso dall'uomo. La 'pistola fumante'? Diciamo che abbiamo trovato i proiettili, ora dobbiamo capire chi ha sparato". La procura indaga, ma il compito dei pm non è facile. Oggi a Gela è attiva la grande raffineria dell'Eni, ma nell'area per decenni hanno fabbricato clorosoda, acido cloridico e altri prodotti chimici. Le bonifiche già partite sono poche, la stragrande maggioranza dei veleni resta a terra. "Siamo ancora alle conferenze istruttorie", chiosa Bianchi: "Bisognerebbe accelerare l'iter, anche perché l'arsenico è un composto che non rimane a lungo nel corpo. Le grandi quantità che abbiamo trovato dimostrano che l'esposizione è tutt'ora in corso".
Acqua velenosa di Emiliano Fittipaldi. Nel fiume Ticino è allarme cadmio, cromo, ammoniaca, azoto. In dosi fuori limite. E altri inquinanti nei bacini idrici in provincia di Milano e Pavia. Scoperti dal Corpo forestale. Nel 1997 i Mondiali di Pesca all'oro hanno fatto tappa nel Ticino. Gli organizzatori sono andati a colpo sicuro: le preziose pagliuzze scendono dalle Alpi dalla notte dei tempi, e le gesta dei cercatori (migliaia di schiavi assoldati dall'Impero romano, in verità) le ha già raccontate Plinio il Vecchio. Oggi una nuova corsa è inimmaginabile: si calcola che il fiume trasporti ogni giorno micro-pepite per un valore oscillante tra i 5 mila e i 10 mila euro, poca cosa. Ma di sicuro, se si organizzasse una nuova tappa del campionato, oggi nelle padelle non finirebbe il nobile metallo giallo, ma perniciosissimi (e invisibili) metalli pesanti. Che, in aggiunta a decine di altre sostanze tossiche, formano un menù killer per la flora e la fauna dell'ecosistema. Cadmio, azoto ammoniacale e cromo esavalente sono solo alcuni degli inquinanti ritrovati in quantità superiori ai limiti dai tecnici del Corpo forestale dello Stato, che hanno messo sotto osservazione la parte di fiume vicino Morimondo. Un comune ridente, al di là del nome, e famoso per i suoi prodotti biologici: siamo all'interno del Parco della Valle del Ticino, annoverata dall'Unesco tra i patrimoni dell'umanità. "Mancanza di depuratori, scarichi urbani, agricoli e industriali hanno messo in serio pericolo la salute delle acque. E chi si fa il bagno nel fiume lo fa a suo rischio e pericolo", dice Elisabetta Morgante, vice-questore aggiunto della polizia scientifica ambientale. Non solo ignari canoisti e pescatori e altri habitué del Ticino, ma anche chi va nelle toilette di alcune fabbriche di Abbiategrasso, senza saperlo, mette a rischio la propria incolumità. A pochi chilometri da Milano, infatti, gli agenti del Corpo hanno scoperto che l'acqua che esce dai rubinetti di alcune fabbriche di un grosso insediamento industriale (circa 20 fabbricati in periferia) è avvelenata. Dipendenti, operai e dirigenti si lavano con il cadmio, il nichel e il piombo, metalli trovati sia nelle condutture dei bagni sia nelle fognature del quartiere. Anche in provincia di Pavia, ad Albuzzano, le indagini del laboratorio mobile hanno scoperto situazioni al limite. Le acque nere di un nuovo complesso residenziale del paese finiscono dritte dritte nei canali di irrigazione dei campi. A parte il tanfo, fastidioso ma innocuo, l'acqua corretta a fenolo e nichel penetra nel terreno dove si coltivano foraggio e cereali. Mais e grano che si trasformano in pane e pasta. Chi crede che la Lombardia, la zona più ricca e sviluppata d'Italia, sia immune dagli effetti dell'inquinamento selvaggio e dell'antropizzazione sbaglia di grosso. I fiumi della regione sono molto sporchi: secondo gli ultimi dati resi noti dell'Agenzia di protezione dell'ambiente il 32 per cento dei corsi d'acqua è 'scarso' o 'pessimo', e le falde primarie, quelle più in superficie, sono praticamente compromesse. Come la Lombardia, anche il resto della Pianura Padana conserva nel sottosuolo nitrati, metalli e pesticidi in quantità massicce. "Si pensa agli effetti della diossina a Napoli e alle falde acquifere del Sud, ma anche qui abbiamo seri problemi", spiega Damiano Di Simine, presidente regionale di Legambiente: "Dieci milioni di abitanti, sette milioni tra suini e bovini, insediamenti zootecnici e industriali hanno un impatto pesante. Se il Seveso e l'Olona non viaggiano dentro zone agricole, l'inquinatissimo Lambro viene usato tuttora per irrigare i campi. Una bomba biologica". Nel Bresciano le industrie di fucili e chiodi della Val Trompia scaricano nel fiume Mella, che bagna filari di ortaggi e frumento. Un corso che ha sparpagliato la diossina prodotta dalla Caffaro di Brescia per mezza provincia. La Lombardia è in ottima compagnia. I dati Apat disegnano un quadro a tinte fosche di tutte le acque tricolori. Quella potabile è in genere di ottima qualità, ma le riserve blu del sottosuolo e i corsi in superficie sono, in parte, contaminati, come mostrano la tabellla qui a fianco, e come spieghiamo nel dettaglio nell'articolo di pagina 53. Con un trend decisamente negativo: rispetto al 2003, l'acqua delle falde inquinata per mano dell'uomo passa dal 21,5 al 28 per cento, mentre il liquido di classe 1 e 2, il più pregiato, diminuisce di tre punti. Ticino al cadmio Morimondo è in provincia di Milano ed è nelle acque in cui si specchia il paesino (1.131 anime secondo l'ultimo censimento Istat) che la Forestale ha fatto le prime analisi. La diagnosi è sconfortante: quello che molti considerano uno dei fiumi più puliti d'Italia è gravemente ammalato. "Abbiamo trovato presenza massiccia di schiuma, dovuta a presenza di tensioattivi", spiega Elisabeta Morgante, "ma soprattutto valori alti di cadmio, fenoli, azoto ammoniacale, piombo. Sostanze rilevate sia vicino lo scarico sia nell'ansa. Un fatto gravissimo per un'area di elevato pregio naturalistico. Bisogna che le autorità gestiscano gli scarichi in modo adeguato. Sono troppi i comuni della zona senza depuratore o con sistemi non funzionanti, e troppe le aziende di zootecnia e del secondario che buttano tutto in canali collegati al Ticino". L'inquinamento-choc è provocato anche dallo sfruttamento serrato da parte dell'agricoltura: il fiume, saccheggiato durante sei mesi l'anno, a bassa portata perde la capacità di autodepurazione. I campanelli d'allarme ci sono tutti, compresa l'assenza dei microrganismi che vivono solo in acque pulite: la minaccia all'ecosistema è reale. "Non solo. Ricordo che qui si coltivano riso e prodotti biologici, cibo che finisce sulle nostre tavole", chiosa la scienziata. Che fa un breve, terrificante elenco degli effetti dei metalli pesanti sulla salute e l'ambiente. "Il cadmio è un metallo raro, e insieme al mercurio è il più pericoloso. E' tossico per l'uomo anche a concentrazioni minime, e tende ad accumularsi negli esseri e negli ecosistemi. L'assorbimento avviene attraverso gli alimenti, come fegato, funghi, crostacei, polvere di cacao, alghe. I fenoli hanno effetti pericolosi se ingeriti o messi a contato con gli occhi, il piombo viene trattenuto nel sistema nervoso centrale e nelle ossa". Anche il cromo esavalente, usato per la concia delle pelli o la produzione di vernici, può provocare reazioni allergiche, problemi di stomaco e respiratori, persino alterazione del materiale genetico e cancro ai polmoni. "Solo una piccola parte di questa sostanza si dissolve in acqua: l'acidificazione del terreno può facilitare l'assorbimento del cromo da parte dei raccolti". Nichel ad Abbiategrasso La vicenda di Abbiategrasso, paesone a 20 chilometri dal capoluogo, ha dell'incredibile. La Forestale ha trovato nichel, piombo e cadmio direttamente nell'acqua che usciva dai rubinetti di un intero supercondominio industriale alla periferia della città. Un distretto in cui sono localizzate varie ditte: dalle carrozzerie per auto ad aziende di materie plastiche, dalla verniciatura di accessori da bagno alla produzione di sacchetti e borse in polietilene, fino alla costruzione di motori elettrici e alla lavorazione del cemento. Circa 20 insediamenti in cui lavorano centinaia di persone. La gestione della lottizzazione, dice la Forestale, non è mai passata al Comune, e la zona non è servita da un acquedotto: le aziende scaricano i liquidi in una fognatura privata, e l'acqua che alimenta il quartiere proviene da un pozzo. Tutto gestito da una società che, dopo le indagini, è finita nel mirino della Procura di Milano. Dopo l'intervento della Forestale l'amministrazione ha firmato un'ordinanza urgente, che ha vietato alle aziende di aprire i rubinetti venefici. "La problematica degli scarichi e della gestione della risorsa idrica in Italia anche nei contesti apparentemente più sviluppati è risultata quanto mai irrisolta e confusa: in provincia di Milano le analisi portano ad ipotizzare un rischio concreto di contaminazione diffusa", chiosano dal Corpo. L'acqua destinata ai bagni delle aziende, usata per fini igienici, ma che chiunque poteva bere, era di fatto non potabile, così sporca da poter determinare "danni ambientali anche a lungo termine e forme di tossicità acuta e cronica". Pavia a cielo aperto Il mirino dei biologi della Forestale si è infine fermato su Albuzzano, in provincia di Pavia. Il regno dei cereali e del riso: i chicchi della zona finiscono nei piatti di tutti gli italiani, e si stagliano in bella evidenza persino nello stemma del Comune. Ebbene, nella ricca Padania può accadere che un insediamento residenziale nuovo di zecca scarichi le sue acque nere direttamente nel reticolo idrico superficiale. Fuor di tecnicismi, lo scolo dei bagni di una ventina di villette finisce nei canali a cielo aperto usati per l'irrigazione dei campi coltivati. "Abbiamo visto a occhio nudo chiazze oleose e idrocarburanti, oltre a sentire un puzzo nauseante", ragiona Alberto Guzzi, comandante provinciale del Corpo: "L'inquinamento, paradossalmente, in questo caso potrebbe essere legalizzato: non è raro che la Provincia autorizzi temporaneamente il convoglio degli scarichi nelle acque superficiali. Basti pensare che fino a pochi anni fa intere zone di Milano est usavano il Lambro come fognatura". Dai risultati dei campioni prelevati risultano anche valori alti di fenoli, presenza di piombo e nichel, formazione di solidi sospesi a rischio tossicità. A dimostrazione che i veleni non sono un'esclusiva della Campania e delle sue discariche, ma galleggiano anche nelle acque poco trasparenti dell'Italia del Nord.
Così ho avvelenato Napoli di Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi. Le confessioni di Gaetano Vassallo, il boss che per 20 anni ha nascosto rifiuti tossici in Campania pagando politici e funzionari. Temo per la mia vita e per questo ho deciso di collaborare con la giustizia e dire tutto quello che mi riguarda, anche reati da me commessi. In particolare, intendo riferire sullo smaltimento illegale dei rifiuti speciali, tossici e nocivi, a partire dal 1987-88 fino all'anno 2005. Smaltimenti realizzati in cave, in terreni vergini, in discariche non autorizzate e in siti che posso materialmente indicare, avendo anche io contribuito...Comincia così il più sconvolgente racconto della devastazione di una regione: venti anni di veleni nascosti ovunque, che hanno contaminato il suolo, l'acqua e l'aria della Campania. Venti anni di denaro facile che hanno consolidato il potere dei casalesi, diventati praticamente i monopolisti di questo business sporco e redditizio. La testimonianza choc di una follia collettiva, che dalla fine degli anni Ottanta ha spinto sindaci, boss e contadini a seminare scorie tossiche nelle campagne tra Napoli e Caserta. Con il Commissariato di governo che in nome dell'emergenza ha poi legalizzato questo inferno. Gaetano Vassallo è stato l'inventore del traffico: l'imprenditore che ha aperto la rotta dei rifiuti tossici alle aziende del Nord. E ha amministrato il grande affare per conto della famiglia Bidognetti, seguendone ascesa e declino nell'impero di Gomorra. I primi clienti li ha raccolti in Toscana, in quelle aziende fiorentine dove la massoneria di Licio Gelli continua ad avere un peso. I controlli non sono mai stati un problema: dichiara di avere avuto a libro paga i responsabili. Anche con la politica ha curato rapporti e investimenti, prendendo la tessera di Forza Italia e puntando sul partito di Berlusconi.
La rete di protezione. Quando Vassallo si presenta ai magistrati dell'Antimafia di Napoli è il primo aprile. Mancano due settimane alle elezioni, tante cose dovevano ancora accadere. Due mesi esatti dopo, Michele Orsi, uno dei protagonisti delle sue rivelazioni è stato assassinato da un commando di killer casalesi. E 42 giorni dopo Nicola Cosentino, il più importante parlamentare da lui chiamato in causa, è diventato sottosegretario del governo Berlusconi. Vassallo non si è preoccupato. Ha continuato a riempire decine di verbali di accuse, che vengono vagliati da un pool di pm della direzione distrettuale antimafia napoletana e da squadre specializzate delle forze dell'ordine: poliziotti, finanzieri, carabinieri e Dia. Finora i riscontri alle sue testimonianze sono stati numerosi: per gli inquirenti è altamente attendibile. Anche perché ha conservato pacchi di documenti per dare forza alle sue parole. Che aprono un abisso sulla devastazione dei suoli campani e poi, attraverso i roghi e la commercializzazione dei prodotti agro-alimentari, sulla minaccia alla salute di tutti i cittadini. Come è stato possibile? "Nel corso degli anni, quanto meno fino al 2002, ho proseguito nella sfruttamento della ex discarica di Giugliano, insieme ai miei fratelli, corrompendo l'architetto Bovier del Commissariato di governo e l'ingegner Avallone dell'Arpac (l'agenzia regionale dell'ambiente). Il primo è stato remunerato continuativamente perché consentiva, falsificando i certificati o i verbali di accertamento, di far apparire conforme al materiale di bonifica i rifiuti che venivano smaltiti illecitamente. Ha ricevuto in tutto somme prossime ai 70 milioni di lire. L'ingegner Avallone era praticamente 'stipendiato' con tre milioni di lire al mese, essendo lo stesso incaricato anche di predisporre il progetto di bonifica della nostra discarica, progetto che ci consentiva la copertura formale per poter smaltire illecitamente i rifiuti". Il gran pentito dei veleni parla anche di uomini delle forze dell'ordine 'a disposizione' e di decine di sindaci prezzolati. Ci sono persino funzionari della provincia di Caserta che firmano licenze per siti che sono fuori dai loro territori. Una lista sterminata di tangenti, versate attraverso i canali più diversi: si parte dalle fidejussioni affidate negli anni Ottanta alla moglie di Rosario Gava, fratello del patriarca dc, fino alla partecipazione occulta dell'ultima leva politica alle società dell'immondizia.
L'età dell'oro. Vassallo sa tutto. Perché per venti anni è stato il ministro dei rifiuti di Francesco Bidognetti, l'uomo che assieme a Francesco 'Sandokan' Schiavone domina il clan dei casalesi. All'inizio i veleni finivano in una discarica autorizzata, quella di Giugliano, legalmente gestita. Le scorie arrivavano soprattutto dalle concerie della Toscana, sui camion della ditta di Elio e Generoso Roma. C'era poi un giro campano con tutti i rifiuti speciali provenienti dalla rottamazione di veicoli: fiumi di olii nocivi. I protagonisti sono colletti bianchi, che fanno da prestanome per i padrini latitanti, li nascondono nelle loro ville e trasmettono gli ordini dal carcere dei boss detenuti. In pratica, accusa tutte le aziende campane che hanno operato nel settore, citando minuziosamente coperture e referenti. C'è l'avvocato Cipriano Chianese. C'è Gaetano Cerci "che peraltro è in contatto con Licio Gelli e con il suo vice così come mi ha riferito dieci giorni fa". Il racconto è agghiacciante. Sembra che la zona tra Napoli e Caserta venga colpita dalla nuova febbre dell'oro. Tutti corrono a sversare liquidi tossici, improvvisandosi riciclatori. "Verso la fine degli Ottanta ogni clan si era organizzato autonomamente per interrare i carichi in discariche abusive. Finora è stato scoperto solo uno dei gruppi, ma vi erano sistemi paralleli gestiti anche da altre famiglie". Ci sono trafficanti fai-dai-te che buttano liquidi fetidi nei campi coltivati in pieno giorno. Contadini che offrono i loro frutteti alle autobotti della morte. E se qualcuno protesta, intervengono i camorristi con la mitraglietta in pugno.
La banalità del male. Chi, come Vassallo, possiede una discarica lecita, la sfrutta all'infinito. Il sistema è terribilmente banale: nei permessi non viene indicata l'esatta posizione dell'invaso, né il suo perimetro. Così le voragini vengono triplicate. "Tutte le discariche campane con tale espediente hanno continuato a smaltire in modo abusivo, sfruttando autorizzazioni meramente cartolari. Ovviamente, nel creare nuovi invasi mi sono disinteressato di attrezzare quegli spazi in modo da impermeabilizzare i terreni; non fu realizzato nessun sistema di controllo del percolato e nessuna vasca di raccolta, sicché mai si è provveduto a controllare quella discarica ed a sanarla". In uno di questi 'buchi' semilegali Vassallo fa seppellire un milione di metri cubi di detriti pericolosi. L'aspetto più assurdo è che durante le emergenze che si sono accavallate, tutte queste discariche - quelle lecite e i satelliti abusivi - vengono espropriate dal Commissariato di governo per fare spazio all'immondizia di Napoli città. All'imprenditore della camorra Vassallo, pluri-inquisito, lo Stato concede ricchi risarcimenti: quasi due milioni e mezzo di euro. E altra monnezza seppellisce così il sarcofago dei veleni, creando un danno ancora più grave. "I rifiuti del Commissariato furono collocati in sopra-elevazione; la zone è stata poi 'sistemata', anche se sono rimasti sotterrati rifiuti speciali (includendo anche i tossici), senza che fosse stata realizzata alcuna impermeabilizzazione. Non è mai stato fatto uno studio serio in ordine alla qualità dell'acqua della falda. E quella zona è ad alta vocazione agricola". L'import di scorie pericolose fruttava al clan 10 lire al chilo. "In quel periodo solo da me guadagnarono due miliardi". Il calcolo è semplice: furono nascoste 200 mila tonnellate di sostanze tossiche. Questo soltanto per l'asse Vassallo-casalesi, senza contare gli altri i boss napoletani che si erano lanciati nell'affare, a partire dai Mallardo. "Una volta colmate le discariche, i rifiuti venivano interrati ovunque. In questi casi gli imprenditori venivano sostanzialmente by-passati, ma talora ci veniva richiesto di concedere l'uso dei nostri timbri, in modo da 'coprire' e giustificare lo smaltimento dei produttori di rifiuti, del Nord Italia... Ricordo i rifiuti dell'Acna di Cengio, che furono smaltiti nella mia discarica per 6.000 quintali. Ma carichi ben superiori dall'Acna furono gestiti dall'avvocato Chianese: trattava 70 o 80 autotreni al giorno. La fila di autotreni era tale che formava una fila di circa un chilometro e mezzo". Un'altra misteriosa ondata di piena arriva tra la fine del 2001 e l'inizio del 2002: "Si trattava di un composto umido derivante dalla lavorazione dei rifiuti solidi urbani triturati, contenente molta plastica e vetro". Decine di camion provenienti da un impianto pubblico: a Vassallo dicono che partono da Milano e vanno fatti scomparire in fretta.
Il patto con la politica. Uno dei capitoli più importanti riguarda la società mista che curava la nettezza urbana a Mondragone e in altri centri del casertano. E' lì che parla dei fratelli Michele e Sergio Orsi, imprenditori con forti agganci nei palazzi del potere: il primo è stato ammazzato a giugno. I due, arrestati nel 2006, si erano difesi descrivendo le pressioni di boss e di politici. Ma Vassallo va molto oltre: "Confesso che ho agito per conto della famiglia Bidognetti quale loro referente nel controllo della società Eco4 gestita dai fratelli Orsi. Ai fratelli Orsi era stata fissata una tangente mensile di 50 mila euro... Posso dire che la società Eco4 era controllata dall'onorevole Nicola Cosentino e anche l'onorevole Mario Landoldi (An) vi aveva svariati interessi. Presenziai personalmente alla consegna di 50 mila euro in contanti da parte di Sergio Orsi a Cosentino, incontro avvenuto a casa di quest'ultimo a Casal di Principe. Ricordo che Cosentino ebbe a ricevere la somma in una busta gialla e Sergio mi informò del suo contenuto". Rapporti antichi, quelli con il politico che la scorsa settimana ha accompagnato Berlusconi nell'ultimo bagno di folla napoletano: "La mia conoscenza con Cosentino risale agli anni '80, quando lo stesso era appena uscito dal Psdi e si era candidato alla provincia. Ricordo che in quella occasione fui contattato da Bernardo Cirillo, il quale mi disse che dovevamo organizzare un incontro elettorale per il Cosentino che era uno dei 'nostri' candidati ossia un candidato del clan Bidognetti. In particolare il Cirillo specificò che era stato proprio 'lo zio' a far arrivare questo messaggio". Lo 'zio', spiega, è Francesco Bidognetti: condannato all'ergastolo in appello nel processo Spartacus e, su ordine del ministro Alfano, sottoposto allo stesso regime carcerario di Totò Riina e Bernardo Provenzano. L'elezione alla provincia di Caserta è stata invece il secondo gradino della carriera di Cosentino, l'avvocato di Casal di Principe oggi leader campano della Pdl e sottosegretario all'Economia. "Faccio presente che sono tesserato 'Forza Italia' e grazie a me sono state tesserate numerose persone presso la sezione di Cesa. Mi è capitato in due occasioni di sponsorizzare la campagna elettorale di Cosentino offrendogli cene presso il ristorante di mio fratello, cene costose con centinaia di invitati. L'ho sostenuto nel 2001 e incontrato spesso dopo l'elezione in Parlamento". Ma quando si presenta a chiedere un intervento per rientrare nel gioco grande della spazzatura, gli assetti criminali sono cambiati. Il progetto più importante è stato spostato nel territorio di 'Sandokan' Schiavone. Il parlamentare lo riceve a casa e può offrirgli solo una soluzione di ripiego: "Cosentino mi disse che si era adeguato alle scelte fatte 'a monte' dai casalesi che avevano deciso di realizzare il termovalorizzatore a Santa Maria La Fossa. Egli, pertanto, aveva dovuto seguire tale linea ed avvantaggiare solo il gruppo Schiavone nella gestione dell'affare e, di conseguenza, tenere fuori il gruppo Bidognetti e quindi anche me". Vassallo non se la prende. E' abituato a cadere e rialzarsi. Negli ultimi venti anni è stato arrestato tre volte. Dal 1993 in poi, ad ogni retata seguiva un periodo di stallo. Poi nel giro di due anni un'emergenza che gli riapriva le porte delle discariche. "Fui condannato in primo grado e prosciolto in appello. Ma io ero colpevole". Una situazione paradossale: anche mentre sta confessando reati odiosi, ottiene dallo Stato un indennizzo di un milione 200 mila euro. E avverte: "Conviene che li blocchiate prima che i miei fratelli li facciano sparire...".
Impunità di frode. Sconti di pena, patteggiamenti, benefici: così chi contamina gli alimenti se la cava sempre. E soltanto ora il ministero divulga la lista nera dei condannati. I soliti sospetti della frode alimentare hanno la vita facile. Perché l'impunità è sostanzialmente garantita:basta patteggiare per tornare in fabbrica, nella stalla o in cantina e ricominciare con i trucchi. Nessuno finisce in carcere e quasi mai gli italiani vengono informati sulla malafede di chi produce, confeziona, custodisce o cucina quello che mangiano e bevono. Lo Stato è di manica larga con chi mette a rischio la salute dei cittadini o inganna la fiducia dei consumatori: sconti di pena o libertà condizionale per tutti, fedine sbiancate con la "non menzione" delle condanne. Eppure lo choc per le 19 persone uccise dal metanolo, con il blocco delle esportazioni e la crisi dei vini italiani, aveva impartito una lezione unica: pochi criminali erano riusciti a distruggere la credibilità di un'intera categoria. Subito venne varata una legislazione severissima, che introduceva anche la gogna per i banditi del cibo. Sì, la legge metteva al primo posto la salute rispetto alla tutela di marchi, aziende, ristoranti e negozi. Un principio fondamentale, che poi è stato costantemente disatteso anche di fronte a situazioni di grande allarme sociale: i nomi delle ditte coinvolte diventano sempre una sorta di segreto di Stato, esponendo così l'intero settore alla psicosi e i consumatori al pericolo di bocconi indigesti. Dopo il metanolo, il Parlamento aveva scelto una strada diversa. Dal 1986 per legge il ministero della Sanità è stato incaricato di rendere noto ogni anno "l'elenco pubblico" dei condannati per frode o sofisticazione. Una lista nera che però i governi si sono guardati bene dal propagandare. Finora si è trattato di un documento introvabile: veniva inserito nella "Gazzetta ufficiale", senza scadenze fisse. Con un aspetto beffardo: i dati risalivano in genere a cinque anni prima. Nel 2003, per esempio, sono state rese note le sentenze diventate definitive del 1998. Nel frattempo le ditte potevano avere cambiato nome, logo, titolare. Per tornare a colpire come e più di prima. Nei giorni scorsi il ministero della Sanità ha deciso -anche dopo la richiesta formale de "L'espresso" - di rendere disponibile sul suo sito web la lista degli ultimi verdetti. Una scelta di trasparenza, a cui si è aggiunto un elenco sugli anni precedenti. Si tratta però di informazioni molto parziali. Anzitutto le comunicazioni più rapide riguardano le infrazioni minime, che diventano subito esecutive con il pagamento della multa: sono soprattutto trattorie, bar e banchi con cibi mal conservati. I processi veri richiedono invece anni prima della Cassazione. C'è poi il problema del ritardo nella trasmissione da parte dei giudici. Le punizioni recenti riguardano in massima parte il tribunale di Milano e poche altre sedi giudiziarie: non c'è nulla su Roma e sulla Sicilia, per esempio. Ma la colpa non è del dicastero guidato da Livia Turco, dove spiegano che spesso la magistratura fornisce l'elenco «ad intervalli pluriennali ed ha per oggetto provvedimenti emessi nell'arco di 3-4 anni». Insomma, anche questo deterrente introdotto dal legislatore contro i sofisticatori è stato soffocato dalla disastrosa condizione della burocrazia italiana. Ecco perché non sorprende scoprire che la cantina di Veronella, punto di partenza dell'ultima maxiinchiesta sul "vino contaminato", era già stata coinvolta nello scandalo al metanolo. Oggi patteggiare di fatto significa farla franca: pena sotto i due anni, niente carcere né servizi sociali, nessuna menzione sul certificato penale. Insomma, nulla di nulla. Lo rivela in modo impressionante uno studio condotto da cinque ricercatori dell'Università di Parma, dipartimento di salute animale, che evidenzia tutti i lati oscuri della nostra industria più ghiotta. In cinque anni, tra il 1995 e il '99, ci sono state 2.540 sentenze definitive. In massima parte, però, si tratta di alimenti conservati male, sporchi, corretti con sostanze proibite: minacce secondarie alla salute, sanzionate con una multa. Ma anche quando il tribunale ordina la reclusione, pochi scontano la pena. In 207 casi è stata concessa la sospensione condizionale. Per non parlare dell'ultimo indulto, un'ondata di piena nello spazzare via gli effetti di questi crimini. La statistica diventa paradossale quando si esamina la "non menzione", ossia i condannati a cui non viene nemmeno macchiata la fedina penale: ben 1.215 che quindi restano totalmente impuniti. Sono colpevoli di avere lucrato su carne, latte, verdura o altri cibi fuorilegge, ma all'indomani della sentenza possono addirittura partecipare alla gara per rifornire un asilo o un ospedale. C'è persino la beffa: vengono sostenuti con denaro pubblico tutti i produttori di un settore danneggiato dall'effetto delle truffe, ma non si risarciscono le vittime. E' quello che è accaduto con l'eccidio del metanolo, che uccise 19 persone e ne rese cieche altre 15. Dopo più di 22 anni le vittime non hanno visto una lira e nemmeno un euro. Lo schema è lo stesso: gli arrestati diventano nullatenenti prima del giudizio, le aziende falliscono e al momento della sentenza i quattrini si sono dissolti. Ricorda Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo e al tempo rappresentante legale delle famiglie: «Al processo ottenemmo provvisionali alte, anche 300 milioni di lire, ma rimasero sulla carta. L'incredibile è che lo Stato stanziò decine di miliardi per aiutare il settore vitinicolo, duramente provato dallo scandalo. Furono spesi pacchi di denaro per campagne pubblicitarie, per potenziare i controlli, perfino per riparare i danni subiti dai supermercati stranieri, ma nemmeno una lira fu destinata alle vittime». Nella macchina impazzita della giustiza si scoprono altri due incentivi a delinquere. Il primo è la clemenza automatica, con sconti elargielargiti anche a chi non risarcisce i danni o non mostra nemmeno rimorso: il principale responsabile della strage da metanolo, da una pena iniziale di 16 anni alla fine ne ha passati in cella meno della metà. E c'è la questione delle analisi di laboratorio. Perché il gioco dei parametri sulle sostanze chimiche e la valutazione dei livelli di pericolosità diventano complessi da valutare in tribunale, animando guerre di perizie. Spesso, poi, sul banco degli imputati ci sono multinazionali che possono schierare collegi di luminari. La vicenda del latte all'inchiostro è paradigmatica. L'Asl di Ascoli Piceno nell'agosto 2005 scoprì nel latte per l'infanzia quantità non previste di Itx, una sostanza usata (e grazie a questa indagine successivamente vietata in tutta l'Ue) per fissare l'inchiostro sulle confezioni di cartone. Il pm di Ascoli Piceno, avvertito il ministero della Salute, dispose il sequestro in tutta Italia di milioni di litri, tutti i lotti che scadevano nel settembre 2006. Ma per due mesi non succede nulla: solo quando la vicenda arriva sui giornali il prodotto incriminato viene ritirato. Una costante: gli organismi di controllo non si muovono finché non scoppia lo scandalo o interviene un magistrato. Il processo per l'Itx finisce a Milano, sede legale della Nestlé. A dicembre l'Europa getta acqua sul fuoco: l'Efsa, l'autorità europea per la sicurezza alimentare, esclude la possibilità che l'Itx interagisca con il Dna delle cellule. Non si espone su eventuali altri rischi tossici: non ci sono studi sufficienti. La procura di Milano chiede dunque al farmacologo Silvio Garattini una perizia, che di fatto chiude l'inchiesta. Il gip la ricalca nelle sue conclusioni: «Non esiste prova che l'assunzione di Itx per via alimentare rappresenti, da subito, un pericolo significativo in termini di tossicità». Tutti assolti perché non è provata la minaccia alla salute. Giusto. Il gip non può non sottolineare però che Garattini non ha nemmeno escluso che «la tossicità possa essere rilevata in caso di assunzione per lunghi periodi, essendo necessari ulteriori studi per valutare gli effetti del bioaccumulo». Quel latte era l'alimento principale dei neonati: chi li tutelerà dagli eventuali effetti futuri che non sono mai stati studiati?
PARLIAMO DI DISASTRI AMBIENTALI
Case crollate, strade ridotte ad un cumulo di fango e detriti, auto accartocciate, oggetti sparsi ovunque e morti, tanti morti. Un inferno d'acqua colpisce periodicamente i territori italiani. Alla rabbia e al dolore per la perdita di vite umane si aggiungono i tanti, troppi danni materiali, quantificabili in milioni e milioni di euro. Sono quelli che servono alla ricostruzione di case e ponti crollati, alla rimozione dei detriti, al ripristino degli ambienti danneggiati e speriamo, alla messa in sicurezza dei fiumi. Ma tutto questo si può evitare? Difficile dirlo ma certo, si può fare molto per prevenire quei danni, dovuti certo alla portata straordinaria delle piogge, ma soprattutto alla grave incuria di territori sottoposti addirittura a stretto regime di tutela, spesso entro i confini di un parco nazionale. Sul web, in particolare su Facebook e Twitter, censurati dai media si formano gruppi improvvisati di cittadini che protestano inascoltati per le gravi mancanze istituzionali. Per esempio il parco delle “Cinque Terre” è stato nell'occhio del ciclone per l'arresto del presidente e di alcuni funzionari, accusati di intascarsi i fondi destinati alla protezione.
Ma quello che tanti cittadini denunciano, al di là delle responsabilità individuali e di quelle governative (lo Stato destina pochissimi fondi a questo scopo), è il sistema protezionista italiano affidato a pseudo tutele ambientaliste di ideologia sinistroide: capace di sbraitare per le piccole questioni di abusivismo edilizio, ma assente su fronti importanti come quello della manutenzione dei corsi d'acqua e della messa in sicurezza di zone a rischio frane e smottamenti. “Fra un anno staremo qui a piangere ancora i morti – scrive Piero I. sul gruppo No alluvione del Magra – Altri morti immolati alla verde ecologica follia dell'impatto antropico!”. Il suo giudizio è drastico “la gente crepa affogata – scrive – perché ovunque si devono salvare i passerotti”. “Il fiume va pulito – scrive ancora - questa estate si vedevano ancora i "relitti" della scorsa alluvione.. pare che sia vietato andare a prendere i tronchi.. non ci posso credere”. Lo conferma Giampiero B., geometra di una ditta rimasta sotto il fango, che commenta: “anni e anni fa lavoravamo anche noi nel fiume estraendo ghiaia e tutti questi problemi come oggi non c'erano.... sicuramente la pulizia e l'estrazione non sono le uniche soluzioni ma ci vogliono varie opere a sostegno, iniziamo a fare qualcosa perchè la prossima volta sarà ancora peggio”.
Uno dei luoghi comuni più ricorrenti ogni volta che capita un’esondazione e che questa sarebbe dovuta all’accumulo di ghiaia nei fiumi e nei torrenti, da dove non verrebbe più rimossa. In consiglio regionale del Piemonte è stato approvato il 30 marzo 2011 un ordine del giorno per ‘rendere i fiumi dragabili e per finanziare la pulizia dei torrenti’. Contro questo ordine del giorno insorge Sinistra Ecologia e Libertà, nelle parole del coordinatore regionale, il casalese Fabio Lavagno, e Vanda Bonardo responsabile ambiente della segreteria.
Questo è: tutto uno schierarsi per ideologie.
Esemplare è quello che è successo a Genova. Tutta una città martoriata, e non certo una città costruita abusivamente. Ma non dite che non si poteva fare niente. Ma non dite che non era prevedibile. Da giorni di sapeva che una violenta perturbazione avrebbe colpito di nuovo la Liguria, dopo la catastrofe delle Cinque Terre, e ci siamo specializzati in meteorologia spicciola, isobare e cumulonembi, sapevamo tutto della pioggia che sarebbe caduta, del rischio idrogeologico, del pericolo frane. Si sono riempite pagine di giornali annunciando ogni singola goccerella attesa dal cielo e spiegando le ragioni dell'inevitabile allarme. Dopo l’alluvione sulle Cinque Terre con morti e disastri si annunciava una nuova perturbazione, forse più grave. E poi che cos'è successo? È successo quello che era stato previsto. E il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, invece, salta subito fuori a dire che «non era prevedibile». E che dunque «non si poteva fare niente».
Ma come non era prevedibile? L'evento meteorologico più previsto e annunciato dell'era contemporanea non era prevedibile? Con tutti quei “giuliacci” che pontificano in ogni angolo della Tv, le protezioni civili riunite in seduta permanente, le centrali operative attrezzate con satelliti che scrutano ogni acquazzone e anticipano ogni refolo di vento, come si fa a dire che un evento simile non era prevedibile? Con che coraggio, di fronte a quei sette morti, di fronte al dolore dei loro famigliari, di fronte alla devastazione di una città colpita al cuore, si dice che «non si poteva fare niente»? Non è un po' troppo comodo?
Mettiamola in modo ancor più crudo: gli amministratori usano l'acqua dei fiumi in piena per lavarsi le mani, come tanti Ponzio Pilato in versione nubifragio. E pazienza se quell'acqua in cui si lavano le mani è la stessa che trascina via i cadaveri dei loro concittadini. Non hanno ritegno, non hanno pudore. Si presentano davanti alle telecamere, davanti ai microfoni, davanti ai taccuini. E dicono che loro non c'entrano, che è uno tsunami, un fatto straordinario. Oppure iniziano il gioco dello scaricabarile: il Comune attacca la Provincia, la Provincia attacca la Regione, tutti attaccano il governo, che a sua volta attaccherà non si sa chi. Non vi sembra ora di mettere fino all'assurdo giochino? È inaccettabile che si ripetano le tragedie. Soprattutto è inaccettabile che le tragedie non abbiano mai un responsabile.
Ma che ci lamentiamo, se siamo solo e sempre noi a rivotare sta gente.
Per esempio: Marta Vincenzi è stata la prima donna a ricoprire l'incarico di presidente della Provincia di Genova; se non bastasse, non trovando nessun altro, poi l'hanno eletta sindaco della città di Genova.
Non è questione di sinistra, destra, amministratori di qua o di là. Non se ne deve fare una speculazione politica, non se ne deve fare una polemica di parte. Nessuno può permettersi di sciacallare sui corpi di due bambine trascinate via dal fiume in piena. Ma c'è una questione di dignità, c'è una questione di responsabilità. Davanti a quei due bambini, così come davanti alle altre vittime di Genova o quelle delle Cinque Terre o quelle di ogni territorio italiano per ogni tempo, non possiamo rispondere ancora una volta che «non era prevedibile», che «non si poteva fare niente». Non lo può fare la classe dirigente di questo Paese perché altrimenti che diavolo ci sta a fare nel ruolo di classe dirigente? Se «non si può mai fare niente», se «non ci sono mai responsabili», se «non era compito mio», perché mai dovremmo mantenere un esercito di politici e amministratori che, come numero, non ha pari nel mondo? Per sentirci dire ogni volta che "non si poteva fare niente"?
Ai funerali ad Aulla i parenti delle vittime non hanno voluto politici. E la scelta la dice lunga su quale sia il sentimento diffuso nel Paese. Nessuno ne può più di persone che giocano a nascondino, di rimpalli su fax mandati o non mandati, distinguo di lana caprina sulle competenze. Perché a Genova le scuole ieri erano aperte? Perché i fiumi non erano stati puliti? Le foto pubblicate dai giornali mostravano il Bisagno sporco, bisognoso di interventi e di cura. Perché nessuno li ha fatti? A chi toccavano? Perché la città di New York è stata chiusa e si è salvata da un uragano violentissimo e a Genova, nonostante i precedenti e gli avvisi, nessuno s'è preso la responsabilità di fare altrettanto? La gente era stata informata dei rischi? Ad Aulla era arrivato un fax di pericolo della Protezione civile, ma ai cittadini non gliel'aveva comunicato nessuno: e a Genova? Quali iniziative erano state prese per spingere la gente all'«auto protezione»? Quali strade sono state chiuse? Quali torrenti sono stati monitorati?
Non si tratta di fare polemiche ciniche. Il vero cinismo è di chi dice: «Non si poteva fare nulla». Il vero cinismo è di chi dice: «Non era prevedibile». Il vero cinismo è di coloro che continuano a nascondersi dietro frasi di circostanza, per cercare di scaricare la loro coscienza che gronda fango e lutto. Il vero cinismo è di chi usa lacrime per nascondere scuse, di chi assume incarichi dimenticando che sono incarichi di responsabilità. E la responsabilità è una cosa seria. Per evitare le tragedie ci vogliono i soldi, è vero. Se dalla Finanziaria 2012, come denuncia il Wwf, sono spariti i 500 milioni previsti per la prevenzione del dissesto idrogeologico, ebbene si tratta di una bischerata. Ma i soldi bisogna anche usarli bene: se davvero il problema è la mancanza di fondi, perché a Genova si sta costruendo per 17,8 milioni di euro un nuovo palazzo amministrativo per i dirigenti della Asl 3? È più importante sistemare i letti dei fiumi o le scrivanie dei burocrati?
Per rispetto delle vittime dell'alluvione bisogna evitare in ogni modo di trasformare la tragedia in una rissa, la solita rissa, Regione contro governo, centrodestra contro centrosinistra, berlusconiani contro antiberlusconiani. Ma bisogna dire, con la stessa chiarezza, che nessuno si può sottrarre alle sue responsabilità....
Che non permetteremo di ripetere a tutti che «non si poteva fare niente» e che «non era prevedibile». Ci sono sette persone a Genova trascinate via dal fango nel mezzo della loro città, ci sono bambine strappati alla vita mentre passeggiavano nel loro quartiere. Le due piccole pensavano che quei posti fossero sicuri come la loro casa, invece erano a rischio. Lo sapevano tutti, qualcuno ora deve risponderne.
«L'Italia del fango sta mostrando la sua faccia, il suo ghigno, il suo sberleffo. L'Italia senza giustizia che manda in galera chi denuncia. L'Italia senza legge con un Parlamento incostituzionale, presidenti di Regione illegittimi, al terzo e al quarto mandato consecutivo, come Formigoni, Errani, Iorio. Dove sono i magistrati? Dove la Corte Costituzionale? Il cittadino è solo, senza riferimenti, senza informazione, senza rappresentanti. L'Italia del cemento lo sta seppellendo vivo. Non c'è governo, non c'è opposizione, ma un comitato di affari che si spartisce il Paese senza vergogna». Parole di Beppe Grillo, ligure doc, di fronte alla tragedia di Genova e nei giorni precedenti in altre zone della regione. Parole affidate alla rete dal suo blog: «Oggi mi sento impotente - dice l'esponente politico - la distruzione di Genova era annunciata. E io non ho potuto fare nulla. Ho visto la mia città trasformata in fanghiglia con le auto che cadevano sul porto insieme alla pioggia e ai morti sapendo che si poteva evitare». Per Grillo «nel prossimo Parlamento non uno di questi senatori e deputati deve presentarsi. Camera e Senato vanno svuotati come secchi di merda».
C'è anche un attacco al capo dello Stato: «Il Colle ha detto su Genova "Capire le cause!". La causa - dice Grillo - è una classe politica di cui Napolitano fa parte dal dopoguerra, da 66 anni!». E nel ricordare che proprio oggi «a Roma il Pdmenoelle va in piazza per "Ricostruire l'Italia" insieme all'Idv e con la partecipazione straordinaria dell'ebetino di Firenze (il sindaco Renzi)», Grillo sottolinea: «Ricostruire? Bersani dovrebbe cambiare nome alla manifestazione, chiamarla 'Distruggere l'Italia. Questa finta opposizione che vuole la Tav, la Gronda, che ha cementificato la Liguria, che ha in Regione Burlando e come sindaco di Genova Marta Vincenzi, ci prende pure per il culo? Il senso di estraniamento, di solitudine del cittadino che non ha più nessuno dalla sua parte non so a cosa porterà. In Val di Susa hanno arrestato due ragazze incensurate che prestavano soccorso ai manifestanti. Donne che erano lì, a Chiomonte, per evitare lo sfacelo del territorio. Erano lì anche per i morti di Genova e della Lunigiana. Chi arresteranno ora per disastro colposo? I meteorologi?».
LA TRUFFA DEL FOTOVOLTAICO.
Gas ed Elettricità: gli italiani aprono le bollette, ma solo 1 su 10 le sa leggere, scrive Giovedì 06 Luglio 2017 "Sienafree.it". Più del 50% della popolazione pensa che la liberalizzazione del mercato dell’energia porti a una riduzione dei costi, ma il 90% ritiene che l’efficientamento energetico delle case sia la soluzione per contenere i costi della bolletta. I risultati di una ricerca Estra – Lorien Consulting.
Aprono le bollette, ma non le conoscono o le conoscono poco. E solo il 12% degli italiani sa leggere la bolletta del gas o dell’elettricità. Credono nel libero mercato ma ancor di più nell’efficientamento energetico. E’ la fotografia scattata da Estra, multiutility tra le prime in Italia nel settore dell’energia, nel corso di un’indagine condotta per conto dell’azienda toscana da Lorien Consulting, Istituto di Ricerca di Milano. Dall’indagine emerge che il 59% degli italiani controlla le proprie bollette ogni volta che le riceve e che il 40% sa indicare l’importo esatto di quella della luce, mentre solo il 28% conosce i costi di quella del gas. Il 59% degli italiani si dichiara anche a conoscenza della differenza tra costi fissi (imposte) e costi variabili (valore unitario per utilizzo effettivo). Credere di sapere non è tuttavia sinonimo di conoscenza, tanto che in realtà gli intervistati che sanno effettivamente indicare una percentuale affine a quella corretta rappresentano solo il 12% della popolazione, circa un italiano su dieci. I dati della ricerca evidenziano inoltre come il 66% della popolazione ritenga che il peso delle imposte sulle bollette debba essere ridotto mentre il 14% degli italiani giudica il peso dei costi fissi inevitabile per il mantenimento del welfare nazionale. In generale per la riduzione dei costi fissi in bolletta si auspicano misure di efficientamento energetico (88%) - in particolare l’isolamento termico (49%), la sostituzione della caldaia (17%), l’installazione di pannelli fotovoltaici (16%), l’uso di elettrodomestici intelligenti (14%) - ma si distinguono anche i fiduciosi nel libero mercato (55%). Il 63% degli italiani sa inoltre dell’esistenza del Bonus Energia da applicarsi in base al reddito ma casualmente chi non conosce tale strumento è proprio chi ha diritto ad usufruirne. “Gas ed elettricità continuano a pesare sulle tasche di famiglie e imprese proprio a causa delle elevate imposizioni fiscali - ha sottolineato il Presidente di Estra, Francesco Macrì. I costi fissi sono infatti in crescita dal 2008 e sono superiori alla media europea. Per questo lo Stato deve attuare una riduzione di tale tassazione partendo dall’eliminazione dell’IVA su imposte, accise e addizionali affinché i costi si riducano con benefici evidenti. La liberalizzazione del mercato dell’energia, da attuarsi alla data prevista dal Ddl Concorrenza, ovvero a partire dal 1° luglio 2019, è una strada utile se attuata in modo chiaro e trasparente. Il percorso di liberalizzazione avrà l’effetto di stimolare una maggiore concorrenza sia a livello di prezzo, che di qualità del servizio offerto, a patto che il consumatore sia posto al centro.” Le famiglie e le imprese cercano un vantaggio economico nelle offerte sul mercato libero dei vari venditori. E infatti il 12% degli intervistati ha dichiarato di aver cambiato fornitore di gas o energia elettrica negli ultimi 12 mesi a causa di costi ritenuti troppo alti. Questo dato dimostra una certa mobilità in funzione della ricerca di un risparmio che tuttavia, a causa di imposizioni fiscali che nel nostro Paese incidono dal 35% al 45% sul costo finale, può risultare vana.
Quanto risparmio in bolletta con il fotovoltaico? Scrive "Luce-Gas Selectra". In Italia negli ultimi anni abbiamo assistito a grandi trasformazioni in questo settore, dettate soprattutto dai ripetuti cambiamenti normativi e dallo sviluppo del mercato mondiale dei produttori dei pannelli fotovoltaici. Gli eventi hanno contribuito ad una crescita esponenziale del fotovoltaico, purtroppo in alcuni casi anche con l’apporto degli speculatori. Ultimamente il mercato si è stabilizzato ed a livello normativo si è cercato di favorire i piccoli impianti e la generazione distribuita, bloccando gli incentivi agli impianti a terra.
Come funziona un impianto fotovoltaico?
Un impianto fotovoltaico produce energia elettrica utilizzando la radiazione solare attraverso i moduli fotovoltaici in grado di convertire appunto l'energia solare in elettrica. La corrente prodotta è continua e quindi è necessario collegare l'impianto ad un inverter, elemento che trasforma la corrente in alternata per poterne permettere l'uso in un'abitazione. L’impianto è in genere connesso sia all’utenza finale, ossia l’impianto elettrico della casa, che alla rete elettrica nazionale in bassa tensione attraverso un contatore bidirezionale. In questo modo è possibile consumare direttamente l'energia autoprodotta per alimentare gli i consumi dell'abitazione, oppure immetterla in rete quando è in eccedenza.
Si risparmia con l’installazione di un impianto fotovoltaico?
Il guadagno per una famiglia non è sempre scontato, perché le variabili in gioco sono molte ed il calcolo non è immediato. Per essere sicuri di guadagnarci, l'importante è di scegliere un impianto dimensionato correttamente rispetto ai consumi. Il primo fattore di risparmio: l’autoconsumo. L'autoconsumo consiste nel consumare istantaneamente l’energia che produce l'impianto. In questo modo non si preleva dalla rete la corrente necessaria al fabbisogno, e si evita di pagarla al fornitore. Il primo risultato è quindi una sostanziale riduzione (non eliminazione!) della bolletta della luce. Ovviamente l'entità del risparmio dipende da quanto si paga l'energia elettrica al fornitore e del costo dell'impianto fotovoltaico. Grazie all'autoconsumo si risparmia sia sul costo dell'energia consumata che sugli oneri di rete, oneri di sistema e le tasse legati al consumo di energia elettrica. Al giorno d'oggi gli impianti fotovoltaici sono economicamente molto più accessibili rispetto a prima, poichè il prezzo di un impianto si è ridotto di quasi un terzo rispetto a qualche anno fa. Per analizzare il possibile risparmio derivante da un fotovoltaico bisogna calcolare tutti i costi da sostenere esposti di seguito:
Fornitura dell’impianto: moduli, inverter, quadri, connettori, struttura ... circa il 50% della spesa totale;
Installazione: progettazione, messa in opera, collaudo ... circa il 30% della spesa totale;
Costi amministrativi: gestione pratiche per l’allacciamento con il distributore e per gli incentivi con il GSE, circa il 20% della spesa totale;
Naturalmente le percentuali sopra espresse sono indicative e dipendono dalla taglia dell'impianto e dalla qualità dei prodotti.
I parametri essenziali per la valutazione dell'impianto fotovoltaico:
Potenza dell'impianto;
Qualità degli elementi: principalmente dei moduli e dell'inverter;
Producibilità dell'impianto in base alla localizzazione geografica, l'orientamento ed l'inclinazione dei moduli;
Modalità di consumo dell'energia prodotta: più alto sarà l'autoconsumo, più alti saranno i risparmi;
Per stimare quanto possa produrre il tuo impianto, ti consigliamo questo sito gestito dalla Commissione Europea. E' molto completo e preciso!
Durata di un impianto fotovoltaico.
E' importante sottolineare che i costi sovraesposti devono essere ammortizzati su un periodo di almeno 20 anni. Quasi tutti i produttori offrono una garanzia sul rendimento e quindi sulla produzione dei pannelli per 20 o 25 anni, dopo questo periodo il nostro impianto continuerà a funzionare tranquillamente ed a produrre energia elettrica solamente in misura minore. La vita di un impianto fotovoltaico è caratterizzata da una bassa manutenzione per l'assenza di organi in movimento. L'elemento più delicato dell'intero sistema è l'inverter, che al suo interno ha una parte elettronica e generalmente dopo circa 10 anni deve essere sostituito.
Quali sono le agevolazioni dello Stato per il fotovoltaico domestico?
Per il 2014 le agevolazioni previste dallo Stato per le fonti rinnovabili in ambito domestico-residenziale, ossia per impianti di bassa potenza (fino a 20 kW), installati su proprietà ad uso abitativo sono due:
Lo scambio sul posto;
La detrazione fiscale;
Lo scambio sul posto. Attualmente il sostegno previsto per gli impianti domestici è lo scambio sul posto (SSP), gestito dal Gestore dei Servizi Energetici (GSE). Tale meccanismo dà la possibilità di immettere in rete l'energia elettrica in eccesso per poi prelevarla in un secondo momento, differente da quando avviene la produzione. La rete viene considerata come se fosse un accumulatore di energia virtuale e il GSE eroga un "contributo in conto scambio" per l'energia immessa in rete. Il contributo viene calcolato con una specifica formula che tiene conto sia dell'energia immessa che prelevata, con una buona approssimazione una valutazione di massima è di circa 0,15 €/kWh immesso.
La detrazione fiscale. E' possibile usufruire inoltre anche della detrazione fiscale, nel 2014 fissata al 50% ma che già nel 2015 diminuirà forse al 36%, che coinvolge il costo totale dell'impianto comprese le relative spese. Questa porta in pratica al dimezzamento del costo complessivo dell'impianto, attraverso le riduzione dell'imposta Irpef nei 10 anni consecutivi all'installazione. Lo sgravio fiscale riguarda quindi soltanto le persone fisiche (o condomini o soci di cooperative) contributori Irpef.
Come leggere il contatore con un impianto fotovoltaico?
Con l'installazione di un impianto fotovoltaico il contatore verrà sostituito dalla società di distribuzione competente con un contatore bidirezionale. Questo tipo di contatore, riconoscibile da due frecce poste sul fronte dello stesso, è sempre elettronico e misura quindi i consumi in tutte le fasce orarie. La differenza sostanziale è che questo misura sia l'energia prelevata dalla rete, che quella immessa, ossia quella prodotta dal nostro impianto e che non viene direttamente consumata dall'abitazione. Premendo più volte il pulsante sarà facile leggere i prelievi e le immissioni suddivisi nelle fasce orarie A1, A2 e A3, che sommati daranno il totale dell'energia prelevata ed immessa.
Per impianti incentivati col "Conto Energia", terminati a luglio del 2013, era presente un secondo contatore subito a valle dell'impianto con lo scopo di misurare tutta l'energia prodotta dall'impianto che veniva incentivata con particolari tariffe.
Un esempio reale. Poniamo ad esempio il caso reale di una casa indipendente assumendo le seguenti ipotesi:
Contratto di fornitura di 3 kW di potenza e consumo annuale standard di 2700 kWh (3 persone);
Tariffa adottata: D2 residente monoraria (spesa annua di 521€);
Impianto da 2 kW di picco, con una produzione stimata di circa 2600 kWh all'anno;
Abitazione situata in centro Italia;
Pannelli con esposizione ed orientamento ottimali;
Percentuale di autoconsumo del 60%:
L'autoconsumo corrisponde all'energia elettrica che produce l'impianto e che viene istantaneamente consumata dall'abitazione per le nostre necessità. Il risparmio è maggiore quando autoconsumiamo l'energia, una volta installato l'impianto quindi dovremmo cercare di spostare i nostri consumi, ad esempio fare lavatrice e lavastoviglie nelle ore diurne, quando la corrente viene dal sole!
UN CONSIGLIO!
Il risparmio è maggiore con l'autoconsumo. Conviene quindi autoconsumare il più possibile l'energia prodotta dall'impianto che immetterla in rete!
I restanti kWh prodotti dall'impianto e non direttamente consumati saranno immessi in rete ed il GSE prevede un contributo, (emesso in una o due rate annuali) calcolato mediante una specifica formula. Per l'esempio indicativo abbiamo ipotizzato il contributo pari a 0,15 € a kWh immesso.
Costo dell'impianto.
Un impianto di questo tipo di media qualità ha un costo sul mercato di circa 5.000 € tutto incluso. Ma se consideriamo la detrazione fiscale, questo costo si dimezza e per 10 anni avremo un entrata fissa di 250 € ogni anno, a rimborso della spesa effettuata. Questa agevolazione da un contributo notevole all'analisi dei costi/benefici e diminuisce di molto il tempo di rientro dell'investimento. Da sottolineare che in questo esempio i consumi sono bassi e di conseguenza anche il risparmio, che aumenterebbe se i consumi fossero maggiori. Ovviamente in tal caso anche l'impianto sarà dimensionato di conseguenza con produzione e costi maggiori.
ATTENZIONE! QUANDO SI FANNO I CONTI SUL RISPARMIO IN BOLLETTA BISOGNA SEMPRE AGGIUNGERE LA COMPONENTE FISCALE FISSA E PROGRESSIVA, CHE RENDE UN BLUFF IL RICORSO AL FOTOVOLTAICO ED AL COSTO DI ISTALLAZIONE…UN AFFARE SOLO PER LE IMPRESE FOTOVOLTAICHE.
Tasse e oneri parafiscali: quanto pesano sulla bolletta? Scrive "Luce-Gas Selectra".
Il peso delle tasse sulla bolletta. La bolletta dell'energia elettrica e del gas può essere molto salata. Ti sei mai chiesto quanto pesano le tasse e gli sconosciuti oneri parafiscali sulla bolletta? Se da una parte è possibile scegliere un prezzo dell'energia conveniente, magari bloccato per uno o due anni, dall'altra ci sono tanti altri oneri, definiti dallo Stato e applicati a tutti i clienti. In occasione del convegno “Il mercato dell’energia, un nano sotto i piedi del gigante fiscale e parafiscale”, organizzato dall'Associazione Italiana di Grossisti di Energia e Trader (AIGET) e I-Com, sono emersi dei numeri molto interessanti sul tema delle tasse e dell'energia.
Sommario:
Qual é la differenza tra tasse e oneri parafiscali?
Il peso di tasse e oneri sul prezzo finale dell'energia elettrica
Il peso di tasse e oneri sul prezzo finale del gas
Gli oneri parafiscali all'interno della bolletta elettrica
Gli oneri parafiscali all'interno del gas
Qual è la differenza tra tasse e oneri parafiscali?
Le tasse sull'energia si dividono in IVA, accisa e addizionale regionale (applicata solo al gas) e vengono pagate in funzione del tipo di utente, la differenza principale è tra i clienti domestici e quelli industriali. Per prelievo parafiscale si intende invece l'introito derivante dagli oneri generali di sistema, cioè quella parte della bolletta della luce che va a coprire gli incentivi per le energie rinnovabili, gli sgravi elettrici per le agevolazioni alle imprese, per il finanziamento del bonus elettrico... Anche gli oneri generali vengono applicati dallo Stato ma sono distinti dalle imposte vere e proprie come l'accisa e l'IVA. Il gettito delle imposte sull'energia elettrica e sul gas metano sul totale delle tasse a carico degli italiani è in crescita dal 2008 ed è sempre stato superiore al valore medio dei paesi europei.
Il peso di tasse e oneri sul prezzo finale dell'energia elettrica.
Questa crescente imposizione fiscale si riflette naturalmente sul prezzo finale di energia elettrica che paga l'utente. In Italia nel settore domestico la percentuale delle tasse e degli oneri parafiscali sul prezzo di vendita dell'energia elettrica è pari al 35%, poco al di sopra della media UE. La Danimarca e il Regno Unito hanno rispettivamente le tasse sull'energia elettrica (oneri fiscali e parafiscali) più alte e più basse in Europa (in percentuale).
Il peso di tasse e oneri sul prezzo finale del gas.
In Italia le tasse e gli oneri parafiscali, nel settore domestico, arrivano a circa il 34% del prezzo finale del gas, ben 10 punti sopra la media europea. Nel settore del gas gli oneri parafiscali sono meno importanti rispetto al settore elettrico ma vengono compensati da una tassazione più pesante. Le tasse e gli oneri che gravano in Italia sul prezzo finale, sono superiori alla media europea in entrambi i settori dell'energia elettrica e del gas. Nel nostro Paese, le componenti parafiscali della bolletta condizionano pesantemente il mercato libero dell'energia, anche se hanno poco a che fare con esso.
Gli oneri parafiscali all'interno della bolletta elettrica.
Negli ultimi anni gli oneri parafiscali sono aumentati considerevolmente in primo luogo grazie alle politiche incentivanti per le fonti rinnovabili di energia. Il peso degli oneri all'interno della bolletta dell'energia elettrica dei clienti (la parte rossa) ha ormai superato la componente fiscale costituita dalle imposte. Confrontando il peso delle varie componenti di costo, la principale differenza con gli altri paesi europei è rappresentata dall'onere della componente A3 (oneri generali di sistema) destinata appunto alle energie rinnovabili. L'aumentare degli oneri di sistema ha inoltre diminuito il peso dei servizi di vendita all'interno della bolletta, che rappresentano la leva commerciale dei fornitori nel mercato libero. Questa crescita ha una ricaduta negativa sul mercato libero dell'energia perché rende meno percepibile il prezzo della materia prima energia (nei servizi di vendita, la parte blu). La bolletta in questo modo non riflette il costo dei prodotti e servizi resi e il mercato liberalizzato non riesce ad esprimere a pieno la concorrenza tra i fornitori. Gli oneri generali di sistema, così come i costi di rete, vengono applicati ai clienti domestici con tariffa D2 in maniera progressiva. Questo significa che il costo della componente diventa più grande all'aumentare dei consumi. Già da qualche tempo si discute della riforma della tariffa dell'energia elettrica, che ha come obiettivo proprio il superamento della struttura progressiva della tariffa e l'adeguamento della componente degli oneri generali di sistema ai costi effettivi del servizio.
Gli oneri parafiscali all'interno della bolletta del gas.
Gli oneri parafiscali per il gas sono: la componenti RE, per progetti di risparmio energetico e lo sviluppo di fonti rinnovabili nel settore del gas, la componente Rs per l'incentivazione della qualità, le quote Ug1, Ug3 (per squilibri e interruzioni) e GS (bonus gas). Come già accennato questi oneri costituiscono solo una minima parte del totale dei servizi di rete e non influiscono in modo così evidente come per l'energia elettrica.
Imprese energivore, il bluff di sconti e sussidi: a pagarli sono i contribuenti. Il sottosegretario allo Sviluppo economico Simona Vicari ha detto: “La stagione dell’assalto agli incentivi o alle esenzioni è chiusa". Ma una deliberazione dell'Autorità per l’energia elettrica e il gas ha stabilito che la compensazione sarà “a carico di tutte le utenze non beneficiarie delle agevolazioni”. Cioè dei consumatori privati, cittadini e imprese, scrive Davide D'Antoni il 27 novembre 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Chi paga e a quanto ammontano i nuovi aiuti sull’energia? Il 30 ottobre 2013, durante un convegno organizzato dall’Enel, il sottosegretario allo Sviluppo economico Simona Vicari dichiarava: “La stagione dell’assalto agli incentivi, ai sussidi di qualunque natura o alle esenzioni è chiusa”. Forse non sapeva che sei giorni prima l’Autorità per l’energia elettrica e il gas approvava una deliberazione (la numero 467) che disciplina i nuovi aiuti alle imprese energivore voluti da Corrado Passera in zona Cesarini, quando cioè il governo Monti disbrigava gli ‘affari correnti’. A pagina 9 della deliberazione, infatti, si scopre il bluff. Il sussidio verrà compensato da una componente tariffaria che troveremo in bolletta, la Ae che sarà “a carico di tutte le utenze non beneficiarie delle agevolazioni”, cioè consumatori privati e imprese non energivore. Insomma, molti aiutano pochissimi per un valore che – stima il coordinamento Free – potrebbe aggirarsi attorno a 4 miliardi di euro. Il decreto 5 aprile 2013 partorisce la nozione di ‘imprese energivore’. Si tratta di aziende obese di energia che, per loro stessa natura, ne mangiano più delle altre: almeno 2,4 GWh/a con un costo che deve superare il 3% del fatturato. Il censimento presso la Cassa conguaglio è iniziato il 21 ottobre e finirà il prossimo 30 novembre. In pochissimi giorni si sono registrate più di 600 imprese, ma solo alla scadenza del bando sarà possibile quantificare lo ‘sconto’ sulla base delle bollette storiche delle stesse aziende candidate. Così, con un costo dell’energia superiore rispetto agli altri Paesi europei lo Stato, ha deciso di saziare le industrie, come quella chimica e metallurgica, la cui sopravvivenza dipende dall’alto consumo. “Se interrompessimo i sussidi dall’oggi al domani – spiega Giovan Battista Zorzoli, portavoce di Free, coordinamento di 25 associazioni attive nelle fonti rinnovabili – condanneremmo quelle aziende a chiudere. Lo Stato fa bene a difenderle ma sbaglia metodo: al posto dello sconto sul troppo consumo, dovrebbe realizzare l’aiuto a consumare meno grazie alla riconversione industriale e all’autoproduzione di energia, cosicché in pochi anni le stesse aziende non abbiano più bisogno di un sostegno per campare”. E’ la filosofia del ‘più mangi, più ti do da mangiare’ che vince su quella del mettere a dieta l’obeso, farlo consumare meno, spingendo le imprese energivore a innovare i loro processi produttivi e risparmiare energia. Se i sussidi non diminuiscono nel tempo e se non sono a termine, si è in presenza di un ‘aiuto’ di Stato pagato dai contribuenti. A essere seriamente preoccupata è Rete Imprese Italia che ha rivolto “un pressante invito” all’Autorità per l’Energia “affinché possa intervenire nell’ambito del proprio compito di soggetto regolatore”. Rete Imprese teme “la previsione di nuovi rincari sulle bollette elettriche che le piccole e medie imprese saranno costrette a subire a partire dal primo gennaio per un insieme eterogeneo di misure”. “A partire dal 2014 – continua la nota – le Pmi subiranno in bolletta l’aggravio di un’altra componente, la cosiddetta Ae, che pagheranno sia famiglie che le piccole imprese destinata a coprire le nuove agevolazioni a favore delle grandi industrie, alla quale si aggiungeranno ulteriori aumenti su voci già esistenti, relative, per esempio, alla distribuzione e al dispacciamento. Quest’ulteriore rischio di aggravio delle bollette – prosegue la maggiore associazione delle Pmi – che si aggiunge a un sistema di distribuzione degli oneri energetici già sperequato a danno delle piccole imprese, aumenterà ancora di più il divario competitivo tra le Pmi italiane e le loro concorrenti estere”.
Il bluff delle tasse ecologiche: solo l'1% usato per l'ambiente. Lo Stato incassa quasi 44 miliardi l'anno, ma finiscono tutti in "spese" varie. Un tesoro che invece, investito in sicurezza, avrebbe potuto evitare questi morti, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 21/11/2013, su "Il Giornale". C'è una montagna di soldi per prevenire disastri ambientali, quando piove più del solito (può capitare, a novembre) e gli argini cedono, i ponti crollano, le montagne si squagliano. Li versiamo noi, allo Stato, ogni volta che facciamo benzina, paghiamo il bollo, saldiamo la bolletta elettrica, immatricoliamo l'auto o lo scooter, e poi li assicuriamo. Miliardi di euro in «tasse ambientali», che l'ambiente non lo vedranno mai, perché si fermano prima, inghiottite dallo stomaco onnivoro dello Stato per finanziare altre spese. Tasse sulle emissioni di combustibili, sulla produzione di energia elettrica, sull'utilizzo di veicoli a motore, altre eco-tasse (sui sacchetti di plastica, pile, oli lubrificanti, imballaggi, materiale per costruzioni), imposte sui rifiuti, sulle fognature, sui biglietti aerei. Che fanno tutte insieme 44 miliardi di euro, riscossi ogni anno dallo Stato, enti locali inclusi, con lo scopo (ma solo sulla carta) di proteggere l'ambiente e chi ci vive dentro. Che fine fanno? Soltanto l'1% delle imposte ecologiche, pari a 448 milioni euro, serve davvero all'ambiente, calcola la Cgia di Mestre su dati dell'Istat. Significa che 43,4 miliardi circa, prelevati attraverso le imposte cosiddette «green», vengono presi e usati per fare altro (coperture finanziarie varie). Con l'aggravante che quando c'è il disastro, la soluzione classica è aumentare le accise, com'è stato fatto nel 2011 dopo l'alluvione in Liguria e Toscana (più 0,89 centesimi di euro al litro di carburante). «Non si può sostenere che le sciagure accadono anche perché non ci sono le risorse finanziarie disponibili per la tutela e la manutenzione del nostro territorio - lamenta Bortolussi, segretario dell'associazione artigiani di Mestre -. I soldi ci sono, peccato che ormai da quasi un ventennio vengano utilizzati per fare altre cose». Se si guarda alle tavole storiche dell'Istat si vede che dal '90 ad oggi è aumentato il gettito dalle tasse ambientali, ma la quota destinata agli investimenti sull'ambiente si è spostata di poco dallo zero. Nell'ultimo ventennio (1990-2011) abbiamo pagato circa 800 miliardi di imposte ambientali. Nel triennio 1990/92, dei quasi 80 miliardi di gettito frutto delle tasse ambientali, ben 0 sono stati destinati al finanziamento di spese per la protezione dell'ambiente. Ci si assesta attorno all'1% del gettito destinato effettivamente alla protezione ambientale a partire dal '95, e da lì non ci si schioda più. Alcune imposte sono gestite dagli enti locali. Come il tributo provinciale per la tutela ambientale o l'«imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili», riscossa dalle Regioni, introdotta nel 2001 per il «completamento dei sistemi di monitoraggio acustico e il disinquinamento acustico e l'eventuale indennizzo delle popolazioni residenti nell'intorno aeroportuale». Altre tasse, di pertinenza statale, neppure sappiamo di pagarle, come la «sovrimposta di confine sul Gpl» o l'«imposta sugli oli minerali e derivati» (incide sul costo della benzina), altre le conosciamo benissimo, come l'imposta di bollo per registrazione al Pra, il Pubblico registro automobilistico istituito nel 1927 (giace in Parlamento una proposta per abolirlo). Se i 44 miliardi di tasse ambientali annue fossero usati per mettere in sicurezza fiumi, argini e valli, è probabile si risparmierebbero disastri. Anche perché, secondo stime Eurostat, in Italia le tasse ambientali valgono il 2,4% del Pil, contro una media europea del 2,3%. Pesano soprattutto quelle sull'energia, pari al 78,3% (contro il 72% della media europea). Senza calcolare tra queste la Tares, nuova imposta sullo smaltimento dei rifiuti, che ha preso il posto della Tarsu e della Tia (tariffa di igiene ambientale). Un'altra mazzata «verde».
Fotovoltaico, croci e delizie dell’energia rinnovabile, scrive Angelo Pennacchioni il 4 luglio 2017 su "Italiaambiente.it". L’Italia è la terza al mondo, ma la conflittualità per l’impatto produce ricorsi e controricorsi. Lo credereste? Il nostro Paese è il terzo al mondo per numero di impianti fotovoltaici: a fine 2014 – secondo la stima AneiRinnovabili – risultavano registrate 648.180 richieste di concessione. Con la produzione di 18,325 Mgwt, equivalenti ai 15% della produzione. Siamo dietro soltanto alla Cina ed agli Usa. Il 90% delle installazioni è considerata di piccola dimensione. Dunque si tratta di un parco energetico enorme che però produce conflittualità finanziaria, economica, ambientale e sociale. Perché fin quando si procurano risparmi sulla bolletta da pagare il consenso è unanime, mentre diverso è l’atteggiamento quando entriamo nei labirinti delle insostenibilità ambientali delle insofferenze sociali e dei danni al paesaggio. Non per niente i tribunali di tutta l’Italia, i Tar, la Corte di Cassazione ed anche la Suprema sono costantemente sottoposti a richieste di giudizi, appelli, convalide e revoche, la cui definizione si protrae per decenni. Una delle sentenze più recenti è stata emessa dal Tribunale di Perugia che ha accolto la lamentala degli abitanti del borgo di Morcella, in comune di Marsciano, contro la molestia provocata ai cittadini dalle emissioni dei pannelli di un impianto a terra. Secondo il giudice Michele Moggi: “Una modestia intollerabile in riferimento al fenomeno di abbagliamento che si verifica principalmente nelle ore pomeridiane e che impone di tenere chiuse le finestre per evitare la rifrazione della luce e considerato che nemmeno la modifica dell’inclinazione dei pannelli ed altri accorgimenti tecnici, barriere antiriflessi, pellicole e vetri particolari hanno diminuito o attenuato immissioni moleste provenienti dai pannelli...” Il giudice ha ordinato la rimozione dell’impianto, mentre successivamente deve pronunciarsi contro o pro l’installazione di due impianti a biomasse per la produzione di 400Mkw. Siamo però soltanto al primo giudizio di un contenzioso iniziato nel 2011. Per quanto riguardo l’invasione del fotovoltaico sui terreni coltivabili i dati ufficiali risalenti all’anno 2011 non mostrano indici particolari di rischio anche se nell’ultimo quinquennio il settore ha avuto una forte crescita. L’ingombro sul territorio rappresenta uno 0,026 della superficie agricola utile, l’invasione non deve essere superiore al 10% del terreno del proponete e la potenza dell’impianto non superiore ad un MW. Risultano misure, codici e coefficienti ben definiti riportati anche nella direttiva della Comunità Europea del 2001. Molto difficile invece valutare l’impatto paesaggistico che, secondo uno studio di ingegneristica ed architettura. “ …non può essere affrontato solamente da un punto di vista quantitativo ma necessita di un approccio volto a rendere la diffusione degli impianti compatibile con il paesaggio naturale, con l’impatto visivo dei parchi fotovoltaici, con la storia e le tradizioni del territorio e, nel tempo, delle conseguenze che gli impianti potrebbero provocare alla salute dell’uomo ed alla redditività e struttura dei terreni”.
L'impianto fotovoltaico domestico: breve guida all'acquisto. Avete deciso di installare un impianto solare fotovoltaico sul tetto di casa per produrre la vostra energia elettrica? Ecco qualche consiglio su come scegliere l'impianto giusto, come valutare prezzi e offerte che ci vengono presentate e i criteri da adottare per scegliere un installatore competente, scrive la Redazione di QualEnergia.it. il 17 agosto 2016. Articolo già pubblicato l'8 giugno 2016. Avete deciso di installare un impianto fotovoltaico sul tetto di casa per produrre la vostra elettricità? Qualche consiglio su come scegliere l'impianto giusto, come valutare prezzi e offerte che ci vengono presentate e i criteri da adottare per scegliere un installatore competente.
Il dimensionamento. Ai tempi del conto energia, quando tutta la produzione dell'impianto era incentivata, con tariffe diverse a seconda della taglia, per gli utenti domestici si installavano di solito impianti da 3 kWp, la soglia massima dello scaglione di potenza incentivato più generosamente. Ora non è più così: la scelta più conveniente è dimensionare l'impianto su misura dei propri consumi. Impianti di taglia residenziale in genere vanno tra i 2 e i 6 kWp, ma possono anche avere una potenza maggiore. Conviene, infatti, che l’impianto non produca più energia di quella consumata, perché l’eccedenza immessa in rete verrebbe sì retribuita, ma a valori inferiori di quelli pagati per i kWh prodotti fino al raggiungimento dei consumi. Inoltre, queste entrate sarebbero tassate (secondo la propria aliquota fiscale), in quanto le eccedenze generano appunto ricavi soggetti a imposizione fiscale. Dato che l'impianto va "cucito su misura" dell'utente, a parità di consumi basterà un impianto più piccolo e dunque meno costoso per chi vive dove c'è più sole. Ad esempio, una famiglia che consumi 4.000 kWh/anno, se vive al Sud dovrebbe optare per un impianto da circa 2,75 kWp, mentre la stessa utenza al Nord dovrebbe preferire un impianto da 3,5 kWp. Nello stimare la produzione dell'impianto, oltre che della latitudine e della radiazione solare disponibile il progettista terrà conto di altri fattori. Ad esempio bisogna vedere se il vostro tetto è esposto perfettamente a Sud e se permette di installare i moduli con la giusta inclinazione. Uno scostamento di 90° a Est o Ovest causa una riduzione del 20% della produzione su base annuale. Alle nostre latitudini, moduli inclinati oltre i 30° producono meno di quelli inclinati meno di 30°: più i moduli sono inclinati e meno producono. Moduli inclinati a 90°, quindi verticali, perdono il 30% rispetto alla condizione ottimale. Spesso si dimensiona l’impianto in modo da coprire anche consumi elettrici previsti per il futuro, ad esempio l'installazione di condizionatori o di piastre ad induzione per la cottura.
Massimizzare l'autoconsumo. La convenienza del FV è più alta per chi consuma più elettricità. Per questo una buona idea potrebbe essere abbinare al fotovoltaico l'installazione di pompe di calore elettriche. Questa applicazione, spesso molto efficiente, fornisce sia raffrescamento che calore, sposta i consumi per il riscaldamento dalla bolletta del gas a quella elettrica, con grande convenienza per chi l'elettricità se la produce in proprio con il solare. Altro fattore che aumenta la convenienza del fotovoltaico è la massimizzazione dell'autoconsumo, cioè il fatto di riuscire ad utilizzare direttamente, senza farla passare per la rete, quanta più possibile dell'energia prodotta dall'impianto. L'energia usata direttamente, infatti, sostituisce quella prelevata dalla rete ed è conveniente perché su questa non si pagano oneri di rete e di sistema, tasse e costi di dispacciamento e commercializzazione. Queste voci pesano per quasi il 60% del prezzo del kWh che si compra dalla rete. È molto più conveniente dunque usare sul momento tutta l'energia prodotta dal solare, anziché immetterla in rete, visto che non consumiamo abbastanza di giorno, e poi dover acquistare altra elettricità dalla rete alla sera. Ciò nonostante il meccanismo dello Scambio su posto, che funziona come una sorta di batteria virtuale, rimborsa una parte degli oneri, di cui sopra, quando paga l'energia non consumata direttamente e che viene immessa in rete. L’autoconsumo tipico di una famiglia italiana è dell’ordine del 30-40%. Ma si può aumentare questa quota, e dunque risparmiare di più grazie al FV, spostando nelle ore di sole tutti quei consumi elettrici 'gestibili', come lavastoviglie, lavatrici e asciugatrici. Esistono anche dei sistemi di domotica capaci di coordinare i carichi con la produzione dell'impianto FV (si veda anche il nostro Speciale Tecnico: "Fotovoltaico e autoconsumo: tecniche e strategie per incrementare l'autoconsumo di energia elettrica prodotta dall'impianto").
Aggiungere le batterie? Altra soluzione per usare l'energia del FV senza farla passare per la rete è dotarsi di batterie per accumularla. Attualmente i costi sono elevati, ma le batterie, come l'impianto FV godono della detrazione fiscale del 50% per cui si riesce a rientrare dell'investimento in tempi accettabili, anche se più lunghi rispetto al caso di un semplice impianto FV senza storage. Ci attendono nei prossimi anni significative riduzioni dei costi dei sistemi di accumulo: ad esempio Deutsche Bank prevede che il costo aggiuntivo per dotare di storage un impianto fotovoltaico in 5 anni calerà di 7 volte. Per questo una buona idea può essere installare già ora sul nuovo impianto FV un inverter con predisposizione per utilizzo con storage.
Il prezzo dell'impianto. Una volta che avete capito che impianto volete, dovrete valutare le offerte sul mercato. In genere un impianto residenziale oggi si può acquistare a circa 2.000 euro per kW di picco (esclusa Iva al 10%). Ogni kWp richiede una superficie di circa 7 m2. Si tratta di un prezzo onnicomprensivo, che include non solo materiali, progettazione e installazione, ma anche le consulenze necessarie per richiedere le autorizzazioni e la connessione elettrica. Sul mercato si trovano prezzi sia molto più alti che molto più bassi. Sappiamo ad esempio di offerte che scendono fino a 1.700 euro al kWp: su un impianto da 3 kWp in questo caso si andranno a spendere ben 1.500 euro in meno per il sistema, accorciando non di poco il tempo di ritorno dell'investimento. Nel valutare le offerte va verificato se siano inclusi tutti i servizi di consulenza, oltre che verificare le garanzie, i livelli qualitativi dei materiali usati e last but not least, il rispetto delle normative di sicurezza nell'installazione, che può essere molto costoso per l'azienda, dato che solitamente si tratta di un lavoro "in quota", sul tetto.
Gli incentivi: detrazione fiscale e Iva agevolata. Il fotovoltaico gode della detrazione fiscale del 50% per le ristrutturazioni edilizie: porta cioè in detrazione dall'Irpef su 10 anni, con quote di pari importo, il 50% della spesa sostenuta. Vale solo per le persone fisiche. Possono goderne non solo i proprietari, ma anche gli inquilini o i familiari, a patto che siano loro a sostenere le spese. Non è necessario effettuare una ristrutturazione contestuale (a differenza che per il bonus mobili), ma si può godere di questo incentivo solo per interventi in unità immobiliari residenziali o parti comuni di edifici residenziali. In quanto “bene significativo”, l'impianto FV gode dell'aliquota Iva agevolata del 10%. Questa però si applica solo sulla differenza tra il valore complessivo della prestazione (costo installazione compreso) e quello dei beni stessi.
L'installatore. Per la progettazione e l'installazione si consiglia di preferire quelle ditte specializzate che possono dimostrare di aver realizzato tanti impianti, anche e soprattutto nell’ultimo anno: significa che sono rimaste aggiornate sia dal punto di vista tecnico (nuovi prodotti) che normativo (tante le nuove regole tecniche e amministrative).
I materiali. Se possibile preferire prodotti di marche internazionalmente riconosciute, sia per l’esperienza acquisita negli anni che per la solidità delle aziende. Aspetto da considerare per eventuali interventi in garanzia. Giusto sottolineare che un componente FV cinese non significa prodotto di scarsa qualità, anzi, spesso sono di gran lunga i più grandi produttori di moduli FV al mondo, con affidabilità e standard qualitativi ai massimi livelli.
Si consiglia di richiedere dispositivi di ottimizzazione della produzione energetica. Si tratta di “scatolette” da installare dietro i moduli (in certi casi sono già preinstallati nella scatoletta di giunzione dei moduli) che consentono a ogni modulo di lavorare indipendentemente dallo stato di quelli adiacenti, garantendo quindi maggiore continuità nella produzione e consentendo il monitoraggio di ogni singolo modulo. Ricordiamoci che è bene chiedere che l'inverter sia predisposto a gestire i sistemi di accumulo, in modo che non lo si dovrà cambiare se in seguito si deciderà di installare una batteria.
Manutenzione. Si consiglia di sottoscrivere un contratto di manutenzione che preveda come minimo il monitoraggio dell’impianto fotovoltaico e un sopralluogo nei primi 2 anni, meglio se all’inizio del periodo di funzionamento dell’impianto: i problemi, a volte, si verificano soprattutto nella fase iniziale.
Garanzie. Sui componenti valgono le garanzie offerte dai costruttori. Per i moduli la copertura è tipicamente di 10 anni sulla parte meccanica e 25 anni sulle prestazioni. Genericamente la riduzione delle prestazioni è graduale e potrebbe essere del -10% dopo 10 anni e del -20% dopo 25 anni. Per gli inverter la garanzia più comune è 5 anni, ma sempre più aziende offrono 10 anni di copertura. Si consiglia di preferire quest'ultima soluzione. L’impianto fotovoltaico nella sua interezza ha per legge la classica garanzia di 2 anni, che deve essere fornita da chi realizza l’impianto. Se si verifica un problema che dipende da un singolo componente, la responsabilità è del fornitore. Se invece il motivo del malfunzionamento è legato all’installazione o alla progettazione, la responsabilità è della ditta installatrice/venditrice. In alcuni casi, per ora rari, la ditta venditrice offre una garanzia di prestazioni per il primo anno.
Fotovoltaico domestico: come proteggersi dalle offerte fuori mercato. Molti venditori in giro per l'Italia offrono alle, spesso ignare, famiglie, impianti fotovoltaici sovradimensionati rispetto ai loro consumi elettrici e a costi molti elevati per kW installato. Un approccio che rischia di danneggiare il mercato. Come difendersi da questi "piazzisti" di energia solare, scrive Leonardo Berlen il 12 giugno 2017 su "Quale Enegia". È bene che i consumatori prestino grande attenzione alle proposte di realizzazione di impianti fotovoltaici domestici sui loro tetti da molti venditori in giro per l’Italia. Sappiamo ormai da tempo che vengono fatte alcune offerte "standardizzate" a potenziali acquirenti che considerare “fuori mercato” è un eufemismo. Acquirenti ignari dei reali prezzi in discesa di questa tecnologia possono realmente incappare in offerte, spesso corredate da qualche collegamento con marchi energetici celebri, che vanno solo a vantaggio del "venditore". Non possiamo chiamare altrimenti questi soggetti, o queste società cui fanno capo, perché non possiamo considerarli corretti professionisti del settore, com'è la stragrande maggioranza degli operatori presenti in Italia. Un professionista dovrebbe invece prestare attenzione non solo ai consumi annuali elettrici del cliente, ma anche ai loro profili di consumo giornaliero e mensile e ad altri diversi particolari, prima di presentare un’offerta. Uno dei diversi esempi significativi di come operano queste imprese è quello relativo a una proposta (di cui possediamo peraltro l'originale) per un impianto FV da 4,5 kWp per una famiglia che abita in una bifamiliare in centro Italia, con consumi elettrici intorno ai 2mila kWh/anno e che soddisfa il proprio fabbisogno di riscaldamento e acqua calda sanitaria con una caldaia a biomasse. Il “modico” prezzo dell’impianto? Oltre 15mila euro (Iva inclusa)! Dal documento non si capisce però se il prezzo includa il finanziamento rateizzato. Infatti nel modulo sottoscritto c’è riportato “finanziaria” nella voce sulla modalità di pagamento, ma nel contratto, firmato dal cliente, poi si spiega che il pagamento dell’opera sarà effettuato per il 50% alla firma del contratto e il saldo restante il giorno prima dell’installazione. I moduli che verrebbero utilizzati (18 da 250 Watt) sono italiani, di una azienda in verità poco conosciuta, mentre nel contratto (preliminare?) non viene nemmeno indicata la tipologia e la marca di inverter. Già da queste poche righe si capisce che l’unico obiettivo della società e del suo venditore è poter piazzare un prodotto, chiudere il contratto, e uscirne dopo aver spuntato un bel guadagno. Poi per quanto riguarda la fase di installazione, prevista dal contratto, si spera solo che venga eseguita da qualche ditta con buone professionalità. Ma possiamo dubitarne se questo è l'approccio iniziale. Questi "venditori" che raccontano un po’ di tutto ai loro potenziali committenti (ad esempio, “la tua bolletta è troppo cara e con il FV non la pagherei più", “ti ripaghi l’investimento in due o tre anni", eccetera), non fanno altro che mettere in cattiva luce una tecnologia che è sempre più matura e che ha ridotto in questi anni in maniera drastica i suoi costi. In una parola rischiano di danneggiare il mercato, così come aziende e professionalità serie, oltre che le tasche di alcune famiglie. In quell’offerta ci sono due aspetti tanto stridenti, quanto fondamentali in fase di progettazione:
La scelta della taglia dell’impianto. Un impianto da 4,5 kWp (per circa 32 m2 di moduli) è esageratamente sovradimensionato per le esigenze di quella tipologia di famiglia: ha una producibilità in quella zona di almeno 6mila kWh/anno (contro i 2.000 consumati ogni anno). Una scelta di questo tipo allungherebbe i tempi di ammortamento dell’impianto, visto che la gran parte della produzione non andrebbe all’autoconsumo (aspetto principale da valutare), ma verrebbe ceduta alla rete elettrica con un conseguente introito molto ridotto. Forse ne basterebbe uno da 1,5-2 kWp, quindi meno della metà (e un piccolo solare termico per la produzione di acs).
Il prezzo dell’impianto. Premesso che non capiamo realmente se in questo caso vi siano inclusi i costi di finanziamento, dobbiamo però dire che per un impianto di quella potenza il costo chiavi in mano dovrebbe essere compreso tra 8000 e 9000 euro (iva inclusa).
Come proteggersi allora da queste proposte indecenti? Riassumiamo alcuni concetti basilari. Oggi la scelta più conveniente è sempre dimensionare l'impianto su misura dei propri consumi elettrici. L'impianto fotovoltaico va quindi "cucito su misura" dell'utente: a parità di consumi, basterà un impianto più piccolo, e dunque meno costoso, per chi vive dove c'è più sole. Ad esempio, una famiglia che consumi 4.000 kWh/anno, se vive al Sud dovrebbe optare per un impianto da circa 2,75 kWp, mentre la stessa utenza al Nord dovrebbe preferire un impianto da 3,5 kWp. Nello stimare la produzione dell'impianto, oltre che della latitudine e della radiazione solare disponibile il progettista terrà conto di altri fattori. Ad esempio bisogna vedere se il tetto è esposto perfettamente a Sud e se permette di installare i moduli con la giusta inclinazione. Uno scostamento di 90° a est od ovest causa una riduzione del 20% della produzione su base annuale. Per l’inclinazione del tetto una buona produzione è garantita, in media, da una del 30%. Consideriamo anche che si può dimensionare l’impianto in modo da coprire i consumi elettrici previsti per il futuro, ad esempio con l'installazione di pompe di calore elettriche, di condizionatori o di piastre ad induzione per la cottura. Altro aspetto da considerare, come detto, è massimizzare l'autoconsumo: utilizzare direttamente, senza farla passare per la rete, quanta più possibile dell'energia prodotta dall'impianto FV. L'energia usata direttamente, infatti, sostituisce quella prelevata dalla rete ed è conveniente perché su questa non si pagano gli oneri di sistema e di rete. L’autoconsumo di una famiglia italiana è dell’ordine del 25-40%. Ma si può aumentare questa quota, e dunque risparmiare di più grazie al FV, spostando nelle ore più soleggiate tutti quei consumi elettrici 'gestibili', come lavastoviglie, lavatrici e asciugatrici. Esistono anche sistemi di domotica capaci di coordinare i carichi (consumi) con la produzione istantanea dell'impianto FV. Ricordiamo, infine, che per le persone fisiche il fotovoltaico gode della detrazione fiscale del 50% per le ristrutturazioni edilizie: porta cioè in detrazione dall'Irpef su 10 anni, con quote di pari importo, il 50% della spesa sostenuta. Per concludere, ricordiamo a tutti di diffidare da chi offre preventivi standard senza un vero sopralluogo e un'attenta analisi dei consumi presenti e futuri dell'utenza.
Pannelli fotovoltaici a rischio incendio. Tutto quello che non vi hanno mai detto, scrive Angela Puchetti su "it.businessinsider.com" il 12 luglio 2017. Per chi suona la sirena? Basta inserire su Google due parole: fotovoltaico e incendio, poi cliccare “notizie” (e magari, anche “immagini”) per rendersi di conto di persona del numero d’incendi apparsi sulle cronache locali italiane in cui sono coinvolti impianti fotovoltaici. Dall’inizio nel 2017 a oggi d’incendi di questo tipo su Google se ne contano parecchi: a essere colpiti sono state abitazioni, fabbriche, industrie, campi e allevamenti. L’energia generata dagli impianti fotovoltaici è energia pulita ma gli impianti necessitato di un’attenta manutenzione. Cosa che non sempre viene segnalata con la dovuta solerzia da chi monta gli impianti: rappresenta comunque un costo, motivo per cui a volte è lo stesso proprietario che tende a trascurarla, mentre invece deve diventare un’abitudine. Secondo fonti confidenziali parecchie vendite sono state fatte con la promessa che per vent’anni anni i pannelli avrebbero generato solo profitti, senza doversi preoccupare di manutenzione. In più, per battere la concorrenza, c’era chi tendeva ad abbassare i prezzi tagliando sui costi: questo è successo soprattutto nei primi anni di diffusione del fotovoltaico sulla scia della corsa agli incentivi per installare gli impianti. «La logica commerciale superava le scelte del progettista. – spiega Massimiliano Sassi, ingegnere esperto d’impianti di energia rinnovabili – In sostanza rispetto al progetto originale venivano tolti quei componenti che garantivano maggiore sicurezza e controllo ma non erano resi obbligatori dalle normative». Non sempre le cause dell’incendio sono accertate in questi articoli di cronaca, scritti appena il fatto è avvenuto, però colpiscono due costanti: la presenza di impianti fotovoltaici e spesso la rapidità con cui si propaga l’incendio. Mancano dati ufficiale ufficiali sul numero, sappiamo però che nel 2011 gli incendi con presenza d’impianto fotovoltaico sono stati 298: allora gli impianti erano 330mila circa, mentre già nel 2015, secondo il Rapporto statistico 2015 su energia da fonti rinnovabili in Italia (vedi pag. 35 del rapporto), erano saliti a 688.398. Per venire a capo del problema abbiamo interpellato un certo numero di tecnici, esperti e vigili del fuoco.
«Quando sono partite le istallazioni degli impianti c’era poca conoscenza, che con il tempo è maturata – spiega Michele Mazzaro, ingegnere e Comandante del Nia, Nucleo Investigativo Anticendi (ndr. il Nia dipende dalla Direzione Centrale Prevenzione e Sicurezza tecnica del Ministero dell’Interno – Corpo nazionale Vigili del fuoco) – Oggi c’è una maggiore attenzione ma con gli anni è cresciuto anche il numero degli impianti. E non è sempre facile accertare da dove sia partito un incendio. Ad esempio, nel periodo invernale non è semplice riscostruire se un incendio è partito da una canna fumaria o da un impianto fotovoltaico. In entrambi i casi bisogna tener conto che il materiale bituminoso isolante che impermeabilizza il tetto aiuta la propagazione delle fiamme». Per classificare gli incendi sarebbe utile compilare un modulo (tipo quello nelle ultime pagine di questo documento) per identificare l’origine dell’innesco. Questa proposta è parte del lavoro di una commissione creata ad hoc per valutare e prevenire i rischi di elettrocuzione (scarica elettrica) per gli operatori dei Vigili del Fuoco che si trovano a dover intervenire usando l’acqua su incendi di vaste proporzioni e per individuare le principali cause d’incendio in presenza di impianti fotovoltaici. «Non ci sono dati certi riguardo agli incendi in presenza di impianti fotovoltaici, ma c’è una proposta di rilevazione statistica del Comando dei Vigili del Fuoco di Milano pubblicato dal Nia (Nucleo Investigativo Anticendi). – spiega Sassi – In pratica compilando il modulo si possono avere informazioni utili e rendersi conto se esiste una correlazione diretta, per esempio, tra gli incendi e chi ha fatto l’impianto, la marca dei pannelli, la marca degli inverter (l’inverter è un apparecchio che ha la funzione di trasformare la corrente continua prodotta dai pannelli in corrente alternata da mettere in rete o da utilizzare per gli usi domestici ndr.), i progettisti, gli installatori e i montatori, in modo da poter fare prevenzione.» «Chi ha installato pannelli fotovoltaici su attività soggette al DPR 151 del 2011, deve sapere che l’installazione deve rispettare le norme di sicurezza elettrica e antincendio previste dai regolamenti italiani per il rischio antincendio (due circolari sicurezza incendio del 2010 e del 2012)» – spiega Mazzaro. «Con queste circolari si è cercato di arginare i pericoli (esempio, il rischio folgorazione) anche per gli operatori, i soccorritori che devono intervenire in caso d’incendio. – continua Mazzaro –Sono norme importanti, per esempio, per impedire la propagazione dell’incendio fin dentro la struttura sotto cui sono posti i pannelli ed evitare il coinvolgimento dei pannelli in caso di incendio nella zona sottostante dell’edificio».
Oltre alle norme dei Vigili del Fuoco esistono anche le disposizioni del Comitato Elettrotecnico Italiano, CEI: le principali che utilizzano gli installatori per montare gli impianti. «In passato all’epoca dell’istallazione dei primi impianti nel 2009 – per via del boom di installazioni dovuto agli incentivi statali – l’utente è stato poco sensibilizzato sulla necessità di fare manutenzione. – afferma Andrea Foggetti, caposquadra dei Vigili del Fuoco in servizio a Milano – Sarebbe stato meglio se gli impianti fossero stati venduti con un pacchetto di manutenzione incluso nel prezzo. Oggi gli impianti sono più sicuri, in generale li installano meglio. E attualmente la manutenzione è più caldeggiata dagli installatori e dal commerciale: ciò avviene più o meno dal 2014». «Le ditte installatrici dovrebbero aver evidenziato l’importanza della manutenzione nei loro manuali. – continua Mazzaro – Invece, molte volte l’utente non conosce i rischi a cui va incontro non provvedendo a una corretta manutenzione. Abbiamo avuto incendi innescati dal fatto che i pannelli non erano stati puliti, per esempio, da foglie e sporcizia. Ciò crea sul pannello effetti di surriscaldamento localizzato e questo può aver dato origine agli incendi». «La causa più frequente d’innesco d’incendio sono le connessioni allentate. – aggiunge Foggetti – Una corretta manutenzione prevede il serraggio di tutte le viti per evitare viti lente che possano creare un arco elettrico da cui parte la scintilla che può provocare l’incendio». «L’impianto va controllato almeno una volta l’anno da personale specializzato: è importante fare un esame termografico con una termocamera (l’esame va fatto con la luce solare in modo che l’impianto fotovoltaico possa essere in funzione), per individuare eventuali anomalie tecniche che se tralasciate possono essere causa scatenante di incendi. – spiega Mazzaro – Va fatta anche un’ispezione visiva: se un topo, per esempio, ha rosicchiato un cavo è importante individuarlo e sostituirlo». Lo scoglio principale per i possessori di impianti è che si deve pagare una persona competente e affidabile per effettuare questa manutenzione: e magari era una spesa non prevista ai tempi dell’istallazione. Si tratta però di un investimento che va fatto. «In primis vanno monitorate le connessioni, poi una verifica visiva sui pannelli, osservando se sono presenti segni strani, ammaccature o “effetto grandine”, se il vetro è danneggiato dall’interno, magari per via di una piccola sfiammatura. – spiega Foggetti – E ancora se ci sono ossidazioni e perdita d’integrità del telaio (in sostanza: una dilatazione termica delle cornici); poi va controllata l’integrità dei cavi soprattutto quelli esposti alle intemperie, la scatola di giunzione, il quadro di stringa o gli inverter non opportunamente ventilati o posti in locali non idonei, per esempio, nel sottotetto in legno o in una soffitta stipata di oggetti (dall’albero di Natale ai giocattoli) facilmente infiammabili. Invece, attorno all’inverter è richiesto uno spazio completamente libero e pulito, senza tende o altri materiali che facilmente possano prendere fuoco. Bisogna anche provvedere a un efficace ricambio d’aria dove ci sono le apparecchiature elettriche come gli inverter, di solito, invece, posizionati in locali angusti e poco ventilati. L’ideale, è puntare su locali dedicati opportunamente areati o compartimentati».
Anche la pulizia dell’impianto non è da sottovalutare e va fatta in modo corretto. «D’estate, con le alte temperature i pannelli non vanno lavati a mezzogiorno come molti fanno, ma al mattino presto, quando le temperature sono più contenute. – spiega Foggetti – Infatti, effettuando il lavaggio a metà giornata, nelle ore più calde, si crea uno shock termico che provoca una perdita di integrità del telaio del pannello. Questo può portare a infiltrazioni d’acqua e poi a ossidazioni dell’impianto». Come può avvenire l’innesco di un incendio. «L’innesco che può portare all’incendio può avvenire per diversi motivi. – spiega Foggetti –
1) Fenomeno di hot spot, punto caldo all’interno di una cella oscurata o sporca, magari per mancata di pulizia dei pannelli o a causa di un’errata progettazione dell’impianto (es. cono d’ombra di un camino o di una parabola).
2) All’interno della scatola di giunzione nel pannello.
3) Se c’è una perdita d’isolamento si può creare un arco elettrico tra cella e cella del pannello e quindi una scintilla.
4) Altro innesco può avvenire nei cavi di connessione, se si verifica una perdita d’isolamento, e dato che il pannello continua sempre a funzionare con il sole può crearsi un arco elettrico.
5) Arco elettrico dovuto a temperature elevate.
6) In presenza di un tetto in legno (sono preferibili da un punto di vista della sicurezza i tetti in cemento armato).»
«La canna fumaria posta vicino al pannello non va bene ed è sconsigliata per due motivi: per l’aumento del calore che provoca in prossimità del pannello e per la fuoriuscita di fuliggine che si depositerà sul pannello creando il fenomeno di hot spot» spiega Foggetti. Dal 2012 il Ministero dell’interno ha emesso una circolare chiarendo che le attività soggette a controllo dei Vigili del Fuoco per istallazione di un impianto devono: tenere conto che l’impianto fotovoltaico è una modifica rilevante al rischio antincendio della struttura che può produrre aggravio alle preesistenti condizioni di rischio gli impianti devono essere almeno a un metro o ad una distanza comunque sufficiente secondo la valutazione dei professionisti dagli EFC (evacuatori di fumo e calore), dai lucernai, dagli elementi di compartimentazione verticale.
Che fare se scoppia un incendio? «La priorità è chiamare il numero di soccorso, e, se si è in grado, staccare il contatore generale, infatti, bisogna ricordare che finché c’è luce i pannelli continuano a essere in tensione e a produrre energia elettrica. – spiega Mazzaro – Staccando il contatore si isola tutta la parte dove circola la corrente alternata facendo in modo che gli inverter si spengano senza più convertire la corrente continua proveniente dai pannelli». Il consiglio è comunque chiamare il numero di soccorso dei Vigili del fuoco e richiedere l’intervento anche se l’incendio sembra risolto. «Se c’è stato un principio d’incendio va fatta una valutazione più approfondita dello scenario, bisogna capire perché è successo. Infatti, se non si comprende il problema all’origine può succedere di nuovo» dice Mazzaro.
Come si sviluppa un incendio sul tetto in presenza di pannelli. «Ipotesi uno: poniamo che su un tetto in legno, si crei un arco elettrico causato da due cavi. Ci possono essere mille variabili ma in media in mezz’ora una porzione di tetto prende fuoco, poi il fuoco si sposta verso i piani sottostanti. Conclusione: per i tetti in legno ventilati il monitoraggio deve essere ancora maggiore» spiega Foggetti. «Ipotesi due: se l’incendio si sviluppa su un tetto di cemento il fuoco cammina sul tetto e lungo la guaina bituminosa o materiale isolante (entrambi infiammabili). Se non trova un lucernaio o evacuatori di fumo, si limita a camminare sul tetto». «Fino al 2011 si installavano i pannelli fotovoltaici esterni rispetto alla superfice del tetto. – spiega Sassi– Così si scaldavano meno perché veniva lasciata un’intercapedine tra pannello e tetto. Negli anni successivi il Gestore Servizi Elettrici ha incentivato maggiormente gli impianti di tipo integrato ovvero realizzati all’interno dei tetti stessi». «I nuovi pannelli integrati sono a filo del tetto il che vuol dire ricavare una vasca nel sottotetto che, se non prevista con opportuna ventilazione, provoca un surriscaldamento anomalo, che non incide tanto sul problema incendio quanto sulla rendita energetica del pannello. – spiega Foggetti – Dal punto di vista della composizione quelli in silicio cristallino e policristallino dentro contengono sabbia: non sono rischiosi. Quelli in amorfo (i pannelli neri o blu scurissimo), invece, non hanno maggiori rischi nell’utilizzo, ma presentano più rischi per gli operatori, per via delle sostanze che contengono: arseniuro di gallio e telluluro di cadmio, due sostanze tossiche. Se prendono fuoco rilasciano fumi tossici e polveri di cadmio che se respirate provocano edema polmonare».
Chi ha un impianto fotovoltaico e legge queste cose per la prima volta, può comunque «lavorare sulla prevenzione, nel senso di fare un’analisi preventiva in modo da capire se l’impianto è a rischio incendio o produce meno delle attese. – spiega Sassi – Si tratta di un’analisi super partes fatta da professionisti che come risultato rivela i punti deboli dell’impianto, quindi può essere molto utile. Anche se questa verifica ha costi bassi (per un impianto di casa da 6 kW richiede un paio ore di lavoro), spesso, i possessori d’impianti non ricorrono a questa possibilità o perché non sanno che esiste o perché comunque non era prevista nel loro piano iniziale di investimento». «Nessuno si aspettava che un impianto fotovoltaico nella sua totalità potesse avere un’evoluzione così problematica, cioè che si verificassero così tanti incendi» ha dichiarato un esperto del settore a Business Insider Italia in via confidenziale. «Il rischio zero non esiste. Neanche per il fotovoltaico. – aggiunge Sassi – Col tempo si è capito che impianti e pannelli potevano prendere fuoco, c’è voluta l’esperienza, perché non c’era letteratura: l’applicazione di produzione concentrata di energia da fonte fotovoltaica era nuova. Le normative si sono evolute nel tempo ed erano sempre in ritardo. I progettisti non riuscivano ad aggiornarsi velocemente. Gli installatori avevano poca esperienza. E anche tante dichiarazioni di conformità in realtà non sono a norma, perché nel momento in cui sono state stampate non era già più valide le norme a cui facevano riferimento. In tutto questo gli incentivi sono stati dei catalizzatori creando pressione e fretta su tutti: chi comprava, chi vendeva, chi progettava, chi installava, chi doveva produrre e tanti sono stati anche i materiali difettati».
In certi casi si crea un circolo vizioso di cose non chiare dall’inizio, alimentato da paura, improvvisazione, disinformazione, sfida ai rischi: come in una roulette russa. «I possessori di fotovoltaico in certi casi hanno paura di chiamare i Vigili del Fuoco per il timore di ricevere sanzioni. – spiega Sassi – Infatti, hanno paura di non essere in regola rispetto all’impianto fotovoltaico e così rischiano consapevolmente. Oppure chiamano quando l’incendio è in stato avanzato: hanno aspettato troppo. Questo capita, soprattutto, nei capannoni industriali e agricoli». Succede anche che tante chiamate ricevute dalle centrali operative siano fatte da persone che vedono l’incendio, ma non dai proprietari dell’impianto. «Gli incendi in presenza di impianti e pannelli fotovoltaici sono incendi più veloci. – spiega Sassi-Quando c’è sole c’è corrente e dove c’è corrente elettrica, l’incendio continua a fare scintille, quindi la propagazione del fuoco è molto più veloce. Un capannone coperto da pannelli fotovoltaici di classe 2, ampio quattro-cinque mila metri quadrati, può bruciare in due o tre ore. I Vigili del Fuoco, di solito per come sono organizzati arrivano entro 30 minuti, ed è necessario che elementi con resistenza al fuoco garantiscano la tenuta delle strutture fino all’intervento dei soccorsi. Invece, se gli impianti sono installati su strutture non adeguate possono compromettere la sicurezza anche di eventuali persone presenti all’interno dell’edificio». «Nel 2012 si è registrato il boom d’installazioni e sempre nel 2012 si è toccato il picco d’incidenti per difettosità del materiale. – spiega Sassi – Il difetto viene fuori subito, così come i problemi legati all’errata installazione. Poi il numero d’incidenti è diminuito. Ma con il tempo l’impianto invecchia e quindi ci possono essere problemi dovuti a determinati componenti che vanno correttamente mantenuti facendo una attività di manutenzione periodica e anche di lavaggio, annuale o semestrale (anche di più se necessario).» Possiamo prevedere qual è il trend degli incendi legati agli impianti fotovoltaici? «Il trend degli incendi è in ascesa, il numero degli incendi deve ancora crescere: ora inizia la fase critica perché gli impianti cominciano ad avere sette-otto anni: è una fase delicata. Chi non ha mai fatto manutenzione rischia più degli altri».
In caso d’incendi come si regolano le assicurazioni? «Le assicurazioni hanno chiarito che se non fai manutenzione loro non ti pagano: nelle clausole la manutenzione è obbligatoria. – continua Sassi – Di solito negli incendi non si registrano morti, quindi si tratta di un danno amministrativo, non viene considerato un problema per la collettività e finisce per essere, invece, un problema solo tra assicurazione e utente che poi deve avere a che fare con la burocrazia». «Nel 2014 a un certo punto il Governo ha ridotto gli incentivi su tutti gli impianti di fascia medio-grande, anche se c’era un contratto con lo Stato della durata di vent’anni. Questo ha portato a un calo delle rendite previste per i possessori di impianti. Sul versante vendita energia analogamente i titolari degli impianti venderanno l’energia prodotta e immessa in rete a un prezzo quattro volte inferiore rispetto a quello atteso all’epoca della realizzazione dell’impianto, seguendo un borsino elettrico come fossero grossi operatori. Risultato: chi ha fatto dei mutui al 100% in vent’anni, adesso è in difficoltà perché non riesce a guadagnarci e in certi casi si trova dover vendere l’impianto. E, infatti, sta aumentando il mercato secondario del fotovoltaico da un paio di anni». Ma a chi si vendono gli impianti? Secondo fonti confidenziali a fondi privati che stanno sfruttando il momento di difficoltà degli operatori a pagarsi i mutui in essere. Mentre la lobby delle energie tradizionali rema contro il fotovoltaico, questi fondi stanno comprando e comprano a poco: hanno convenienza a prendere gli impianti di seconda mano per vari motivi. Questi impianti, infatti, continuano ad avere gli stessi incentivi, in più i nuovi proprietari potranno vendere energia elettrica con un netto bilancio in positivo avendo pagato meno gli impianti. E in questi casi, tali fondi sono strutturati per gestire gli impianti con una corretta manutenzione riducendo al minimo tutti i rischi correlati agli impianti fotovoltaici. Inoltre, il decreto Spalma-incentivi attualmente riconosciuto costituzionale dalla Corte Costituzionale Italiana potrebbe essere, invece, dichiarato incostituzionale dalla Corte europea. In questo caso il Governo italiano dovrà ridare ai titolari delle convenzioni i soldi che fino ad adesso non ha erogato e magari a quell’epoca la maggioranza dei vecchi titolari avrà già venduto: a incassare saranno i nuovi proprietari. Secondo il rapporto del GSE, Gestore Servizio Elettrici, sono emersi casi in cui sono stati sospesi gli incentivi in casi non chiari. C’è stato anche chi ha provato a garantirsi gli incentivi senza avere fatto l’impianto o averlo fatto solo in piccola parte. L’obbiettivo era quello di prendere incentivi alti e fare l’impianto in ritardo sfruttando minori costi di acquisto e d’installazione.
La truffa del fotovoltaico.
La psicosi del risparmio energetico ha scatenato la disperata ricerca della fonte energetica alternativa che consente di liberare i cittadini da questa schiavitù. Tra gli investimenti maggiormente pubblicizzati da una rete di imprese, associazioni e banche figura come primario quello dell'impianto fotovoltaico, godendo di un sistema di incentivazione particolare: il conto energia. Il caro petrolio ha lanciato la psicosi del risparmio energetico e ha scatenato la disperata ricerca della fonte energetica alternativa per uscire dal circolo vizioso dei rincari insostenibili. Cominciano così ad accreditarsi sempre più le fonti di energia alternative, sostenute da una politica promossa dall'Unione Europea e dagli stessi governi di incentivi per abbattere le emissioni di CO2 nell'atmosfera, come sancito dal Trattato di Kyoto. Tra gli investimenti maggiormente pubblicizzati da una rete di imprese, associazioni e banche figura come primario quello dell'impianto fotovoltaico, godendo di un sistema di incentivazione particolare. In particolare, il Decreto Ministeriale del 19 febbraio 2007, ha previsto una procedura amministrativa in virtù della quale viene concesso una forma di finanziamento, mediante il pagamento ad una tariffa fissa, l'energia prodotta mediante il proprio impianto fotovoltaico. In tal modo, il Ministero dell'Ambiente decide di trasferire al proprietario dell'impianto, nonché assegnatario del progetto di finanziamento, una cifra annuale commisurata alla capacità energetica dell'impianto, remunerando l'elettricità prodotta dall'impianto per un certo numero di anni. Stiamo parlando del progetto "conto energia" che va a ripagare con un piano di ammortamento l'acquisto degli impianti già acquistati, funzionanti e connessi alla rete elettrica di distribuzione della casa, predisponendo degli appositi contatori che indicano non solo l'energia consumata ma anche quella prodotta. Ovviamente viene prevista anche la possibilità di poter vendere alla rete nazionale energetica il surplus prodotto, acquistando un credito nei confronti dell'Enel. La norma in sé sembra conveniente e allettante, considerando che riconoscerebbe ad una famiglia media di 4 componenti, che costruisce un impianto di 4 Kw, un finanziamento di 2500€ all'anno, a cui occorre aggiungere il risparmio energetico derivante dal mancato pagamento di bollette energetiche e gas.
Di fatto, per applicare tale norma è stato costruito un contorto sistema che vede imprese, banche e assicurazioni coinvolte in una rete viziosa allo scopo di trarre ovviamente un guadagno dall'incentivazione statale ad acquistare impianti fotovoltaici. I soggetti promotori del progetto sono il più delle volte società, spesso con una struttura multilevel, che si fanno carico delle pratiche di progettazione ingegneristica e civile dell'impianto, nonché del montaggio e del collegamento dello stesso alla rete di distribuzione interna e nazionale. Costruiscono a tal fine una rete di agenti che - come i nostalgici rappresentanti degli elettrodomestici e casalinghi - propongono al cliente la costruzione di un impianto fotovoltaico a costo pari a zero, grazie alla possibilità di usufruire degli incentivi statali. In realtà, in una seconda fase del colloquio, l'agente spiega che al momento dell'acquisto dell'impianto, viene sottoscritto un "mutuo chirografario" di 20 anni, ad un tasso del 5-6%, grazie al quale la Banca anticipa l'intera somma del costo dell'impianto e poi si rifà sulle somme trasferite dal Ministero.
Il punto critico viene allo scoperto proprio esaminando questo "piccolo" particolare, in quanto l'acquisto dell'impianto implica direttamente la sottoscrizione del mutuo, ma non necessariamente l'attribuzione degli incentivi statali, la cui concessione si ha solo dopo che l'impianto diventa funzionante e deve comunque scontare la valutazione delle condizioni esistenti. Nel momento in cui, dunque, acquistate l'impianto verrà subito acceso il mutuo, che non sarà collegato alla pratica inoltrata presso il Ministero: i due contratti vengono ad esistere in momenti diversi, e le vicende dell'uno non posso influire l'esito dell'altro. In altre parole, qualora lo Stato non conceda il finanziamento o interrompa il trasferimento perché "le quote energetiche" sono state tutte aggiudicate, il mutuo non cesserà di esistere e incomberà sul soggetto che lo ha sottoscritto, unico e solo debitore "chirografario", ossia responsabile personalmente e con i suoi beni. Nel meccanismo è stata prevista anche una forma di "copertura assicurativa" in caso di furto o di guasto dell'impianto, che potrebbero portare all'interruzione dei trasferimenti dello Stato: in questo caso occorre aggiungere l'ulteriore costo della componente assicurativa. Stesso discorso vale per la manutenzione e per la garanzia dell'impianto, in quanto l'impresa dà una copertura di oltre 20 anni per alcune componenti, mentre per altre la garanzia non può essere superiore a 10 anni considerando che alcuni componenti - come l'inverter che consente di convertire l'energia continua in energia alternata come necessita al sistema elettrico. Allo stesso modo, la garanzia non è collegata al mutuo, in quanto qualora il guasto non rientri nelle clausole previste né dall'assicurazione né dalla garanzia, il debito della banca resta lì, e deve essere pagato in ogni caso.
Infine, stiamo parlando di impianti che costituiscono una tecnologia "vecchia", risalente agli sessanta, e che in quanto tale dovrebbe essere venduta ad un prezzo di mercato ragionevole, oltre ad aver coltivato esperienza e conoscenza tale da poter far fronte ad ogni inconveniente. Nella realtà gli impianti fotovoltaici vengono venduti a prezzi molto elevati, per circa 7 mila euro ogni Kw di potenza, senza tuttavia garantire che la potenza dell'impianto rimanga nel tempo immutata e non sia sottoposta a degrado, e molto spesso le società comprano dei materiali scadenti per rivenderli ad alte tariffe, con costi che vanno alle stelle se si considera che dovranno alimentare la multilvel, le Banche e le assicurazioni. È chiaro che, dietro al fotovoltaico - entrato nell'immaginario collettivo come una fonte di energia alternativa ed ecologica - hanno costruito un sistema intenzionalmente contorto e complesso per fare, ancora una volta, dell'energia un business, ai danni dei cittadini e dello Stato stesso.
Per quanto possa essere giusta e solida la motivazione di fondo della norma, il modo in cui viene applicata è sbagliato, è poco trasparente e potrebbe rivelarsi una vera e propria truffa, per far girare la macchina bancaria e delle multilevel. Poteva essere elaborato un qualsiasi altro sistema, come un diretto coinvolgimento dell'Enel, che avrebbe beneficiato degli incentivi, oppure avrebbe messo nel conto di ammortamento il risparmio delle bollette, senza richiedere così l'intervento di una banca. D'altronde se il sistema era davvero conveniente, funzionale ed efficiente, avrebbe avuto una pubblicità su larga scala, e avrebbe preso piede tra la popolazione in poco tempo. Invece sono anni che non si muove nulla, e in questi ultimi mesi l'unica cosa che sono riusciti a muovere sono stati - come sempre d'altronde - i mutui, i debiti, i finanziamenti. Allora ci chiediamo perché l'Enel non comincia già da domani a fornire ad ogni famiglia un impianto fotovoltaico, acquistando dai cittadini l'energia, investendo così della "produzione diffusa" e non in quella concentrata in obsolete centrali termoelettriche. Molto spesso abbiamo risposto a questa domanda dicendo che "vi sono grandi interessi delle lobbies petrolifere" che impedisce il diffondersi di tecnologie differenti. La triste realtà tuttavia fa capire che questo è un grande alibi, che il problema di base siamo noi stessi, i nostri governi, le nostre imprese, che complicano una cosa così semplice solo per speculare, per lucrare sulla speranza dei cittadini di uscire dall'incubo del petrolio e del gas. I mutui, le multilevel: non sono questi i mezzi che porteranno i popoli ad ottenere energia libera, perché sono strumenti di potere.
I clan pugliesi mettono le mani sul business della «green economy». Se fino a poco tempo fa c’erano dubbi, ora c’è più di un indizio che ha superato lo step del mero sospetto, arrivando a un passo dalla «prova». L’allarme arriva direttamente dal presidente della commissione parlamentare antimafia, Beppe Pisanu, al termine della «missione» di due giorni in Puglia del 10 dicembre 2010. Il senatore parla per oltre mezz’ora, in Prefettura, rispondendo a una serie di domande dei giornalisti.
Un argomento suscita subito l’attenzione ed è il riferimento agli affari nell’energia pulita. I clan acquistano e rivendono terreni dove collocare la pale eoliche o un parco fotovoltaico che gestiscono anche in proprio attraverso società prestanome: «Non chiedetemi altro, sono vincolato al segreto istruttorio», taglia corto Pisanu che conferma l’esistenza di indagini sulla piovra dell’energia da fonti rinnovabili. Il presidente non indica aree specifiche, ma è evidente che il fenomeno non può riguardare solo il Gargano, zona regina per l’eolico, e dove «la criminalità tende ad assumere forme più oculate di controllo del territorio e caratteristiche di vera e propria mafia». Del resto, la Puglia è la regione italiana con la più alta potenza di eolico, quindi va da sè che la criminalità fiuti l’affare e cerchi di approfittarne, chiosa il presidente dell’organismo bicamerale. Ma di eolico e fotovoltaico a iosa vi è anche nel Salento. Come a iosa sono le polemiche in fazioni contrapposte nello stesso marasma ambientalista salentino.
Pisanu ha parlato anche di borghesia mafiosa facendo riferimento a quel salto di qualità che vede la regione proiettata nell’olimpo di quei territori dove i colletti bianchi trovano terreno fertile. È il caso del riciclaggio di denaro sporco alimentato da connivenze e collusioni con una platea di professionisti che hanno ammodernato il modus operandi delle organizzazioni criminali, sempre più propense a far tacere le armi per poter operare sottotono.
PARLIAMO DI ENERGIA ALTERNATIVA.
Nr.: 3433 del 27/09/2018 18:30 Puglia Notizie.
Commissioni. Proposta di legge su idrogeno, rinnovabilie e decarbonizzazione, Colonna: proficue audizioni in commissione. Puglia avanguardia in Europa.
Nota di Enzo Colonna (consigliere regionale, gruppo “Noi a Sinistra per la Puglia”). "È stato molto partecipato, interessante e proficuo il confronto svolto oggi nel corso delle audizioni nelle Commissioni IV e V del Consiglio regionale in merito alla proposta di legge regionale “Norme in materia di promozione dell’utilizzo di idrogeno e disposizioni concernenti il rinnovo degli impianti esistenti di produzione di energia elettrica da fonte eolica e per conversione fotovoltaica della fonte solare”, di cui mi sono fatto promotore nei mesi scorsi. Sono stati ascoltati diversi rappresentanti di organizzazioni del mondo economico, sociale e accademico. Hanno seguito i lavori l’assessore allo sviluppo economico, Antonio Nunziante, l’avvocato Rocco De Franchi, consigliere del Presidente della Regione per la tutela ambientale, lo sviluppo sostenibile e la decarbonizzazione, e l’ing. Carmela Iadaresta, dirigente della sezione regionale “Infrastrutture energetiche e digitali”. Tutti gli intervenuti si sono espressi favorevolmente rispetto alla necessità e all’impianto di questa iniziativa legislativa. Ne hanno sottolineato i tratti innovativi (tanto da essere stata segnalata ad altre assemblee legislative regionali da una delle organizzazioni intervenute) e hanno fornito spunti interessanti per un ulteriore approfondimento relativamente ad alcune disposizioni. Due, ricordo, sono gli obiettivi della proposta di legge:
1) incoraggiare un’economia basata sulla chiusura dei cicli produttivi mediante la produzione di idrogeno da energia rinnovabile;
2) favorire l’ammodernamento degli impianti eolici e fotovoltaici esistenti, prevedendo una disciplina dei procedimenti amministrativi che offra certezza regolamentare e semplificazione amministrativa, condizionata alla riduzione delle ripercussioni negative sull’ambiente.
A tale riguardo la proposta di legge: a) prevede la redazione del Piano Regionale dell’Idrogeno; b) istituisce un osservatorio per monitorare l’efficacia delle politiche attivate; c) individua azioni mirate alla realizzazione di impianti cogenerativi alimentati ad idrogeno per la produzione di energia elettrica e calore al servizio di edifici pubblici e privati e di impianti di produzione e distribuzione di idrogeno; d) favorisce il rinnovo del parco rotabile, su gomma e su ferro, del servizio di trasporto pubblico con mezzi dotati di celle a combustibile alimentate ad idrogeno e l’esenzione dal pagamento dell’imposta di bollo per gli autoveicoli alimentati ad idrogeno; e) sostiene la ricerca applicata sull’idrogeno come vettore energetico per la mobilità sostenibile e forma di accumulo di energia, favorendo partnership tra Università, centri di ricerca pubblici e privati; f) promuove la costituzione di comunità locali dell’energia per la produzione e generazione distribuita di energia elettrica sul territorio. Superando le contraddizioni e criticità emerse negli anni dovute al susseguirsi di disposizioni legislative e regolamentari, la seconda traccia della proposta legislativa punta a dotare la Puglia degli strumenti normativi necessari per affrontare il tema, ormai attuale e ineludibile, del “fine vita” degli impianti eolici e fotovoltaici, segnati dall’usura, dalla scadenza delle autorizzazioni e dalla conclusione del programma di incentivi.
In questo senso, la proposta di legge intende favorire:
1) l’ammodernamento degli impianti eolici e fotovoltaici esistenti e la prosecuzione del loro esercizio, a condizione che gli interventi riducano il numero di aerogeneratori o, per gli impianti fotovoltaici, la superficie occupata, nonché prevedano misure di compensazione ambientale in favore dei comuni nei cui territori ricadono gli impianti;
2) le iniziative finalizzate alla delocalizzazione di impianti esistenti su terreni agricoli, con contestuale ripristino dello stato dei luoghi, in aree industriali dismesse, cave esaurite, siti inquinati e siti di interesse nazionale (SIN).
Come ho già evidenziato, si tratta di una iniziativa legislativa che si pone in linea con gli intendimenti della Giunta regionale, che, poche settimane fa, ha avviato il procedimento di revisione del Piano Energetico Ambientale Regionale (PEAR). In tal modo, tra l’altro, la nostra Regione si collocherebbe in perfetta sintonia - anzi anticipandoli (come si è sottolineato oggi in alcuni interventi) - con gli indirizzi strategici definiti a livello europeo, finalizzati a sostenere processi di decarbonizzazione, puntando allo sviluppo dell’idrogeno come fonte di energia sostenibile. L’Unione Europea, infatti, ha fissato, tra gli obiettivi da conseguire entro il 2030, la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 40% rispetto ai livelli del 1990 e una quota di energia prodotta da fonte rinnovabile pari ad almeno il 27%. Da parte sua, l’Italia, con la Strategia Energetica Nazionale (SEN) adottata nel novembre 2017, si è posta l’obiettivo di raggiungere entro il 2030 la quota del 28% di produzione di energia da fonti rinnovabili rispetto ai consumi complessivi. Peraltro, appena pochi giorni fa, nell’ambito dell’incontro informale tra i Ministri dell’Energia dell’Unione Europea, svoltosi a Linz il 17 e il 18 settembre, è stato sottoscritto il documento “Hydrogen Initiative” contenente le politiche strategiche che l’UE intende sviluppare per sostenere il progressivo abbandono delle fonti combustibili fossili e la loro sostituzione con l’idrogeno sostenibile. In tal senso, la Puglia, anche con questa iniziativa legislativa, è in condizione di porsi all’avanguardia nell’ambito di questa strategia, sia a livello nazionale che europeo, favorendo un aggiornato modello di sviluppo avanzato nella produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile e nell’innovazione orientata alla riduzione della dipendenza dai combustibili fossili. Ringrazio i presidenti della quarta e quinta commissione e i colleghi per l’attenzione riservata a questa iniziativa legislativa. "
Energie rinnovabili. Con la sinistra bollette aumentate del 40%. Ricordatevelo prima di votare, scrive il 4 marzo 2018 Enrico Salvatori su "Il Giornale". Quando a Novembre Gentiloni, Calenda e Galletti hanno presentato la nuova Strategia energetica nazionale (Sen), i giornali filogovernativi ne hanno parlato come un progetto straordinario studiato per far risparmiare soldi in bolletta agli italiani incentivando le energie rinnovabili, ma in realtà scopriremo come -per compiacere l’Onu e qualche ambientalista da strapazzo- favorisce al contrario un aumento delle tasse per famiglie e imprese. Nel documento del governo è infatti spiegato chiaramente che uno degli obiettivi è quello di aumentare al 2030 di oltre un terzo la produzione di energia elettrica rinnovabile. “Noi ad oggi”, spiega Rosa Filippini degli Amici della Terra, “per raggiungere l’obiettivo del 33% di produzione elettrica da rinnovabili, abbiamo sussidiato gli impianti di eolico e fotovoltaico per circa 12 miliardi di Euro l’anno (con aumenti fino al 40% in bolletta)”. Quanto ci costerà dunque arrivare al 55% di produzione di energia elettrica al 2030 come indicato dalla SEN? Difficile ora fornire stime specifiche ma “una cosa è certa”, spiega ancora Filippini, “nonostante uno degli obiettivi generali sia quello di ridurre il costo dell’energia, in realtà questa SEN comporterà un aumento del prezzo in bolletta, non una sua riduzione”; “per incentivare, in media, la produzione di appena il 20% dell’energia elettrica consumata in Italia che, a sua volta, costituisce poco più del 20% del totale dei consumi finali di energia”, ci tiene a precisare Monica/ Tommasi, presidente della stessa associazione, di recente espulsa dalla federazione internazionale degli ambientalisti (Friends of Earth), con una accusa dal sapore vagamente “sovietico”, ovvero quella di non essersi allineata alle “direttive comuni”. Siamo di fronte, quindi, a quello che forse è il più consistente programma di sussidi del dopoguerra, nonostante il ministro Calenda, appena tre mesi fa abbia dichiarato che “la scelta (degli incentivi esagerati) fatta (negli anni scorsi) con le rinnovabili elettriche” sia stata “una scelta dissennata”.
Altra scemenza l'”impegno politico alla cessazione della produzione termoelettrica a carbone al 2025″. Nessun paese europeo rinuncia infatti ad una base di produzione elettrica a basso costo e abbondante come quella derivante dal carbone. La stessa Germania, secondo dati Eurostat, mentre si presenta al mondo come paladina degli Accordi ONU di Parigi contro il Cambiamento climatico e possiede oggettivamente il parco rinnovabile più grande d’Europa, non rinuncia a questa risorsa (proprio per mantenere bassi i costi delle bollette). Anzi, continua ad usare la lignite (la forma più inquinante del Carbone fossile) con cui produce il 42% del proprio fabbisogno energetico a fronte di una produzione “verde” del 26%. Stesso discorso per il Regno Unito (non per la Francia, che comunque genera il 77% del suo fabbisogno energetico elettrico dal nucleare e non dalle energie rinnovabili). Dunque l’Italia, nonostante sia il paese con la produzione più alta di energia elettrica da rinnovabile (che si attesta al 39% compreso l’idroelettrico, rispetto al 30% della Germania), decide con questa SEN, di smantellare le nostre centrali a carbone (appena costruite, ecologiche e con un sistema di filtri avanzato), solamente per compiacere le frange più estreme dell’ambientalismo ideologico, a casa nostra e presso le Nazioni Unite (a spese nostre). Ma vedrete che “la tassa occulta sull’energia elettrica diventerà presto palese insieme alle responsabilità di chi l’ha imposta”, commenta Oreste Rutigliano di Italia Nostra. E questa volta non reggerà neanche il ritornello “ce lo chiede l’Europa”. Perché le politiche energetico-climatiche UE per il 2030 non prevedono più obiettivi obbligatori di fonti rinnovabili per i singoli stati membri. Altro aspetto deleterio, la necessità auspicata dalla SEN che le norme di tutela del paesaggio siano addirittura ammorbidite per triplicare gli attuali impianti installati di fotovoltaico e raddoppiare quelli di eolico. “In questo modo”, spiega ancora Monica Tommasi, “raddoppierà anche il sacrificio di ulteriori territori fra i più belli e delicati del nostro Paese per conseguire in pochi anni un incremento di 15 punti percentuali nel solo comparto elettrico e che si tradurrà in appena il 4% di contributo sul fabbisogno energetico complessivo”. “Un suicidio”, chiosa Oreste Rutigliano di Italia Nostra, “a favore di indeterminate lobby e fuori da ogni razionalità”.
Bollette della luce: la “burla” delle tasse nascoste, ecco chi sono i morosi. Non si placano le polemiche sulle bollette non pagate dai morosi e la tassa nascosta relativa agli oneri di sistema, scrive Chiara Lanari il 23 Febbraio 2018 su "Investire oggi". Ormai è cosa nota. Le bollette della luce non pagate dai morosi ricadranno sui cittadini che puntuali hanno sempre provveduto a saldare la fattura, 37 milioni di consumatori pagheranno cifre aggiuntive, un sistema che ricorda molto quello sulle accise della benzina. Quello che forse è difficile da accettare è che nelle bollette dell’energia vengono spalmate voci, oneri di sistema, che poco o nulla hanno a che fare con l’energia e invece di essere a carico della fiscalità ricadono sul cliente. Un esempio è stato riportato da Il Sole 24 ore secondo cui su una bolletta non residente da 183 euro, solo 42 euro si riferiscono agli oneri di sistema mentre per una bolletta residenti di 662 euro, 166 sono riferiti agli oneri.
Cosa paghiamo nella bolletta della luce? Gli oneri di sistema vengono stabiliti dall’Arera e tra questi una voce importante è riferita agli incentivi alle rinnovabili, componente A3. C’è poi l’onere A2 ossia lo smantellamento delle centrali nucleari dismesse, in parte destinato al bilancio dello Stato, l’A5 è invece riferito alla ricerca svolta nell’interesse del sistema elettrico nazionale, l’Ae per agevolazioni alle imprese manifatturiere con elevati consumi, la voce UC4 si riferisce ai costi di piccole aziende elettriche che operano sulle isole minori. Altri voci sono legate allo smaltimento delle scorie nucleari, le agevolazioni per la fornitura di energia elettrica al sistema ferroviario, il bonus elettrico per chi è in una situazione di disagio economico etc. Tutti questi oneri dal 1 gennaio sono stati unificati in oneri generali relativi al sostegno delle energie da fonti rinnovabili e cogenerazione (Asos) e i rimanenti oneri generali (Arim). In ogni caso nelle bollette che paghiamo solo il 19% del totale è riferito proprio a questi oneri, a cui si aggiunge anche il Canone Rai e conseguenti rincari. La notizia di per sè non è una novità ma lo diventa quando viene stabilito che agli oneri di sistema che già non c’entrano quasi o poco nulla con l’energia si aggiungono le cifre non pagate dai morosi.
Ecco chi sono i morosi. Una verità arriva dall’associazione Codici che avrebbe svelato chi sono questi odiati morosi: “dai dati dell’Autorità per l’energia, più nello specifico dal monitoraggio retail sui morosi, appare lampante come in questo Paese a non pagare sono sostanzialmente: la pubblica amministrazione e le imprese e comunque tutti colori che consumano in media tensione (MT) altri usi, quindi non gli utenti domestici, ovvero non i privati cittadini”. A pagare di meno sono le aziende e le Pa e a rimetterci i cittadini secondo Codici che promette di impugnare davanti al Tar il provvedimento. Il conto ammonta infatti a 200 milioni ma potrebbe essere molto di più. Oltre a Codici, a scandalizzarsi ci sono anche Adusbef e Federconsumatori, che conferma le parole di Codici sui morosi: “stando ai dati dell’Autorità per l’energia, le utenze che risultano morose sono in larga parte relative alle piccole e medie imprese. Proprio per questo appare ancora più assurdo ed improponibile far pagare ai cittadini i costi a cui le imprese non riescono a far fronte”.
Bollette della luce non pagate: saremo noi a sborsare per i morosi. Un meccanismo poco chiaro. Bisogna anche sottolineare come è nato questo meccanismo. I grandi distributori di energia avevano anticipato alcuni degli oneri ma il gran numero di morosi aveva messo in ginocchio parecchie società che avrebbero dovuto raccogliere le cifre per riconsegnarle ai big che avevano anticipato le suddette quote. Una volta fallite le società non hanno più potuto pagare e ora il buco lasciato dovrà essere colmato dai consumatori. Ora l’Autorità sta ancora calcolando a quanto dovrà ammontare l’aumento ma sembra trincerarsi dietro un: “non pensiamo che l’impatto sulle bollette sarà così allarmante”. In ogni caso a pagarle sarà chi, in fondo, non ha colpe.
Perché la “rivolta” di chi non vuole pagare 35 euro di aumento della bolletta elettrica è inutile. Molti cittadini indignati propongono di non pagare l'aumento da "35 euro" della bolletta elettrica perché "non è giusto pagare per chi non paga". Ovviamente non è possibile farlo. Ma il problema è un altro: come mai nessuno propone azioni simili nei confronti degli evasori fiscali, che costano senza dubbio di più al singolo cittadino? Scrive Giovanni Drogo giovedì 22 febbraio 2018 su "Next". L’Internet italiano è in fibrillazione per colpa di 35 euro. Questa volta non sono i famosi 35 euro che lo Stato spende per mantenere i migranti in alberghi a cinque stelle con WiFi gratuita, piscina riscaldata e tavoli da black jack. Si tratta invece dell’aumento della bolletta dell’energia elettrica. Un rincaro dovuto non tanto ai costi dell’energia ma ai mancati pagamenti da parte degli utenti morosi. Tutto è nato in seguito alla pubblicazione di un articolo del Sole 24 Ore che dava conto di una delibera dell’Autorità dell’energia (ARERA) che prevede di “spalmare” sugli utenti il costo delle bollette non pagate.
Cosa sono gli oneri generali elettrici? Il tutto è la conseguenza di una serie di ricorsi e sentenze del Tar e del Consiglio di Stato che hanno avuto come conseguenza la decisione di redistribuire fra tutti i consumatori una parte degli “oneri generali” (come spiegato qui da ARERA) elettrici pari a circa 200 milioni di euro arretrati non pagati dai titolari delle utenze “morose”. Gli oneri generali non corrispondono alla fornitura di energia elettrica ovvero a quanto effettivamente consumato dall’utente che non paga. Nelle bollette dell’energia elettrica, oltre ai servizi di vendita (materia prima, commercializzazione e vendita), ai servizi di rete (trasporto, distribuzione, gestione del contatore) e alle imposte, si pagano alcune componenti per la copertura di costi per attività di interesse generale per il sistema elettrico nazionale: si tratta dei cosiddetti oneri generali di sistema, introdotti nel tempo da specifici provvedimenti normativi. Tra questi ci sono quelli per il decommissioning nucleare, gli incentivi alle fonti rinnovabili, le agevolazioni alle industrie ad alto consumo di energia, quelli per la promozione dell’efficienza energetica oppure le compensazioni territoriali per quegli enti locali che ospitano impianti nucleari. In buona sostanza gli oneri generali sono all’incirca il corrispettivo delle accise sui carburanti. Soldi che ogni utente paga ma che vengono “girati” poi allo Stato I fornitori dell’energia elettrica che non riescono a farsi pagare le bollette hanno già versato gli oneri e quindi ora si trovano nella spiacevole (per loro) situazione di dover coprire questa perdita che però non ammonta al totale degli insoluti la cui cifra secondo alcune stime è superiore al miliardo di euro.
L’aumento delle bollette elettriche e il solito annoso problema di chi non paga le tasse. A nessuno naturalmente fa piacere pagare per gli altri soprattutto quando il conto viene presentato direttamente in bolletta. Se non fosse per quello, ovvero per il fatto che ogni utente vedrà di persona quanto pesa la morosità, probabilmente nessuno si sarebbe lamentato troppo. Non si sono mai viste sollevazioni popolari (a mezzo Facebook) contro aumenti delle tasse dovuti ad esempio all’evasione fiscale. Eppure per consentire il funzionamento dei servizi pubblici (dei quali usufruiscono quotidianamente anche gli evasori) chi paga le tasse lo fa anche per coloro che non pagano. Una parte dell’aumento della tassazione è necessario per coprire il minor gettito dovuto all’evasione. Succede a tutti i livelli, di recente a Roma è emersa l’esistenza di dodicimila “scrocconi” che non pagano la tassa sui rifiuti. Servizio di cui usufruivano lo stesso di fatto danneggiando i loro concittadini che erano costretti a pagare di più. Il paradosso è che da molte persone l’evasione fiscale viene vista addirittura come una cosa giusta. Non serve ricordare qui chi era quel politico che qualche anno fa diceva che era “moralmente giustificato” evadere le tasse. La differenza naturalmente è che in seguito alla privatizzazione del settore elettrico i gestori sono società private e quindi il “sopruso” è più sentito. Ma il punto è che già ora paghiamo i costi dell’evasione, sia delle tasse che delle tariffe. Non è giusto, ma indignarsi perché gli “oneri generali” (ovvero la componente parafiscale delle bollette) viene fatta pagare a chi è in regola non fa altro che mettere in luce un problema generale. Senza contare ovviamente che se le aziende saranno costrette a chiudere probabilmente alcune persone perderanno il lavoro. E di nuovo lo Stato (ovvero i cittadini) dovrà aprire il portafoglio per pagare eventuali ammortizzatori sociali.
La bufala del messaggio WhatsApp che invita a non pagare i 35 euro. Insomma è un serpente che si morde la coda, ma essendo i cittadini la parte più debole (ma al tempo stesso i colpevoli, visto che a non pagare sono altri cittadini) il pagamento è particolarmente odioso. Ecco che quindi i soliti rivoluzionari da tastiera propongono fantasiosi metodi per non pagare, ad esempio scorporando autonomamente i “35 euro” dall’importo della propria bolletta. Il problema è che l’entità dei rincari non è ancora stata definita e quella dei 35 euro, cifra quanto mai evocativa in Italia, non corrisponde alla reale entità dell’aumento. ENEL ha fatto sapere infatti che “il relativo impatto sulle bollette dei consumatori finali non è ancora stato quantificato da ARERA, ma in ogni caso l’Autorità ha precisato che sarà molto contenuto (all’incirca il 2% degli oneri di sistema, e non certo 35 euro)”. Così come il messaggio-catena che circola su WhatsApp e invita tutti a pagare “solo quanto mi spetta” (semmai il dovuto) non ha alcun senso e non funzionerà nemmeno se lo faranno tutti i consumatori. Non solo perché i gestori si rifaranno su ciascuno degli utenti ma anche perché, e questo è l’aspetto interessante, quegli oneri servono per finanziare altre voci di spesa delle quali usufruiscono i cittadini. Alcune – come quelle per il decomissioning delle centrali nucleari sono la diretta conseguenza delle decisioni dei cittadini stessi (il referendum sul nucleare) altre invece finiscono nel calderone degli incentivi per le rinnovabili (ovvero anche gli sgravi fiscali).
Via dal vento, se ancora si può. Via da questo pazzo vento di incentivi scandalosi per quantità e durata, via da questa corsa forsennata all’ultima pala che qualcosa frutterà anche se per ora non gira, via da questi “sviluppatori” - nuova sofisticata figura di mezzani - che stravolgono e offendono la quieta esistenza dei piccoli comuni giocando a nascondino con le royalties, via da questi sprechi, da queste mafie in agguato, da queste bollette ogni giorno più care perché il Balletto dell’Eolico ha i suoi costi. E che costi, per produrre poco o nulla. Sono installati in questo momento in tutta la Penisola 4.236 “aerogeneratori”.
Le pale eoliche - il 98 per cento al Sud, e questo la dice lunga - producono 4.849 megawatt, tanto da porre l’Italia al terzo posto in Europa, ben distanziata da Germania (25.800) e Spagna (19.100) e inseguita da vicino da Francia (4.500) e Gran Bretagna (4.000). Bene, l’installazione e la manutenzione di una pala media in Danimarca - lo Stato che ha investito più sull’eolico - in 15 anni di vita costa un milione, mentre da noi, in Sicilia, viene il quadruplo. E sono pale che girano davvero poco: 1.880 ore sempre in Danimarca, 2.000 in Svizzera, 2.046 in Spagna. 2.066 in Olanda, 2.083 in Grecia, 2.233 in Portogallo e da noi soltanto 1.466 ore l’anno. Ma perché? «Una terra di vento e di sole -titolò il Financial Times la sua inchiesta sull’energia eolica in Italia - ma senza regole adeguate». Nessuno se ne accorse, o forse fecero tutti finta di non accorgersene.
Ma non s’è levato un moto di reazione neppure il 18 settembre 2010 quando il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, parlando da Cortina, ebbe a dire: «Il business dell’eolico è uno degli affari di corruzione più grande e la quota di maggioranza francamente non appartiene a noi». Silenzio. E invece lo sconcio è sotto gli occhi di tutti. Uno sconcio che provocherà guasti anche sociali, non solo economici, stravolgerà l’esistenza di borghi preziosi e di colture rare, produrrà un punto di non ritorno per questa nostra Italia con cui bisognerà fare i conti. Per comodità di ragionamento, lasciamo per un attimo da parte il primo dilemma, piace, non piace. Facciamo finta che questi giganti abbelliscano davvero l’Appennino Dauno e la piana di Mazara, le più belle zone archeologiche della Puglia e le gole più nascoste delle Marche. E passiamo ai dilemmi successivi: chi ci guadagna, come ci guadagna, se questi benefici arrivano in tutto o in parte al Paese Italia. Le prime cifre sono sconvolgenti, purtroppo. Ci sono domande di connessione alla rete in Italia (2010) pari a 88.171 megawatt. L’Anev, l’Agenzia che raggruppa le aziende del settore dell’Energia del vento stima che entro il 2020 la produzione potrà raggiunge al massimo 16mila megawatt. Che senso ha quindi, se non quello di puntare a una spaventosa speculazione, presentare domande per una quantità di energia cinque volte superiore? Il mercato dell’eolico è anche e soprattutto un mercato di carta, il mercato dei famigerati “certificati verdi”, che possono essere comprati dalle grandi aziende al piccolo produttore se queste grandi aziende non hanno prodotto, di loro, la percentuale di energia rinnovabile prevista dalla legge. Che poi queste aziende continuino con le vecchie produzioni inquinanti, questo sembra non interessare davvero a nessuno. Di fatto, con i certificati verdi si fanno grandi cose. Lo dice l’Authority per l’energia, rivelando che nel solo 2008 il Governo ha sborsato 1.230 milioni in certificati verdi, pagati grazie all’addizionale sulle nostre bollette, e che la metà di questa somma è stata tirata fuori per rimborsare un «eccesso dell’offerta». Ecco cosa vuol dire: che si produce più energia di quella che si vuole immettere o si riesce a immettere e che questo surplus viene comunque pagato. E ovviamente le nostre bollette restano le più care d’Europa. Ci sono studi recenti anche sui posti di lavoro, ventottomila nell’eolico nel solo 2008. Considerando che i sussidi erogati sono stati pari a 2,3 miliardi di euro, ogni posto di lavoro creato è costato 55mila. Un altro calcolo: comprendendo tutte le energie rinnovabili, quindi anche il fotovoltaico, si calcola che un nuovo posto di lavoro venga a costare almeno sette volte di più rispetto all’industria. C’e da rimanerci seppelliti sotto questa valanga di cifre. Se non ci fosse da rimettere insieme, ancora, alcune tessere del mosaico. A cominciare dagli incentivi sulla produzione di energia, garantiti per quindici lunghi anni come le pale e i più alti d’Europa come le bollette. Partiamo dal fatto che un kwatt di energia al povero cittadino costa oggi 6,5 centesimi. Ebbene, chi produce eolico ne intasca intorno al doppio (dipende dai valori un poco oscillanti della Borsa elettrica) e chi invece si butta sul fotovoltaico, che poi è la vera nuova inesplorata (può arrivare a cinque sei volte il valore iniziale, intorno ai 39-40 centesimi di euro).
Ma perché il Far West dell’eolico conosca uno stop, ci vogliono almeno i piani regionali. Per ora, chi si alza per primo mette la pala. Per sfuggire persino alla Valutazione di Impatto Ambientale, tedeschi, spagnoli e americani hanno già scoperto il trucco: spaccano un progetto di parco eolico in quattro-cinque spezzoni, scendono sotto la soglia prevista, e così se la cavano con una semplice, unilaterale Dichiarazione di impatto ambientale al comune che li ospita. Non c’è piano regolatore da rispettare, c’è solo da avvicinare il famoso “sviluppatore” in loco, che ha già scelto l’area, ha già valutato i vincoli paesaggistici e soprattutto ha già contattato gli amministratori locali. E comincia così il valzer del terreni scelti, quello sì, questo no, per distese infinite come solo il nostro Appennino regala. Ma la gente si ribella. Contro i parchi eolici spuntano comitati a ogni piazza, a ogni tavolino di bar, a Nardò, a Mazara, a Cosenza, a Crotone, a Otranto. E con i comitati spuntano le inchieste delle magistratura. A parte quella famosa aperta in Sardegna - quella di Flavio Carboni, per intenderci - è tutto un fiorire di nuovi fascicoli: ancora a Crotone, a Sant’Agata di Puglia, in Molise, a Trapani, dove allo “sviluppatore” Vito Nicastri, re del vento di Sicilia e Calabria e ritenuto longa manus del boss Matteo Messina Denaro, hanno sequestrato un patrimonio di 1.5 miliardi. E’ un mare di sporco che avanza, non se ne vede la fine. ''L'eolico nelle regioni meridionali è stato favorito e sostenuto dalla mafia. Questo è un dato inconfutabile; tacere è una forma di complicità''. Lo ha detto Vittorio Sgarbi.
Se ai pastorelli della collina di Giuggianello - come racconta Ovidio - capitò di essere trasformati in alberi solo per aver avuto l’ardire di danzare con le Ninfe, cosa potrà mai capitare agli amministratori della Regione Puglia se un giorno gli Dei decidessero di tornare qui: di trasformarsi tutti in pale eoliche da 80 metri l’una, alte quanto un palazzo di 25 piani? O quale altro sortilegio sarà loro riservato come punizione, per aver consentito non in un mese e neppure in un anno, ma in lunghi mesi e lunghi anni, che la loro splendida terra si trasformasse in un Far West, che il sogno del business ad ogni costo - una Corsa all’Oro in piena regola - attirasse qui ogni genìa di cow boy senza scrupoli a devastare, a inquinare, a corrompere? Ecco, la Puglia. Partiti con il sole e con il vento, con il sogno dell’energia pulita, si è finiti dieci anni dopo a fare i conti con un disastro: i conti con le inchieste penali aperte dalla magistratura, i conti con i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, i conti con le pressioni, con le intimidazioni che hanno dovuto subire i contadini proprietari dei terreni, con le giravolte di società partite con diecimila euro e poi pronte a sparire, i conti con una Puglia che non è più la stessa.
Tanto per riepilogare, il meccanismo è questo: arriva lo “sviluppatore”, contatta piccole amministrazioni con le casse vuote e contadini che ormai delle loro terre non vivono più, presenta il progetto delle pale, impacchetta tutto e aspetta la grande azienda. Per rivendersi a milioni di euro quell’autorizzazione e perché cominci un altro affare, questo alla luce del sole, ma altrettanto discutibile: un kw di energia che vale 6,5 centesimi di euro verrà pagato a chi la produrrà con queste pale praticamente il doppio, e per quindici lunghissimi anni. Chi ci rimette, sempre per riepilogare, è il povero cittadino che paga la bolletta: c’è una voce che gli viene addebitata proprio perché partecipi anche lui (ma solo da spettatore pagante) a quest’abbuffata, una voce che in questo 2010 vuol dire, come incentivo su scala nazionale a carico degli utenti, 3 miliardi di euro, 5 miliardi nel 2015 e 7 miliardi nel 2020. Bell’affare.
Ma torniamo alla Puglia, dove davvero è successo di tutto e di più. Dove l’Anev, l’Agenzia delle imprese del settore, dice che fino al 2009 sono state installate 916 pale eoliche per un totale di 1.158 megawatt, Puglia prima in Italia, s’intende. Ma le cifre dell’Anev sono superate da quelle dell’assessorato all’Energia: fra impianti installati e autorizzati c’è già in campo una produzione di 2.300 megawatt, quindi intorno alle 1.800 pale e c’è un piano energetico regionale che consente di arrivare entro il 2016 a 4.000 megawatt. Una follia, la Puglia da sola che pretende (e a questo punto dovrebbe riuscirci) di produrre un quarto dell’energia eolica italiana prevista dall’Anev per il 2016. Come è potuto accadere?
«Ma se vuole – confida l’assessore all’energia - le offro un dato che può consegnare la Puglia alla fantascienza...». E lo offre: ci sono domande giacenti in Puglia per altri 30mila megawatt, per almeno altre 12mila torri eoliche da disseminare sul territorio, «una specie di Foresta del Mato Grosso», chiosa l’assessore. E che succederà? «Succederà che approveremo solo progetti altamente qualificati, quindi pochissimi». Richieste per 30mila megawatt vuol dire che i pescecani dell’eolico pensavano di produrre qui il doppio dell’energia prevista per tutta l’Italia dalle “rinnovabili” entro il 2020. Una stalla che nessuno si è preoccupato di chiudere né quando, nell’estate del 2008 arrestarono il sindaco di Ascoli Satriano, provincia di Foggia, Antonio Rolla, per abusi commessi proprio nella realizzazione di un parco eolico, né quando a febbraio 2009 si mosse la Procura Antimafia di Lecce con un’inchiesta su quel che resta della Sacra Corona, sul clan Bruno, e sul parco eolico di Torre Santa Susanna, provincia di Brindisi, che finì con dieci arresti, e neppure quando un anno dopo tutta la giunta di Sant’Agata di Puglia finì sotto inchiesta per le pale del Sub Appennino Dauno che sul terreno del sindaco valevano il doppio. Tanto meno ha senso chiuderla oggi, questa stalla, oggi che la Procura di Napoli ha messo gli occhi anche sul parco eolico di Castellaneta, provincia di Taranto, uno dei più grandi d’Europa con le sue 276 pale, e che sta frugando tra le carte della Green Engeneering and Consulting, di Napoli appunto, la stessa azienda che si potrebbe ritrovare negli archivi del comune di Vicari, provincia di Palermo, l’intero consiglio sciolto nel 2005 per «infiltrazioni mafiose». Ma non è la sola connection siciliana che si nota qui in Puglia: nelle pagine dell’inchiesta di Raccuja, parco dei Nebrodi, provincia di Messina, che ha portato all’arresto del sindaco, si può ritrovare il nome della Api Holding, la stessa ditta delle pale di Sant’Agata di Puglia. Insomma, un bell’intreccio.
Si diceva dei pastorelli e delle Ninfe perché anche qui c’è un casus belli, un po’ come le rovine di Altilia a Sepino, in Molise. La differenza è che mentre le pale di Sepino sono previste a una decina di chilometri dalle rovine e già danno fastidio, le 14 pale di Giuggianello, invece, dovrebbero sorgere praticamente tra i resti megalitici che raccontano quella leggenda. Quattordici belle pale che qui hanno una loro peculiarità: essendo piazzate sulle Serre Salentine, cioè sui crinali più alti del Tacco d’Italia, a 200 metri di quota, possono essere ben viste dai due mari, sia dall’Adriatico sia dallo Jonio. Come ha potuto la regione Puglia consentire che si arrivasse a tanto? Perché, poi, il Salento è un caso nel caso. E’ qui che c’è stato l’assalto più sfrenato. Pale come se piovesse, a Lecce stessa, a Soleto, a Martignano, a Surbo, a San Pancrazio, a Martano, a Ugento, a San Donato. Solo a Nardò, nelle bellissima Nardò, non sono arrivati. Una specie di rivolta di popolo ha impedito che il parco eolico si realizzasse. Ma per il resto è stata una specie di marcia trionfale dei Guastatori. E poi c’è l’off shore, le pale a mare. Quattordici progetti presentati, uno approvato dalla Regione Puglia, quello di Tricase, in provincia di Lecce, con le torri a una ventina di chilometri dalla costa. Una specie di zattere che comunque infastidiscono parecchio gli ambientalisti: sostengono che interromperebbero la migrazione degli uccelli fra Italia e Albania. Gli altri tredici progetti, perché nel frattempo la normativa è cambiata, sono tutti sul tavolo del ministero a Roma. La Regione, per quanto di sua competenza, si è già dichiarata contraria alle torri alle Isole Tremiti e davanti al Gargano. E la partita non è chiusa. Con i pannelli fotovoltaici stanno succedendo cose turche per queste contrade. E il fotovoltaico rende come incentivi almeno tre volte l’eolico, scatena, quindi, appetiti ancora più sfrenati. E’ la nuova frontiera, perché questo brutto Far West non finisce mai. Tutta ancora da raccontare.
«Italia Nostra auspica una nuova prima vera “mani pulite in Puglia”, che riporti la legalità ed il diritto, dove oggi sembra regnare solo l’interesse di pochi! Dove si devasta il paesaggio, lì c’è la mafia! Non cercatela altrove! - Queste le parole di Marcello Seclì, presidente Italia Nostra, Sud Salento. - I telefoni di Italia Nostra squillano come centralini ospedalieri durante un’epidemia: è gente allarmata che denuncia la desertificazione, la morte del Salento sotto i “lager dei pannelli fotovoltaici” dove prima crescevano fiori e prodotti agricoli. E’ una “metastasi incontrollata” che soffoca le nostre vite uccidendo il nostro paesaggio, un “cancro”, non lo si può definire diversamente, cui la Regione deve porre rapido rimedio, fermando con una moratoria il fotovoltaico in tutte le zone agricole e autorizzandolo solo nelle aree industriali e sui tetti e tettoie di strutture ed edifici recenti! Tutti gli impianti industriali prossimi alle strade del Salento che stiamo vedendo sorgere ormai dappertutto comportano, sotto la luce del sole, un effetto riverbero che acceca gli automobilisti provocando incidenti che possono rivelarsi anche fatali! Nessuno ha mai tenuto conto di questo?! Eppure altri impianti fotovoltaici a terra stanno sorgendo su ettari ed ettari ai margini della provinciale Castrignano dei Greci-Martano, della Corigliano-Galatina, lungo lo scorrimento veloce Maglie-Galatina, qui addirittura senza che siano rispettate nemmeno le fasce di rispetto di almeno 50 m previste per le strade di tipo B, ecc. ecc. Scempi a danno del paesaggio, del suolo agricolo e del nostro ambiente (si consideri solo l’inquinamento da diserbanti utilizzati!), tutti incostituzionali, che amministratori dall’animo corrotto e bugiardi presentano pure come occasione di sviluppo per il territorio, pur nella consapevolezza della nulla tecnologia locale impiegata e della esigua manodopera che sarà occupata a regime; amministratori che si arrampicano sugli specchi per cercare di giustificare le autorizzazioni concesse ai nuovi colonizzatori stranieri dell’energia, che tutto prenderanno, deprederanno, dal territorio, persino i nostri stessi incentivi per le rinnovabili, senza nulla poter dare in cambio. Siamo arrivati veramente alla spudoratezza! Ciò che finora si è fatto e tentato di fare illegittimamente e nel più assoluto riserbo, ora si tenta di continuare a fare cercando di legittimarlo attraverso la pubblica ostentazione, in extremis, nel crollo rovinoso di immagine e delle norme del castello immorale con cui si era permessa questa speculazione, quella delle rinnovabili industriali e della Green Economy, praticamente la più grave speculazione della storia del Sud Italia, come l’ha definita tra le righe lo stesso Ministro Tremonti! Dove sono le forze dell’ordine che dovrebbero intervenire in forze per porre i sigilli di sequestro a queste strutture totalmente industriali realizzate in piene zone agricole e contro la Costituzione Italiana ed ogni buon principio di pianificazione urbana? Infatti, la legge regionale 31/08 è stata dichiarata incostituzionale, già in marzo 2010, dalla Corte Costituzionale, ed è in nome di questa legge che si sono aperti successivamente cantieri per realizzare gli impianti, i più, di potenze inferiori a 1MW, ciascuno di circa tre ettari di verde fertile suolo ricco di biodiversità, che viene desertificato e coperto, sepolto di pannelli, pugnalato da migliaia di pali e martoriato con chilometri di cavidotti, ed il tutto con la presentazione di una semplice Dichiarazione di Inizio Attività (DIA) al solo comune interessato; una procedura che non offre alcuna garanzia per l’ambiente e la pubblica sicurezza e prevenzione sanitaria. Scopriamo poi, che stesse ditte, magari mal celate sotto nomi diversi, tentano di realizzare più impianti nello stesso feudo comunale! Ma questo è assolutamente illegale, non solo per l’incostituzionalità già citata; si tratta, infatti, di frazionamenti realizzati ad hoc, con dislocazione di uno stesso mega impianto di più megawatt in più sotto impianti, anche non necessariamente contermini, ma nello stesso feudo, o in feudi vicini, per poter con lo strumento delle semplici DIA, evitare, con un illecito escamotage, le più complesse strade burocratiche dell’autorizzazione unica regionale, che per legge devono percorrere impianti superiori ad 1MW! A volte il frazionamento mira ad evitare le incerte, nell’esito autorizzativo, procedure di Valutazione di Impatto Ambientale per i grandi impianti! Intervengano allora le forze dell’ordine per riportare l’ordine e la legalità, per controllare come sia possibile tutto ciò, ma anche per verificare come sia stato possibile inaugurare altri nuovi cantieri alla luce della retroattività della sentenza di incostituzionalità! Ci chiediamo, senza volere fare polemica, ma come appello estremo e disperato: dove sono le forze dell’ordine, il NOE, i Carabinieri, la Polizia, la Finanza, la Forestale, la Polizia Provinciale? Non vedono, come tutti noi cittadini invece vediamo quotidianamente, quanto si sta compiendo illegalmente ai danni di noi tutti, del nostro paesaggio, della nostra Costituzione? E’ un esercito stipendiato a difesa del territorio che pare sonnecchiare, o a cui le mani sono state legate da interessi di terzi poteri, che hanno soffocato anche la loro libertà?! C’è sempre tempo per sequestrare piscine e case abusive, ma oggi vi è l’impellenza di fermare sul nascere lo scempio ben più grave e catastrofico delle rinnovabili industriali, da mega eolico e mega fotovoltaico, denunciato dagli stessi direttori generali pugliesi di ARPA (Agenzia per la Prevenzione l’Ambiente) e della Soprintendenza ai Beni Culturali e Paesaggistici! Non avallino i magistrati e le nostre forze dell’ordine, con il silenzio e la non azione, quanto sta avvenendo!»
Quei miliardi al vento. A Report la grande truffa dell'importazione dell'energia verde. Le garanzie fornite dai venditori esteri non danno sicurezza sulla provenienza. È un meccanismo complicato, ma si può riassumere così: comprare un certificato verde costa a un’azienda italiana molto di più che importare dall’estero energia dichiarata pulita, anche se non c’è alcuna vera garanzia che sia davvero tale, come ammette il sottosegretario Stefano Saglia. Conseguenza per il contribuente italiano: lo Stato si è impegnato a comprare tutti i certificati verdi invenduti, per garantire un sostegno al nascente business dell’energia pulita. E questo (come spiega Milena Gabanelli nella puntata di Report in onda in 28 novembre 2010 su Raitre) nel 2009 è costato alle casse pubbliche un miliardo di euro. Che pagano tutti gli italiani in bolletta.
C’è fame di energie rinnovabili in Italia. Nella puntata di Report Giovanni Buttitta, direttore delle relazioni esterne di Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale, conta e riconta le richieste per allacciare i nuovi impianti: “Un numero molto alto: 120 mila megawatt”. Il doppio del fabbisogno annuale dell’Italia. Perché spuntano panelli fotovoltaici ovunque e pale eoliche giganti sostituiscono alberi in montagna e coprono la terra rossa in riva al mare? L’inchiesta di Alberto Nerazzini racconta il vero business che si nasconde dietro le richieste ambientaliste dell’Europa: entro il 2020 l’Italia deve abbattere le emissioni di anidride carbonica e consumare il 17 per cento dell’energia da fonti rinnovabili. I cittadini, in gran parte a loro insaputa, contribuiscono a una rivoluzione verde pagando in bolletta 3,2 miliardi di euro l’anno. Nerazzini si occupa anche di Green Power, società di Enel appena sbarcata in Borsa. L’azienda non si affida solo al boom dell’economia verde, ma anche al regime fiscale degli Stati Uniti: oltre 60 società di proprietà di Green Power hanno sede a Wilmington, nel Delaware, Stati Uniti. Come mai? L’amministratore delegato, Francesco Starace, spiega a Report senza imbarazzo: “Perché lì, in America, noi abbiamo una società che si chiama Enel North America, residente nel Delaware, che all’interno degli Usa ha un regime fiscale positivo. È un modo per generare meno tasse”. Commenta Nerazzini: “Tutto legittimo. E sappiamo quanto sia difficile restare competitivi sul mercato internazionale. Ma visto che Enel è ancora una società controllata dal Ministero del Tesoro, che ne possiede più del 30 per cento, uno si domanda quale sia la percentuale di tasse che Enel sta evitando di scaricare sul fisco italiano”.
L’altro punto su cui si concentra Report è il traffico di energia rinnovabile importata dall’estero dai produttori di energia sporca (gas, petrolio) che sono tenuti a ripulirsi, comprando “certificati verdi” da chi produce usando fonti rinnovabili (un complicato sistema per trasferire soldi da chi inquina a chi è più “verde”). Il 31,6 per cento di tutta l’energia elettrica consumata in Italia proviene da fonti rinnovabili, cioè da centrali idroelettriche, biomasse, geotermia, eolico e solare. Questo dato è lo stesso che è comunicato ai consumatori: compare nella tabella del mix energetico che da maggio scorso le aziende fornitrici di elettricità, come l’Enel, devono pubblicare sui loro siti e sulle bollette. Un dato che sembra descrivere un’Italia sulla buona strada nel raggiungimento dell’obiettivo concordato con l’Europa per il 2020. Peccato però che la quantità di energia (32mila gigawatt) importata che il Gse (Gestore Servizi Energetici) considera verde possa essere computato dall’Italia come energia da fonte rinnovabile per il raggiungimento degli obiettivi europei del 2020. “Le garanzie d’origine non sono sufficienti per il conteggio del target italiano”, ammette Gerardo Montanino, direttore operativo di Gse.
La direttiva europea che stabilisce gli obiettivi del 2020 prevede infatti che uno Paese possa conteggiare l’energia verde importata solo se c’è uno specifico accordo con il Paese esportatore. Questi accordi per il momento non ci sono e quindi l’energia verde di cui parla il Gse, ai fini degli obiettivi del 2020, conta zero. E questo per i prossimi anni, visto che secondo il Piano di azione nazionale per le energie rinnovabili, stilato dal ministero dello Sviluppo economico, i primi giga verdi d’importazione saranno computabili come consumati in Italia solo nel 2016: dei 9mila Gwh previsti, 6mila arriveranno dal Montenegro. Sempre che venga realizzato un cavo di interconnessione attraverso l’Adriatico. Insomma per gli obiettivi del 2020 le garanzie d’origine non contano nulla. E ora sembra avere dubbi sulla loro reale utilità anche il sottosegretario del ministero dello Sviluppo economico Stefano Saglia, che a Report dice: “Importiamo energia ed è quasi tutta con certificato di garanzia da fonte rinnovabile, ma invece non lo è”. Perché, quindi ci si affida tanto all’estero? Come sempre è questione di soldi.
Un'inchiesta di Report rivela come il cippato per le centrali a biomasse spesso proviene dall'estero, con notevoli costi ambientali. Le centrali a biomasse sono utili all'ambiente e all'economia se di piccole dimensioni e se bruciano residui di boschi e di segherie, in un'ottica di filiera corta, per rendere autosufficienti i piccoli paesi. La stessa cosa non si può dire per le centrali di grandi dimensioni, che per essere alimentate devono acquistare biomasse fuori provincia, fuori regione e perfino all'estero. A tracciare un quadro di luci e ombre sulle centrali a biomasse è stata un'inchiesta della trasmissione Report di Milena Gabanelli, che ha riconosciuto la bontà per il territorio e l'ambiente di un modello basato sulla filiera corta e, per quanto riguarda le centrali alimentate a legno cippato, basate sull'utilizzo degli scarti delle segherie locali e del legname recuperato dalla pulizia dei boschi. Il problema evidenziato è la grande diffusione su tutto il territorio nazionale delle centrali a biomassa, dovuta anche agli incentivi statali (certificati verdi, che però a partire dal 2011 non dovranno più pesare sulla finanza pubblica), con il rischio che in una stessa zona (come in Garfagnana) ce ne siano troppe. La conseguenza è che in molti acquistano il legname fuori regione e all'estero, non solo in Europa ma anche da Cile, Nigeria, Indonesia, Brasile, Argentina, alla faccia della filiera corta. Trasportare su distanze così grandi il legname comporta alti costi energetici e ambientali, per non parlare poi dell'aumento dei gas serra causato dal disboscamento del suolo. Ma i costi diventano anche economici: la carenza di legno causa l'aumento dei costi dei pannelli per l'arredamento, calano i consumi e l'industria dei produttori del legno semilavorato rischia di entrare in crisi, insieme a tutta la filiera dell'arredamento. “Le centrali a biomasse sono un'ottima idea – ha riassunto la Gabanelli chiudendo la trasmissione - se di piccole dimensioni e se bruciano residui di boschi e di segherie e utilizzano tutta l’energia prodotta per riscaldare magari piccoli paesi. Il fine dovrebbe essere quello di diventare autosufficienti e non di lucrare. Diversamente si rischia di compromettere un patrimonio, di mettere in crisi un settore dell’economia, a noi costa di più, e alla fine magari si inquina, quanto con il gasolio”.
PARLIAMO DI INQUINAMENTO DI STATO.
Il governo italiano con una legge ad hoc ha dato il via libera al superamento delle soglie di inquinamento dell'aria. Fino al 31 dicembre 2012, nelle città italiane con più di 150mila abitanti, il benzoapirene, sostanza altamente cancerogena, potrà superare la soglia europea fissata ad un nanogrammo per metro cubo. Tale livello è stato abrogato con il Decreto Legislativo n. 155 del 13 agosto 2010, approvato, secondo il governo, in attuazione della Direttiva 2008/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio. Vediamo nel dettaglio cosa dicono le carte legislative.
Nella realtà dei fatti, la direttiva europea non parla affatto di Benzoapirene, potente cancerogeno che viene veicolato nei polmoni dalle polveri sottili e che si origina dalle combustioni delle industrie e delle auto, ma di altre sostanze. A dircelo è l'articolo 5 comma 1 della stessa direttiva: "Le soglie di valutazione [...] si applicano al biossido di zolfo, al biossido di azoto e agli ossidi di azoto, al particolato (PM10 e PM2,5), al piombo, al benzene e al monossido di carbonio". Nessuna traccia, dunque, del Benzoapirene. Solo un pretesto per modificare le normative già in vigore.
Infatti, tornando indietro nel tempo, risaliamo alla Direttiva 2004/107/CE, nella quale all'articolo 3 comma 1 si legge: "Gli Stati membri prendono tutte le misure necessarie, che non comportano costi sproporzionati, per assicurare che, a partire dal 31 dicembre 2012, le concentrazioni nell'aria ambiente di arsenico, cadmio, nickel e benzo(a)pirene, quest'ultimo usato come marker per il rischio cancerogeno degli idrocarburi policiclici aromatici, valutate ai sensi dell'articolo 4, non superino i valori obiettivo di cui all'allegato I". Secondo quanto contenuto nell'allegato I, tale valore è per il Benzoapirene di un nanogrammo per metro cubo.
Il termine del 31 dicembre 2012 era stato anticipato dal Governo Prodi con il Decreto Legislativo 3 agosto 2007, n. 152 recante: "Attuazione della direttiva 2004/107/CE concernente l'arsenico, il cadmio, il mercurio, il nichel e gli idrocarburi policiclici aromatici nell'aria ambiente ". Con tale decreto veniva recepita la Direttiva europea e veniva fissato il limite di concentrazione del Benzoapirene a un nanogrammo per metro cubo. Qualcosa però deve aver convinto il Governo Berlusconi a tornare suoi propri passi visto che con l'ultimo decreto in ordine cronologico, vale a dire il Decreto Legislativo n. 155 del 13 agosto 2010, vengono concessi ancora due anni di tempo per adeguarsi alla soglia limite per il benzoapirene. A dircelo è l'articolo 9 comma 2: "Se, in una o più aree all’interno di zone o di agglomerati, i livelli degli inquinanti di cui all’articolo 1, comma 2 (fra Cui Il Benzoapirene) superano, sulla base della valutazione di cui all’articolo 5, i valori obiettivo di cui all’allegato XIII (un nanogranno per metro cubo), le regioni e le province autonome, adottano, anche sulla base degli indirizzi espressi dal Coordinamento di cui all’articolo 20, le misure che non comportano costi sproporzionati necessarie ad agire sulle principali sorgenti di emissione aventi influenza su tali aree di superamento ed a perseguire il raggiungimento dei valori obiettivo entro il 31 dicembre 2012". Alla luce dei fatti, le industrie potranno inquinare il paese, superando la soglia suddetta, fino al 31 dicembre 2012.
Troppo arsenico nell'acqua potabile di 128 Comuni italiani, soprattutto del Lazio. A nulla è valsa la richiesta del Governo di derogare ai limiti di legge: la Commissione europea ha negato il permesso e impone ordinanze per vietarne l’uso alimentare. La Commissione europea ha respinto la richiesta di deroga ai limiti di legge inoltrata dall'Italia per la concentrazione di arsenico presente nell’acqua destinata ad uso potabile. In particolare per quanto riguarda l'arsenico, scrive la Commissione Ue, “occorre autorizzare unicamente deroghe per valori di arsenico fino a 20 microgrammi al litro”. Al contrario, finora si poteva derogare fino 50 microgrammi al litro. Una decisione che riguarda 128 Comuni. Se l’Italia non rispetterà il divieto, rischia un procedimento davanti alla Corte di Giustizia europea. L'Italia è il paese europeo dove più frequentemente si è permesso ad alcuni acquedotti di erogare acqua con valori fino a 5 volte superiori alla legge, in particolare per arsenico, boro e fluoro. Una pessima abitudine, che ha più volte suscitato polemiche e creato allarmismi sui potenziali rischi sulla salute. Preoccupazioni non certo affievolite - come è giusto che sia - dal fatto che le deroghe riguardino pochi comuni e località che si trovano nelle regioni Lazio, Campania, Toscana, Umbria, Lombardia e nelle province di Trento e Bolzano (per inciso in tutti i casi si tratta di sostanze presenti naturalmente nelle falde cui gli acquedotti attingono). Lo stop ufficiale è arrivato il 28 ottobre 2010, ma già nei mesi scorsi a pronunciarsi era stato il comitato scientifico della Commissione europea, lo SCHER (Scientific Committee on Health and Environmental Risks), che ha in parte confermato le preoccupazioni che riguardano la salute dei più piccoli, mentre per quanto concerne la popolazione adulta il rischio sulla salute derivante dalla proroga dei valori derogabili per questi tre elementi sarebbe molto basso. Nello specifico, per i bambini sotto i 3 anni il boro assunto bevendo acqua potrebbe facilmente raggiungere il limite massimo tollerabile, mentre per i bambini e i ragazzi fino a 18 anni non è escluso che gli effetti negativi dovuti all'arsenico si manifestino già a partire dai 20 microgrammi per litro.
PARLIAMO DI TUTELA DEI DIRITTI
Il Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, Dr Antonio Giangrande, segnalando il fatto che nel mondo da anni vi sono sentenze di risarcimento danni da inquinamento, sia esso atmosferico, delle acque, ambientale o acustico. Addirittura sono stati riconosciuti indennizzi stratosferici a favore di fumatori consenzienti, come vi sono divieti di fumare all’aperto per difendersi dal fumo passivo.
Non capisce come si possa continuare a rimanere succubi di una politica ed amministrazione pubblica inconcludente e subire da anni un incremento di sofferenza e disagio riconducibile all’inquinamento.
Purtroppo, l’incremento delle malattie riconducibili a questa tematica, riguarda tutti, anche perché gli effetti, con il vento o con le correnti, raggiungono distanze inimmaginabili.
Naturalmente ogni iniziativa deve tendere a salvaguardare gli interessi delle aziende, dei lavoratori, dei cittadini.
INSOMMA: LE AZIENDE NON CHIUDONO, MA PAGANO.
L’azione giudiziaria civile di risarcimento danni all’ambiente (in forma specifica o per equivalente), ovvero alla persona (biologici, morali e per “il patema d’animo”), e l’obbligo per le amministrazioni locali ad emettere ordinanze attinenti oneri per le grandi aziende a titolo di indennità di ristoro civico e di servitù industriale, dovuto al loro esercizio, quantunque l’inquinamento sia o fosse al di sotto del limite legale, porterà un senso di legalità in un territorio martoriato. Resta fermo l’obbligo per le aziende di adeguarsi ai limiti di emissioni inquinanti, pena il risarcimento del maggior danno.
Il DANNO AMBIENTALE
Il concetto di danno ambientale ha trovato un suo chiaro riconoscimento nel nostro ordinamento giuridico con la L.349/86 ("Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale"). In particolare, l’art. 18 della suddetta legge dispone che:
"Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato" (comma 1).
"Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo di beni ambientali" (comma 6).
"Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile" (comma 8).
La portata delle disposizioni di cui alla L.349/86 non può essere compresa appieno se non attraverso un puntuale riferimento alle decisioni giurisprudenziali e alla dottrina, che, non di rado, hanno interpretato tali disposizioni in maniera difforme dalla lettera della legge.
Danni ambientali reversibili
Danni patrimoniali.
Danno emergente: in conformità alla giurisprudenza e alla dottrina maggioritaria, può essere calcolato come costo per la messa in sicurezza, bonifica ed ripristino dei siti danneggiati (ex D.M. 471/99);
Lucro cessante: non vi è altro modo di calcolarlo se non quello di valutare i danni che deriveranno ai richiedenti dalla mancata realizzazione di profitti in conseguenza dell’evento dannoso. Bisognerà tener conto anche dei danni ulteriori connessi ai tempi di realizzazione degli interventi di ripristino dei siti danneggiati, nonché dei c.d. danni indiretti (danni derivanti dall’alterazione degli ecosistemi).
Danni non patrimoniali.
Danno estetico: può essere calcolato come percentuale del danno patrimoniale complessivo (danno emergente e lucro cessante) e va in ogni caso rapportato ai tempi necessari per il ripristino dei luoghi danneggiati.
A tal fin si può utilizzare un coefficiente (B) che chiameremo "coefficiente di bellezza e significatività del sito danneggiato", il cui valore sarà compreso tra 0 e 1.
Danno all’immagine: nelle ipotesi di valutazione del danno ambientale, abbiamo preferito non creare una voce di danno autonoma per questo tipo di lesione.
Anzitutto perché non crediamo opportuno "appesantire" la quantificazione del danno ambientale e la conseguente richiesta risarcitoria con voci di danno che non hanno ancora trovato unanime riconoscimento in dottrina e in giurisprudenza (ne risentirebbe la credibilità dell’intero sistema di valutazione del danno ambientale).
E poi perché il danno all’immagine è comunque riconducibile a quello da lucro cessante, per le sue componenti patrimoniali, e al danno estetico per quasi tutto il resto. E’ indubbio che il danno all’immagine sia altra cosa rispetto al danno estetico, ma il risarcimento del secondo farebbe senz’altro giustizia anche del primo, soprattutto se nella determinazione del valore del citato coefficiente B si tiene conto delle possibili ripercussioni della lesione ambientale sull’immagine dell’ente richiedente.
Danni ambientali irreversibili
Danni patrimoniali.
Danno emergente: trattandosi di danno ambientale irreversibile e non potendo ipotizzarsi un ripristino dello status quo ante, può essere calcolato come costo per la creazione di un habitat simile a quello preesistente o come costo per la creazione dell’habitat danneggiato in altro sito.
Lucro cessante: v. danni reversibili. Ovviamente, qui i danni ulteriori andranno proporzionati ai tempi di realizzazione degli interventi precedenti.
Danni non patrimoniali.
Danno estetico; vedi danno reversibili;
Danno all’immagine: vedi danni reversibili.
IL DANNO PERSONALE: LEGITTIMAZIONE ALL’AZIONE DEL SINGOLO
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III PENALE
Sentenza 2 maggio 2007, n. 16575
Il danno ambientale presenta una triplice dimensione:
- personale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente di ogni uomo);
- sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana, ex art. 2 Cost.);
- pubblica (quale lesione dei diritto-dovere pubblico delle istituzioni centrali).
In questo contesto persone, gruppi, associazioni ed anche gli enti territoriali non fanno valere un generico interesse diffuso, ma dei diritti, ed agiscono in forza di una autonoma legittimazione.
Integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d. "perdite provvisorie", perché qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo dì danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta illecita, danno che si verifica nel momento in cui tale condotta viene tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo.
La Cassazione, con un sentenza che vi consiglio vivamente di leggere d’un fiato (potere liberamente scaricare la sentenza della Corte di Cassazione Civile n. 11059/09 ha statuito, invece, e per fortuna giuridico-ambientale, che è giuridicamente corretto inferire l’esistenza di un danno non patrimoniale, ravvisato nel patema d’animo indotto dalla preoccupazione per il proprio stato di salute e per quello dei propri cari, ove tale turbamento psichico sia provato in via documentale.
Il danno non patrimoniale può essere provato anche per presunzioni e la prova per inferenza induttiva non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia l’unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell’uno in dipendenza dell’altro, secondo criteri di regolarità causale.
Si tratta, del resto di principi affermati già in passato (Cass. Sez. Un. civ. n. 2515/2002, in caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo - art. 449 c.p.) nel caso del verificarsi di un delitto di pericolo presunto a carattere plurioffensivo: qui la Cassazione sottolineava che alla lesione dell’interesse adespota all’ambiente ed alla pubblica incolumità, si affianca il pregiudizio causato alla sfera individuale dei singoli soggetti che si trovano in concreta relazione con i luoghi interessati dall’evento dannoso, in ragione della loro residenza o frequentazione abituale. Ove sia dimostrato che tale relazione è stata causa di uno stato di preoccupazione è configurato il danno non patrimoniale in capo a detti soggetti, danno risarcibile in quanto derivato da reato.
In armonia con un’altra decisione della Cassazione (Cass. Sez. Un. civ. n. 26972/2008) il giudice di legittimità delle leggi ha, inoltre, stabilito che va esclusa l’autonomia del c.d. danno esistenziale, il quale non rappresenta altro che una delle voci del danno non patrimoniale.
Nel caso in cui il fatto illecito, da cui è derivato il danno, si configuri come reato, il danno non patrimoniale è risarcibile nella sua più ampia accezione di danno determinato da lesioni di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica.
INDENNIZZO PER SERVITU’ INDUSTRIALE
In diritto si definisce servitù (o servitù prediale) un diritto reale minore di godimento su cosa altrui, consistente in "un peso imposto sopra un fondo per l'utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario" (art. 1027 del codice civile).
L'utilità del fondo dominante, presente o futura, è estremo essenziale della servitù: può consistere nella maggiore comodità del fondo, può anche essere inerente alla sua destinazione industriale. Per questo si parla di Servitù Industriale. Tuttavia, deve sempre essere utilità di un fondo, non quello personale del proprietario. In quest’ultima ipotesi si ha un un diritto personale di godimento, la cosiddetta servitù aziendale.
INDENNITA’ DI RISTORO CIVICO
Tributo locale a carattere amministrativo per speciali prestazioni (servitù atipica).
PARLIAMO DI DISASTRI IDROGEOLOGICI.
La natura non fa sconti. Prima o poi, gli errori ricadono addosso a chi li ha compiuti. Seminando la morte, come a Messina.
Ciò che riceve, restituisce. Nel bene come nel male. Una terra tutelata restituisce una sicura protezione idrogeologica.
Una terra violentata non può far altro che produrre altra violenza. Non perché sia matrigna, ma perché l’uomo le ha sottratto gli strumenti per proteggere proprio se stesso.
Non c’è bisogno di evocare lo spettro di Sarno, con le sue 140 frane e i suoi 137 morti nel maggio 1998. Basta guardare il 2009. Frane e quattro morti al Nord, due a Borca di Cadore (18 luglio). Due vittime nel Trapanese per un nubifragio (2 febbraio). Due operai morti sotto una frana a Caltanissetta (28 gennaio). Frane in tutto il Sud, chiusi 60 chilometri di autostrada (29 gennaio). Due morti e quattro feriti per una frana sulla Salerno-Reggio Calabria (25 gennaio). Poco prima, alla fine del 2008, gli spettacolari danni e l’autentico terrore di Roma per la clamorosa piena del Tevere (dicembre 2008). Inferno d’acqua a Cagliari, tre morti (22 ottobre). Maltempo: due morti, Valtellina isolata (13 luglio). Po e Dora, rotti gli argini, ponti bloccati e scuole chiuse. E si potrebbe continuare tristemente così, con titoli sempre uguali, lì a dimostrare che la natura non fa sconti.
La ricetta del disastro è precisa. Si prende un territorio come l'Italia, con 7 Comuni su 10 a rischio idrogeologico. Si spargono case abusive a profusione, possibilmente nelle aree in cui si espandono fiumi e torrenti in piena. S'immettono in atmosfera gas serra, quanto basta per modificare il ciclo idrico e produrre piogge interminabili e violente. Poi si aspetta. Non a lungo.
Case dichiarate inagibili e nessun controllo. Scarsa manutenzione e fondi investiti male. Così, la tragedia di Messina del 1 ottobre 2009 passa sotto inchiesta e diventa disastro colposo con decine di morti.
Il rischio frane e alluvioni interessa praticamente tutto il territorio nazionale. Come ben documentato in "Ecosistema a rischio", edizione novembre 2008, secondo l'indagine a cura di Legambiente e la Protezione civile sono ben 5.581 i comuni a rischio idrogeologico, il 70% del totale dei comuni italiani, di cui 1.700 a rischio frana, 1.285 a rischio di alluvione e 2.596 a rischio sia di frana che di alluvione.
Il nostro territorio è reso ancora più fragile dall’abusivismo, dal disboscamento dei versanti e dall’urbanizzazione irrazionale. Sono la Calabria, l’Umbria e la Valle d’Aosta le regioni con la più alta percentuale di comuni classificati a rischio (il 100% del totale), subito seguite dalle Marche (99%) e dalla Toscana (98%). Sebbene in molte regioni la percentuale di comuni interessati dal fenomeno possa apparire ridotta, la dimensione del rischio è comunque preoccupante. In Sardegna e in Puglia, ad esempio, nonostante la percentuale dei comuni a rischio sia tra le più basse d’Italia, le frane e le alluvioni degli ultimi anni hanno provocato vittime e notevoli danni.
Oltre a tanti piccoli comuni, anche molte delle grandi metropoli e città italiane sono considerate a rischio idrogeologico come risulta dallo studio del Ministero dell’Ambiente e dell’UPI.
Questi dati mettono in luce chiaramente la fragilità di un territorio in cui semplici temporali, provocano continui allagamenti e disagi per la popolazione. Una situazione che deriva soprattutto dalla pesante urbanizzazione che ha subito l’Italia, in particolare lungo i corsi d’acqua.
Complessivamente sono ancora troppe le amministrazioni comunali italiane che tardano a svolgere un’efficace ed adeguata politica di prevenzione, informazione e pianificazione d’emergenza. Appena il 37% dei comuni intervistati svolge un lavoro positivo di mitigazione del rischio idrogeologico. Un comune su quattro non fa praticamente nulla per prevenire i danni derivanti da alluvioni e frane. Sono ben 787 le amministrazioni comunali che risultano svolgere un lavoro di prevenzione del rischio idrogeologico complessivamente negativo.
Si chiedono in molti come sia possibile che gli organi preposti non comprendano ciò che Legambiente o semplici cittadini denunciano... Potremmo rispondere che è la normalità se l'avversario è un potente.
E per potente non si intende il capo del governo, tanto per citare uno che va per la maggiore... Per essere intoccabili basta possedere terreni edificabili, frequentare circoli nautici o casinò, aver frequentato gli stessi istituti di un magistrato... Potente è colui che costruisce palazzine anche in luoghi impossibili per costruttori "normali" e che può mettere a disposizione agli amici degli amici, appartamenti a prezzo stracciato o imprese per lavori gratuiti in ville; potente è il medico che cura gli interessi e la salute di altri potenti e all'occasione può aiutare a eliminare anche gravidanze scomode; potente è quel personaggio che mette in contatto universi apparentemente lontani (lecito con l'illecito); potente è colui che ha conoscenze al Fallimentare o alla Commissione Tributaria...
Dunque abbiamo dimostrato come fare chiudere gli occhi a qualche controllore. Il sacco edilizio ha precisi responsabili, che, grazie alle coperture e complicità di cui godono tutt'ora, non hanno mai pagato in Tribunale per le loro colpe.
E che vengano oggi certi inviati nazionali a farci la morale - dopo che hanno omesso per anni di scrivere su talune vicende giudiziarie per non avere problemi - ci fa indignare ancora di più: tenetevi i vostri trenta denari di Giuda e non parlate agli italiani onesti che combattono ogni giorno in trincea, di etica e morale.
Sommersi da frane e fango. Dalla Toscana alla Sicilia, il dissesto continua a uccidere. Ma gli interventi per sanare il territorio restano fermi, tra sprechi e scandali. Ecco perché, raccontato dall'Espresso.
Acqua e fango continuano a uccidere indisturbati. Dopo Messina, è toccato a Ischia. Nel 2009 le alluvioni hanno cancellato il Natale di migliaia di famiglie e tenuto prigionieri del mare centinaia di turisti a Capodanno, da Capri alle Eolie. In Toscana l'attesa del 2010 è stata scandita dalla piena del lago di Puccini, il Massaciuccoli, un conto alla rovescia per scongiurare un disastro annunciato. Stessa scena in Liguria, Sardegna, Lazio e Campania. Addirittura i botti hanno lasciato posto a tuoni e tempeste, morti e feriti sono stati quelli dell'acqua e non più dei fuochi d'artificio. E quando è finita la pioggia sono arrivati neve e gelo. I meteorologi lo chiamano "tempo estremo" ma ormai di estremo ha davvero poco. È sempre la stessa tragedia italiana che si ripete quando il cielo diventa nero.
Carmine Abate aveva 44 anni, era lo chef di un ristorante della Costiera amalfitana e stava preparando il pranzo quando il costone roccioso l'ha travolto. Qualche settimana prima era toccato ad Anna, aveva 15 anni e stava andando a scuola. È annegata dentro l'auto ai piedi del monte Epomeo sotto gli occhi dei genitori. Ma la lezione sembra non servire. Basta ritornare a Sarno, dove il fango fece 160 vittime e i lavori sono finiti al 90 per cento. Progetti alla mano, ci sarebbe da stare tranquilli. Si vedono i canali di cemento pronti a imprigionare l'acqua e grandi vasche capaci di raccogliere la terra lavica sciolta in fango. Mancano ancora le case, c'è gente che aspetta da quel 5 maggio 1998, ma nell'Italia delle cattedrali nel deserto averci messo un decennio è considerato un record.
Eppure non è così. È sufficiente spostarsi di qualche chilometro, a San Felice a Cancello sull'altro versante dell'Appennino, e guardare in alto. La montagna franò quella stessa notte, ma i lavori in quota non sono nemmeno cominciati e quelli a valle non sono finiti. Il vecchio alveo Arena che dal Seicento faceva defluire le acque dalla collina Cancello è ridotto a un rigagnolo. Erbacce, detriti e rifiuti ne ostruiscono il corso. L'effetto di un appalto da 23 milioni lasciato a metà. Muri come totem eretti nel bel mezzo della campagna, finché c'erano i soldi e poi abbandonati: puoi correrci in macchina dentro la conduttura di scolo che scende dal monte Sant'Angelo. Passa in mezzo a case, giardini, strade comunali per poi finire nel nulla. L'acqua si accumula nella cava di San Felice, una di quelle descritte in "Gomorra", coprendo immondizia, copertoni, eternit, carcasse di cani e gatti uccisi dai topi. Il sindaco Pasquale De Lucia ha scritto all'Arcadis, l'Agenzia che dal 30 aprile ha sostituito il commissario per l'emergenza di Sarno: «Rileviamo con sconcerto e vergogna che i lavori sono in corso di realizzazione e, fatto ancora più grave, non è dato sapere in che tempi e in che modi gli stessi si concluderanno». Ma i responsabili sono già cambiati, i vecchi uffici smantellati, gli operai scomparsi.
Questa è solo una delle tante storie, dell'Italia che non fa prevenzione. L'ultima denuncia in ordine di tempo arriva dalla Corte dei conti, che ha censito i cantieri fantasma del piano idrico nazionale. Sono opere che oltre a mettere in sicurezza il territorio dovrebbero trasformare quei fiumi d'acqua killer in riserve per i periodi di siccità. Eppure nel Paese dove sette comuni su dieci sono a rischio alluvioni e dove il caldo incenerisce migliaia di ettari di bosco, restano un miraggio. Sono stati approvati progetti per 1,1 miliardi di euro, i fondi del Cipe ci sono, ma i lavori non partono. E se partono, non finiscono mai.
Lo scenario peggiore è al Sud, dove sono arrivati 330 milioni: «Dei 21 decreti di concessione emessi, ne risulta collaudato uno soltanto», scrive la Corte dei conti. Non va molto meglio nella pianura Padana, dove i milioni messi sul piatto sono 770: «Su 45 opere finanziate, ne risultano poste in esercizio 24». Poco più della metà. Per misurare la gravità della situazione, basterebbe un raffronto: l'ex Cassa del Mezzogiorno, che spese 140 miliardi di euro in decenni di sprechi e ruberie, oggi è quella che grida allo scandalo: «Al Sud la situazione è tragica », dice il commissario ad acta Roberto Iodice, l'ingegnere con le lenti spesse che ha ereditato il ramo irrigazione del vecchio baraccone (diventato Agensud e poi soppresso nel 1993 da Giuliano Amato), col compito di attuare in fretta il piano nazionale e poi fare le valigie. Bene, lui è ancora al suo posto e non ci riesce proprio a sbrigare le pratiche. Nel ginepraio di enti che si rimpallano le competenze, spesso i soldi di canali e dighe non fanno in tempo ad arrivare ai consorzi di bonifica, incaricati di indire le gare, che già si sono volatilizzati. La cosa incredibile è che il meccanismo è perfettamente legale. Ecco come fanno.
Dei 60 enti che operano nel Meridione (su 120 in tutto), circa il 25 per cento è oberato dai debiti e firma bilanci in rosso, fra bonifiche mai completate e impianti fatiscenti. Non appena Bankitalia gira i fondi per le opere, a riscuoterli si presentano i creditori con i documenti in mano: «A volte arrivano pochi minuti dopo l'erogazione. Ma ci rendiamo conto?», dice il commissario. Così i soldi pubblici finiscono in tasca ai privati, a Equitalia, all'Inps con la copertura delle stesse leggi che li avevano stanziati per opere di interesse nazionale. «Questo al di là che i debiti dichiarati siano reali, le manutenzioni descritte nei consuntivi siano davvero avvenute e i costi per l'irrigazione siano conformi. Spesso le gestioni sono disinvolte », ammette Iodice, che da anni chiede al Parlamento di vietare i pignoramenti per quei fondi senza che Roma abbia mai varato una legge.
Quando i soldi arrivano finalmente a destinazione, spesso l'iter si ferma di nuovo. La ditta che ha vinto dichiara, pochi mesi dopo, di non avere abbastanza quattrini per finire il lavoro e invoca una variante, poi un'altra e un'altra ancora. I contenziosi sono tanti. Ci sono pendenze di fronte ai tribunali di Salerno, Eboli, Potenza, Campobasso,Vallo della Lucania, Avellino, Bari e Pescara. Decine di istruttorie, revoche di appalti già concessi (ne sono in corso 93), ricorsi contro ditte inadempienti (ce ne sono 38 già aperti), procedure di recupero per oltre 50 milioni di euro. Al Sud sette appalti su dieci vengono aggiudicati con ribassi del 35-40 per cento in Puglia, Calabria, Campania, Sicilia e Sardegna quando nel Nord si scende al massimo del 20 per cento. «Significa che c'è un risparmio », si giustificano le imprese in gara. Non è così.
I prezzi ritoccati servono ad aggiudicarsi il lavoro ma non a finirlo. E la lista è lunga. A Olbia è tutto fermo: la rete idrica che doveva unire il nuovo depuratore al distretto nord della cittadina è rimasta sulla carta, con la risoluzione dei contratti a gara avvenuta. A Nurra piove, ma il progetto da oltre 12 milioni per il recupero delle acque di Sassari è stato assegnato a una ditta che non ha mai nemmeno montato le impalcature. Strano per una delle regioni più a rischio, dove a settembre è morto Andrea Pira, pastore di 38 anni, travolto dalle acque di un torrente. Anche in Puglia ci sono i progetti, ma non si lavora. La vasca di accumulo a Lama di Castellaneta è rimasta sulla carta, pur con 11 milioni già erogati e un bollettino di strade allagate, ferrovie interrotte e ospedali fuori uso per le alluvioni di ottobre. A Catania non è mai partita la sistemazione del canale Cavazzini, un cantiere da 25 milioni vinto con un ribasso del 32 per cento. Troppo: «La ditta che si è aggiudicata il lavoro ci ha chiesto prima ancora di partire di modificare il materiale della condotta principale, perché quello previsto dal loro stesso progetto costava troppo», spiegano all'ex Agensud. «Sono cose incredibili, che avvenivano in passato. Oggi la legge Merloni lo vieta, l'iter si ferma per anni e si deve ricominciare da zero».
Piemonte, Veneto e Lombardia stanno un po' meglio. Hanno avviato tutte le procedure, anche se si lavora a rilento. Le opere in funzione sono ancora troppo poche, secondo i giudici contabili. Così pure in Toscana e in Emilia Romagna: «Nella maggior parte dei casi non sono rispettate le date di consegna, dilatate dalle proroghe concesse e dalle varianti», dice la Corte dei conti. Che nella pratica significa che ci sono cantieri ancora aperti lungo l'Adda o il Po, che gli impianti irrigui in prossimità di fiumi e laghi non sono pronti, pur progettati da anni, che molta acqua è fuori controllo o viene sprecata, con danni all'agricoltura e rischi per gli abitanti. Dei quattro interventi da 127 milioni classificati come urgenti dal piano idrico, nessuno è stato ancora collaudato. Si tratta di dighe, come quella di Montedoglio in Valdichiara. Ma c'è anche il dolo. Come a Genova dove il torrente Bisagno è coperto da viale Brigate Partigiane, proprio dove le acque invasero la città durante l'alluvione del 1970 che uccise 44 persone. Il Comune sta spendendo 170 milioni per aumentare la portata eppure a monte si continua a edificare.
A La Spezia, a pochi chilometri dalla foce del Magra, l'Anas progetta uno svincolo stradale: «Più del 70 per cento dei Comuni realizza opere di messa in sicurezza che aumentano la fragilità del territorio invece che diminuirla », denuncia Legambiente. Addirittura i controlli anti-mafia finiscono per bloccare gli appalti.
Capita che in gara ci siano aziende con tutte le carte in regola che poi lasciano i lavori a metà, fuggendo con i quattrini. Mentre le ditte che hanno sempre portato a termine i cantieri si trovano eliminate a causa di ricorsi ad hoc, che si appigliano a timbri e vizi di forma. È successo a Salerno con un'impresa veneta: «Alcune dichiarazioni emesse per ottenere i requisiti certificavano lavori non effettuati, che tuttavia nulla centravano col tipo di opera messa a gara. Così abbiamo dovuto bloccare tutto e ricominciare. Con l'assurdo che, chi le carte le ha in regola spesso non costruisce », denuncia il commissario: «È giusto fare i controlli, ma devono essere finalizzati a far meglio e non peggio ». Metteteci anche l'Ance, l'associazione dei costruttori, che sempre più spesso al Sud si rivolge al Tar se il bando non contiene l'aggiornamento dei prezzi a carico delle Regioni e perennemente in ritardo. Un problema che al Nord si supera alzando le offerte ed evitando così di perdere anni per una manciata di euro. E che in Sicilia finisce davanti al giudice. Gli ultimi tre casi a Catania, Trapani e Caltanissetta con altrettanti canali mai realizzati. «Qualcuno ci marcia», tuona Iodice: «Ora dovremo aggiornare i progetti, ripetere i bandi, le assegnazioni e i pareri. Con costi enormi e tempi lunghissimi». Come se fango e frane possono attendere le lungaggini della giustizia italiana per tornare a colpire.
ECOMAFIE
ECOMAFIE: 70 REATI AL GIORNO E UN BUSINESS DA 20 MILIARDI DI EURO
Una montagna di rifiuti speciali alta come l’Etna (3.100 metri, pari a 31 milioni di tonnellate) inghiottita dalla terra. 28mila edifici abusivi, interi quartieri, costruiti in un anno. E 25.776 reati accertati contro l’ambiente, per un giro d’affari complessivo sopra i 20 miliardi di euro, un quinto circa del fatturato globale delle mafie. Cifre e immagini evocative date dall’ultimo rapporto sulle ecomafie in Italia stilato da Legambiente. Crescono le agromafie, il racket degli animali, il traffico di rifiuti pericolosi. Altro grande business delle ecomafie è poi l’abusivismo edilizio e i reati contro il patrimonio naturale.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO
Nelle otto maggiori città italiane l'inquinamento atmosferico urbano è stato responsabile nell'anno 2000 di 3.472 decessi, 4.597 ricoveri ospedalieri, decine di migliaia di casi di disturbi bronchiali e asmatici ogni anno, 10 morti al giorno per smog.
I dati, che vennero discussi da Legambiente e Oms nel corso di un seminario su "Inquinamento urbano e salute in Italia e in Europa: dall'evidenza dei dati all'urgenza delle politiche", appaiono drammaticamente gravi.
Lo studio del Centro Europeo Ambiente e Salute dell'Oms mette infatti in evidenza l'impatto sulla salute dei cittadini delle alte concentrazioni di inquinanti nell'aria delle città italiane calcolando le morti, i ricoveri ospedalieri ed i casi di malattia imputabili alle concentrazioni medie di PM10 (la frazione respirabile delle polveri che grazie al piccolo diametro può arrivare sino alle vie più profonde portandosi dietro sostanze altamente inquinanti e spesso cancerogene come il benzoapirene.
L'attuale normativa europea che si pone così all'avanguardia in Italia e in Europa, stabilisce provvedimenti di limitazione della circolazione quando il limite di attenzione di 50 microgrammi per metro cubo di polveri giornalieri viene superato per più giorni di seguito, e il blocco totale della circolazione in caso di superamento del livello di allarme pari a 100 microgrammi per metro cubo.
Per quanto riguarda la media annuale, invece, la normativa europea fissa un limite di 40 microgrammi per metrocubo che si prevede di portare ad uno standard (entro il 2010) di 20m g/m3. L'impatto dell'inquinamento da PM10 sulla salute dei residenti stimato nelle 8 maggiori città italiane, ha rivelato che nella popolazione di oltre trenta anni, il 4.7% di tutti i decessi osservati nel 1998, pari a 3.472 casi, è attribuibile al PM10 in eccesso di 30m g/m3. Se ne desume che riducendo il PM10 ad una media di 30m g/m3 si potrebbero prevenire circa 3.500 morti all'anno soltanto nelle otto città più grandi.
Si aggiungono inoltre stime di migliaia di ricoveri per cause respiratorie e cardiovascolari, e decine di migliaia di casi di bronchite acuta e asma fra i bambini al di sotto dei quindici anni, che potrebbero essere evitati riducendo le concentrazioni medie di PM10 a 30m g/m3. "La salute pubblica va salvaguardata con ogni mezzo, dichiarò durante il convegno il presidente uscente nazionale di Legambiente Ermete Realacci, "Amministratori e sindaci dovrebbero impegnarsi in maniera decisiva affinché quello dell'inquinamento non sia più il principale male delle nostre città. Migliorare la mobilità, rendere più veloci i percorsi degli autobus proteggendo le corsie preferenziali, sostenere l'uso di mezzi alternativi: dal car-sharing all'auto in multiproprietà, fino alla sperimentazione di veicoli alimentati con tecnologie più moderne e ecocompatibili, sono tutti possibili interventi per contenere l'inquinamento atmosferico e per ottenere importanti ricadute in termini di salute e di costi sociali. In merito si potrebbe dare la parola ai cittadini con i referendum consultivi in tema di traffico e mobilità".
"I nostri dati", spiegava Roberto Bertollini, direttore del Centro Europeo Ambiente e Salute dell'OMS, "dimostrano la gravità dell'inquinamento atmosferico nelle città italiane. Questo studio non considera che una parte del problema (alcuni effetti delle polveri fini) e fornisce verosimilmente una sottostima, ma è ormai evidente che migliaia di cittadini italiani di tutte le età che vivono nelle grandi città si ammalano e muoiono a causa dell'inquinamento urbano che si somma e moltiplica gli effetti di altri fattori di rischio per la salute. Decine di migliaia di attacchi d'asma e casi di bronchite acuta nei bambini sono evitabili.
E sfortunatamente il problema è condiviso dalle città italiane con altre metropoli europee, come dimostrato da un recente studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet ed effettuato con la stessa metodologia da noi impiegata in Italia. Occorre promuovere politiche di contenimento delle emissioni che coinvolgano i cittadini, e che mirino ad una effettiva e duratura riduzione dell'inquinamento atmosferico che nelle città italiane è principalmente e per gran parte dell'anno associato al traffico veicolare". I benefici potenzialmente raggiungibili dipendono naturalmente da quanto si riducono le concentrazioni. Con abbassamenti più o meno accentuati, i benefici sarebbero in proporzione. Ad esempio per la mortalità (ma analoghe considerazioni valgono per tutti gli esiti sanitari) riducendo l'inquinamento a 40m g/m_ sarebbe possibile evitare circa 2000 morti; riducendolo a 30m g/m sarebbe possibile evitarne circa 3500; riducendo l'inquinamento a 20m g/m_ sarebbe possibile evitare circa 5500 morti.
Uno studio condotto nel 2000 in Austria, Francia e Svizzera sui costi sanitari dell'inquinamento atmosferico ha evidenziato che il numero dei casi di bronchite acuta nei bambini attribuibili all'inquinamento atmosferico (PM10 in totale) sono ben 543.300, di cui 300.000 dovuti proprio allo smog generato dal traffico veicolare. Dei 37.800 ricoveri ospedalieri determinati dall'inquinamento atmosferico, ben 25.000 sono dovuti ai veleni prodotti dal traffico, così come 162.000 casi di attacchi di asma nei bambini (sul totale di 300.900).
Su 30.5 milioni di giorni lavorativi ridotti a causa di malattie respiratorie, ben 16 milioni sono generati dall'inquinamento da traffico, mentre per la mortalità nei tre paesi, lo studio fornisce oltre 40.500 casi di cui 21.000 attribuibili sempre allo smog da traffico. Nei tre Paesi l'inquinamento atmosferico riconducibile al traffico veicolare produce costi per 27 miliardi di Euro l'anno, pari a 360 Euro pro capite.
INQUINAMENTO DELLE ACQUE
Contaminazione dell’acqua causata dall’immissione di sostanze quali prodotti chimici e scarichi industriali e urbani, che ne alterano la qualità compromettendone gli abituali usi.
Alcuni dei principali inquinanti idrici sono: le acque di scarico contenenti materiali organici che per decomporsi assorbono grandi quantità di ossigeno; parassiti e batteri; i fertilizzanti e tutte le sostanze che favoriscono una crescita eccessiva di alghe e piante acquatiche; i pesticidi e svariate sostanze chimiche organiche (residui industriali, tensioattivi contenuti nei detersivi, sottoprodotti della decomposizione dei composti organici); il petrolio e i suoi derivati; metalli, sali minerali e composti chimici inorganici; sabbie e detriti dilavati dai terreni agricoli, dai suoli spogli di vegetazione, da cave, sedi stradali e cantieri; sostanze o scorie radioattive provenienti dalle miniere di uranio e torio e dagli impianti di trasformazione di questi metalli, dalle centrali nucleari, dalle industrie e dai laboratori medici e di ricerca che fanno uso di materiali radioattivi.
Anche il calore liberato nei fiumi dagli impianti industriali e dalle centrali elettriche attraverso le acque di raffreddamento può essere considerato un inquinante, in quanto provoca alterazioni della temperatura che possono compromettere l’equilibrio ecologico degli ecosistemi acquatici e causare la morte degli organismi meno resistenti, accrescere la sensibilità di tutti gli organismi alle sostanze tossiche, ridurre la capacità di autodepurazione delle acque, aumentare la solubilità delle sostanze tossiche e favorire lo sviluppo di parassiti.
Le sostanze contaminanti contenute nell’acqua inquinata possono provocare innumerevoli danni alla salute dell’uomo e all’equilibrio degli ecosistemi. La presenza di nitrati (sali dell’acido nitrico) nell’acqua potabile, ad esempio, provoca una particolare condizione patologica nei bambini che in alcuni casi può condurre alla morte. Il cadmio presente in certi fanghi usati come fertilizzanti può essere assorbito dalle colture e giungere all’uomo attraverso le reti alimentari; se assunto in dosi elevate, può provocare forti diarree e danneggiare fegato e reni. Tra gli inquinanti più nocivi per l’uomo vi sono alcuni metalli pesanti, come il mercurio, l’arsenico, il piombo e il cromo.
Gli ecosistemi lacustri sono particolarmente sensibili all’inquinamento. L’eccessivo apporto di fertilizzanti dilavati dai terreni agricoli può avviare un processo di eutrofizzazione, cioè di crescita smodata della flora acquatica. La grande quantità di alghe e di piante acquatiche che si viene a formare deturpa il paesaggio, ma soprattutto, quando si decompone, consuma l’ossigeno disciolto nell’acqua, rende asfittici gli strati più profondi del lago e produce odori sgradevoli. Sul fondo del bacino si accumulano sedimenti di varia natura e nelle acque avvengono reazioni chimiche che mutano l’equilibrio e la composizione dell’ecosistema (quando le acque sono molto calcaree si ha, ad esempio, la precipitazione di carbonato di calcio). Un’altra fonte di inquinamento idrico è costituita dalle cosiddette piogge acide, che hanno già provocato la scomparsa di ogni forma di vita da molti laghi dell’Europa settentrionale e orientale e del Nord America.
Gli inquinanti delle acque provengono soprattutto dagli scarichi urbani e industriali, dai processi di percolazione, dai terreni agricoli e dalle aziende zootecniche.
Le acque di scarico urbane e industriali rappresentano una delle fonti principali di inquinamento idrico. Finora l’obiettivo primario dei programmi di smaltimento degli scarichi urbani è stato quello di ridurre la concentrazione delle sostanze solide in sospensione, dei materiali organici, dei composti inorganici disciolti (soprattutto quelli contenenti fosforo e azoto) e dei batteri nocivi presenti nei liquami immessi negli impianti di depurazione, per potere, poi, scaricare le acque depurate nell’ambiente. Da qualche tempo, tuttavia, una maggiore attenzione viene rivolta anche al delicato problema del trattamento e dello smaltimento dei fanghi che si producono nei processi di depurazione.
Nei moderni depuratori i liquami passano attraverso tre fasi distinte di trattamento. La prima, detta trattamento primario, comprende una serie di processi fisici o meccanici di rimozione dei detriti più grossolani, di sedimentazione delle particelle in sospensione e di separazione delle sostanze oleose. Nella seconda fase, detta trattamento secondario, si ossida la materia organica dispersa nei liquami per mezzo di fanghi attivi o filtri biologici. La terza fase, il trattamento terziario, ha lo scopo di rimuovere i fertilizzanti per mezzo di processi chimico-fisici, come l’assorbimento su carbone attivo. In ogni fase vengono prodotte notevoli quantità di fanghi, il cui trattamento e smaltimento assorbe il 25-50% dei costi di impianto e di esercizio di un comune depuratore.
Gli scarichi industriali contengono una grande varietà di inquinanti e la loro composizione varia a seconda del tipo di processo produttivo. Il loro impatto sull’ambiente è complesso: spesso le sostanze tossiche contenute in questi scarichi rinforzano reciprocamente i propri effetti dannosi e quindi il danno complessivo risulta maggiore della somma dei singoli effetti. La concentrazione di inquinanti può essere ridotta limitandone la produzione all’origine, sottoponendo il materiale a trattamento preventivo prima di scaricarlo nella rete fognaria o depurando completamente gli scarichi presso lo stesso impianto industriale, recuperando, eventualmente, le sostanze che possono essere reintrodotte nei processi produttivi.
I fertilizzanti chimici usati in agricoltura e i liquami prodotti dagli allevamenti sono ricchi di sostanze organiche (contenenti soprattutto azoto e fosforo) che, dilavate dalla pioggia, vanno a riversarsi nelle falde acquifere o nei corpi idrici superficiali. A queste sostanze si aggiungono spesso detriti più o meno grossolani che si depositano sul fondo dei bacini. Pur contenendo spesso organismi patogeni, i liquami di origine animale vengono scaricati a volte direttamente sul terreno e da qui sono trasportati dall’acqua piovana nei fiumi, nei laghi e nelle falde sotterranee. In questo caso, per limitare l’impatto degli inquinanti si possono adottare semplici soluzioni, come l’uso di bacini di decantazione o di vasche per la depurazione dei liquami.
L’inquinamento del mare è dovuto alle immissioni accidentali o intenzionali di petrolio e oli combustibili, all’apporto di sostanze inquinanti trasportate dai corsi d’acqua e agli scarichi degli insediamenti costieri. Questi ultimi, in particolare, contengono ogni sorta di contaminanti (metalli pesanti, sostanze chimiche tossiche, materiale radioattivo, agenti patogeni) e spesso sono all’origine di epidemie di tifo, colera, salmonellosi e altre malattie infettive. Gli inquinanti vengono trasportati dalle correnti marine lungo le coste e in alto mare, a media e lunga distanza. Ovviamente, la contaminazione dei mari varca le frontiere delle acque territoriali dei singoli stati ed è oggetto di trattati internazionali che mirano a limitarne l’entità.
Il petrolio e gli oli combustibili riversati in mare formano sulla superficie dell’acqua pellicole oleose che, impedendo l’assorbimento dell’ossigeno atmosferico, provocano morie di organismi marini. Nel petrolio, inoltre, sono presenti anche idrocarburi aromatici che possono costituire un grave pericolo per la salute dell’uomo, al quale giungono attraverso la catena alimentare marina. La fonte dell’inquinamento, in questo caso, è data dai riversamenti di grandi quantità di greggio dalle petroliere coinvolte in incidenti, dal deliberato rilascio di piccole quantità di derivati del petrolio da navi di vario tipo e dalle perdite di petrolio che si verificano nel corso delle operazioni di trivellazione presso le piattaforme petrolifere marine. Si calcola che per ogni milione di tonnellate di petrolio trasportate via mare, una tonnellata vada dispersa a causa di riversamenti di varia natura.
Il pericolo maggiore è rappresentato dagli incidenti che non di rado interessano le superpetroliere. Nel 1978 la petroliera Amoco Cadiz riversò in mare, al largo delle coste francesi, 1,6 milioni di barili di greggio; nel 1979 dal pozzo petrolifero Ixtoc I, nel golfo del Messico, fuoriuscirono 3,3 milioni di barili. I 240.000 barili di greggio riversati dalla Exxon Valdez nella baia di Prince William, nel marzo del 1989, si estesero in tutta l’insenatura formando una macchia oleosa di ben 6770 km² che compromise l’esistenza di molte specie marine e danneggiò gravemente non solo gli ecosistemi locali, ma anche l’attività di pesca nella zona. Viceversa, i 680.000 barili di greggio riversati dalla Braer lungo le coste delle isole Shetland nel gennaio del 1993 furono subito dispersi dal moto ondoso, poiché al momento dell’incidente il mare era in burrasca.
IMPIANTI DI DEPURAZIONE IN ITALIA
Scarsa conoscenza degli impianti, controlli insufficienti, inosservanza della normativa: sono le principali irregolarità emerse dalle acque impure degli impianti di depurazione italiani. La nostra inchiesta non lascia dubbi: la situazione è disomogenea, ma sono comunque troppi i casi limite del servizio idrico. Mentre si spendono inutili miliardi per impianti mai collaudati, la siccità avanza. I depuratori (e quindi la possibilità di reintrodurre l’acqua inquinata nell’ambiente) sono, insieme al risparmio delle risorse idriche, gli unici rimedi efficaci contro la mancanza di acqua. Invece nel nostro Paese il funzionamento degli impianti di depurazione è quanto mai critico.
Lo denuncia anche un’indagine del Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri.
Per la nostra indagine ci siamo rivolti alle Arpa, le Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente. Purtroppo, le Regioni che hanno collaborato restituendoci il questionario sono solo otto. Di queste non solo abbiamo apprezzato la disponibilità, ma abbiamo avuto modo di verificare l’efficienza. Al contrario, il silenzio di chi non ha risposto rivela la scarsa attenzione di gran parte del Paese alla gestione delle acque e agli impianti di depurazione: mancano conoscenze, che sarebbero indispensabili per una corretta gestione delle acque reflue. Pensiamo che in molte realtà importanti (è il caso di Milano, per esempio, città nota per non aver mai avuto un depuratore…) l’emergenza acqua dovrebbe essere affrontata più seriamente.
È un’Italia ancora con molte carenze quella che esce da una disamina ad hoc sui servizi idrici, messi questa volta sotto la lente del “Blue Book 2009”: se da una parte i costi affrontati ogni mese da una famiglia media arrivano a sfiorare appena i 20 euro, molto meno delle spese affrontate ad esempio per bollette telefoniche e combustibili, dall’altra emerge un Paese ancora alle prese con una rete fognaria tuttora non all’altezza, con picchi negativi, dal punto di vista della copertura, in Sicilia, Toscana e Campania.
A livello territoriale, informa il Rapporto, il record per il costo più alto per i servizi idrici se l’è aggiudicata Agrigento (con una spesa annua di 440 euro), seguita da Arezzo (410) e Pesaro e Urbino (409); diversamente i costi più contenuti sono stati quelli sopportati da Milano (103 euro), Treviso e Isernia (108 e 109 euro).
Altro capitolo dolente analizzato dal Blue Book è quello, purtroppo annoso, degli impianti di fognatura e di depurazione, di cui sarebbe privo rispettivamente il 15 e il 30% del Paese. A fronte infatti di una rete totale di 337.452 chilometri di acquedotti, il servizio di fognature, con una rete complessiva di poco meno di 165 mila chilometri, coprirebbe soltanto l’84,7% dei cittadini, quota che scende al 70% per quanto riguarda i sistemi di depurazione. A livello regionale, quest’ultimo capitolo vede la Sicilia maglia nera per gli impianti di depurazione, con una copertura del 53,9%, seguita da Toscana (62,7%), Campania (67%) e Sardegna (68%). Quanto alla rete fognaria, le situazioni più critiche riguardano Sardegna e Liguria (entrambe 75%), Umbria (77,1%) e Veneto (78,1%).
INQUINAMENTO AMBIENTALE
L'inquinamento del suolo non può essere considerato come un fenomeno autonomo:è sempre strettamente collegato all'inquinamento dell'acqua perché è provocato spesso dallo scarico di liquami oppure perché può produrre come contaminazione l'inquinamento della falda acquifera sotterranea.
Nel terreno si verifica il ciclo dell'azoto,molto importante perché tutti i tipi di vita hanno bisogno d'azoto, che è uno dei componenti essenziali della materia vivente. per aumentare la produzione agricola l'uomo, invece,ha introdotto spesso la monocoltura, che ha spezzato gli equilibri biologici ed impoverito la fertilità naturale del terreno, richiedendo l'uso dei diserbanti, insetticidi concimi azotati prodotti dall' industria chimica. un'altra grave causa d'inquinamento del suolo è costituita dalla massa di rifiuti solidi prodotti dalla città(in Italia 0,7Kg al giorno per abitante)e dalle industrie. i rifiuti urbani sono formati da scarti organici alimentari,da carta, materie plastiche, bottiglie di vetro, contenitori metallici ecc. ed anche da fanghi provenienti dagli impianti di depurazione dell'acqua.
I rifiuti industriali contengono materiali speciali e tossici come scarti o sottoprodotti dei processi di lavorazione chimica o meccanica. per evitare l'inquinamento del suolo, i rifiuti urbani devono essere convogliati nelle discariche controllate, ovvero in aree opportune in cui i rifiuti d'origine organica possano decomporsi. Sarebbe meglio fare una raccolta differenziata dei rifiuti al fine di recuperare e riciclare taluni materiali come la carta e il vetro.
Si alternano strati di rifiuti e stati d'inerte, in modo che in assenza d'aria si realizzi un processo di decomposizione riduttivo con trasformazione finale dei rifiuti.
Le discariche devono essere localizzate in posizioni caratterizzate da grandi spessori di strati impermeabili, e distanti dalle falde acquifere sotterranee. talvolta può essere vantaggioso usufruire di cave abbandonate di pietra, argilla o sabbia, contribuendo cosi anche al recupero delle aree degradate; quando la cava viene riempita con i rifiuti si può procedere al recupero finale, ricoprendo la distanza con uno strato di terreno su cui realizzare prati o boschi. per i rifiuti industriali e' necessario invece adottare sistemi di smaltimento adeguati, evitando ogni pericolo di contatto con le falde acquifere sottostanti.
Le eventuali aree di raccolta devono allora avere fondi resi impermeabile nel tempo con argilla, catrame o cemento. si può ricorrere all'eliminazione dei rifiuti mediante altri metodi: IL COMPOSTAGGIO, cercando di trasformare i rifiuti in composti utilizzabili come concimi LA COMBUSTIONE con semplice incenerimento,oppure con produzione d'idrocarburi liquidi o gassosi.
Fra i tanti veleni che contaminano la nostra Terra quasi esausta, uno dei più subdoli è l’amianto. Questo minerale appartenente al gruppo dei silicati possiede caratteristiche fisiche speciali e ricercate (resistenza, refrattarietà al fuoco e straordinaria duttilità: una sua fibra è 1300 volte più sottile di un capello umano). Ma l’inalazione anche di una sola fibra può causare patologie mortali. Mesotelioma pleurico, asbestosi o fibroma polmonare, lesioni pleuriche e peritoneali, carcinoma bronchiale: sono questi i nomi, davvero spaventosi, dei mali incurabili inequivocabilmente collegati all’esposizione ad amianto.
Ogni anno in Italia sono circa 4000 i morti per mesotelioma e asbestosi. Nel mondo, circa 100.000. In questi numeri da brivido (il picco mondiale dovrebbe raggiungersi fra decina d’anni) è il sunto di una storia: “Amianto, storia di un killer”.
È una storia che andrebbe ascoltata, se non altro perché ci riguarda tutti da vicino. La racconta Stefania Divertito, scrittrice e giornalista già premiata dall’Unione cronisti italiani nel 2004 per l’inchiesta sull’uranio impoverito, abbinando metodo scientifico rigoroso e fine sensibilità, e un tono piacevole mai sopra le righe.
Su e giù per l’Italia, visitando porti cantieri discariche e poi aule di tribunali e stanze d’ospedale, bussando a tanti portoni per raccogliere testimonianze dirette dalle famiglie delle vittime e dei lavoratori che ancora lottano per un risarcimento, o semplicemente per veder riconosciuti i propri diritti.
L’Italia è uno dei paesi mondiali che ha fatto un uso più massiccio di amianto, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso e fino alla sua messa al bando nel 1992. Molte delle case popolari degli anni ‘50 ne sono ancora imbottite, ma è presente anche in scuole, università, ristoranti, uffici pubblici, magazzini, autorimesse, alberghi, stabilimenti balneari, aziende, perfino ambulatori medici.
C’è di sicuro nelle tantissime discariche abusive a cielo aperto, a contatto dei cittadini che lì vicino vi transitano.
Le bonifiche sono state, a seconda delle regioni, più o meno parziali. In ogni caso nel 17,65% degli istituti scolastici italiani è stata accertata la presenza di amianto, secondo uno studio di settore della Cgil compiuto nel 2008. Studi recenti testimoniano che per ammalarsi potrebbe essere sufficiente aver respirato anche solo una volta la polvere nociva.
Visto che fino a poco tempo fa l’amianto era onnipresente nelle nostre vite e il rischio riguarda anche i semplici cittadini, inconsapevolmente troppo vicini a qualche discarica abusiva o a una tettoia di Eternit, la prevenzione dovrebbe essere capillare. Invece è disturbante individuare ancora una volta tra le pieghe di questa storia la regia dell’inquinamento globalizzato, dal primo anello della catena – i produttori di materiali pericolosi ma a basso costo come l’amianto, con le loro politiche centrate sull’economia a discapito della salute – all’ultimo, cioè lo smaltimento illegale dei rifiuti tossici.
In Italia il diritto al risarcimento per le malattie ad esso collegate è stato ed è ostacolato, oltre che dai vertici delle lobby guidate a livello mondiale dall’industria canadese, da normative incomplete e confuse, cavilli che sfidano il buon senso: per esempio, i lavoratori del settore marittimo non riescono ad accedere ai benefici previdenziali perché per dimostrare di aver lavorato in ambienti contaminati con l’amianto dovrebbero farsi firmare il curriculum da armatori che nella maggior parte dei casi sono falliti, fuggiti, deceduti.
“Come l’esportazione e il consumo di questo materiale non ha confine, anche le battaglie contro di esso non lo hanno”, scrive l’autrice.
INQUINAMENTO ACUSTICO
Nell’annuario dei dati ambientali 2006 l'ISTAT ha rilevato che il 37,8% delle famiglie italiane segnala problemi relativi all'inquinamento acustico. Un dato questo certamente preoccupante, conseguenza, in parte, della scarsa attenzione che, fino ad oggi, è stata riservata alla materia.
Le cause di tale disfatta sono molteplici, a partire da quelle socio-culturali, giacché una qualche sensibilità ai temi ambientali si è diffusa nel nostro Paese solo in tempi abbastanza recenti, allorquando abbiamo potuto “toccare con mano” i danni causati dall’inquinamento. Questo modo di operare ha impedito di avviare una vera e propria programmazione, propedeutica a una politica di prevenzione, affiancata a interventi su singoli e specifici casi come, di regola, è necessario fare.
Quando parliamo di interventi di riduzione del rumore non esistono soluzioni efficaci che siano attuabili dall’oggi al domani. E’ necessario, invece, partire da lontano, per mezzo di direttive atte a regolamentare, ad esempio, lo sviluppo delle aree abitate, a promuovere e incentivare una mobilità sostenibile e razionale, attraverso il graduale passaggio dal trasporto su gomma a quello su ferro, specie per quel che riguarda il traffico delle merci, settore che negli ultimi anni ha conosciuto un elevato tasso di crescita. In altre parole, bisogna avere il coraggio di cambiare, di adottare soluzioni innovative che, oramai da tempo, sono utilizzate in numerosi Paesi europei.
Non basta promulgare nuove leggi per cambiare il modo di agire e di pensare della popolazione, anche perché quelle presenti sono già tante, forse troppe. Piuttosto, si deve passare da una politica del “dire” a una politica del “fare”, attraverso lo sviluppo di idee chiare, muniti di una buona dose di determinazione, nell’interesse di un Paese che è tanto amato dagli italiani, quanto dai numerosi stranieri che, ogni anno, giungono in Italia attirati dall’ospitalità, dalla buona cucina, dai suggestivi paesaggi, dalla cultura e, speriamo presto, dal poter vivere in un ambiente silenzioso.
L’Italia in passato ha saputo sollevarsi da situazioni molto difficili, grazie al lavoro e all’impegno di un popolo generoso. Ci auguriamo che un ulteriore sforzo possa essere compiuto per rendere la nostra vita un tantino migliore, almeno per quel che riguarda il rumore.
INCENDIOPOLI IN ITALIA.
Roghi sul Vesuvio, le fiamme sono iniziate mesi prima del grande incendio. Chi sarà il nostro capro espiatorio? La causa dell'incendio è dovuta alla malavita o alla negligenza dello Stato? Scrive Frank D'Amore, curato da Domenico Camodeca, il 16 luglio 2017 su "it.blastingnews.com". Mesi prima del grande incendio del 12 luglio si innalzano nubi tossiche dal Vesuvio. I fumi neri presuppongono rifiuti in fiamme e un'aria irrespirabile si sparge per tutti i paesi Vesuviani. I cittadini gridano aiuto eppure i roghi si sono ripetuti per diversi mesi. Se ci sono stati segnali di fumo evidenti che hanno comunicato l'emergenza del pericolo per tutta l'area che circonda Napoli e le sue province vesuviane, perché la Regione non ha fatto alcuna prevenzione? Il Mattino riporta la notizia che il sindaco Luigi de Magistris denuncia la negligenza del nostro paese, il quale ha perso di vista le vere priorità del territorio, continuando a investire in spese militari e per salvare le banche, dimenticando invece di fare prevenzione contro gli incendi. Il presidente della regione Vincenzo De Luca adesso è determinato a risolvere il problema dei roghi, specialmente sul Vesuvio. 400 mila euro investiti per pagare gli straordinari ai Vigili del Fuoco, aumentando i controlli anche notturni. Gli investimenti hanno permesso anche di agevolare gli elicotteri nel trasporto dell’acqua, di mettere in sicurezza cave e zone abitate. Ma perché aspettare un incendio lungo due chilometri per mandare i soccorsi? Il web e i giornali si scatenano contro il presidente della Regione ritenuto responsabile di negligenza.
Le indagini svolte dal web. Le indagini sono ancora in corso per capire chi sia l’artefice dell’incendio. Sono in molti a pensare che la colpa sia della malavita che ha bruciato la montagna per disfarsi delle discariche di rifiuti tossici. Saviano in un suo video postato su Facebook ha ragione di credere che l'incendio abbia avuto scopi edilizi. Su un terreno bruciato, non si può costruire per 15 anni. La camorra quindi avrebbe lanciato il messaggio che solo loro hanno potere decisionale sul territorio campano. Altri invece pensano che la causa sia di un ignoto piromane con manie di grandezza. Quello che sappiamo è che l’incendio è doloso. Sul Corriere della sera, il vicepresidente della Regione Fulvio Bonavitacola afferma che l’incendio non ha nulla a che vedere con i rifiuti tossici. La teoria dell’edilizia annunciata da Saviano potrebbe essere valida, ma per legge, sul Vesuvio è vietato edificare dato che è considerata una zona rossa ad alto rischio. Le teorie sono incerte e coperte da mezze verità, alcune in parte smentite. Quello che possiamo immaginare è che, dato i molteplici segnali di fumo evidenti mesi prima del 12 luglio, l’incendio poteva essere evitato. Il Vesuvio è un simbolo riconosciuto in tutto il mondo. Quella terra che dovrebbe essere protetta, trattata con rispetto e riguardo è da anni vessata, soggetta ad abusi e ora completamente distrutta.
I roghi e la banalità del male, scrive Nicola Quatrano il 15 luglio 2017 su "Il Corriere del Mezzogiorno". L’immagine del Vesuvio che brucia, il fumo che si leva alto nel cielo come fosse un’eruzione, visibile da ogni parte, da Posillipo al Vomero, da Portici a Sorrento. È un’immagine stavolta più angosciosa, ma tutt’altro che inedita. Si ripete più o meno ogni anno, porta caldo al caldo, angoscia e senso di smarrimento, rilanciata ogni anno da redazioni estive a corto di notizie, destinata a spegnersi con lo spegnersi delle fiamme. Fino all’anno successivo. Il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, vorrebbe essere rassicurante: «Faremo di tutto per prendere i colpevoli». Ma non ci dice cosa è stato dei colpevoli dell’anno scorso. E di quelli degli anni precedenti. Né chi sono in realtà questi colpevoli. A vedere i pochi che hanno beccato, quasi ci deludono: solo semplici agricoltori, intenti a bruciare le sterpaglie, o rom che danno fuoco all’immondizia. Roberto Saviano non si fa incantare da simili dettagli. Per lui ci sono solo mostri (è il suo brand) e anche i roghi sono opera della camorra che impone il pizzo sulle aree edificabili e, se non paghi, brucia tutto. Peccato che sulle falde del Vesuvio non siano tante le aree edificabili, e che distruggere del tutto l’oggetto dei propri potenziali guadagni assomiglia un po’ troppo al proverbiale marito che si mutila per fare dispetto alla moglie. Stavolta però c’è chi è stato più fantasioso: la bufala dei gatti incendiati, lanciati nei boschi per diffondere il fuoco, è già al top delle classifiche. Ma ha davvero senso questa ricerca di trame e complotti, questo immaginare piovre coi tentacoli armati di fiammiferi? La ragione di questa tragedia non potrebbe essere più semplice, più banale e, proprio per questo, ancora più drammatica? È vero, gli incendi possono essere un affare. Ci vogliono uomini e mezzi per spegnerli, e quindi appalti, assunzione di stagionali ecc. E poi bisogna pensare al rimboschimento, e quindi altri appalti, altre assunzioni di stagionali, altro denaro pubblico che entra in circolo. Negli anni scorsi c’era chi giurava che gran parte degli incendi in Calabria e in Sicilia fossero opera degli stessi forestali per scongiurare i rischi di riduzioni del personale. E poi ci sono le discariche abusive, qualcuna certamente gestita dai clan, ma tante altre frutto perverso dei costi elevati degli smaltimenti legali. C’è insomma un «clima» che favorisce gli incendi. A ciò si aggiunga il pessimo stato di manutenzione dei boschi, i decreti sbagliati, i ritardi clamorosi, gli scarsi mezzi, le operazioni assurdamente interrotte di notte, il caos provocato dall’assorbimento del Corpo forestale dello Stato da parte dei Carabinieri, e infine il caldo torrido di questi giorni, la siccità. C’è veramente bisogno di trovare altre cause? Di immaginare disegni perversi, entità spaventose e impalpabili, l’uomo nero o il babau che tessono le fila di improbabili complotti? Non si finisce in questo modo per concedere alibi e giustificare una ancora più spaventosa ragnatela di omissioni, inerzie, incompetenze, irresponsabilità, gretti interessi? È la banalità del male. Agricoltori irresponsabili se ne infischiano dei divieti e appiccano il fuoco alle sterpaglie per ripulire il campo; piccole imprese sversano illegalmente i rifiuti per evitare i costi dello smaltimento legale; turisti e cacciatori disseminano i sentieri di immondizia, proprietari di abitazioni abusive tentano di evitarne l’abbattimento. Dall’altro lato, funzionari incompetenti, politici e amministratori irresponsabili omettono di predisporre i mezzi per lo spegnimento, non provvedono alla manutenzione dei boschi, fanno errori organizzativi e scelte urbanistiche irragionevoli. E così via, in un circolo vizioso di gesti banali suscettibili di conseguenze disastrose. Non è progetto criminale, piuttosto indifferenza, somiglia a quella dei rappresentanti istituzionali locali, assenti in questi giorni perché forse impegnati a disegnare gli scenari delle prossime elezioni, a collocarsi e ricollocarsi per conservarsi un ruolo, a perseguire il proprio interesse più immediato, proprio come il contadino che brucia le sterpaglie senza curarsi delle conseguenze. È la banalità del male, come nel crollo di Torre Annunziata, tanti piccoli gesti di assassini inconsapevoli.
Della serie: come godono i barbari padani delle disgrazie del sud Italia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Il Vesuvio e la scarsa stima di Vittorio Feltri per i (pochi) lettori di Libero, scrive il 13 luglio 2017 "Il Napolista". Perdonateci, non riusciamo a prendere sul serio questa prima pagina che ci intristisce soltanto. La pernacchia eduardiana sarebbe troppo onore. Quando la redazione è a corto di idee. A Libero, quando sono a corto di notizie e di idee, inseriscono il pilota automatico che può scegliere due strade: un titolo con riferimenti sessuali, preferibilmente discriminatorio nei confronti delle donne oppure omofobo, oppure un’intemerata contro Napoli. Vai così che non ti sbagli mai. Certo anche Vittorio Feltri deve fare i conti con l’emorragia di copie. Il suo Libero ormai ne venderà qualcuna nei famosi Territori, sempre poca roba. Ieri, evidentemente, è stata una giornata fiacca per i cronisti di Libero. E allora cosa c’è di meglio per un titolo e un paio di articoli insultanti nei confronti dei napoletani per il Vesuvio che brucia? Feltri ha scritto un articolo tra l’imbarazzante e il ridicolo. Il titolo è tutto un programma: “Si bruciano da soli” e poi c’è un lungo passaggio che francamente non immaginavano potesse avere più cittadinanza su un quotidiano italiano, sia pure Libero. Ecco cosa scrive Feltri in un ampio passaggio che Lombroso avrebbe giudicato eccessivo: Non c’entra l’antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell’ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfetta- mente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perchè analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c’entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non è stato provocato da calamità naturali: i napoletani – non tutti per carità – si sono bruciati da sé. Si guardi- no allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Non riusciamo nemmeno a indignarci. Ci si può indignare, si può chiedere all’Ordine dei giornalisti della Campania di far sentire la propria voce. Ma ci si può anche imbarazzare per Feltri e soprattutto per l’idea che ha dei propri lettori. Dev’essere triste dirigere un giornale pensando di dover abbeverare persone che condividono questi pensieri. Non riusciamo a prendere sul serio Libero, non è possibile nemmeno indignarsi. Con queste poche righe abbiamo versato il nostro obolo alla celebrità quotidiana di Vittorio Feltri. Di più non siamo riusciti a fare. L’eduardiana pernacchia sarebbe francamente troppo onore.
COLPA DELLO STATO? A Napoli si bruciano da soli. Vesuvio, spuntano le foto: la prova definitiva. Vesuvio in fiamme, le foto dall'altro che dimostrano come i roghi siano studiati scientificamente, scrive il 13 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Da tre giorni ormai il Vesuvio è in fiamme, e ora al Parco nazionale sono al lavoro anche gli uomini dell'esercito che hanno già individuato un nuovo focolaio in una zona boschiva a ridosso di San Sebastiano. Sul posto sono impegnati al momento tre canadair e diversi elicotteri per provare tutti gli incendi ancora attivi. Una situazione gravissima ma non casuale. "Ci troviamo di fronte a una organizzazione criminale complessa e ben organizzata, queste due foto fatte dall'alto dai corpi speciali dimostrano come nel caso degli incendi del Parco del Vesuvio sia stato fatto un lavoro scientifico che richiede impegno e coordinamento di non poche persone", denuncia sul suo profilo Facebook Massimiliano Manfredi del Pd. Gli inneschi, spiega, "vengono messi agli estremi e nel mezzo di questo arco virtuale al centro di cui c'è il Parco del Vesuvio. Questo vuol dire che per spegnere il fuoco bisogna raggiungere i due estremi dall'esterno che stanno agli antipodi, il centro impedisce il collegamento e a sua volta deve essere aggredito da destra e sinistra. Che vuol dire? Che servono almeno il doppio, se non il triplo, di mezzi e uomini e il doppio del tempo, dando la possibilità a chi si trova dal lato opposto di continuare ad appiccare fuoco perché nel frattempo brucia la Campania e mezzo Paese e non solo il Parco. Più tempo passa e poi si può alzare vento. Qualcuno crede ancora all'autocombustione dopo queste foto?".
Può ritenersi attendibile ed intelligente un tal commentatore barbaro padano, (anche televisivo su tv nazionali ed elevato, addirittura, al rango di direttore di quotidiano) che spara certe idiozie, tutta farina del suo sacco fondata su pregiudizi e luoghi comuni razzisti?
"Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Vittorio Feltri il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano", lo schiaffo a (certi) napoletani. Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti. Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiù sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Vittorio Feltri.
Non di solo caldo e fuoco si riempiono la bocca i barbari padani.
Gaffe e bufera in rete sul Tg5. Il telegiornale Mediaset è finito nell'occhio del ciclone perché la giornalista Elena Guarnieri ha pronunciato queste parole durante la diretta del 12 novembre 2014 parlando del maltempo: «Il peggio sembra essere passato, la perturbazione adesso si è spostata al Sud». È doveroso ricordare che la perturbazione che era in "movimento" verso il Sud aveva causato enormi danni ad alcune regioni del Nord Italia. Sui siti e sui social si possono leggere numerosi commenti dei lettori. C'è chi attacca e chi difende la giornalista: «Non ho parole, umanità zero. Siamo tutti uguali nord e sud» scrive Martina. Dello stesso parere Francesca: «Se fossi in lei mi scuserei perchè siamo tutti sulla stessa barca». La pensa diversamente un altro utente: «Si ha sbagliato... si è' espressa male... di certo non mi sembra che sia un caso nazionale». Altri scrivono: “Pericolo scampato per chi? Per voi?”, o ancora “Questo è il livello delle reti Mediaset”. Molti, sul web e non solo, si domandano perché trovare confortante il fatto che sia il Sud ad essere colpito dalle prossime perturbazioni. Noi speriamo credere che la frase incriminata sia stata pronunciata inconsciamente, ma lo sdegno dei telespettatori è così forte che non riescono proprio a perdonare la terribile gaffe.
Fiorella Mannoia contro Feltri: «A Napoli non si bruciano da soli», scrive il 13 luglio 2017 “Il Mattino”. Fiorella Mannoia contro Libero e Feltri. La cantante ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una foto della città, sullo sfondo il Vesuvio avvolto dal fumo. In alto, la scritta: «Maledetti!!! Napoli non ve la meritate!». E, sotto, il commento accanto alla foto della prima pagina del giornale: «A Napoli non si bruciano da soli Idiota! Indagate per sapere il perchè hanno bruciato quell'area, quali interessi ci sono, e chiedetevi da dove proviene la spazzatura che viene interrata, fate le inchieste, che sarebbe il vostro lavoro, invece di sparare titoli infamanti per un'intera città. Lo avete scritto anche per la Liguria quando qualche anno fa un incendio, l'ennesimo doloso, ha distrutto ettari e ettari di vegetazione? Lo avete scritto per tutti i roghi d'Italia? No, lo scrivete per Napoli. Questo sindaco vi da proprio fastidio vero? Io penso che un po' di vergogna non vi starebbe male».
Incendi in Italia, molte regioni a rischio. A Capalbio allarme per "Ultima spiaggia". Il fuoco sta devastando tre regioni del centro sud: Toscana, Lazio e Campania. I boschi in fiamme diventano un caso politico: Arturo Scotto (Mdp) ha chiesto che il ministro dell'Ambiente Galletti riferisca in Parlamento. Paradosso a Scilla: da pericolo fuoco a emergenza bomba d'acqua, scrive Alberto Custodero il 16 luglio 2017 su "La Repubblica". Ancora fiamme sull'Italia. Evacuato lo stabilimento balneare "Ultima spiaggia", il più famoso di Capalbio (Grosseto), il club marino della cosiddetta sinistra radical chic. Il sindaco di Capalbio, Luigi Bellumori, ha poi precisato che l'ordine di evacuazione "è rientrato". Colpita la zona del centro sud Toscana, Lazio e Campania. Per facilitare le operazioni di riempimento dei serbatoi dei Canadair impegnati in Toscana, è stato chiuso alla balneazione il lago di Bilancino. A Capalbio per precauzione sono stati evacuati due campeggi. Il forte vento ha riacceso il fuoco a Piancastagnaio (Siena), mentre le fiamme stanno bruciando un bosco all'Isola d'Elba. In fiamme anche i boschi nel Napoletano, da Torre del Greco all'area vesuviana: sono entrati in azione tre Canadair. Dopo giorni di incendi, su gran parte della Calabria è arrivata la pioggia. Molto intensa nel reggino, con una bomba d'acqua su Scilla che ha allagato le strade del paese, e più lieve nelle altre parti della Calabria. L'Italia che brucia diventa un caso politico: il deputato Mdp Arturo Scotto ha chiesto che il ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti "riferisca in Parlamento facendo il punto sulla strategia nazionale per tutelare il patrimonio naturale boschivo".
Nord di Roma. Un vasto incendio di sterpaglie è divampato ad Anguillara, comune a nord di Roma, a ridosso di una comunità per disabili. La struttura è stata evacuata. Due disabili sono stati trasportati all'ospedale di Bracciano intossicati dal fumo. Un vasto incendio boschivo si è sviluppato nella zona del Lago di Martignano, sempre a nord di Roma. In azione cinque squadre con 20 volontari, due elicotteri, ed è stato richiesto l'intervento di un Canadair.
Paestum. Un incendio di vaste proporzioni sta divampando nella zona di Paestum. Evacuati per motivi precauzionali un caseificio e alcune abitazioni. Del rogo scrive su Facebook il direttore dell'area archeologica di Paestum, Gabriel Zuchtriegel: "I vigili del fuoco stanno intervenendo. Sentito il sindaco che ha attivato la protezione civile. I templi per ora fuori pericolo ma grande preoccupazione per il borgo di Santa Venera a sud. Molto vento che peggiora la situazione".
Fauglia (Pisa). Un incendio di un'area boschiva (domato nei giorni scorsi) si è riattivato nei pressi di Fauglia (Pisa). Le fiamme si stanno estendendo verso la sede dell'istituto Stella Maris che assiste minori con disturbi neuropsichici. Il centro è stato evacuato per precauzione. Sul posto vigili del fuoco e protezione civile.
Civitavecchia. Un incendio, alimentato da un forte grecale, ha bruciato la campagna alla periferia di Civitavecchia lambendo alcune case: gli abitanti hanno tentato di spegnere il fuoco che si avvicinava pericolosamente usando i tubi da giardino come manichette antincendio. Il fumo ha invaso l'autostrada nei pressi di Civitavecchia su un fronte di un chilometro.
Capalbio. Un incendio nel territorio del comune di Capalbio (Grosseto), nella zona del Padule del Chiarone, al confine tra Toscana e Lazio, ha comportato a scopo precauzionale l'evacuazione del campeggio Costa Selvaggia in località Pescia Romana (Viterbo). E lo sgombero del camping 'Capalbio'. Interrotte per alcune ora la statale Aurelia e, a Viterbo, 11 chilometri della statale 'Umbro Laziale' per fumo in carreggiata. Il sindaco di Capalbio, Bellumori, ha spiegato che il "forte vento" ha spinto velocemente le fiamme lungo il canale del Chiarone e che poi, "saltata" la ferrovia, hanno attaccato la pineta. Al lavoro sono impegnate le squadre di Grosseto, Livorno e Viterbo, supportate da un elicottero dei vigili del fuoco decollato dal nucleo di Ciampino. E da personale volontario Aib (antincendio boschivi). "A creare problemi è stato il fumo - ha spiegato ancora il primo cittadino - in tanti hanno preferito lasciare la spiaggia creando problemi al traffico: per questo sono intervenuti polizia municipale e carabinieri". Sono impegnati due elicotteri nelle operazioni di spegnimento di un incendio partito lungo il canale del Chiarone, e di un secondo lungo l'Aurelia". Sempre a Capalbio è stata bloccata la linea ferroviaria Tirrenica per alcune ore. La circolazione dei convogli è ripresa regolarmente verso le 17,30. Fs ha spiegato che il transito dei treni era stato fermato alle 12.10 e poi alle 13.50 era stato dato il via libera alla ripresa della circolazione su un binario, ma è stato poi nuovamente interrotto. A supporto del lavoro dei vigili del fuoco, la Regione Lazio ha messo in campo 5 squadre della Protezione civile, circa venti volontari. Da qualche minuto si è anche alzato in volo un elicottero regionale. Al momento non risultano abitazioni evacuate. Due i mezzi aerei in azione.
Piancastagnaio (Siena). Il forte vento sta causando la ripresa di alcuni focolai dell'incendio che è scoppiato ieri a Piancastagnaio (Siena). La Sala operativa della protezione civile ha già inviato un elicottero della flotta regionale e, a seconda degli sviluppi, si sta valutando la possibilità di mandarne altri due e di chiedere un mezzo alla protezione civile nazionale. A terra stanno operando squadre di volontari antincendi, di operai forestali e di vigili del fuoco.
Montale (Pistoia). Un vasto incendio è divampato nel primo pomeriggio di oggi nei boschi sopra Montale (Pistoia), in località Fognano. Sul posto sono intervenute squadre dei vigili del fuoco di Pistoia e un elicottero che ha cercato di spegnere il rogo dall'alto. Le operazioni di spegnimento sono particolarmente difficili anche per il vento che alimenta le fiamme, che stanno raggiungendo un agriturismo. Il fumo dell'incendio è visibile anche dalla vicina autostrada A11, dall'aeroporto di Firenze e dalle colline intorno al capoluogo.
Isola d'Elba. Un altro incendio è scoppiato questa mattina all'Isola d'Elba, a Marina di Campo, interessando una zona a macchia mista, con pineta. Sul posto sono stati inviati due elicotteri della flotta regionale.
Torre del Greco. Dalle prime ore del giorno si è registrata la ripresa di un focolaio a Torre del Greco in zona Montedoro, traversa Garzilli. Le operazioni sono rese più complesse dalla presenza di venti settentrionali forti che, a tratti, hanno impedito agli elicotteri di alzarsi in volo. Sono entrati in azione sul posto tre Canadair nazionali insieme a squadre da terra. Altri fronti si registrano a Sant'Anastasia, Barano d'Ischia, Conca dei Marini e a Napoli in zona Astroni dove, al momento, si sta intervenendo con due aerei. Le condizioni atmosferiche sia in Costiera che in provincia di Napoli rendono difficile l'intervento con gli elicotteri.
Napoli. "Brucia ancora il cuore selvaggio di Napoli. L'incendio nella riserva naturale dello stato nel cratere degli astroni, oasi wwf, che sembrava domato, stamattina ha riacquistato vigore". Dalla mattina, spiega una nota del wwf, "gli elicotteri hanno ripreso ad operare incontrando, però, notevoli difficoltà a causa del forte vento". Per queste ragioni è stato richiesto l'intervento di un Canadair, inviato da Lamezia Terme. Sulle fiamme è stato inviato anche un elicottero più potente, meno sensibile al vento. Il Canadair prima di intervenire sulla riserva ha effettuato lanci fuori dal cratere perchè le fiamme, propagatesi anche esternamente all'area dell'oasi, mettevano in pericolo alcune abitazioni vicine alla riserva.
Tremiti. Tornano a divampare le fiamme nel bosco di San Domino sulle Isole Tremiti (Foggia) a causa del vento forte: alcuni focolai spenti l'altro ieri hanno ripreso a bruciare. Sul posto, dopo le segnalazioni degli isolani, sono intervenute squadre di Vigili del Fuoco di cui una partita da Termoli. Un Canadair sta effettuando più lanci per cercare di arginare il fuoco.
Scilla. L'Unità di crisi istituita dal prefetto Michele Di Bari lo scorso 9 luglio per fronteggiare l'emergenza incendi, oggi ha coordinato anche le attività di soccorso per l'allarme nubifragi. Una frana e diversi allagamenti, soprattutto nella zona tirrenica, sono stati causati dal violento nubifragio che si è abbattuto stamani sulla provincia di Reggio Calabria. A Scilla per qualche ora è stato chiuso il tratto sulla statale 'Tirrena Inferiore' tra Scilla e Bagnara Calabra a causa di una frana, successivamente l'Anas ha riaperto a senso unico alternato il primo tratto a Bagnara, mentre resta chiuso a Villa San Giovanni un tratto di 3 chilometri.
Ministro Ambiente: "Situazione complessa, ma rispondiamo all'emergenza con le misure necessarie". Una situazione la cui complessità non si verificava da anni, aggravata, oltre che dalla mano dei piromani, da una siccità troppo prolungata. Ma, "di fronte all'emergenza incendi la protezione civile, l'esercito, i vigili del fuoco e i carabinieri forestali, assieme alle istituzioni locali competenti, stanno facendo un grande lavoro", ha detto il ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti. "Per quanto riguarda le aree dei Parchi nazionali, di diretta competenza del ministero dell'Ambiente, i mezzi sono in campo, abbiamo attivato avanzati sistemi di monitoraggio come il satellitare Copernicus e nelle scorse settimane ho emanato una direttiva che velocizza l'iter degli interventi, dal cosiddetto "primo fuoco" allo spegnimento", ha spiegato il ministro, che ha ribadito che "la situazione è complicata e oggi stiamo dando le risposte possibili e necessarie all'emergenza, anche con un impianto normativo rafforzato dagli ecoreati nel codice penale, che possono portare a oltre 20 anni di carcere per i piromani".
Incendi, non solo elicotteri fermi: con “l’estinzione” della Forestale non c’è più neanche la prevenzione dei boschi. Tra gli effetti della riforma Madia che ha voluto l'accorpamento con carabinieri e vigili del fuoco non ci sono solo i velivoli antincendio bloccati a terra. Ma anche figure professionali dequalificate, presidio del territorio smantellato, pasticci burocratici e Regioni depotenziate. I sindacati: "Rivoluzione? Piuttosto una soppressione affrettata", scrive Valerio Valentini il 14 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Direttori operativi dequalificati, presidio sul territorio smantellato, complicazioni burocratiche interminabili e Regioni depotenziate. Mentre l’Italia brucia, tutte le storture e i ritardi della riforma Madia vengono a galla: non riguardano soltanto gli elicotteri dell’antincendio boschivo costretti a restare a terra, che già è paradossale. A distanza di 7 mesi dalla sua entrata in vigore, la “rivoluzione” voluta dalla ministra della Pubblica amministrazione si rivela un sostanziale flop. Causato, soprattutto, dalla soppressione del Corpo Forestale dello Stato. “Una soppressione affrettata, fatta in nome della semplificazione, che non ha tenuto conto delle prevedibili complicazioni che si sarebbero verificate. E che puntualmente sono emerse in tutta la loro evidenza proprio nel momento della verità” commenta Gabriele Pettorelli, coordinatore nazionale dei Forestali per il Conapo, il sindacato autonomo dei vigili del fuoco. Il pasticcio della riforma arriva nell’annus horribilis dell’ultimo decennio per le emergenze incendio. Dal primo gennaio ad oggi sono state 764 le richieste di soccorso aereo: nel 2007 erano state 722 nello stesso periodo nel 2007, nel 2012 458. Non è un caso, secondo Pettorelli: “Sopprimendo la Forestale si è notevolmente indebolita quell’opera di presidio sul territorio e di prevenzione che era propria dei nostri uomini”. Erano 8mila, fino al 31 dicembre 2016: poi sono stati distribuiti tra i vigili del fuoco (360 appena) e la Pubblica amministrazione (circa 1240). Ma è ai carabinieri che sono stati destinati in modo massiccio: ben 6400. Ed è stato un passaggio che ha lasciato conseguenze pesanti. Soprattutto per quanto riguarda il ruolo dei cosiddetti Dos, ovvero i direttori operativi degli spegnimenti: sono coloro che sono in grado di coordinare i lavori in caso di emergenza. La Forestale era particolarmente preparata in questo compito e le ex guardie trasferite tra i pompieri speravano di vedersi riassegnare automaticamente quell’incarico (i carabinieri non operano nell’antincendio). Così non è stato. E così da un lato i vigili del fuoco sono stati costretti a una corsa contro il tempo per formare il proprio personale in questa difficile mansione, dall’altro molti ex forestali specializzati si sono ritrovati relegati in ruoli di minore responsabilità o parcheggiati senza mansioni, nell’attesa di decreti attuativi previsti nella riforma. E nell’attesa, chissà, della prossima emergenza. Poi c’è la storia dei mezzi aerei di soccorso. “Qui il cortocircuito nasce dalle difficoltà legate al passaggio di proprietà dei mezzi della Forestale” racconta il coordinatore del Conapo. Fino all’anno scorso, la Forestale poteva mettere a disposizione dello Stato una flotta di 32 elicotteri, di cui ben 30 in grado di intervenire per spegnere gli incendi. Al primo gennaio 2017 sono transitati tutti sotto la proprietà dei carabinieri. Che ne hanno trattenuti per sé la 13, convertendoli però ad altre finalità. Cinque dei 18 Ab412, velivoli di dimensione media capaci di trasportare fino a 1000 litri d’acqua, e tutti gli 8 nh500, piccoli ma maneggevoli, utilissimi in situazioni critiche. Tredici elicotteri che fino all’anno scorso operavano in casi d’incendio, e quest’anno no. Ma non è finita qui. Perché dei 17 mezzi aerei assegnati ai vigili del fuoco per effettuare operazioni di spegnimento, in questi giorni ne vengono impiegati appena 7. Si tratta dei 4 S-64, enormi “gru volanti” in grado di sganciare fino a 9mila litri per volta, e di 3 Ab412. Solo 3, a fronte dei 13 modelli finiti nella disponibilità dei pompieri. Com’è possibile? Secondo Pettorelli, il motivo è semplice. “La riforma Madia ha provocato tutta una serie di complicanze burocratiche e ora, nel momento della verità, i nodi arrivano al pettine”. Da un lato i problemi legati ai protocolli di volo. “Quelli dei forestali erano diversi da quelli adottati dai vigili del fuoco: per cui molti piloti hanno dovuto rivedere le procedure e questo ha prodotto ritardi”. Poi c’è il problema della manutenzione. “Sembra assurdo – prosegue Pettorelli – ma si è arrivati a luglio, cioè al mese più critico dell’anno, con vari elicotteri non autorizzati a volare”. La prima parte del 2017 ha visto una corsa contro il tempo per riassegnare ruoli e competenze un tempo svolti dai Forestali: così anche la manutenzione è stata ritardata. Risultato? Elicotteri parcheggiati negli hangar, in attesa di un certificato, mentre i boschi sono in fiamme. Quelli che fino al 2016 appartenevano alla Forestale non sono gli unici velivoli di cui dispone lo Stato. La flotta italiana conta anche su 16 Canadair, dislocati su 14 diverse basi sul territorio nazionale, più altri mezzi – privati, talvolta, o messi a disposizione dalle Capitanerie di porto – cui ci si affida attraverso delle convenzioni ad hoc. Ma è evidente che i problemi connessi alla riforma Madia si fanno sentire. Soprattutto per le Regioni, cui compete la gestione dell’antincendio boschivo, per il quale sono obbligate a mettere a punto ogni anno un piano specifico. Alcune – come il Veneto e la Toscana – hanno deciso, nel tempo, di organizzarsi in maniera sempre più autonoma, facendo affidamento sui propri dipendenti o sui volontari della Protezione Civile. La maggior parte, però, continua a scegliere la soluzione più canonica delle convenzioni. Che, fino all’anno scorso, venivano stipulate sempre con la Forestale e i vigili del fuoco. Ora che il primo di questi corpi è stato soppresso e il secondo è costretto a fare i salti mortali per coprire tutti gli interventi, la situazione è molto più complicata. Soprattutto perché a non essere operativi sono appunto i mezzi aerei. Un esempio su tutti riguarda la regione più martoriata dalle fiamme in questi giorni. La Sicilia, fino a tutto il 2016, ha potuto contare su 4 Ab412: li utilizzava praticamente come propri, ma di fatto appartenevano alla Forestale. Non è più così, da quest’anno. E i risultati sono nelle pagine della cronaca.
Elicotteri fermi, ex Forestali senza formazione e caos burocratico: "Nella lotta agli incendi la macchina dello Stato si è inceppata". Cgil Vigili del Fuoco: "Dopo la legge Madia il caos". Bonelli: "Solo 4 elicotteri ex CFS in uso su 32", scrive il 13/07/2017 Claudio Paudice, Giornalista, su L'Huffington Post". Elicotteri a terra senza manutenzione, personale bloccato dalla burocrazia, convenzioni regionali che mancano. È in queste condizioni che la macchina dello Stato si è presentata all'appuntamento con l'emergenza incendi. Il Sud Italia brucia ormai da giorni. Sicilia e Vesuvio, Gargano e Salento, Calabria e Sardegna sono le aree più colpite: da ore i vigili del Fuoco stanno lavorando senza sosta per spegnere le fiamme. A Napoli il comitato per la Sicurezza ha disposto l'invio dell'esercito per presidiare il Parco Nazionale del vulcano e contrastare la mano criminale che si nasconde dietro i roghi. Perché sulla natura dolosa della gran parte degli incendi non ci sono dubbi. "Quello che è mancato in questa emergenza è stato il controllo del territorio. Quel controllo capillare che aveva il Corpo Forestale dello Stato è venuto meno", dice all'HuffPost Mauro Giulianella, coordinatore nazionale Cgil Vigili del Fuoco. "Ora i risultati della legge Madia che ha disposto l'accorpamento della Forestale sono sotto gli occhi di tutti". È la legge, entrata in vigore il 1° gennaio scorso, che ha disposto l'accorpamento del CFS con Carabinieri e Vigili del Fuoco a finire sotto accusa di sindacati e ambientalisti. "L'iter burocratico necessario al passaggio di uomini e mezzi della Forestale agli altri corpi si è bloccato. Abbiamo elicotteri fermi perché non è stata fatta manutenzione. Quanti sono? Non lo sappiamo perché nonostante le richieste che abbiamo fatto, l'amministrazione non ci voluto fornire i numeri". Secondo la Protezione Civile la flotta statale è così composta: 16 Canadair e 20 elicotteri, ai quali vanno aggiunti altri 34 in dotazione alle Regioni. È infatti in capo alle Regioni la competenza dello spegnimento, a cui lo Stato centrale fornisce supporto. Tuttavia non ci sono informazioni certe sul loro numero dei mezzi effettivamente dispiegato in questi giorni di emergenza. "Abbiamo chiesto informazioni ma non ci sono state date", dice Giulianella. Tra questi, ci sono i 32 elicotteri che erano in dotazione al Corpo Forestale. Secondo il leader dei Verdi Angelo Bonelli (che su questo ha presentato un esposto alla Corte dei Conti e alla procura di Roma), per effetto della legge Madia che ne ha decretato lo scioglimento "16 sono andati ai Carabinieri e 16 ai Vigili del Fuoco. Ma quelli che sono andati ai Carabinieri non possono essere utilizzati perché devono rispondere a criteri diversi rispetto al precedente corpo d'appartenenza. E poi chi deve guidare quegli elicotteri deve fare degli aggiornamenti per assolvere ai criteri di volo previsti. Solo quattro, ma un quinto sta per essere attivato, sono in utilizzo", denuncia Bonelli. Un problema che riguarda anche il personale ex CFS. "Degli ottomila Forestali, 6400 sono andati a Carabinieri ma non svolgono attività di spegnimento perché la legge non lo prevede. Circa 1200 sono stati collocati in diverse strutture della Pubblica amministrazione, e solo 360 sono stati trasferiti ai Vigili del Fuoco". Non solo: secondo Bonelli "prima il CFS assolveva alla funzione di Dos (direttori operazioni spegnimento) mentre ora le attività di spegnimento sono in capo solo ai Vigili del fuoco che sono sotto organico di tremila unità. C'è una grande confusione, e la cosa allucinante è questo buco nero che si è aperto a causa della riforma Madia, pensata solo in ottica di spending review senza una stima previsionale degli effetti che avrebbe potuto causare sul territorio". Parole che trovano conferme nella denuncia di Giulianella: "Il personale ex Forestale non è impiegato a pieno regime in tutto il territorio perché non tutte le unità sono state sottoposte alla formazione necessaria prevista dalla legge. A Rieti, per esempio, uno dei Comandi con il numero più alto di Forestali, il personale ha enormi difficoltà a essere operativo: per la questione dei mezzi, per gli hangar contesi con l'Arma dei Carabinieri, per la manutenzione". Anche i mezzi di terra per lo spegnimento sono in condizione precarie: "Guardi, quando è scoppiata l'emergenza incendi sono stati inviati 16 convogli dal Nord al Sud Italia. Ma molti sono vetusti, di vecchissima generazione. E sa quanto ci hanno impiegato per raggiungere le aree colpite? Venti ore", scandisce Giulianella. I problemi però sono innumerevoli. Come le Convenzioni regionali che non tutte le regioni hanno predisposto. Una su tutte la Sicilia - la più colpita dai roghi - già al centro di un duro botta e risposta tra il capo della Protezione civile Curcio e il Governatore Rosario Crocetta a inizio luglio. Il problema principale discende dalla 'Direzione delle operazioni di spegnimento', il Dos, che veniva garantita in convenzione con le Regioni dal personale specializzato del Corpo Forestale. "Oggi non tutte quelle convenzioni, che devono essere stipulate con il Corpo dei Vigili del Fuoco, sono state ancora firmate. E del personale Dos confluito nei Carabinieri, l'Arma non sa cosa farsene".
Sicilia brucia, costo canadair: 15mila euro l’ora. Ecco chi ci guadagna, scrive Patrizia Vita il 12 luglio 2017 su “L’Eco del Sud". C’è una chiave di lettura diversa da quella sin qui sposata dall’opinione pubblica, riguardo i roghi che ogni estate, ma mai come questa, hanno devastato migliaia di ettari di terreno in Sicilia. Una pubblica opinione suffragata dalla politica, regionale e dei vari Comuni: “C’è la mano dell’uomo dietro gli incendi. La mano di pecorai, mafiosi, forestali con ansia da contratto”. Così, dall’alto delle loro poltrone, loro, i politici, si mondano da ogni responsabilità. E nel pensiero comune, dunque, dagli all’untore. Eppure, arriva su un blog, quello dei forestali ‘incriminati’ a furor di popolo, l’altra chiave di lettura, quella che mette a posto, come in un mosaico che non trova perfezione, il tassello giusto al posto giusto: c’è tanto business dietro i roghi. Partiamo dai costi dei canadair e degli elicotteri: 15mila euro l’ora i primi, 5000 l’ora i secondi. “La Regione Siciliana spende mediamente una decina di milioni per gli elicotteri e circa tre milioni per i Canadair – si legge nel blog – e la Protezione Civile intasca circa 13 milioni di euro l’anno, puliti-puliti. Chi ha interesse a che questo business vada avanti?” –Chiedono i forestali -. Ed ancora: “cominciano a sorgere gruppi privati di flotte aeree antincendio – spinte dal numero sempre crescente di incendi. Altro che “mafie pecoraie” e “forestali piromani”, che recitano solo da utili comparse in questa tragicommedia coloniale della “Terra bruciata”. Senza tralasciare la ‘denuncia’ più importante, vale a dire che la Sicilia ha ‘regalato’ foreste ennesi dell’AFOR a una multinazionale tedesca che le trasforma, bruciandole, in biomasse (corrente elettrica ‘pulita e rinnovabile’). La regione paga il triplo nella bolletta coloniale più cara d’Europa. Un fiume di milioni sufficiente a comprarci una intera flotta di canadair antincendio. Anche l’alibi della mafia pecoraia e vaccara, che brucia boschi per farne pascolo, viene sapientemente, intelligentemente, smontato: “Pascoli per farne che? – si obietta – Visto che la Sicilia importa dalla Padania e l’UE – in valore – il 95% di carni & derivati. E anche nel ciclo agroindustriale dei latticini non gode di buona salute.” A tirare di somma, dunque, abbiamo capri espiatori che rispediscono al mittente le accuse; una politica sciatta e inadempiente che preferisce pagare milioni di euro invece di spendere, magari la stessa cifra una sola volta e non annualmente, per dotarsi di squadre antincendio, dotate di mezzi e strumenti propri. Una politica non in grado di affrontare le emergenze e che risolve sempre tutto con la dichiarazione di stato di calamità. Ma i piromani esistono? Ovvio che sì, ma nessuno pensi che siano geni del male, strategici pianificatori, inarrestabili nella loro follia criminosa. E soprattutto non ci si voglia far credere che a fronte di una spesa da 13 milioni di euro l’anno destinata alla protezione Civile, a fronte di danni ad aziende, agricoltura, paesaggi, ci si possa lasciare spaventare da un pastore di pecore o vacche.
Chi ha interesse a incendiare la Sicilia? Il dopo-fuoco e il grande business di elicotteri e Canadair, scrive il 12 luglio 2017 "I Nuovi Vespri". Da sempre sul banco degli imputati come possibili piromani, si scopre che operai della Forestale e pastori non hanno nulla da guadagnare dal fuoco. Ad avere possibili interessi con la Sicilia in fiamme potrebbero essere altri soggetti. Gli interventi per la ricostituzione delle aree verdi. E il grande giro di affari su elicotteri e Canadair. Mentre la Sicilia continua a bruciare (dopo Messina, dove i danni sono ingentissimi, è la volta della provincia di Trapani: il fuoco ha fatto la propria apparizione nel villaggio turistico di Calampiso, con la gente che è fuggita via mare, fiamme a San Vito Lo Capo e una nuova minaccia per la Riserva Naturale dello Zingaro, negli anni passati già incenerita da un incendio), forse perché sulla vicenda sta intervenendo la magistratura, si comincia a cercare di capire chi ci guadagnerà con il fuoco che si sta mangiando buona parte del verde della Sicilia. Interessi legati agli elicotteri? O ai Canadair? O c’è ancora dell’altro? Sulla rete i soliti noti – quelli sempre pronti ad attaccare “gli oltre 20 mila operai della Forestale della Sicilia che non fanno niente” – sono in netta diminuzione. Ed è anche logico: ci sono fatti oggettivi che sono sotto gli occhi di tutti:
come ignorare il fatto che gli operai della Forestale, quest’anno, sono stati inviati al lavoro dopo il 15 giugno?
come ignorare il fatto che le opere di prevenzione degli incendi non sono state effettuate?
come si fa a ignorare le erbe secche e le sterpaglie abbandonate in tutte le aree verdi dell’Isola?
Insomma, le accuse gratuite contro gli operai della Forestale non convincono più. In questa storia degli incendi che, ormai da quasi una settimana, stanno mandando in fumo anni e anni di lavoro (un bosco non si sviluppa in un paio di anni), contribuendo a desertificare la Sicilia, giocano tanti fattori. Il primo elemento che salta agli occhi è la capillarità degli incendi di questi giorni: un mozzicone di sigaretta gettato in un bosco con un sottobosco pieno di erbe secche e sterpaglie, complice il vento, può causare il finimondo. Ma da quasi una settimana il fuoco è in tutte le aree verdi dell’Isola. Il caso c’entra poco. Si tratta, con molta probabilità, di incendi dolosi, dietro ai quali c’è una strategia. Sulla pagina facebook del Si.F.U.S. (Sindacato Forestali Uniti per la Stabilizzazione) ci sono tanti post che affrontano il tema da tante sfaccettature. Abbiamo già parlato delle possibili speculazioni sulle opere successive agli incendi. Ma c’è un altro filone: i mezzi di soccorso. E poiché gli incendi sono stati tanti e sono ancora tanti – e quasi tutti con ampio raggio di fuoco – sono intervenuti e continuano ad intervenire elicotteri e Canadair. Sempre nella pagina facebook è interessante un articolo pubblicato da l’ecodelsud.it quotidiano indipendente di informazione della Sicilia e della Calabria. In questo articolo – che riprende alcune considerazioni degli operai della Forestale – si parla proprio di elicotteri e Canadair. “La Regione siciliana – si legge nell’articolo – spende mediamente una decina di milioni per gli elicotteri e circa tre milioni per i Canadair e la Protezione Civile intasca circa 13 milioni di euro l’anno, puliti-puliti. Chi ha interesse a che questo business vada avanti?” chiedono i forestali. In realtà, proprio oggi abbiamo cercato – senza riuscirci – di saperne di più dei Canadair. E’ noto che un’ora di volo di questo aereo anfibio costa circa 14 mila euro. Noi pensavamo che il costo dei Canadair fosse a carico della Protezione civile nazionale. Ci siamo sbagliati. E’ la Regione siciliana che paga il servizio dei Canadair. E poiché, da oltre una settimana, in Sicilia questi aerei anfibi svolgono un servizio quasi h 24, non possiamo non porre una domanda: si risparmia sugli operai della Forestale, sulla vigilanza degli stessi operai nelle aree verdi della Sicilia e poi spendiamo un sacco di soldi per i Canadair? E quanto stanno costando, quest’anno, i Canadair? E infatti l’articolo pubblicato da l’ecodelsud.it arriva alle nostre stesse conclusioni: “A tirare di somma, dunque, abbiamo capri espiatori che rispediscono al mittente le accuse; una politica sciatta e inadempiente che preferisce pagare milioni di euro invece di spendere, magari la stessa cifra una sola volta e non annualmente, per dotarsi di squadre antincendio, dotate di mezzi e strumenti propri. Una politica non in grado di affrontare le emergenze e che risolve sempre tutto con la dichiarazione di stato di calamità”. E poi? “Cominciano a sorgere gruppi privati di flotte aeree antincendio – leggiamo sempre nell’articolo – spinte dal numero sempre crescente di incendi. Altro che mafie pecoraie e forestali piromani, che recitano solo da utili comparse in questa tragicommedia coloniale della Terra bruciata”. E ancora: “Anche l’alibi della mafia pecoraia e vaccara, che brucia boschi per farne pascolo, viene sapientemente, intelligentemente, smontato: Pascoli per farne che? – si obietta – Visto che la Sicilia importa dalla Padania e l’UE – in valore – il 95% di carni & derivati. E anche nel ciclo agroindustriale dei latticini non gode di buona salute”. Ultima considerazione: in forza di una campagna di stampa discutibile è stata fatta passare la già citata tesi che “gli oltre 20 mila operai della Forestale siciliana non fanno nulla e si sprecano un sacco di soldi”. Peccato che gli operai della Forestale la Regione siciliana li paga con i soldi dei Siciliani, cioè con le proprie entrate. Ma grazie alla campagna di stampa non certo casuale lo Stato ha tagliato alla Regione anche una parte dei fondi per le attività di tutela delle aree verdi. La Regione amministrata dal centrosinistra – protagonisti l’assessore-commissario all’Economia, Alessandro Baccei, l’assessore all’Agricoltura, Antonello Cracolici, e l’assessore al Territorio e Ambiente, Maurizio Croce – ha risparmiato sulle attività di prevenzione degli incendi: ma i risparmi stanno in buona parte servendo per elicotteri e Canadair. Servono – gli elicotteri e i Canadair – per spegnere gli incendi, non certo per prevenirli: così, al danno ambientale gravissimo, si somma la beffa di pagare anche elicotteri e aerei anfibi. Per avere, alla fine, terre bruciate. Peggio di così – almeno per ciò che riguarda i boschi – una Regione non può essere amministrata.
…E poi scopri che i Canadair e gli elicotteri antincendio sono gestiti da privati! …E Ti rendi conto che gli incendi fanno girare tanti, ma proprio tanti soldi…! Incendi/ Sorpresa: i Canadair e gli elicotteri antincendio sono gestiti da privati!
Lo scrive sulla propria pagina facebook Gherardo Chirici, professore associato di Inventari forestali e telerilevamento presso Università degli Studi di Firenze. Contratti sempre alle stesse ditte. Chiede il docente: “E se non ci fossero più incendi queste ditte che vendono i loro servizi di antincendio otterrebbero ancora i loro appalti milionari?”
Sorpresa: i Canadair che in questi giorni sorvolano il Sud Italia, e in particolare la Sicilia, al costo di 14 mila euro l’ora, per spegnere gli incendi sono gestiti da privati. La stessa cosa riguarda gli elicotteri per il salvataggio e la lotta agli incendi. Lo scrive sulla propria pagina facebook Gherardo Chirici, professore associato di inventari forestali e telerilevamento presso Università degli Studi di Firenze. Post riportato sulla pagina facebook del SI.F.U.S., il Sindacato Forestali Uniti per la Stabilizzazione. “Tutti forse lo sanno già… – scrive il docente universitario – ma vorrei ricordare che la nostra famosa flotta di 19 Canadair così come la maggior parte della flotta di elicotteri per il salvataggio e la lotta agli incendi è privata. Ogni anno i Vigili del Fuoco, la Protezione Civile e gli altri enti danno in appalto questi servizi di soccorso dal cielo. I contratti se li aggiudicano sempre le stesse ditte”. Possibile? A quanto pare sì: Tant’è – scrive sempre il professore Gherado Chirici – che dopo aver osservato un campione di 18 gare d’appalto, è intervenuta l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Amaro il commento del docente universitario: “E se non ci fossero più incendi queste ditte che vendono i loro servizi di antincendio otterrebbero ancora i loro appalti milionari? Quando vedete un bel Canadair che sgancia la sua bomba d’acqua di 6000 litri pensateci…”.
Elicotteri e Canadair, il soccorso dal cielo nelle mani dei privati. Sono sette aziende sulle quali indaga l'Antitrust, scrive Corrado Zunino il 19 luglio 2017 su "La Repubblica". La flotta aerea — Canadair ed elicotteri — che ancora ieri lanciava acqua e ritardante sugli incendi del Vesuvio, della Maremma grossetana, sopra Castelfusano pineta di Roma, in venti municipi del Cosentino, su un parco pubblico di Catanzaro e tra Genova e Arenzano (ventisette i roghi più gravi), è gestita dai vigili del fuoco e dalle Regioni. Ma è nelle mani — e nei profitti — di sette aziende private. Sei italiane, la settima è una multinazionale britannica con capitale spagnolo. Dallo scorso marzo i sette gruppi sono sotto inchiesta da parte dell’Antitrust e oggi l’Autorità garante del mercato deciderà come portare avanti un procedimento che ha già fatto emergere anomalie plateali e «alterazioni dei costi pubblici» (aumenti, quindi). Con la crisi della Protezione civile post Bertolaso (a partire dal 2012) e la legge Madia vigente da gennaio 2017 (il Corpo forestale diluito nell’Arma dei carabinieri), molte cose sono cambiate nell’affrontare gli incendi in Italia. Sui roghi boschivi ora i vigili del fuoco hanno operatività totale, a terra e in cielo. La flotta aerea dello Stato, una delle più grandi al mondo, è costituita da 19 Canadair di proprietà della Repubblica italiana (sedici sono attivi) e messi a disposizione dei vigili più dodici elicotteri. I 31 mezzi sono dislocati su quattordici basi, da Comiso a Genova. Solo il costo dell’utilizzo dei Canadair pesa 55 milioni l’anno, a cui vanno aggiunte le ore di volo. Quest’anno nel periodo 15 giugno-13 luglio i Canadair hanno fatto interventi per 2.146 ore (+378% rispetto al 2016) costando fin qui quattro milioni e mezzo di euro. Ecco, gli uffici dell’Antitrust, sollecitati nel maggio 2016 da un pilota e dirigente di un’azienda piemontese estromessa dal business, hanno verificato che almeno dal Duemila i sette gruppi si sono mossi in modo da far vincere l’azienda scelta all’interno del loro cartello prendendo la gara con ribassi risibili (massimo l’un per cento). Una «spartizione collusiva» su tutto il territorio «con ipotesi di turbativa d’asta». Le gare d’appalto indicate dalla fonte sono 32 (16 per l’emergenza incendi, 16 per il soccorso aereo), l’istruttoria dell’Autorità per ora ne ha riscontrate diciotto in dieci regioni, tutte allestite tra il 2009 e il 2016. E ha trovato conferme alla denuncia. Tra questi bandi c’è il contrattone nazionale della Protezione civile del 2011 — l’utilizzo dei 19 Canadair — vinto dalla Babcock Italia (ex Inaer), corporation, quotata al London Stock Exchange che per ogni aereo offre due piloti suoi. Quindi, diciassette appalti regionali per elicotteri di pronto intervento. Questi li hanno vinti sei società italiane, tutte del Nord, per gare allestite dalle Regioni Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Veneto, Friuli, Toscana, Lazio, Sardegna, Campania e Sicilia. Il Lazio, nel 2016, ha assegnato l’appalto alla Heliwest di Isola d’Asti: 10 milioni, 10 elicotteri a disposizione. La Finanza ha sequestrato i documenti. In Valle d’Aosta l’unico offerente nel 2009 e nel 2014 è stato Airgreen di Robassomero (Torino). In Friuli nel 2015 unico partecipante (e vincitore) dopo un’asta andata deserta è stata Elifriulia di Ronchi dei Legionari. L’Antitrust ipotizza che le sette sorelle del soccorso dal cielo (ci sono anche Eliossola di Domodossola, Elitellina di Sondrio e Star Work Sky di Strevi, Alessandria) abbiano condizionato «in senso anticompetitivo le procedure pubbliche di affidamento». Tutte e sette le aziende sono nell’Associazione elicotteristica italiana, a sua volta responsabile «di un’intesa restrittiva della concorrenza». La multinazionale Babcock allo spegnimento degli incendi italiani offre 19 Canadair, gli altri sei gruppi sotto inchiesta 90 elicotteri e 3 aerei Cessna.
Le stranezze sugli appalti per i Canadair: ecco la decisione del Garante della Concorrenza. Tutto è partito dalla segnalazione di possibili illeciti fatti da un pilota di elicotteri che opera nel settore e "legge" dal di dentro, le stranezze delle partecipazioni alle gare d'appalto, scrive "Globalist" il 17 luglio 2017. Quindicimila euro l’ora per l'intervento di un canadair, 5000 l’ora per quello di un elicottero. Alla vigilia di questa estate di fuoco, l'Autorità Garante della Concorrenza ha iniziato ad occuparsi del business dello spegnimento degli incendi legato alla flotta dei Canadair. Di seguito, integrale, il documento con il quale il Garante ha deciso di aprire un'istruttoria. Tutto parte dalla denuncia di un pilota che ben conosce l'ambiente e chi si muove in questa ricca fetta di mercato. Fase istruttoria che si dovrà chiudere entro l'ottobre del 2018. Questo per quel che riguarda il Garante, se nel frattempo non intervenisse la magistratura ordinaria, adesso impegnata, in diverse Procure a fare luce sulle responsabilità e sulla regia degli incendi. Ricordiamo che in Italia, la flotta di 19 Canadair cosi come la maggior parte della flotta di elicotteri per il salvataggio e la lotta agli incendi è privata. Il Garante si muove ed apre una istruttoria - come detto - dopo la denuncia di un pilota che parla degli attori di questo business. Mercato che apparirebbe segnato da accordi che non sono proprio sul binario del rispetto della concorrenza.
I contratti se li aggiudicano sempre le stesse ditte. A ricordarlo, nella sua pagina Facebook, in questi giorni è anche Gherardo Chirici, professore associato di inventari forestali e telerilevamento presso Università degli Studi di Firenze. Il passato dell'affaire Canadair è travagliato e segnato da qualche "stranezza". Non solo nel passato, visto che il Garante dopo aver osservato un campione di 18 gare d'appalto, ha ritenuto "che le condotte poste in essere dalle società Babcock Mission Critical Services Italia S.p.A. (già Inaer Aviation Italia S.p.A.), Airgreen S.r.l., Elifriulia S.r.l., Heliwest S.r.l., Eliossola S.r.l., Elitellina S.r.l., Star Work Sky S.a.s. e dall’Associazione Elicotteristica Italiana sono suscettibili di configurare un’intesa restrittiva della concorrenza in violazione dell’articolo 101 del Tfue.". Ma andiamo a leggere l'integrale del Garante per la Concorrenza: "In data 13 maggio 2016 è pervenuta una segnalazione volta a denunciare asserite condotte illecite, anche di natura anticoncorrenziale, perpetrate in relazione all’affidamento e all’esecuzione di appalti pubblici aventi ad oggetto la prestazione di servizi di antincendio boschivo e di elisoccorso. Tale segnalazione è stata integrata con ulteriore documentazione prodotta in data 30 maggio 2016. La segnalazione proviene da un operatore del mercato interessato, quale pilota di elicotteri e titolare di un’impresa con sede in Piemonte, che lamenta condotte di condizionamento e turbativa di numerose gare pubbliche bandite a livello regionale – per una complessiva ampiezza nazionale del fenomeno denunciato – e riconducibili a sette operatori del settore appartenenti all’Associazione Elicotteristica Italiana (AEI) nel cui ambito si sarebbe realizzata la contestata spartizione degli appalti pubblici.
Le parti - Il segnalante è un pilota professionista di elicotteri, titolare di qualifiche riconosciute dall’ENAC ed EASA di dirigente e responsabile di attività di trasporto aeronautico ed opera da svariati anni, anche come titolare di imprese, nel settore del trasporto aereo e di antincendio ed elisoccorso. - I partecipanti all’intesa: Babcock Mission Critical Services Italia S.p.A. (già Inaer Aviation Italia S.p.A., di seguito, in breve, “Babcock MCS” già “Inaer”) è una società con sede legale a Milano e sede operativa in provincia di Lecco ed attiva nel settore del trasporto aereo di passeggeri e merci e dei servizi di soccorso aereo ed antincendio. Il capitale sociale è interamente posseduto da una società di diritto spagnolo. Il valore di fatturato dell’esercizio 2015 è pari a circa duecento milioni di euro. Nel marzo 2017 la società ha mutato la precedente denominazione sociale Inaer Aviation Italia S.p.A. in Babcock Mission Critical Services Italia S.p.A. Airgreen S.r.l. (di seguito, in breve, “Airgreen”) è una società con sede legale in provincia di Torino ed attiva nel settore del trasporto aereo non di linea e dei servizi di soccorso aereo ed antincendio. Il valore di fatturato dell’esercizio 2015 è pari a circa venti milioni di euro. Elifriulia S.r.l. (di seguito, in breve, “Elifriulia”) è una società con sede legale in provincia di Gorizia ed attiva nel settore del trasporto aereo non di linea e dei servizi di soccorso aereo ed antincendio. Il valore di fatturato dell’esercizio 2015 è pari a circa dieci milioni di euro. 7. Heliwest S.r.l. (di seguito, in breve, “Heliwest”) è una società con sede legale in provincia di Asti ed attiva nel settore del trasporto aereo non di linea e dei servizi di soccorso aereo ed antincendio. Il valore di fatturato dell’esercizio 2015 è pari a circa nove milioni di euro. Eliossola S.r.l. (di seguito, in breve, “Eliossola”) è una società con sede legale in provincia di Verbania ed attiva nel settore del trasporto aereo non di linea e dei servizi di soccorso aereo ed antincendio. Il valore di fatturato dell’esercizio 2015 è pari a circa cinque milioni di euro. Elitellina S.r.l. (di seguito, in breve, “Elitellina”) è una società con sede legale in provincia di Sondrio ed attiva nel settore del trasporto aereo non di linea e dei servizi di soccorso aereo ed antincendio. Il valore di fatturato dell’esercizio 2015 è pari a circa dieci milioni di euro. Star Work Sky S.a.s. di Giovanni Subrero & C. (di seguito, in breve, “Star Work”) è una società in accomandita semplice con sede legale in provincia di Alessandria ed attiva nel settore del trasporto aereo non di linea e dei servizi di soccorso aereo ed antincendio. Associazione Elicotteristica Italiana (di seguito, in breve, “AEI”) è un’associazione senza fini di lucro finalizzata ad individuare le esigenze presenti e future dell’elicottero, promuoverne l’impiego presso gli enti governativi, le amministrazioni regionali e locali, le aziende private e il pubblico in genere. Allo stato AEI è composta da soci manutentori /venditori di aeromobili e operatori aerei. In particolare, dei 15 attuali soci di AEI, sette (le Parti sopra riportate) sono operatori aerei titolati a svolgere attività di trasporto e lavoro aereo commerciale, gli altri soci sono imprese che si occupano di manutenzione e/o vendita di aeromobili. La presidenza e gli organi direttivi dell’associazione sono composti da esponenti e rappresentanti delle imprese socie.
Il fatto - Le vicende oggetto di segnalazione concernono ipotesi di condotte anticompetitive volte a condizionare lo svolgimento e l’esito di svariate gare pubbliche concernenti l’affidamento di servizi di elisoccorso (HEMS, Helicopters Emergency Medical Service, secondo un acronimo anglosassone) ed anti-incendio boschivo (fire-fighting o AIB). 13. Nel dettaglio, il segnalante delinea uno scenario fattuale in cui le Parti si sarebbero spartite a livello nazionale il mercato relativo ai riferiti servizi, secondo meccanismi di turbativa d’asta realizzati, per quanto rileva sotto il profilo antitrust, combinando in modo sistematico i seguenti ordini di condotte illecite di coordinamento nelle strategie partecipative: - partecipazione alle gare singolarmente o in raggruppamenti variabili tra le medesime imprese in modo che per ciascuna gara figuri un solo offerente (in forma singola o associata) che riesce ad aggiudicarsi l’appalto senza ribasso o con ribassi risibili (sovente inferiori all’1%); - mancata partecipazione alle gare sì da farle andare deserte e indurre la stazione appaltante a riaffidare in trattativa privata la commessa al precedente assegnatario. Il segnalante dichiara che tali condotte sono state poste in essere in modo sistematico e da svariati anni (sin dai primi anni del 2000) su gran parte delle gare bandite, a livello regionale, dalle amministrazioni competenti per l’affidamento dei due servizi menzionati, oltreché, per l’appalto AIB – flotta aerea della protezione civile, a livello nazionale e ha prodotto una tavola riepilogativa in cui individua per ciascuna regione e servizio i vari aggiudicatari (singolo o in ATI), secondo una mappatura ripartitoria in cui figurano quasi esclusivamente i sette operatori facenti parte dell’AEI individuati quali parti del presente procedimento. In particolare, la tavola riepilogativa riporta un totale di 32 affidamenti – che il segnalante definisce “contratti” – in essere tra le stazioni appaltanti e i suddetti operatori, distinti tra servizi AIB (16 contratti) e servizi HEMS (16 contratti). Il segnalante sostiene che la condotta collusiva contestata avrebbe condizionato anche più gare d’appalto (cronologicamente consecutive) per ciascun affidamento elencato nella tavola riepilogativa. Secondo la ricostruzione resa dal segnalante, la ripartizione del mercato nei descritti termini sarebbe avvenuta tra le Parti anche nell’ambito dell’Associazione AEI, alcuni dei cui esponenti risultano riconducibili alle società partecipanti all’intesa qui ipotizzata. In esito ad un preliminare vaglio preistruttorio, dalla documentazione prodotta in sede di segnalazione e dagli ulteriori dati acquisiti dall’ANAC3 e trasmessi dal Nucleo Speciale Antitrust della Guardia di Finanza, si sono ricostruite le dinamiche partecipative di un campione esemplificativo di diciotto procedure ad evidenza pubblica sopra soglia (intendendosi per tali sia singole gare che lotti autonomi di una medesima gara) bandite da dieci amministrazioni regionali e, a livello nazionale, dalla protezione civile, in un arco temporale che va dal 2009 al 2016. Dall’analisi delle procedure di gara sin qui ricostruite emergono, prima facie, elementi di conferma delle modalità partecipative segnalate con riferimento sia a servizi AIB che HEMS.
Si riporta, di seguito, la sintesi del preliminare screening condotta su alcune delle gare oggetto di segnalazione, recante l’evidenza degli elementi informativi utili a dare contezza delle condotte partecipative contestate, ricostruiti sulla base della documentazione disponibile. L’anno indicato è quello di aggiudicazione dell’affidamento, ciascuno dei quali ha durata pluriennale. Committenza anno ribasso aggiudicatario Piemonte Eliossola (unica offerta e operatore uscente del precedente appalto) Lotto 2 Airgreen (operatore uscente del precedente appalto - due offerte) AIB. Lotto 3 Star Work (due offerte. L’altra è stata presentata da Heliwest, operatore uscente del precedente appalto) AIB 2012 1,2% ATI Airgreen/Inaer (ora Babcock MCS, unica offerta) Hems Sardegna 2015 0,04% ATI Airgreen/Eliossola/Elifriulia/Star Work/Elitellina (unica offerta) AIB 2012 0,01% ATI Airgreen/Eliossola/Elifriulia/Star Work/Elitellina (unica offerta) AIB Liguria 2015 - Heliwest (procedura negoziata, riaffidamento al precedente aggiudicatario) AIB 2012 0,5% Heliwest (due offerte. L’altra è stata presentata da Star Work) AIB Lazio 2016 0,86% Eliossola (unico offerente) AIB 2012 0,75% ATI Eliwest/Eliossola (unico offerente) AIB Veneto 2013 0,01% ATI con mandataria Elifriulia AIB Valle d’Aosta 2014 0,43% Airgreen (unico offerente) HEMS 2009 0,16% Airgreen (unico offerente) HEMS Friuli Venezia Giulia 2015 25% Elifriulia (unico offerente. In precedenza vi era stata una gara andata deserta) AIB Campania 2012 0,25% ATI Heliwest/Eliossola/Elifriulia (unico offerente) AIB Toscana 2011 0,7% ATI Elifriulia/Eliossola (unico offerente) AIB Sicilia 2011 0,84% ATI Heliwest/Elitellina/Elifriulia (unico offerente. Nella precedente gara i tre operatori avevano partecipato in due raggruppamenti concorrenti) AIB Protezione Civile Nazionale 2011 0,02% Inaer (ora Babcock MCS, unico offerente) AIB
Invero, lo scrutinio di tali gare restituisce un pattern partecipativo connotato da aggiudicazioni all’unico offerente in gara (in forma singola o associata) con ribassi sovente prossimi allo zero o comunque di entità ridottissima che potrebbe essere stato applicato anche ad altre procedure ad evidenza pubblica oggetto di segnalazione. Gli aggiudicatari coincidono con le parti del procedimento, che si alternano nelle varie gare, singolarmente o in compagini collettive, distribuendosi in misura abbastanza omogenea nelle varie regioni italiane (anche a distanza rispetto la loro localizzazione aziendale) e tendendo, per quanto è possibile osservare dai dati in possesso, a mantenere, anche sotto il profilo diacronico, il pregresso bacino di dominanza o ad alternarsi per conservare la propria quota di mercato. La documentazione agli atti offre, altresì, talune evidenze concernenti fattispecie partecipative delle Parti di analogo segno a quelle sopra riportate anche in relazione a procedure di gara concernenti altri servizi di trasporto aereo o altri servizi aerei vari, bandite da amministrazioni o soggetti aggiudicatori differenti dagli enti o organi della protezione civile. Da ultimo, il segnalante rimarca come la costituzione dei raggruppamenti temporanei in cui risultano talvolta figurare le Parti nelle gare censite non risulterebbe giustificata “da un’ipotetica carenza di aziende qualificate e/o di dimensioni sufficienti a concorrere singolarmente, perché praticamente tutte le sette aziende appartenenti ad AEI hanno il potenziale ed il numero di elicotteri sufficiente per concorrere singolarmente alla quasi totalità delle gare d’appalto”.
Valutazioni - Le condotte oggetto del presente procedimento interessano il settore dei servizi di elisoccorso (HEMS) e anti-incendio boschivo (AIB). I servizi HEMS si caratterizzano per attività di soccorso sanitario effettuate mediante l’impiego di elicotteri dedicati, svolte in favore di pazienti che versano in situazioni critiche e necessitano di assistenza medica in tempi rapidi e in tutte le circostanze in cui una normale ambulanza non è in grado di operare. Per altro verso i servizi anti-incendio (fire-fighting o AIB) possono essere svolti sia mediante l’utilizzo di elicotteri che attraverso altre tipologie di aeromobili. Dalla segnalazione pervenuta emerge che gran parte delle imprese operanti nel settore svolge entrambi i servizi di elisoccorso e anti-incendio. Per contro, risulta che solo una delle società attenzionate (Inaer, ora Babcock MCS) si sia aggiudicata un appalto AIB da espletarsi mediante utilizzo di aerei (di proprietà della Protezione civile nazionale), mentre tutte le altre società risultano affidatarie di contratti da eseguirsi con l’utilizzo di elicotteri. La domanda dei descritti servizi viene espressa tramite gare pubbliche d’appalto, distinte per tipologia di servizio (AIB o HEMS), bandite di regola a livello regionale dai dipartimenti locali della protezione civile. Solo la gara concernente l’AIB da effettuarsi con la flotta aerea della protezione civile è stata disposta su base nazionale. Da una prima disamina di taluni capitolati di gara predisposti dalla committenza regionale per l’affidamento dei descritti servizi, le procedure a evidenza pubblica vengono aggiudicate con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa o con il criterio del prezzo più basso, e tra i requisiti di partecipazione viene richiesto, oltre a dati di fatturato generale e specifico per servizi analoghi, la disponibilità, sia a titolo di proprietà che in leasing, di un certo numero di elicotteri caratterizzati da puntuali caratteristiche tecniche e determinato equipaggiamento. Secondo costante orientamento giurisprudenziale, in materia di intese, la definizione del mercato rilevante è essenzialmente volta a individuare le caratteristiche del contesto economico e giuridico nel quale si colloca l’accordo o la pratica concordata tra imprese. Tale definizione è dunque funzionale alla delimitazione dell’ambito nel quale l’intesa può restringere o falsare il meccanismo concorrenziale e alla decifrazione del suo grado di offensività. Nel caso in esame, in via di prima approssimazione, il mercato può circoscriversi nell’ambito geografico e merceologico delle gare condizionate mediante l’ipotizzata intesa di ripartizione del mercato. Tali gare, in particolare, afferiscono ad affidamenti pubblici, disposti a livello nazionale, regionale e locale, di servizi HEMS e AIB. Non si esclude, inoltre, che la concertazione possa avere un perimetro più ampio ed estendersi anche a gare pubbliche aventi ad oggetto l’affidamento di altri servizi di trasporto aereo o altri servizi aerei vari. La qualificazione dell’intesa. Il complesso degli elementi sopra descritti consente di ipotizzare un coordinamento tra le Parti, che potrebbe risalire al 2000, al fine di limitare il reciproco confronto concorrenziale nelle procedure pubbliche di affidamento dei servizi HEMS e AIB attraverso un’intesa, nella forma di un accordo e/o di una pratica concordata, avente ad oggetto la ripartizione del mercato finalizzata all’aggiudicazione degli appalti oggetto di concertazione con ribassi di ridotta entità, sovente prossima allo zero. Tale condotta collusiva e spartitoria sarebbe stata posta in essere anche nell’ambito e per il tramite dell’AEI, di cui tutti gli operatori Parti del presente procedimento risultano essere soci. Invero, la documentazione agli atti restituisce elementi segnaletici di possibili condotte concertative aventi ad oggetto il condizionamento in senso anticompetitivo delle procedure ad evidenza pubblica. Il pattern partecipativo che pare emergere, coerente a quanto prefigurato dal segnalante, risulta caratterizzato da assenza di sovrapposizione e sincronismo partecipativo delle Parti da cogliersi trasversalmente su un’ampia gamma di gare ed affidamenti pubblici (che pare includere tutte le procedure ad evidenza pubblica poste in essere a livello nazionale e regionale o locale per affidare servizi AIB ed HEMS).
Infatti, le anomalie partecipative sintomatiche di coordinamento nella presentazione dell’offerta per spuntare ribassi esigui, a volte prossimi allo zero, risultano investire svariate procedure di gara su una dimensione cronologica e geografica vasta. Le evidenze fattuali paiono tratteggiare un’ipotesi di intesa anticoncorrenziale idonea a neutralizzare i rischi di un effettivo confronto competitivo tra le Parti teso a stabilizzare artificiosamente le rispettive quote di mercato. La descritta, ipotizzata, condotta anticompetitiva pare essersi realizzata anche attraverso l’uso distorto dei raggruppamenti temporanei di imprese, impiegati dalle Parti al fine precipuo di spartirsi le commesse disinnescando il meccanismo competitivo tipico di una gara pubblica. Attraverso siffatta, ipotizzata, condotta concertata, le Parti potrebbero aver alterato sensibilmente la libera formazione dei prezzi nell’ambito delle gare pubbliche in esame, riducendo al minimo i ribassi offerti e determinando così un innaturale innalzamento del valore economico delle commesse. Le evidenze, anche documentali, prodotte dal segnalante e gli ulteriori elementi agli atti consentono di ipotizzare un’ampia latitudine delle possibili condotte concertative, tale da eventualmente ricomprendere tutte le gare bandite da qualunque stazione appaltante ed aventi ad oggetto non solo i servizi HEMS e AIB ma anche altri servizi di trasporto aereo o altri servizi aerei vari. In tal senso, il presente procedimento è volto a verificare ed eventualmente acclarare ipotesi di collusione anche in siffatto, più esteso, ambito operativo. In considerazione della rilevanza comunitaria delle procedure di gara in questione e del fatto che i servizi oggetto delle medesime interessano l'intero territorio nazionale, l’intesa ipotizzata appare idonea, laddove accertata, a pregiudicare il commercio tra Stati membri. Di conseguenza, la fattispecie oggetto del presente procedimento verrà valutata ai sensi dell’articolo 101 del TFUE.
Ritenuto, pertanto, che le condotte sopra descritte poste in essere dalle società Babcock Mission Critical Services Italia S.p.A. (già Inaer Aviation Italia S.p.A.), Airgreen S.r.l., Elifriulia S.r.l., Heliwest S.r.l., Eliossola S.r.l., Elitellina S.r.l., Star Work Sky S.a.s. e dall’Associazione Elicotteristica Italiana sono suscettibili di configurare un’intesa restrittiva della concorrenza in violazione dell’articolo 101 del TFUE;
Delibera.
a) l'avvio dell’istruttoria ai sensi dell’articolo 14, della legge n. 287/90, nei confronti delle società Babcock Mission Critical Services Italia S.p.A. (già Inaer Aviation Italia S.p.A.), Airgreen S.r.l., Elifriulia S.r.l., Heliwest S.r.l., Eliossola S.r.l., Elitellina S.r.l., Star Work Sky S.a.s. e dell’Associazione Elicotteristica Italiana per accertare l’esistenza di violazioni dell’articolo 101 del TFUE;
b) la fissazione del termine di giorni sessanta decorrente dalla notificazione del presente provvedimento per l'esercizio da parte dei legali rappresentanti delle Parti, o di persone da essi delegate, del diritto di essere sentiti, precisando che la richiesta di audizione dovrà pervenire alla Direzione “Manifatturiero e Servizi” di questa Autorità almeno quindici giorni prima della scadenza del termine sopra indicato;
c) che il responsabile del procedimento è il dott. Massimo Lupi;
d) che gli atti del procedimento possono essere presi in visione presso la Direzione “Manifatturiero e Servizi” di questa Autorità dai rappresentanti legali delle Parti, nonché da persone da essi delegate;
e) che il procedimento deve concludersi entro il 31 ottobre 2018. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato 10 Il presente provvedimento sarà notificato ai soggetti interessati e pubblicato nel Bollettino dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
Il segretario generale Roberto Chieppa
Il presidente Giovanni Pitruzzella
L’Italia brucia. La colpa è dei piromani? Scrive il 15 luglio 2017 Salvo Vitale su "Tele Jato". ORMAI È DIVENTATO UN LUOGO COMUNE: SONO I PIROMANI A DARE FUOCO, LE CAUSE NATURALI E LE RESPONSABILITÀ DEL DEGRADO AMBIENTALE SONO ELEMENTI SECONDARI E TRASCURABILI. Secondo qualche improbabile statistica i piromani sarebbero responsabili del 90% degli incendi. E quindi caccia al piromane che, nella quasi totalità dei casi si risolve in un nulla di fatto, vallo a trovare, sia perché non c’è, sia perché, se ce n’è qualcuno, non è così scemo da farsi prendere. Qualche volta si becca qualche stupidotto brucia qualcosa per sbarazzarsi di qualche carta, o qualche coltivatore che vuole liberarsi dalle sterpaglie bruciandole, e magari poi non riesce a tenere sotto controllo le fiamme. Poi, i nostri giornalisti bravi a dire tutti sempre le stesse cose, si scatenano, provando a fare inchieste, sul “cui prodest”, cioè a chi può convenire che un’area bella, dove sia stato bruciato il verde che c’era attorno, e quindi desertificata, acquisti valore soprattutto dopo che, per i prossimi dieci anni non si potrà porre in atto alcuna speculazione edilizia, per legge. E giù di lì a ipotizzare interessi nascosti, le mani della criminalità sulla terra, piani regolatori a lunga prospettiva con aree agricole che potrebbero diventare edificabili. Nel momento in cui c’è poi da andare a concretizzare queste accuse con nomi, cognomi, proprietari, piani di lottizzazione, non si trova nulla o, se si trova qualche debole indizio se ne approfitta per utilizzarlo come prova che giustifica il tutto. Conclusione? Di piromani non se ne trovano molti, ma la fervida immaginazione deduttiva dei giornalisti ne genera in quantità sempre maggiori, ascoltando le indicazioni dei signori dell’informazione, dietro i quali si nasconde chi vuole coprire la propria l’inettitudine nel non sapere o non aver voglia di occuparsi della gestione del territorio, in modo da prevenire gli incendi. Nessuno è tanto idiota, a meno di un autentico idiota, da appiccare il fuoco nelle giornate di scirocco per distruggere porzioni d’ambiente e mettere in pericolo la vita delle persone. Perché poi? Per il piacere di dare fuoco? Forse per emulare Apollodoro, il pazzo che diede fuoco al tempio di Delfi per rimanere famoso nell’eternità? Ebbene, si è rimasto famoso, ma come un imbecille. Tanto quanto il califfo Omar, che fece bruciare la biblioteca di Alessandria perché era sufficiente un solo libro, il Corano. E per restare nel tempio di Delfi, va ricordato l’altro imbecille di re Flegias, che, per vendicarsi di Apollo, che gli aveva sedotto la figlia, diede fuoco allo stesso tempio, ma venne scaraventato da Apollo nel Tartaro e condannato a stare sotto un grosso masso che minacciava di cadergli addosso. E visto che siamo nel mondo mitologico, non possiamo che dare la colpa a Prometeo, il primo dei piromani, che rubò il fuoco agli dei per portarlo agli uomini: Zeus, il padre degli dei, lo incatenò a una roccia del Caucaso, inviando un’aquila che gli mangiava il fegato ogni volta che gli ricresceva. Da quel giorno Zeus scaglia i suoi fulmini quando si arrabbia perché gli uomini non l’ascoltano, e quindi è lui il responsabile degli incendi o, o se vogliamo cambiargli nome, la colpa è di Dio che punisce con le fiamme gli uomini che vogliono rubargli la sua potenza e che sono diventati perversi e peccatori: è il caso degli abitanti di Sodoma e Gomorra, le due città che vennero distrutte dal fuoco divino. È in un cespuglio di rovi che brucia che Dio si manifesta a Mosè, è in una catasta di legna in fuoco che Abramo sacrifica il figlio Isacco, per ordine divino, prima di essere fermato dallo stesso Dio che, crudelmente, ne vuole mettere alla prova l’obbedienza. Ma queste sono storie d’altri tempi. Se vogliamo fare un salto nella filosofia il fuoco, per Eraclito è il “principio” che regola la vita dell’universo, mentre per Empedocle e per Budda è uno dei quattro elementi, assieme all’aria, all’acqua e alla terra, dalla cui commistione nasce e si sviluppa il mondo. In tempi più recenti il fuoco purifica, come per le anime finite nel Purgatorio, o serve a lavorare e forgiare i metalli. E comunque è espressione di una grande potenza causa di distruzioni e di rigenerazioni. Per non parlare del più grande piromane della storia, che brucia Roma per ricostruirla nuova e accusa i cristiani di essere stati loro i piromani. Pare, da studi recenti che Nerone non fosse un piromane, ma siamo sempre là, si è trovato il colpevole. Negli Stati Uniti terribili incendi hanno devastato immensi parchi, come quello di Yellowstone o come i boschi della California, ancora in fiamme, ma non c’è questa tendenza tipicamente italiana a scaricare responsabilità su qualche capro espiatorio e a cercare il responsabile delle catastrofi naturali. In Sicilia abbiamo un gran numero di forestali, si dice che siamo la regione con il numero più alto, pare siano sei mila, ci sono quelli addetti persino a spalare la neve d’estate: secondo la logica sicula del “non è compito mio” gli addetti alla prevenzione degli incendi sono solo una minima parte di questi, rimuovono qualche sterpaglia dai bordi delle strade una volta l’anno, muniti di attrezzature d’avanguardia, dimenticando che l’erba cresce sempre e che le cunette sono il posto migliore dove buttare i sacchetti della spazzatura, che non è compito loro raccogliere: poi ci vuole un po’ di riposo, il caldo fa stancare. Dall’alto dei loro uffici i governi, da quello regionale a quello nazionale rilevano, comodamente seduti davanti all’aria condizionata, che bisogna fare dei tagli e tagliano non sul personale, che non si tocca, neanche quello precario, ma sui mezzi di sorveglianza e di soccorso, a partire dai Canadair, il cui numero è diminuito nelle finanziarie di quest’anno, mentre non si toccano le spese per l’acquisto di aerei militari, quelli che ormai per gli americani sono superati, ma che per gli Italiani vanno benissimo. Dopodichè dagli “all’untore”, anzi al piromane, che è responsabile di tutto, compresa la mancata cura e sorveglianza del territorio, dagli alla mafia dei pascoli, dagli ai pastori che danno fuoco perché bruciando le sterpaglie sperano che cresca erba più buona e, con l’occasione, bruciano anche i campi vicini per poterci portare pecore e vacche, dagli al lupo mannaro, anzi al mascalzone che lega alla coda di un animale, possibilmente un cane, un mazzetto di legna ardente lasciando correre l’animale in mezzo alla boscaglia. Il caldo? Va bbè, capita ogni anno, quello ci deve essere; le cicche non spente? Vabbè!!! E che fumano tutti? I barbecue lasciati accesi? Vabbè, quelli si spengono da soli. Le sterpaglie che ogni proprietario di terra non coltivata dovrebbe preoccuparsi di rimuovere? Vabbè, quelle fanno parte del territorio e della sua bellezza, e poi chi non coltiva la terra, deve anche farla tratturare? Che discorsi!!! Per non parlare poi di questi extra-comunitari che si aggirano tra paesi e campagne senza aver nulla da fare, che già sono anneriti, forse perché hanno preso fuoco nella loro terra e ai quali si può gettare addosso una bella accusa di responsabili di tutti i mali possibili, compresi gli incendi.
Allegato B Seduta n. 204 del 13/9/2007
AMBIENTE E TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE
Interrogazione a risposta in Commissione:
FASOLINO. - Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro della salute, al Ministro della difesa, al Ministro della giustizia, al Ministro dell'interno. - Per sapere -premesso che:
gli incendi in Italia calcolati dal 1 gennaio 2007, al 19 agosto 2007, hanno raggiunto il numero record di ben 5735 eventi, con oltre 95.000 ettari colpiti di cui ben 44.000 ad essenze boschive;
dopo il 19 agosto 2007, con un'impennata eccezionale giovedì 23 agosto allorché si è raggiunta, in una sola giornata, la cifra di 304 episodi, il numero degli incendi è progressivamente lievitato con danni incalcolabili alla salute, all'economia, all'immagine internazionale e alla bellezza naturale del nostro Paese;
sono andati distrutti boschi di valore inestimabile, con piante di alto fusto, come pini, lecci, querce, castagni e faggi oltre a macchia mediterranea ricca di lentischi, mirti, ginepri, corbezzoli e ginestre insieme con arbusti vari tipici dei territori colpiti;
sono stati arsi vivi e uccisi uccelli, spesso ancora implumi, e animali da pelo, insetti e creature di ogni tipo;
gli animali scampati al fuoco hanno perduto il loro habitat naturale e sono stati costretti a stanziarsi in ambito diverso, con gravi ripercussioni per l'ecosistema e turbativa alla stessa attività umana;
purtroppo, a Patti in Sicilia hanno perduto la vita anche 5 persone. Numerosi gli intossicati, molte le case distrutte dalle fiamme;
i danni causati all'atmosfera sono di straordinario rilievo;
un albero di alto fusto assorbe ogni giorno circa 60 kg di anidride carbonica e libera 50 kg di ossigeno. Da un incendio si sprigionano notevoli quantità di anidride carbonica, ossido di carbonio e altre sostanze tossiche a fronte di un consistente consumo di ossigeno per cui viene a prodursi, fra le altre conseguenze negative, un notevole aumento dell'effetto serra;
fino al 19 agosto, la Calabria è risultata la regione più colpita con 1.175 eventi, seguita a ruota dalla Campania con 1.056 eventi. Sono queste, anche, le regioni con il maggior numero di operai stagionali forestali alle dipendenze delle Comunità montane. Puglia e Basilicata seguono con 345 e 246 incendi. Sembrano pochi, rispetto ad altre regioni molto più estese, come la Toscana ed il Lazio e invece sono dati che rivaleggiano con quelli di Calabria e Campania. Nella Puglia i boschi collinari e montani sono rari e nella Basilicata la superficie regionale è di molto inferiore a quella di Calabria e Campania;
Puglia e Basilicata, manco a dirlo, danno lavoro ad un alto numero di operai stagionali forestali. La Sicilia offre la prova del nove dello stretto rapporto intercorrente tra corposità dell'organico di operai stagionali delle Comunità montane e numero di incendi. Sempre fino al 19 agosto 2007, si sono registrati in Sicilia solo 214 incendi. La Sicilia, pare, abbia soltanto pochi operai stagionali forestali. Va comunque notato che in Sicilia il 98 per cento della superficie incendiata appartiene a privati;
a tutt'oggi, mese di Settembre 2007, è dato registrare, rispetto al 2006 un incremento di quasi il 60 per cento nel numero degli incendi in Italia, e di un incremento del 300 per cento di superficie colpita e di oltre il 300 per cento di boschi distrutti;
in provincia di Salerno l'interrogante è stato spettatore oculare di un episodio gravissimo. È bene esporlo: martedì 21 agosto ore 23 vengono avvistati i primi fuochi sulle colline di Montecorice e di Castellabate. Mercoledì 22 agosto ore 15, nei due Comuni, a 16 ore di distanza non è comparso ancora un elicottero o un canadair. Si faranno vedere solo verso le 16,30. Naturalmente quando è ormai troppo tardi. Sarebbe bastato che intervenissero nelle prime ore del mattino, già dalle ore 7,30, per evitare il disastro;
dopo pochi giorni sul Monte Calpazio, in territorio di Capaccio-Paestum patrimonio mondiale dell'UNESCO, sono intervenuti gli elicotteri, come suol dirsi, solo a babbo morto, dopo ore di attesa e di trepidazione;
risultato: è andato in fumo uno dei boschi più pregiati del mondo intero. Di contro bisogna registrare che gli aiuti terrestri coordinati da vigili del fuoco e Forze dell'ordine, sono stati sempre efficienti ed encomiabili. In conclusione all'interrogante sembra sia clamorosamente mancata una strategia di coordinamento tra Governo nazionale, Regioni, Prefetture e Protezione civile. È mancata un'attenta valutazione di cause e concause, non si ha notizia di alcun allarme preventivo scattato quando le previsioni meteo annunciavano caldo torrido e forte vento;
le dichiarazioni del Ministro Parisi per un intervento dell'Esercito valgono solo a memoria futura, semmai per il 2008 e per i prossimi anni, se saranno onorate;
in realtà più volte, da più parti è stato sollecitato l'intervento dell'esercito ma, poi, non se ne è fatto mai nulla;
l'impiego dell'Esercito va ritenuto come lo strumento indispensabile per combattere efficacemente questa vera e propria forma di terrorismo che non appartiene solo al nostro Paese, ma, con modulazioni diverse, è diffusa in tutto il mondo;
chi meglio dell'esercito può presidiare con efficacia un territorio, controllarne accessi e vie di fuga, intervenire con prontezza per qualsiasi evenienza? Gli speranzosi dicono: se son rose fioriranno;
l'intervento dell'esercito verrebbe anche a tacitare una vulgata diffusissima nelle regioni meridionali: fronteggiare le escalation degli incendi con un'escalation di assunzioni di stagionali e l'impinguamento dei ranghi della Protezione Civile. Va seguita esattamente la strada opposta. Analogo discorso va tenuto per le ditte affidatarie di appalti dei mezzi aerei. Il nemico si può annidare anche lì; vanno verificate le risposte alle chiamate, l'efficacia degli interventi, i tempi impiegati;
il silenzio, peraltro doveroso, osservato dalla Magistratura sulle indagini compiute negli anni passati e sulle condanne irrogate ai colpevoli al termine dei procedimenti relativi ai numerosissimi incendi appiccati in ogni parte d'Italia, può avere indotto, anche per lo scarso rilievo dato dai media alle decisioni, all'errata convinzione di una impunità diffusa che può aver conferito nuova linfa alla criminalità incendiaria -:
quale sia, almeno rispetto agli eventi degli ultimi dieci anni, il numero dei procedimenti aperti e delle condanne inflitte, se le pene sono state scontate, se lo Stato, le regioni e i privati siano stati risarciti dai colpevoli per i danni subiti e se risulti che, in occasione di nuovi eventi, almeno nell'ambito dei territori specifici, i colpevoli di precedenti incendi siano stati sentiti dalla Magistratura inquirente e dalle Forze dell'ordine e se ne siano verificati gli eventuali alibi;
se tutte le Forze dell'ordine siano in possesso di un elenco degli incendiari;
se il Governo intenda esperire un'indagine urgente sul clamoroso episodio denunciato dall'ANCI regionale siciliana secondo cui nei caldi giorni di agosto oltre la metà dei dipendenti della Protezione civile era in ferie. (5-01438)
"Facciamo scoppiare una bomba". La banda dei vigili incendiari, scrive "Live Sicilia" Lunedì 7 Agosto 2017. "Loro sanno tutto, sanno che abbiamo dato fuoco". Era questo il commento dei 15 volontari dei vigili del fuoco che, condotti negli uffici della squadra mobile della Questura di Ragusa, venivano intercettati in alcuni colloqui tra loro ammettendo le circostanze di cui erano accusati e scambiandosi reciproche accuse per fatti risalenti al 2013-2015. Le indagini della polizia erano mirate a chiarire il motivo di eventuali richieste simulate. Nel distaccamento dei Vigili del fuoco di Santa Croce Camerina (Ragusa) prestavano servizio, suddivisi in 4 turni, decine di volontari e tra gli altri i 15 indagati tutti nella stessa squadra. Anche se volontari, gli uomini del distaccamento percepiscono delle indennità ma solo quando effettuano gli interventi; diversamente, se restano presso la caserma, non hanno diritto ad alcun rimborso. La prima anomalia riscontrata che ha permesso l'avvio delle indagini era da individuare sul numero degli interventi effettuati dal turno "D". Rispetto agli altri volontari, gli indagati operavano per 3 volte in più. A dispetto di 40 interventi di una squadra, loro ne effettuavano 120, creando malumore per alcuni e volontà di aggregarsi in altri, così da ottenere più denaro. Le indagini condotte dalla Squadra Mobile, con l'aiuto dei Vigili del Fuoco, hanno permesso di appurare quale fosse il modus operandi del gruppo criminale. I componenti del turno "D" agivano mettendo in pratica tre modalità: la prima era quella di simulare degli interventi mediante segnalazioni inesistenti alla centrale operativa del 115. La seconda chiedere "aiuto" a parenti ed amici, ottenendo così segnalazioni da parte loro del tutto inesistenti, così da percepire le indennità previste per gli interventi. La terza e più grave tipologia di truffa ai danni dello Stato era quella di appiccare incendi a cassonetti e terreni. "Quasi tutti i 15 volontari dei vigili del fuoco del Ragusano indagati nell'operazione Efeso della polizia di Stato hanno ammesso le proprie responsabilità durante gli interrogatori, delineando, in modo ancora più chiaro, quanto emerso dalle indagini della Squadra Mobile. La Procura aveva chiesto provvedimenti cautelari, ma il Gip ha ritenuto passato troppo tempo (2013-2015) dai fatti contestati. Il capo gruppo è stato sottoposto agli arresti domiciliari perché "ha continuato a reiterare il reato". Addirittura, sostiene la polizia di Stato "in una occasione, ha asserito di voler 'fare scoppiare una bomba' pur di prendere le indennità spettanti". Gli indagati sono stati allontanati dal distaccamento e sono tutti residenti in provincia di Ragusa, parte a Vittoria, Santa Croce, Ragusa e Modica. Quasi tutti svolgono un'attività lavorativa anche se spesso non assunti regolarmente. Il capo gruppo è stato arrestato durante l'attività lavorativa come addetto all'assistenza tecnica di impianti refrigeranti. (ANSA). Le indagini hanno portato oggi all'arresto del caposquadra, Davide Di Vita, 42 anni, di Vittoria e alla denuncia di 14 componenti della sua squadra.
Pavia, vigile del fuoco appiccava roghi «Volevo imitare le serie tv americane». Un volontario di 28 anni filmato dai carabinieri durante una delle sua azioni e denunciato. Si è giustificato: «In Lomellina ci sono pochi incendi», scrive Ermanno Bidone l'11 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". Da pompiere a incendiario di rifiuti, cassonetti e sterpaglie, tanto per provare l’«adrenalina» di un intervento perché «nelle campagne della Lomellina non succede mai niente». Nelle scorse ore P.M., vigile del fuoco volontario di 28 anni residente a Palestro, nel Pavese, è stato denunciato dai carabinieri di Pavia per incendio doloso e truffa aggravata. Sette episodi tra il 2014 e il 2017 sono stati documentati tra Robbio, Palestro, Confienza e Rosasco e Palestro, mentre altri sono in corso di accertamento. A far scattare le indagini è stata un serie di roghi sospetti accaduti sempre nella stessa zona, ai danni di cassonetti e depositi per i rifiuti e, soprattutto, il fatto che a intervenire per primo era sempre lo stesso pompiere. Ma le immagini delle telecamere di sorveglianza delle piazzole dei rifiuti lo hanno incastrato. Nei video si vede chiaramente P.M. che arriva in auto, scende, e dà fuoco ai cassonetti. Poi riparte e si precipita al comando per essere il primo a prendere la chiamata di allarme. Quando i carabinieri l’hanno interrogato, il 28enne ha ammesso ogni addebito, spiegando che appiccava gli incendi «per provare il brivido di giungere sul posto a sirene spiegate». Trovava l’incarico noioso perché «in Lomellina, zona di pianura dove ci sono solo risaie e pochi boschi, non succede mai niente». Il volontario, hanno spiegato i carabinieri, «voleva emulare i suoi idoli, protagonisti di una recente serie televisiva in cui sono “raccontati” gli interventi di una squadra di vigili del fuoco in una metropoli degli Usa, e così aveva pensato di creare l’occasione adrenalinica». Oltre che per incendio doloso, il pompiere piromane è stato denunciato anche per truffa aggravata: ad ogni intervento il personale volontario percepisce infatti un’indennità sulla base delle chiamate ricevute e degli interventi effettuati. Il giovane si è dimesso spontaneamente dall’incarico a seguito delle contestazioni dei carabinieri.
Vigevano (Pavia), pompiere in cerca di adrenalina appiccava incendi e poi li spegneva: "Imitavo le serie tv Usa". Denunciato da carabinieri. Ai militari ha detto che in Lomellina si verificavano pochi incendi e lui voleva il brivido di una famosa serie tv Usa, scrive "La Repubblica" l'11 agosto 2017. Un vigile del fuoco (volontario) in cerca di adrenalina e di un rimedio alla noia appiccava egli stesso degli incendi per poi dare l'allarme e intervenire con i compagni per spegnerlo. L'uomo, 28 anni, di Palestro (Pavia), è stato filmato e denunciato dai carabinieri di Vigevano, insospettiti per una serie di roghi circoscritti in una stessa zona. I militari stavano investigando su una serie di "inspiegabili" incendi, tutti concentrati in una zona circoscritta e ai danni di cassonetti dei rifiuti e sterpaglie, dopo aver notato che ad intervenire sul posto, per primo, era sempre lo stesso vigile del fuoco volontario, avevano deciso di effettuare degli accertamenti sul suo conto, riuscendo così a scoprire che lo stesso 28enne era l'autore degli incendi. Ad aiutare le indagini dei carabinieri alcune telecamere posizionate nei pressi delle "aree di stoccaggio dei rifiuti" colpite. Le immagini hanno immortalato il piromane proprio mentre appiccava il fuoco, per raggiungere subito dopo il proprio comando e così essere il primo a ricevere la chiamata e dare il "via" operativo all'intervento della squadra. Proprio il "brivido" di poter giungere sul posto con le sirene "spiegate" è risultata la ragione per la quale l'uomo appiccava gli incendi. Il volontario denunciato ha spiegato che aveva trovato l'incarico "noioso" in quanto, in Lomellina, zona pianeggiante, coltivata a riso e quindi quasi priva di boschi, capitava di rado di dover intervenire operativamente. Stanco di questo e sempre più desideroso di poter emulare i protagonisti di una serie televisiva americana che parla di una squadra di vigili del fuoco eroi, si era quindi ingegnato per procurarsi da sè il brivido dell'intervento. In seguito agli interventi il giovane aveva ricevuto la retribuzione prevista, in ottemperanza a quanto previsto dalle normative che prevedono un pagamento mensile per i volontari sulla base delle chiamate e degli interventi effettuati. il vigile del fuoco è stato quindi indagato anche per il reato di truffa aggravata. Il giovane, dopo essere stato scoperto, oltre ad aver ammesso le proprie responsabilità si è dimesso spontaneamente dall'incarico.
Sette sono per ora i casi che gli vengono contestati (su altri incendi tra avvenuti tra il 2016 e 2017 si sta ancora indagando): il 25 febbraio 2014 e il 28 marzo 2014 un cassonetto per i rifiuti a Robbio Lomellina; il 24 aprile 2014 un deposito per i rifiuti a Palestro; il 15 maggio 2014, sterpaglie a Rosasco; il 23 settembre 2014, un'area per lo stoccaggio dei rifiuti a Palestro; il primo gennaio 2015 un cassonetto per i rifiuti, ancora a Palestro, e il 28 marzo 2017 un cassonetto a Cofienza.
CHI TUTELA LA SALUTE DEI CITTADINI ???
RIFIUTI IN ITALIA. RACCOLTA DIFFERENZIATA: SI PARLA BENE, SI RAZZOLA MALE
Nei sacchi neri del Palazzo del potere finiscono carte intestate, caffè e avanzi di salame
Gigi D’Alessio, mito pop della cultura musicale partenopea, t-shirt gialla in posa davanti al Castel dell’Ovo di Napoli, esortava «Anche tu fai come me» e prestava così il suo volto alla campagna per la raccolta differenziata che il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo aveva fortemente voluto insieme al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Da lì è ripartita «Striscia la notizia», che il 22 settembre 2008, per inaugurare la 21ª serie, ha mandato in onda lo «scoop» dell’inviato Valerio Staffelli proprio sul comportamento dei palazzi del potere in materia di differenziata.
Le telecamere nascoste frugano nei sacchi di immondizia davanti a Palazzo Chigi (sede del Governo) e Palazzo Madama (Senato): ne escono pomodori, salame, caffè, bottiglie di plastica, carta intestata «Governo italiano». E il camioncino dell’immondizia riversa il suo contenuto in un camion più grande; di differenziata neanche l’ombra.
EMERGENZA RIFIUTI
Gestione ''arretrata'' dei rifiuti, ''grave emergenza'' in cinque regioni (Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia), produzione boom con 32 milioni di tonnellate nel 2005 contro i 26 milioni del '96, ancora primato assoluto della discarica con il 54% dei rifiuti urbani raccolti. Intanto la raccolta differenziata divide l'Italia in tre con il 38,1% al nord, il 19,4% al centro e l'8,7% al sud. Grave il quadro sulla gestione dei rifiuti speciali e pericolosi: ''Ben 26 milioni sono scomparsi nel nulla nel 2004''. Commissariati per l'emergenza ''un fallimento costato 1,8 miliardi dal '97 al 2005''.
Questa la fotografia scattata in un dossier al centro dell'VII Congresso nazionale di Legambiente presentato a Roma il 4 dicembre 2007 al convegno dal titolo ''Emergenza rifiuti, fuori dal tunnel - Le luci, le ombre e le proposte per superare la crisi''.
In particolare dal Congresso di Legambiente emergerebbe un'Italia con molte ombre e qualche luce. Ecco il pacchetto-immondizia che contraddistingue il nostro Paese:
Produzione: 32 milioni nel 2005 contro poco meno di 26 milioni nel '96.
Gestione: 54% dei rifiuti urbani prodotti finisce in discarica.
Raccolta differenziata: Italia a tre velocità. Nel 2005 il nord a 38,1% con punte record in Veneto con 47,7% e in Trentino Alto Adige con il 44,2%; il centro al 19,4% e solo in alcune aree allo standard del nord; il sud all'8,7%. Per le città, la prima su 103 capoluoghi di provincia è Novara con 66,9%, ultima con 1,8%. Milano è 43° con il 30,5%, Roma 64° con 16,2%, Napoli 94° con 6,1%.
Rifiuti pericolosi: 26 milioni di tonnellate scomparsi nel nulla nel 2004.
Ombre: in 4 anni la novità negativa più importante è il Codice ambientale (ora in revisione dall'attuale Governo); mancato avvio operativo per il sistema di raccolta dei rifiuti hi-tech; "incomprensibili proroghe" sul divieto di smaltire in discarica rifiuti indifferenziati non pretrattati, divieto previsto inizialmente dal 1° gennaio 2000.
Luci: crescita del numero dei comuni "ricicloni". Quelli con oltre il 35% di differenziata premiati nel 2007 sono stati 1.150 contro i 300 del 2000.
Emergenza: ancora in 5 regioni, Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia.
In Puglia e Sicilia il regime commissariale non è stato prorogato.
Commissariamenti: "Un fallimento da 1,8 miliardi di euro" spesi tra il 1997 e il 2005 senza alcun sostanziale miglioramento della gestione dei rifiuti.
Proposte: modifica del Codice ambientale; ecotassa con aumento dei costi smaltimento in discarica; raccolta porta a porta per spingere su differenziata; politiche e incentivi per riduzione di rifiuti e imballaggi; regime ordinario nelle regioni commissariate; premio economico all' attività dei Consorzi per il riciclaggio dei rifiuti.
CHI COMBATTE L'ABUSIVISMO EDILIZIO ???
VIDEO INCHIESTA PRESUNTI ABUSI EDILIZI
VIDEO PUNTA PEROTTI: ABBATTIMENTO E CONDANNA
WATERFRONT, IL MARE RUBATO. Inchiesta di “La Repubblica”.
Dalla Liguria alla Sicilia, sulle coste italiane proliferano i progetti di nuovi porti turistici che portano con sé una cospicua dote di appartamenti, residence, alberghi, centri commerciali, e via cementificando. Italia Nostra, Legambiente e Wwf sono sul piede di guerra. Ma alcune battaglie sembrano ormai perdute. Vediamo quali, porto per porto... Così un business miliardario conquista le spiagge "inedificabili". Santa Margherita Ligure, Marina di Massa, Napoli, Siracusa, Lipari... Stando alle leggi e ai piani regolatori non è possibile costruire alcunché a meno di centocinquanta metri dal mare. Ma ecco che una nuova parola magica, "Waterfront", sta spianando la strada a opere edilizie che, da sole, valgono al momento un miliardo e mezzo di euro. Nella Liguria devastata dall'alluvione c'è chi è pronto a mettere altro cemento su una costa che non regge più all'urto dell'acqua che scende dai monti. In Sicilia invece il cemento si vuole depositare direttamente davanti al mare, nel cuore di un sito Unesco. Ecco le mani sulle coste d'Italia. Le ruspe di colossi delle costruzioni e dell'impiantistica, di magnati del petrolio o di imprenditori sconosciuti, hanno già acceso i motori. Vogliono prendersi le rive del Belpaese, che in teoria - cioè secondo la legge - sono inedificabili. Per metterci palazzoni, alberghi, ristoranti e centri commerciali. La parola magica che consente di aggirare il divieto assoluto di costruire entro i 150 metri dalla battigia è "waterfront", declinata in sigle del tipo "rifacimento della costa" o "nuovo porto turistico".
Da Santa Margherita Ligure a Siracusa, passando per Marina di Massa, Cecina, Fiumicino, Napoli, Brindisi o Lipari, ecco i grandi affari in riva al mare. In campo imprese e società pronte a gettarsi a capofitto su un business che solo di opere edilizie vale al momento 1,5 miliardi di euro, che si moltiplicano a dismisura se si aggiungono gli affari commerciali collaterali una volta ultimate le costruzioni. Per cercare di arginare quelle che gli ambientalisti definiscono "le mille Val di Susa in riva al mare" si battono giornalmente associazioni come Italia Nostra, Wwf e Legambiente, e sparuti comitati di cittadini spesso lasciati soli dalla politica locale a fronteggiare poteri forti, anzi fortissimi, visto che in tempi record riescono a farsi approvare varianti urbanistiche su misura come non accadeva nemmeno nella Palermo o nella Napoli del sacco edilizio.
Il viaggio nei waterfront d'Italia parte dalla Liguria, da Santa Margherita. Qui la società Santa Benessere, guidata da Gianantonio Bandiera, imprenditore ligure noto per il rifacimento del teatro Alcione e per il progetto del contestato porticciolo a Punta Vagno, ha presentato al Comune un progetto da 70 milioni di euro e la richiesta di concessione demaniale dell'area portuale per i prossimi 90 anni. Cosa vuole realizzare? Un centro di talassoterapia da 30 mila presenze annue e l'allungamento del molo e della diga foranea per chiudere il golfo e consentire anche a megayacht di 50 metri di poter attraccare a Santa Margherita. Dal Fai ad archistar come Renzo Piano, in tanti contestano il piano della Santa Benessere, che dietro di sé ha soci e finanziatori più o meno occulti. L'azionista di maggioranza della società che ha presentato il progetto è un trust inglese, la Rochester holding, che a sua volta ha tra i finanziatori Gabriele Volpi, magnate diventato miliardario con il petrolio nigeriano e che oggi guida un gruppo da 1,4 miliardi di fatturato con proprietà che vanno dalla logistica petrolifera alla pallanuoto e al calcio: è proprietario della Pro Recco e dello Spezia. I soldi insomma ci sono. Lui, Volpi, prende le distanze dicendo di non sapere nulla di questo progetto e di avere investito "soltanto nel trust inglese". In realtà nel cda della Santa Benessere siedono Bandiera e Andrea Corradino, entrambi soci dello Spezia calcio. Il Comune ligure ha dato tempo fino a tutto novembre per presentare osservazioni al piano. Una torre di otto piani sul mare a guardia di un porto da 800 posti. Tra Marina di Carrara e Marina di Massa è a buon punto un progetto, gradito alle amministrazioni comunali, che attorno al nuovo "marina" prevede quaranta appartamenti, un residence a tre piani, uno yacht club, una piazza da seimila metri quadrati e il piccolo "grattacielo". Pochi chilometri più a Sud di Santa Margherita altre ruspe e altri costruttori si stanno muovendo per realizzare alberghi sul mare laddove sulla carta non si potrebbe piazzare nemmeno un palo della luce. Tra Marina di Carrara e Marina di Massa il gruppo di Francesco Caltagirone Bellavista vuole costruire un porto turistico da 800 posti. Peccato però che tra le strutture a supporto metta anche "40 appartamenti, uno yacht club e un residence a tre piani". "E perfino una torre di otto piani e una piazza da 6 mila metri quadrati", dice Antonio Delle Mura, presidente di Italia Nostra Toscana. Le amministrazioni comunali guardano con molto interesse all'iniziativa, in ballo ci sono investimenti per 250 milioni di euro e lavoro per molti concittadini. "Nessuno pensa alle conseguenze ambientali e all'impatto devastante per quest'area, con il rischio di erosione della spiaggia e occultamento della vista a mare: tutti sembrano essersi dimenticati, inoltre, che il progetto presentato ricalca una iniziativa del 2001 presentata dall'Autorità portuale e bocciata allora dal ministero dell'Ambiente", aggiunge Delle Mura. Italia Nostra in Toscana insieme al Wwf è impegnata però anche su un altro fronte, quello di Cecina. In campo c'è una cordata d'imprenditori locali raccolta nel Club nautico che vuole rivoltare come un calzino il vecchio porticciolo, allargandone la capienza a mille posti barca. Fin qui nulla di strano. Se non fosse che accanto al porto si vorrebbe realizzare un parcheggio da 2 mila posti auto, 400 box attrezzati, 40 esercizi commerciali, un hotel a 4 stelle, un centro benessere e 80 appartamenti. E, ciliegina sulla torta, un padiglione esposizioni per la nautica e un mercatino del pesce, con ristorante ed eliporto. "Cosa c'entra tutto questo con un porto turistico?", si chiede la professoressa Roberta De Monticelli, che ha denunciato quanto sta accadendo a Cecina alla Commissione Europea: "Spostare una foce e realizzare un pennello a mare che cambierà le correnti, il tutto in una riserva dello Stato, insomma è davvero incredibile", aggiunge la De Monticelli.
Ma è a una manciata di chilometri da Napoli che si sta giocando una delle partite edilizie più importanti del Mezzogiorno. E precisamente a Pozzuoli nell'ex area industriale Sofer-Ansaldo, oggi di proprietà della Waterfront flegreo: società, questa, del gruppo dell'ingegnere Livio Cosenza, settantenne, grande elettore dell'attuale sindaco di Pozzuoli Agostino Magliulo, padre dell'onorevole Giulia e di Francesco, 35 anni, amministratore delegato della Watefront. Nel board della società in questione siede inoltre Carlo Bianco, consigliere d'amministrazione della Pirelli Re. La partita inizia quando il Comune nel 2007 affida all'architetto Peter Eisenman un piano di riqualificazione dell'area. Il piano viene consegnato all'amministrazione, che a sua volta firma subito un protocollo d'intesa con la Waterfront. Cosa prevede il mega progetto di Eisenman? Semplice, la realizzazione di un polo turistico alberghiero con annesso centro commerciale, un polo per la nautica da diporto con tanto di accademia della vela e un terzo polo definito genericamente "polifunzionale". La Waterfront affida subito la progettazione esecutiva a uno studio locale, nel quale lavora tra gli altri la figlia del sindaco di Pozzuoli. Il Cipe, nel frattempo, stanzia 40 milioni di euro per la bretella che collegherà l'area all'autostrada, con tanto di parere positivo della commissione parlamentare Ambiente e territorio nella quale siede l'onorevole Cosenza. Le ruspe sono pronte, visto che le carte ci sono tutte e sono in regola. In arrivo 600 milioni di euro d'investimenti, con tanto di anticipo già approvato da Intesa Sanpaolo. Per il professore d'economia dell'Università di Napoli Ugo Marani si tratta "di un bel progetto che sarà trasformato in scempio" e per questo "va fermato". E nel golfo incantato di Ortigia si punta a costruire sull'acqua. Siamo nel cuore di uno dei luoghi patrimonio dell'Unesco: l'isola che ospita l'antico centro di Siracusa. Qui i progetti di nuovi porti sono due: il primo chiamato Marina di Archimede è già avviato, mentre il secondo prevede una piattaforma a mare, da edificare, grande come sette campi di calcio. L'opposizione di Pozzuoli, dal Pd a Rifondazione protesta, ma al momento l'iter burocratico è già concluso e c'è poco da fare. Altri affari sono in corso nelle grandi città. Sul litorale romano, a esempio, il sindaco Gianni Alemanno ha in mente progetti in grande stile: attraverso l'Eur spa punta a stravolgere il waterfront di Ostia, costruendo beauty farm, alberghi, centri commerciali, ristoranti e perfino una scuola di surf, il tutto con la scusa di raddoppiare il porto attuale. A Palermo, invece, il consiglio comunale ha appena approvato il nuovo piano regolatore del porto, che prevede la realizzazione di un ennesimo porticciolo turistico nella zona di Sant'Erasmo, a due passi dal centro storico della città e nonostante vi siano già altri tre porti turistici in funzione sul lungomare palermitano. Nel capoluogo siciliano gli ambientalisti da anni contestano la riqualificazione di Sant'Erasmo, che sarà affidata a una società privata che gestirà il porticciolo per i prossimi trent'anni.
Le ruspe e le betoniere sono invece già in azione nel cuore di un luogo protetto dall'Unesco: Ortigia, centro storico di Siracusa che si affaccia sul bellissimo golfo aretuseo intriso di storia e leggende greche. Qui il gruppo Acqua Pia Marcia del costruttore Francesco Caltagirone Bellavista ha iniziato i lavori d'interramento per il nuovo porto turistico che sarà chiamato Marina di Archimede. Il progetto da 80 milioni di euro, presentato nel 2007 da una società locale, approvato dal Comune a tempo di record e acquistato in corsa dal gruppo Caltagirone, prevede lavori su un'area di 147 mila metri quadrati, 50 mila dei quali in riva al mare: saranno realizzati 507 posti barca, ma anche "uffici, negozi ristorante, caffetteria, centro benessere e un albergo", dice il deputato regionale del Pd, Roberto De Benedictis. Ma al Comune è arrivata una seconda richiesta, questa volta da parte di una società d'imprenditori locali, la Spero srl, che vuole realizzare un altro porto a fianco di quello di Caltagirone. La Spero vuole investire 100 milioni di euro per costruire un molo da 430 posti barca e sul mare una piattaforma - grande quanto sette campi di calcio - da rendere edificabile per mettere in piedi alberghi, centri commerciali, uffici pubblici, ristoranti, tabaccherie e anche una libreria, per dare un tocco di cultura a un'operazione che, come sostiene il deputato Pd Bruno Marziano, "realizzerebbe il sogno di qualsiasi costruttore: cementificare il mare". Il Comune ha già approvato il progetto e l'ha inviato alla Regione per l'autorizzazione integrata ambientale. "Ci si chiede però come sia possibile costruire alberghi in riva al mare o sul mare, in un sito protetto dall'Unesco. Sarebbe una follia", dice ancora De Benedictis. Intanto Legambiente annuncia battaglia: "Difenderemo Ortigia da queste speculazioni", giura il presidente regionale Domenico Fontana.
Santa Margherita, Massa Carrara, Napoli, Siracusa, sono soltanto la punta di un iceberg fatto di speculazioni sulle coste in nome dell'esigenza di nuovi posti barca che servono per attrarre turisti ma anche per costruire in zone inedificabili. Italia Nostra ha in corso una ventina di battaglie per bloccare la costruzione di nuovi porti, come quelli di Cecina, San Vincenzo e Talamone in Toscana, o Fiumicino, Anzio e Civitavecchia nel Lazio e, ancora, risalendo, quelli di Sarzana e Ventimiglia in Liguria. Soltanto in Sicilia sono già stati varati, o stanno per essere approvati, progetti di costruzione di ben 12 porti, da Menfi a Licata, da Marsala a Capo d'Orlando e Lipari, benedetti da 24 milioni di euro dell'Unione europea. Soldi pubblici per porti che saranno gestiti da privati scelti spesso senza alcuna procedura di evidenza pubblica. "Il territorio costiero è evidentemente sotto attacco", dice la presidente di Italia Nostra, Alessandra Mottola Molfino. Secondo Sebastiano Venneri, presidente nazionale di Legambiente, si tratta di puri e semplici affari perché basterebbe riqualificare i vecchi porti per ottenere migliaia di nuovi posti barca senza ulteriori cementificazioni: "Abbiamo appena completato uno studio che mette nero su bianco come sia possibile ottenere ben 39.100 nuovi posti barca semplicemente riqualificando i porti abbandonati - dice Venneri - circa 13 mila posti sono attivabili immediatamente con piccolissime opere di restauro, 9 mila posti in tempi brevi e altri 15.800 con lavori che non vanno oltre i 24 mesi". Ma in questo caso il business sarebbe molto meno appetibile. Almeno per i signori del cemento. Incendi, bombe, buste con pallottole La malavita all'attacco del Circeo. Pressioni e minacce contro chi è chiamato alla tutela dei 22 chilometri di costa laziale praticamente intatta. L'abusivismo le prova tutte in attesa delle sanatorie. La difesa di un modello economico che ha al centro i valori della natura che possono essere messi a frutto Un ordigno incendiario con 8 inneschi davanti alla sede del parco del Circeo. Due pallottole inviate al presidente del parco del Pollino. Migliaia di richieste di sanatoria pendenti nei territori sotto tutela. Villette travestite da serra che spuntano fidando nel prossimo condono. E' dura la vita degli ambientalisti nell'era delle norme edilizie fluttuanti e dei piani casa che suggeriscono allargamenti fino a ieri proibiti. Ed è dura in particolare nelle regioni in cui gli interessi della criminalità organizzata sono in espansione. "In alcune zone la crescita della tensione è palpabile", spiega Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi. "Penso al Cilento, dove Angelo Vassallo, il sindaco che si opponeva alla speculazione edilizia che premeva sul parco, è stato assassinato. Al Pollino delle intimidazioni contro il presidente, che ha ricevuto una busta con due pallottole. Ai roghi usati come arma di pressione. E a molti altri casi in rispettare la legge diventa pericoloso" L'ultimo e più evidente di questi casi è il Circeo, un parco pioniere che rischia di essere travolto dalla pressione di chi vuole mettere le mani su quei 22 chilometri di costa quasi intatta. Nato nel 1933, terzo dopo il Gran Paradiso e il parco d'Abruzzo, il Circeo ha resistito - sia pure con qualche fatica - all'assalto alla baionetta degli anni Sessanta: ha perso il tratto più settentrionale, divorato dalle case, ma la controffensiva di metà degli anni Settanta gli ha fatto guadagnare tre piccoli laghi nell'entroterra. E' una storia che si può leggere anche senza un libro. Basta arrampicarsi sul promontorio della maga Circe per ottenere un colpo d'occhio più eloquente di un trattato. Il paesaggio è disegnato con precisione: la sagoma regolare della grande foresta planiziale, 3.500 ettari che costituiscono l'ultimo retaggio delle selve di pianura che coprivano l'Italia; il centro urbano di Sabaudia, un agglomerato senza sbavature; la linea delle dune, che si estende per 22 chilometri, spezzata solo da rarissime costruzioni. E poi, appena lo sguardo esce da questo mondo ordinato, si comprende il significato del termine "area protetta". Nei luoghi non tutelati lo sviluppo degli ultimi decenni non ha concesso quartiere: l'assedio del cemento, dell'asfalto, delle serre balza agli occhi. Il confine tra questi due mondi è netto, un tratto che segue i contorni del parco circoscrivendolo con precisione. "Da queste parti la storia dell'abusivismo è lunga", racconta Sergio Zerunian, responsabile dell'ufficio territoriale per la biodiversità che la Forestale mantiene a Fogliano, accanto al giardino botanico creato dai Caetani alla fine dell'Ottocento. "Si è cominciato con gli interventi in aree molto delicate, con tracce di storia millenaria, si è andati avanti con la proliferazione dei posti barca e delle villette che alle volte vengono nascoste, durante i lavori, dietro gabbie di granturco o pareti di una finta serra". E si va avanti ancora oggi con la moltiplicazione dei roghi nelle aree più pregiate del promontorio - che come ricorda il direttore del parco del Circeo Giuliano Tallone - hanno messo in pericolo anche le case vicine; con la pressione che ha portato a 3.500 domande di condono all'interno del parco; con l'attentato in pieno giorno che ha distrutto i materiali didattici davanti alla sede del parco. Tanto che il presidente della commissione urbanistica del Comune di Sabaudia, Francesco Sanna, parla di "piano preordinato". Chi sono i nemici del parco? "Il proliferare di incendi e l'attentato vanno letti come un sintomo, un malessere. Un malessere che però è di pochi e nasce da un cambio di prospettiva non accettato", risponde Gaetano Benedetto, il presidente del parco del Circeo. "Proprio perché questo territorio si è salvato vale di più e gli investimenti hanno una redditività maggiore. Ma per passare da un modello usa e getta a un modello di valorizzazione bisogna rispettare le regole. A qualcuno dà fastidio? Noi riteniamo di fare gli interessi di chi vive nel parco arginando il nuovo cemento non previsto dai piani regolatori". La scommessa - continua Benedetto - è costruire un sistema in cui la bellezza crea valore al di là dei vecchi modelli economici: "Il piano casa della Regione Lazio agisce in deroga al piano paesaggistico e blocca la legge salva coste, consentendo di aumentare le cubature. Ma qui non è applicabile perché una legge nazionale di salvaguardia non può essere vanificata da una legge regionale". Da una parte il tentativo di realizzare un modello economico capace di far fruttare nel lungo periodo le risorse della natura, dall'altra un coagulo di interessi in cui trovano spazio anche i clan. "La malavita organizzata, come dimostrano le inchieste sui Casalesi e sulla 'ndrangheta, ha deciso che questo territorio deve diventare uno dei centri di riciclaggio del denaro sporco", precisa Marco Omizzolo, di Legambiente. "Pressioni di tutti i tipi sono in aumento nel Lazio: molti parchi vivono una fase di asfissia economica voluta, altri sono commissariati, altri sono coinvolti nelle inchieste sul ciclo illegale dei rifiuti. Anche Ventotene, nell'arcipelago di fronte al Circeo, un'isola con straordinarie potenzialità, da anni è oggetto di speculazioni e di progetti proposti dalle amministrazioni locali che vanno in senso contrario alla tutela sbandierata: l'ultimo è il costosissimo tunnel che dovrebbe devastare l'isola per far più posto alle macchine". Parliamo di un'area in cui è stato costituito un "vero sistema criminale che Libera, l'associazione antimafia presieduta da don Ciotti, non ha esitato a chiamare la Quinta mafia", aggiunge il deputato Pd Ermete Realacci in un'interrogazione parlamentare in cui si elencano molti episodi di intimidazioni e aggressioni contro funzionari di polizia e dirigenti del Comune di San felice Circeo e di Sabaudia. "Una mafia che ha soprattutto nel ciclo del cemento la sua manifestazione più eclatante. Basti pensare che stando ai dati delle forze dell'ordine nel parco nazionale del Circeo sono 1 milione e 200.000 i metri cubi fuori legge, 2 abusi edili per ogni ettaro. Secondo gli investigatori una parte è imputabile, direttamente o indirettamente, a esponenti della malavita organizzata e a quel sottobosco politico-economico che sta suscitando grande attenzione negli inquirenti".
Case abusive e condoni edilizi
Mai dire mai. La Campania vuole un altro condono. Parola di Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Ma certo che tocca il cuore, vedere le ruspe abbattere la casa di Bacoli dove viveva Jessica, la ragazza disabile presa a simbolo da tutti gli abusivi. Ed è vero che troppo spesso le rare case buttate giù sono di poveracci che non hanno l'avvocato giusto. Ma la soluzione qual è: un'altra sanatoria come vorrebbe la Regione Campania? Giurando che stavolta sarà davvero l'ultimissimissima? È ipocrita e pelosa, la solidarietà di troppi politici campani verso gli abusivi (pochi) che in questi giorni, un sacco di anni dopo le prime denunce e le prime sentenze, si sono ritrovati alla porta i caterpillar. Dove erano, mentre intorno a loro la regione intera si riempiva di baracche e villini e laboratori e autorimesse fuorilegge? Dov'erano mentre la nobile via Domiziana veniva stuprata da fabbricati illegali costruiti perfino in mezzo all'antico tracciato sventrando il meraviglioso basolato romano? Dov'erano mentre nella «zona rossa» dei 18 comuni vesuviani, assolutamente vietata, si accatastavano case su case a dispetto degli allarmi su una possibile eruzione (« Hiiiii! Facimm' 'e corna! ») e del piano di evacuazione di circa mezzo milione di sfollati che richiederebbe 12 giorni? Dice l'autore della proposta galeotta, il pidiellino Luciano Schifone («nomen omen», ringhiano gli ambientalisti) che si tratta solo di sanare i «piccoli abusi» e cioè, come ha spiegato al Mattino, gli aumenti volumetrici non oltre il 35% previsti dal piano casa regionale varato nel dicembre 2009 e ritoccato nel 2010, ma realizzati prima che quel piano fosse approvato. Per di più, dice, «è previsto un aumento del 20% degli oneri di urbanizzazione». Sintesi: in fondo gli abusivi hanno abusato prima che l'abuso fosse legalizzato dalla legge della Regione. Tornano in mente le assicurazioni di Giuliano Urbani, allora ministro dei Beni Culturali davanti a chi temeva disastri dal condono berlusconiano del 2003: «È solo per piccoli abusi, finestre aperte o chiuse, che riguardano la gente perbene». Alla fine, dopo avere scatenato i peggiori istinti cementieri, finì per essere parzialmente utilizzato anche dai palazzinari che ad Acilia, ad esempio, avevano tirato su a due passi dalla tenuta presidenziale di Castelporziano una selva di condomini per un totale di 283 mila metri cubi totalmente abusivi. Sanati con 1.360 (milletrecentosessanta: uno per appartamento) condoni individuali. Mettiamo che ogni appartamento avesse solo una decina di finestre: 13.600 finestre. Piccoli abusi... I numeri sono mostruosi. Secondo l'urbanista Paolo Berdini autore di una ricerca capillare su tutta la penisola, «dal 1948 a oggi sono stati (...) compiuti oltre 4.600.000 abusi, più di 74.000 ogni anno, 203 al giorno». E l'Agenzia del Territorio, come ricorda il dossier Legambiente del 2010, «dal 2007 a oggi ha censito più di due milioni di edifici non accatastasti, per l'esattezza 2.076.250 particelle clandestine». Nella grande maggioranza concentrati al Sud. E chi è in testa alle regioni-canaglia secondo un'indagine del Cresme, con 19,8 case abusive su 100 esistenti? La Campania. Nonostante un dossier dell' Ispra dica che «l'Italia è uno dei Paesi a maggiore pericolosità vulcanica» e che «le condizioni di maggior rischio riguardano l'area vesuviana e flegrea, l'isola d' Ischia...». Non si dica che si tratta solo di scelte sventurate di povera gente educata da una cattiva politica ad arrangiarsi «perché tanto prima o poi con lo Stato ci si mette d' accordo». Certo, questa è la tesi. Che non a caso ha scelto come simbolo la famiglia di quella Jessica di cui dicevamo all'inizio, difesa l'altra sera da una fiaccolata per le vie di Bacoli, in faccia a Pozzuoli, alla quale ha partecipato («È solo per stare vicino alle famiglie che hanno fatto le case in modo illegale, ma non per speculazione. Non hanno altro e una volta messi fuori che faranno?») perfino il vescovo Gennaro Pascarella. No, c'è di più. Lo spiega un recente rapporto di Legambiente: «In Campania ben il 67% dei Comuni che sono stati sciolti per mafia dal 1991 a oggi, lo sono stati proprio per abusivismo edilizio. A Giugliano, nell'hinterland napoletano, la Procura di Napoli procede all'arresto di ben 23 vigili urbani e individua nel locale Comando dei vigili il "covo" dal quale si gestiva il business dell' abusivismo sull'intero territorio comunale. E ancora il triste primato detenuto dagli abitanti di quel luogo che un tempo si definiva "agro" sarnese nocerino, tredici comuni per un totale di 158 chilometri quadrati e che di agricolo hanno conservato ben poco, dove circa il 10% della popolazione residente, neonati compresi (ben 27.000 persone su 285.000), è stato denunciato almeno una volta per abusi edilizi». Vale per Giugliano, vale per il Lago Patria devastato dal mattone illegale e selvaggio, vale per Ischia che con 62 mila abitanti vanta il record di 28 mila abusi edilizi, vale per San Sebastiano al Vesuvio dove il sindaco Giuseppe Capasso, nel contempo presidente della Comunità del Parco del Vesuvio, si spinse a lagnarsi con l'allora governatore Antonio Bassolino perché «i tanto attesi effetti di una possibile ripresa economica» dovuti al «piano casa» spinto da Silvio Berlusconi avrebbero potuto «non investire l'area vesuviana» a causa proprio delle regole sulla «zona rossa». Zona ad alto rischio che sta nel gozzo anche al sindaco di Sant' Anastasia, Carmine Esposito, che un paio di settimane fa si è avventurato a sostenere che «la Regione Campania deve un ristoro economico per aver bloccato i territori vesuviani in zona rossa». Parole che Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica assassinato nel settembre 2010 perché cercava di difendere il parco del Cilento dall'assalto del cemento camorrista, non avrebbe mai pronunciato. Mai. Ma lui cercava di spiegare ai suoi cittadini che la difesa dell' ambiente era innanzitutto un interesse «loro». Non ammiccava alle cattive abitudini per raccattare voti...
I diversi tipi di abusivismo edilizio
Il fenomeno complessivo di devastazione ambientale mista a inefficienza e corruzione che dall'ultimo dopoguerra sta distruggendo il territorio italiano non può essere semplicemente ascritto alla voce "abusivismo"
E' di grande attualità in questo momento il tema dell'abusivismo. Quarant'anni di edilizia selvaggia ha arrecato gravi danni al territorio, all'ambiente, alla convivenza civile e al concetto stesso di legalità. Ma il fenomeno complessivo di devastazione ambientale mista a inefficienza e corruzione che dall'ultimo dopoguerra sta distruggendo il territorio italiano non può essere semplicemente ascritto alla voce "abusivismo".
Il quadro delle illegalità e delle devastazioni è assai variegato, e un tentativo di riassumerlo con tutti i necessari "distinguo" comporterebbe la stesura di un trattato. Si possono porre una serie di "punti fermi": catalogare cioè in forma necessariamente telegrafica le varie situazioni e tipologie di quel che oggi genericamente viene indicato come "abusivismo" tout court, ovvero "mostri di cemento" o simili. Ecco dunque in breve sintesi:
1) ABUSIVISMO VERO E PROPRIO. Trattasi essenzialmente di edifici realizzati in totale assenza di concessione edilizia, in genere su aree dove gli strumenti urbanistici non ne consentirebbero comunque il rilascio. E' un fenomeno esploso nelle periferie cittadine nel dopoguerra, ed è innegabile che, in buona misura, abbia costituito una risposta emergenziale alla necessità di abitazioni degli strati più poveri della popolazione inurbata. Indagare sulle cause dell'inefficienza pubblica di fronte all'espansione demografica porterebbe assai lontano. Qui basti dire che in molti casi l'abusivismo è stato un "sottoprodotto" della grande speculazione edilizia e fondiaria, in certo modo ad essa funzionale, e che tutti i tentativi di dare in tempo utile al Paese una normativa urbanistica capace di porre un freno all'abuso dello jus aedificandi sono falliti di fronte alla coalizione di forze politiche ed economiche variamente assortite (v. il "caso legge Sullo" dei primi anni '60!).
Ma era nella logica stessa del fenomeno che - sistemate in qualche modo le folle di senza tetto - esso si volgesse verso obiettivi più remunerativi. In epoca più recente è quindi iniziato il fenomeno dell'assalto alle coste, alle spiagge, ai boschi delle località turistiche, sovente con la copertura "morale" di presunte necessità abitative, di fatto inconsistenti.
Questo tipo di abusivismo - quello totale- ha colpito l' Italia in modo assai discontinuo. Sarebbe un grosso errore dire che il territorio -anche solo quello costiero- è stato devastato dagli "abusi" edilizi; in realtà danni enormi sono stati arrecati da quella che si potrebbe definire edilizia semilegale, o solo formalmente legale (di cui si dirà ai punti successivi). Resta tuttavia innegabile che l'abusivismo, concentrato soprattutto in alcune zone di ogni Regione, ha avuto effetti devastanti: le campagne intorno alle grandi città, la via Prenestina a Roma, l' area Vesuviana, Ischia e Capri, i Campi Flegrei, l'agro nocerino-sarnese e mille altri luoghi, a volte carichi di bellezza e di storia, sono stati massacrati, insieme a centinaia di Km. di coste, da questo fenomeno incivile. Caso paradigmatico quello del Monte Argentario - luogo mitico e supervincolato della "civile Toscana"- laddove nel '74 le denunce del WWF portarono alla scoperta di centinaia di edifici abusivi (o falsamente legali, ad esesmpio per essere stato autorizzato il "restauro" di manufatti inesistenti!), che nell'insieme stavano trasformando il Promontorio in una sola lottizzazione abusiva. E qui più che altrove è apparsa con chiarezza la mistificazione demagogica messa in atto da chi - politici e amministratori in primo luogo- ha cercato di spacciare per "piccolo abusivismo dei contadini locali" quel che invece era la costruzione di vere e proprie ville (o embrioni di esse), da rivendere ad alto prezzo ad acquirenti esterni....
2) ABUSIVISMO LEGALIZZATO. Ci si riferisce, ovviamente, al frutto dei vari condoni, sempre più simili nei loro effetti a un'incivile "sanatoria permanente" (rischio inutilmente fatto presente dal WWF fin da quando si cominciò a parlare di un condono). Per come è stata gestita tutta l'operazione condono non ha fatto che rafforzare la diffusa convinzione che, prima o poi, tutto sarebbe stato sanato, anche gli abusi a venire. Oltre a ciò, il gravissimo problema dei controlli, affidato in toto a amministrazioni locali sovente corresponsabili e a Soprintendenze dai mezzi irrisori, aveva fatto temere il peggio, che puntualmente si è verificato.
Leggiamo oggi (stime del CRESME) che dal 31/12/1993 (ultima data utile per l'ammissione di immobili al condono) ad oggi sono state realizzate oltre 200.000 nuove abitazioni abusive. Ed altre 230.000 case erano sorte nel giro di appena due anni (1983/4) come conseguenza del primo condono. E' dunque chiarissimo che gli abusivi incalliti non hanno mai creduto nel "giro di vite" annunciato al termine della sanatoria, ma che al contrario hanno approfittato dei condoni per realizzare sempre nuove costruzioni, anche a termini di condonabilità scaduti, contando di riuscire in qualche modo a sanarle (per successiva riapertura dei termini, ovvero truccando le denunce per quanto concerne le date di costruzione).
A riprova del caos venutosi a creare, due casi limite: la rivolta (apertamente spalleggiata da certi sindaci) degli abusivi organizzati in Sicilia - quelli di speculazione ben mascherati dietro quelli "di necessità"- i quali semplicemente non volevano pagare per nessun tipo di condono, e il tentativo di far condonare perfino.....il "Mostro di Fuenti". Anni addietro infatti l'allora Ministro dei Beni CC.AA. V. Bono Parrino, sul finire del proprio mandato si accingeva a firmare un parere positivo preliminare al condono (essendo la zona vincolata), in quanto il Mostro "non sembrava in contrasto con rilevanti interessi ambientali...". Una macroscopica svista, almeno si spera, ma che dimostra la superficialità e l' improvvisazione con le quali tutta la sciagurata vicenda dei condoni è stata gestita.
3) EDILIZIA SEMILEGALE, O SOLO FORMALMENTE LEGALE. Qui il discorso si fa ben più complesso. Infatti se per edifici "semilegali" si possono intendere quelli realizzati in grave difformità dai progetti approvati, ovvero sulla base di progetti che non avrebbero potuto essere approvati (esempio classico: villette munite di "regolare" concessione edilizia, ma che nell'insieme formano una lottizzazione), per edifici "formalmente legali" si debbono intendere invece quelli muniti di tutti i "pezzi di carta" necessari, ma che ugualmente hanno sul territorio un impatto devastante.
Ed in quest' ultima categoria rientrano proprio le colate di cemento più inconsulte ed oltraggiose dall' ultimo dopoguerra. Dalle orrende periferie urbane degli anni '60 alle lottizzazioni negli ultimi boschi e pinete costiere (vedi il "caso Capocotta"). Da certi squallidi villaggi turistici sulle Alpi e sugli Appennini ai tentativi scellerati di costruire ville di lusso lungo tutta l'Appia Antica (chi, tra gli "addetti ai lavori" non ricorda le vibranti invettive di Antonio Cederna?) dai vari "mostri" come quello di Fuenti (che in effetti era sostanzialmente dotato di varie autorizzazioni) alle ignominiose lottizzazioni che hanno cancellato in gran parte la morfologia stessa delle nostre coste. Tutto questo, ed altro ancora, è stato fatto almeno in gran parte dei casi nel sostanziale rispetto della legalità formale, e di conseguenza spesse volte confortato da sentenze dei vari TAR, del Cons. di Stato. Quante volte, dietro edifici che costituiscono un insulto alle regole del buon gusto e del viver civile, e di cui ci si domanda chi sia stato così folle da progettarli e autorizzarli, c'è una sentenza emessa "nel nome del popolo italiano"....
E qui per essere più chiari occorrerebbe rifare la storia delle leggi sull' urbanistica e sul paesaggio (teoricamente interfacciate, secondo il legislatore degli anni '30 e '40; di fatto tenute ermeticamente separate, e conculcata fino a tempi recenti la seconda). Il "tradimento" delle leggi urbanistiche si è consumato attraverso il rifiuto di considerare il paesaggio e l'ambiente come invarianti del territorio e limiti naturali all'edificabilità. Attraverso le fallimentari vicende della legge "Ponte" n° 765 (che, nata per mettere un argine allo scempio, grazie al vergognoso "anno di moratoria" sulle licenze edilizie e alla sopravvivenza degli anacronistici Programmi di Fabbricazione si risolse in un colpo di acceleratore per tutte le lottizzazioni), attraverso il rifiuto di porre alcun serio vincolo all'edificabilità almeno nelle aree extraurbane di maggior pregio. O attraverso la permissività irresponsabile con la quale sono stati approvati pessimi strumenti urbanistici locali (tra i quali i Programmi di Fabbricazione, concepiti su misura per le esigenze della proprietà fondiaria e delle lottizzazioni), ecc.
Oggi il quadro generale è indubbiamente mutato: costruita gran parte del costruibile l'attenzione va fatalmente spostandosi verso la salvaguardia di ciò che è rimasto, e verso un parziale recupero dell'ambiente - laddove possibile- che passa per la demolizione degli abusi peggiori e la "decostruzione" di manufatti anche legali ma ambientalmente insostenibili (riconversione di aree industriali obsolete, difesa dei terreni agricoli, ecc.). Qui molto altro ci sarebbe da dire sul sistema dei Parchi e Riserve (nazionali e regionali) faticosamente avviato, sui Piani Paesistici che, con forti ritardi e molte incongruenze, sono ovunque in via di approvazione, ecc. Tuttavia affrontare anche questi aspetti pur fondamentali porterebbe a sviluppi eccezionali. Emerge invece una nuova preoccupante tendenza fra molte Regioni, le quali, nella perdurante assenza di un Testo Unico statale sull'urbanistica e sulla scia dell'esempio della Toscana, stanno dotandosi di una propria legislazione urbanistica fortemente innovativa (cosa non esente da critiche sul piano della costituzionalità), ed improntata a criteri di "elasticità", flessibilità e completa valorizzazione delle autonomie locali. Cosicchè, ad esempio sarebbero gli stessi Comuni ad approvare i propri strumenti urbanistici (ribattezzati "Piani Strutturali", anzichè "Regolatori", a sottolinearne il valore programmatico e non vincolante), spettando alle varie autorità "di controllo" solo il potere di presentare delle "osservazioni", ecc.
Anche questo è un discorso che porterebbe lontano, ed è quindi il caso di fermarsi a un accenno. Resta tuttavia l'ineludibile esigenza di fare ordine e chiarezza nella materia urbanistico/edilizia, cominciando con l'approvare quella legge-quadro (o Testo Unico) nazionale di cui si parla inutilmente fin dal dopoguerra. Altra questione di grande portata ed attualità, certamente non risolta da Tangentopoli, è quella della moralizzazione di tutta la politica, e conseguentemente della pubblica Amministrazione. Non c'è infatti il minimo dubbio che gran parte della devastazione territoriale che si è cercato finora di descrivere sia stata provocata dalla pura e semplice corruzione (e in vaste aree da veri e propri interessi di mafia), il territorio essendo stato ridotto a merce di scambio tra politici, mercanti di aree e costruttori.
E allora, tornando al tema delle demolizioni, oltre a casi emblematici quali ad esempio il "Mostro di Fuenti" e suoi consanguinei, occorrerebbe cominciare a pensare seriamente - stabilendo una scala di priorità a seconda della gravità ambientale - alla demolizione almeno di una buona parte di quegli oltre 18.000 abusi non sanabili verificatisi a partire dall'entrata in vigore della legge 47/1985 nelle aree vincolate paesaggisticamente, nei Parchi e sul Demanio.
ll fenomeno è molto complesso.
C'è quello che viene definito abuso di necessità, proprio di chi ha costruito una casa per abitarci, cioè una "prima casa" e non una casa di villeggiatura o "seconda casa". In ogni caso questi abusivi hanno infranto la legge e non sembra giusto "condonare" perché agli italiani onesti (la maggioranza) che la casa l'hanno costruita in modo legale (naturalmente pagando le tasse relative, cosa che gli abusivi non fanno) può sembrare un premio ai "furbi".
E c'è poi l'abusivismo legato alla grande criminalità organizzata (Mafia, Camorra, 'Ndrangheta), che non di rado si intreccia con il primo. Orientarsi è difficile, ma qui di seguito riportiamo alcuni dati, ufficiali.
GLI ECOMOSTRI
Gli ecomostri sono le enormi costruzioni di cemento che deturpano siti archeologici, spiagge e oasi naturalistiche (da qui il nome, mostro ecologico). Si tratta di costruzioni abusive nate dalla "collaborazione" tra imprenditori disonesti e politici locali corrotti. In Italia i mostri di cemento erano 14, ora ne sono rimasti 11 perché il Governo ha finalmente cominciato la guerra contro l'abusivismo edilizio.
Il primo mostro abbattuto è stato il FUENTI, un mega albergo costruito alla fine degli anni '70 sulla costiera amalfitana: 34 mila metri cubi di cemento, 24 metri di altezza (sette piani), 2000 metri quadri di superficie. Tutto questo in un'area che l'Unesco aveva dichiarato patrimonio dell'umanità. È stato definito un "misfatto ecologico esemplare".
LE TAPPE DELLA STORIA DEL "FUENTI"
1968 Il 5 agosto del 1968 il Comune di Vietri sul Mare concede la licenza edilizia e la Sovrintendenza della Campania dà il nulla-osta paesaggistico. L'area è già sottoposta a vincolo
1971 L'edificio viene terminato nel 1971, dopo polemiche e sospensioni dei lavori. Nello stesso anno la Sovrintendenza revoca il nulla-osta poiché la costruzione non corrisponde ai progetti presentati. Anche il Comune annulla la licenza e i provvedimenti sono confermati dal Consiglio di Stato nel 1981.
1985 Con il condono edilizio del 1985 la società proprietaria chiede la sanatoria dell'edificio: la Regione Campania dà parere favorevole, ma il Ministero dei Beni culturali annulla il nulla-osta della Regione.
1992 Una sentenza del Tar (Tribunale amministrativo regionale) della Campania conferma la decisione del Ministero dei Beni Culturali.
1997 Una sentenza del Consiglio di Stato (dicembre) stabilisce che l'albergo non può essere condonato. L'Hotel Fuenti è stato utilizzato solo per i terremotati dell'Irpinia.
Il secondo ecomostro abbattuto è stato PUNTA PEROTTI - Complesso residenziale costituito da due edifici di 11 e 13 piani sul lungomare di Bari. Il complesso è stato realizzato nell' ambito di due piani di lottizzazione che prevedono la realizzazione di 290.000 metri cubi complessivi. La struttura è stata edificata ad una distanza inferiore a 300 metri dal mare e posizionato in modo da nascondere totalmente la vista del lungomare a sud di Bari.
02/04/2006 - Conclusa la prima fase della tanto attesa demolizione dell'ecomostro Punta Perotti a Bari. Tutto come previsto: 350 chilogrammi di tritolo hanno fatto implodere i due terzi della saracinesca che da oltre dieci anni taglia il lungomare barese.
23/04/2006 - Seconda esplosione: crolla anche la seconda parte dell'ecomostro. Il 24 aprile è attesa l'ultima esplosione che demolirà interamente la costruzione.
Nel gennaio 2001 il Ministro dell' Ambiente e il Ministro dei Beni Culturali hanno presentato un disegno di legge per la tutela ambientale ed il recupero dei siti compromessi dalla speculazione. È previsto l'abbattimento degli 11 ecomostri ancora esistenti. Eccone l'elenco:
SPALMATOIO DI GIANNUTRI - Complesso edilizio destinato a mini-appartamenti grande complessivamente 11.000 metri cubi, realizzato in una zona ad elevato pregio paesaggistico all' interno del Parco nazionale dell' Arcipelago Toscano.
SCHELETRO DI PALMARIA - Complesso edilizio destinato ad albergo e miniappartamenti, alto circa 25 metri e con un volume di 10.000 metri cubi. L' area si trova nel territorio del Parco nazionale delle Cinque Terre.
CONCA DI ALIMURI - Struttura edilizia destinata ad uso alberghiero realizzata a ridosso della battigia, non ancora ultimata. Il complesso ricade all' interno del Piano urbanistico territoriale della penisola sorrentino-amalfitana.
BAIA PUNTA LICOSA - Si tratta di 53 edifici destinati a residenza, costruiti, ma non ancora ultimati, all' interno di un' area caratterizzata dalla presenza di alberi di particolare pregio (pino d' Aleppo). L' area si trova all' interno del territorio del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano.
PIETRA DI POLIGNANO A MARE - Complesso turistico costituito da una struttura alberghiera ed alcuni villini, per un volume complessivo di 34.000 metri cubi. Il complesso ricade nella fascia di 300 metri dalla battigia, in area soggetta a vincolo paesistico di tutela assoluta.
FOSSA MAESTRA - Complesso edilizio vicino Massa Carrara destinato ad accogliere 65 mini appartamenti e locali accessori. Si trova in un' area classificata come zona di valore paesaggistico ed ambientale da sottoporre a conservazione.
BAIA DI COPANELLO - Complesso edilizio costituito da albergo ed abitazioni a schiera, realizzato in assenza di concessione edilizia.
VILLAGGIO SINDONA - Complesso costituito da 12 edifici a schiera realizzato in località Cala Galera e non ancora ultimato. L' area ricade nella riserva naturale di Lampedusa, soggetta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico. È inoltre sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta.
CAPO ROSSELLO - Complesso di edifici residenziali per complessivi 9.000 metri cubi, realizzato in prossimità della battigia.
CALA DEI TURCHI - Complesso alberghiero vicino Agrigento di circa 15.000 metri cubi. L' edificio non è stato ancora completato.
IL CONDONO EDILIZIO
Il condono edilizio non è mai stato una soluzione positiva al problema. Anzi. Non appena si comincia a parlare di condono edilizio, il numero di edifici abusivi cresce enormemente: tutti sperano di essere "condonati", cioè di vedersi riconosciuti legittimi proprietari di una casa costruita illegalmente. Ad esempio, l'anno precedente al condono edilizio del 1985 voluto dal Governo Craxi, cioè il 1984, è stato l'anno peggiore per l'abusivismo: su un totale di 270.000 nuove abitazioni circa un terzo (80.000 unità) erano abusive. Le cose recentemente vanno un po' meglio, ma i dati sono sempre gravi.
Secondo gli studi di Legambiente e dell'Istituto di ricerca Cresme, nel quinquennio 1994-1998, cioè dopo il condono approvato dal "Governo Berlusconi-Radice", sono state realizzate 232.000 nuove case abusive, per una superficie complessiva di 32.5 milioni di metri quadrati e un valore immobiliare di 29.000 miliardi di lire. L'evasione fiscale è di 6.700 miliardi di lire.
Solo nel corso del 1998 sono stati costruiti ben 25.000 stabili abusivi (3,5 milioni di mq, un valore di mercato stimato superiore ai 3.000 miliardi di lire e una evasione fiscale pari a 730 miliardi). Il 76,3% delle costruzioni illegali (vedi tabella a fianco) è concentrato nelle regioni meridionali e nelle isole; al Centro la percentuale scende al 9,7% mentre al Nord risale al 14%.
Le regioni più corrette sono per lo più al Nord (la Valle D'Aosta con lo 0%, il Trentino con lo 0,5 %, l' Umbria con lo 0,6 % e la Liguria con lo 0,9%). Il mattone illegale è invece ancora abbastanza presente nel Lazio (4,8%), in Lombardia (3,8%) ed in Veneto (3,9%).
Al Sud, in particolare il fenomeno è concentrato in Campania (19,8%), Sicilia (18,2%), Puglia (12,8%) e Calabria (8,8%), dove esiste quasi il 60% del totale nazionale delle costruzioni illegali. Ciò dimostra che il fenomeno dell'abusivismo è legato al fenomeno delle organizzazioni criminali e mafiose, che sono particolarmente radicate nelle quattro regioni citate.
Concludiamo con una novità sulla "tipologia dell'abusivo" come è emersa da un'indagine di Legambiente sull'abusivismo a Roma e nel Lazio negli ultimi anni: i "costruttori spontanei" hanno abbandonato le periferie per spostarsi su aree pregiate. La maggior parte degli abusivismi, infatti, è stata individuata all'interno dei parchi: 33 lottizzazioni su un totale di 74, estese per 209 ettari su un totale di 314. I restanti abusi si registrano nelle aree adiacenti ai parchi e in zone esterne agli stessi.
Si vede che anche gli abusivi romani, come quelli agrigentini della Valle dei Templi, sono sensibili alle bellezze naturalistiche e archeologiche. Popolo di poeti, di artisti, di pensatori, di santi, di scienziati....
Norme antisismiche violate. Abruzzo lunedì 6 aprile 2009, ore 3,32
Gli allarmi inascoltati. La scossa devastatrice. Le vite spezzate. La disperazione dei sopravvissuti. Il dramma dei bambini. Eroi e vecchi camion. Un reportage da “Il Corriere della Sera” a “L’Espresso” e “Panorama”.
I vigili del fuoco arrivati da tutto il Paese sono stati costretti a portare in Abruzzo anche vecchi camion scassati.
Bestioni appesantiti da venti anni di servizio o ancora di più. Che a volte, dopo un rantolo del motore, si sono fermati in autostrada e, come certi muli di una volta, non han voluto saperne di ripartire. Eccole qui, la faccia dello Stato. L’Italia dei vetusti «Fiat Om 90», «AF Combi» o «APS Eurofire» in servizio dai tempi lontani in cui il centravanti della nazionale era Paolino Rossi. Carrette di lamiera che dopo essere state lasciate «dieci anni nei capannoni» (parole di un comunicato ufficiale del sindacato di base Rdb-Cub) sono finite «fuori uso per problemi di ribaltamento e rotture ai supporti del serbatoio dell’acqua» e abbandonate lungo il percorso. Non puoi sentirti orgoglioso di come sgobbano i carabinieri e i poliziotti, le guardie di finanza e i forestali e tutti gli altri, senza ribollire d’insofferenza a guardare la mattina dopo, tra le macerie di Onna, la delusione dei volontari della Protezione civile del Friuli, che sono venuti giù coi loro cani e le loro tende e le loro attrezzature e stanno lì impotenti nelle loro divise nuove di zecca che non riescono a sporcare: «Sono già le dieci, siamo qua da ieri sera e nessuno ci ha ancora detto come possiamo renderci utili. Che modo è?».
È l’Italia. La «nostra» Italia. Piccoli egoismi e fantastica dedizione, efficienza e sciatteria, ripiegamenti individualisti e straordinario altruismo di uomini e donne accorsi da tutte le contrade a dare una mano.
Il gran Sasso, lassù in alto, domina severo. L’impresario edile Bruno Canali, ai margini di quella Onna in cui le ruspe scavano solchi tra le montagne di macerie per ricostruire il tracciato delle vecchie strade, mostra il suo villino: «Non c’è una crepa ». Spiega che l’ha costruita seguendo «tutti i criteri antisismici». A pochi metri, le altre case si sono sgretolate. Da lui non è caduto un soprammobile. Come fai a non arrabbiarti, a guardare le fotografie della biblioteca della scuola elementare crollata a Goriano Sicoli o, peggio ancora, dell’ospedale (l’ospedale!) dell’Aquila? Sono anni che si sa come si dovrebbe costruire, nelle aree a rischio. Non sono serviti a niente la durissima lezione del terremoto ad Avezzano né gli avvertimenti degli esperti che da decenni ricordano come le zone più esposte siano quella a cavallo dello Stretto di Messina, la Sila in Calabria, il Forlivese, la Garfagnana e la Marsica né il disastro di qualche anno fa in cui morirono i piccoli di san Giuliano. A niente. «Dopotutto non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case di sei-sette piani», disse furente Jean-Jacques Rousseau a proposito del catastrofico terremoto di Lisbona del 1755. L’uomo non può sfidare impunemente la natura: questo voleva dire. Non può contare, spensieratamente, solo sulla buona sorte. Eppure così è sempre stato, da noi. E decine di migliaia di persone hanno continuato ad ammucchiarsi disordinatamente intorno al Vesuvio nonostante siano passati solo pochi decenni dall’ultima eruzione del 1944 quando la gente pazza di paura prese a girare con la statua di San Gennaro perché fermasse la lava già bloccata quarant’anni prima dal santo a un passo da Trecase. E migliaia di sindaci e assessori e vigili urbani hanno chiuso gli occhi per anni sul modo in cui, anche nelle zone più pericolose, venivano tirati su spesso con cemento scadente e piloni gracili i condomini e le scuole e gli edifici pubblici. Per non dire di chi aveva le responsabilità più gravi. Ma, come accusava Il Sole 24 ore del 7 aprile 2009, il varo delle nuove regole si è via via impantanato di ritocco in ritocco, di rinvio in rinvio, di proroga in proroga. Colpa della destra, colpa della sinistra. Basti ricordare che fu solo la Corte Costituzionale, nel 2006, tra i lamenti e gli strilli dei costruttori («Siamo molto preoccupati per il rischio di paralisi nei cantieri, si potrebbe bloccare l’edilizia!») a bloccare una legge troppo permissiva della Regione Toscana spiegando che no, «in zona sismica, non si possono iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico».
Ed è sbalorditivo, oggi, tornare indietro soltanto di qualche giorno dal sisma. E trovare la conferma che mai, prima dell’apocalisse del 6 aprile 2009, erano state nominate parole come sisma o terremoti nella proposta edilizia del governo Berlusconi alle Regioni del giugno 2008, mai nella prima bozza del «piano casa», mai nell’intesa del 31 marzo 2009. Mai. Con il terremoto in Abruzzo Claudio Scajola detta alle agenzie che il piano casa «dovrà essere utile anche per le protezioni antisismiche» e il nuovo documento dato alle Regioni, ritoccato in tutta fretta, ha un «articolo 2» nuovo nuovo. Dove si spiega, sotto il titolo «misure urgenti in materia antisismica» che «gli interventi di ampliamento nonché di demolizione e ricostruzione di immobili e gli interventi, che comunque riguardino parti strutturali di edifici, non possono essere assentiti né realizzati e per i medesimi non può essere previsto né concesso alcun premio urbanistico sotto alcuna forma ed in particolare come aumento di cubatura, ove non sia documentalmente provato il rispetto della vigente normativa antisismica».
Evviva. Ci sono voluti i lutti di Onna e la distruzione dell’Aquila e quelle file di bare allineate, però, per cambiare il testo originale dato alle Regioni solo una settimana prima. Dove l’articolo 6, precipitosamente soppresso dopo il cataclisma abruzzese, era intitolato «Semplificazioni in materia antisismica». Meglio tardi che mai. Purché dopo una settimana, un mese, un anno, non torni tutto come prima.
Qualcuno adesso dovrà indagare. Una volta sepolti i morti e sistemati gli sfollati, dovrà spiegare perché a L'Aquila il cemento impastato dieci o vent'anni prima già si sbriciola come pane secco. Dovrà dire perché queste travi si sono spezzate e hanno fatto un massacro. Come in Abruzzo, con il brivido delle scosse di assestamento e il vento del Gran Sasso che spazza le macerie di via Luigi Sturzo, centro città, cento per cento di morti nelle case nuove là in fondo alla strada. Nuove. Eppure sono venute giù.
Se due mesi di sciame sismico riducono così il cemento, allora l'allarme lo dovevano dare molto prima. Invece questo passerà alla storia come il primo terremoto previsto in Italia. E, purtroppo, anche come il primo snobbato dalle autorità. Hanno ignorato l'annuncio del disastro molti sindaci della provincia per finire, su su, agli esperti della Protezione civile.
Eppure la previsione di Giampaolo Giuliani, tecnico del laboratorio scientifico del Gran Sasso insultato e denunciato per procurato allarme, non è uno scoop da premio Nobel. Che la liberazione di gas radon dagli strati profondi delle rocce riveli l'arrivo di un forte terremoto, lo si impara al primo anno di Geologia all'università. Anche in Italia. È vero che non è possibile conoscere con precisione quando colpirà la scossa. Ma a L'Aquila e lungo l'Appennino la terra tremava e da fine febbraio. Avere un laboratorio di fisica proprio dentro il Gran Sasso, la montagna attraversata dalle faglie e dalle tensioni geologiche di questo disastro, era poi una immensa opportunità. Forse bastava sfruttarla. Nessun preallarme nemmeno per i soccorsi in una regione fatta di antichi paesi di sassi e pietre.
Lunedì 6 mattina a Civita, una frazione a pochi chilometri da Onna, vicino all'epicentro in provincia, gli abitanti hanno dovuto sbarrare la strada a un convoglio dei vigili del fuoco per chiedere loro di estrarre due persone. Le hanno tirate fuori che erano già morte. I pompieri son ripartiti subito per L'Aquila. I cadaveri sono rimasti a Civita, per terra, fino alle quattro del pomeriggio: "Quando è arrivata un'auto delle pompe funebri", raccontano i testimoni. Sono le priorità a stabilire dove si devono fermare i convogli. I primi sono stati inviati dove c'erano più cadaveri: a L'Aquila, a Onna, a Paganica. Così gli abitanti delle piccole frazioni hanno dovuto aspettare. Non c'erano alternative. Da martedì, secondo la Protezione civile, con l'arrivo dei rinforzi da tutta Italia, anche i centri più piccoli sono stati raggiunti. Nonostante la previsione del terremoto, però, gli abitanti della città e di tutta la provincia avevano creduto alle rassicurazioni degli esperti della commissione Grandi rischi, riprese dal capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, dal governo e dalle autorità locali. Nessuno immaginava che perfino le costruzioni più moderne di L'Aquila fossero trappole. Non lo sapevano i ragazzi italiani e stranieri morti e feriti nel pensionato universitario, nemmeno i quattro studenti sepolti in due stanze prese in affitto in un'altra villa in via Sturzo. Non lo poteva immaginare.
Gran parte delle strade di L'Aquila in quei giorni era al buio. In molte case però non mancava la luce. Vedi le finestre illuminate dentro le tapparelle abbassate. Credi che ci sia qualcuno lassù. Invece è la fotografia di lunedì 6 aprile, ore 3,32, il momento esatto della scossa, 5,9 gradi della scala Richter, nemmeno un record in Italia.
A metà di via Sturzo la fuga di una famiglia su un'Alfa Romeo è rimasta bloccata al cancello, quando un grosso pezzo di cornicione l'ha colpita in pieno. In una camera da letto spogliata dai muri perimetrali è ancora accesa l'abat-jour sul comodino. Sui balconi sopravvissuti al crollo, il bucato steso la domenica sera. I libri negli scaffali. Le sveglie che ancora suonano la mattina presto. Persiane semichiuse che ricordano le ville calcificate di Pompei. Istantanee di vita quotidiana. Al buio si intuisce la sagoma di quattro donne avvolte nelle coperte di lana. Si fanno coraggio insieme e dormono sulle sedie davanti alla casa di una di loro. Non hanno voluto andarsene al centro di raccolta. Pochi passi più avanti, in fondo a via Sturzo, le fotoelettriche illuminano il vuoto. Due ruspe rimuovono il groviglio di tondini di ferro. L'armatura a queste costruzioni non manca. Stupisce l'apparente fragilità del cemento. Tre o quattro ville, tutte uguali, si sono accasciate sui loro piani. Resta soltanto il tetto di due. In una sono morti due anziani. Nella seconda almeno quattro studenti tra i quali un ragazzo della zona di Vasto, in Abruzzo. La sua mamma sostenuta da un'amica piange da ore. «Ho provato a far suonare il suo telefonino», sussurra, «risulta irraggiungibile. Un collega di università di mio figlio ha invece chiamato il telefonino di un suo compagno di stanza sepolto là sotto. Quello suona ancora, ma da domenica notte nessuno risponde».
Subito più avanti il cumulo di macerie nasconde la bimba di tre anni e tutta la sua famiglia. Rimossi i blocchi di cemento, trovano prima il piccolo materasso del lettino. Si vede subito che apparirà un bambino. Non ci sono più bare. Nemmeno bodybag, i sacchi utili per trasportare le vittime delle emergenze, che l'Italia ha regalato negli anni scorsi alla Libia. I soccorritori liberano dai calcinacci una coperta di lana. La ripiegano per usarla come barella. Avvolgono la piccola nella lana e la adagiano sulla terra. Vigili del fuoco e guardia forestale interrompono per qualche minuto il lavoro a mani nude nei detriti. Li guida un abitante del quartiere in tuta blu, grigio di polvere fin nei capelli. «Adesso restano da trovare un'altra bambina, la sua mamma e il suo papà», spiega l'uomo al capo operazioni dei pompieri: «Poi dobbiamo tirare fuori gli anziani che abbiamo visto nella casa accanto. Ma non so quanti sono». Arriva finalmente l'ambulanza, allontanata per caricare le macerie su due grossi camion. «Come si chiama questa bambina?», chiede un'infermiera della Croce rossa. Nessuno sa rispondere. Non ci sono parenti. Non ci sono vicini. Tutti sotto le macerie. Forse una quindicina di morti. Tutti sepolti dal crollo di case relativamente nuove. Intorno le costruzioni più vecchie e i condomini sono rimasti in piedi. Hanno danni strutturali. La facciate bombardate. Ma i loro abitanti hanno almeno avuto il tempo di svegliarsi e fuggire.
In via Sant'Andrea all'angolo con Generale Francesco Rossi, prega la mamma di Armando Cristiani. Per arrivare fin qui bisogna sfidare i calcinacci che le scosse sparano come cecchini dalle cime dei palazzi. Antonio Rossi, il papà, cammina su e giù con un piccolo ombrello in mano e un sacchetto di biscotti sottobraccio. Era la cena che un vigile urbano gli ha regalato. Sulla montagna di macerie continua il lavoro di altri eroi. Rischiano la vita e altri crolli per salvare Marta, un'altra studentessa tradita dalle norme antisismiche dei palazzi dell'Aquila. Una ragazza raggiunta nel pomeriggio dagli speleologi e dai soccorritori del Club alpino italiano. «Marta ci ha detto di aver sentito delle grida salire dalla tromba delle scale. Una voce molto più sotto di lei», racconta uno speleologo: «Abbiamo chiamato, abbiamo provato ma non ci ha risposto nessuno». Antonio Cristiani è convinto che suo figlio sia lì ad aspettare che qualcuno lo tiri fuori. Erano sei studenti in affitto, in un appartamento al terzo piano. Tutti dispersi. «Ho sentito mio figlio sabato sera», racconta la mamma, «mi ha detto che c'era appena stata una forte scossa. Eravamo preoccupati, ma lui diceva che poi passava».
Trema ancora la terra. Scosse forti che fanno crollare i muri che ormai non si reggono più. Gli speleologi portano in superficie Marta, la avvolgono, la caricano su un'ambulanza. «La ragazza era incastrata accanto a un armadio», racconta il soccorritore che l'ha liberata: «Sotto c'era il vuoto e dovevamo stare molto attenti a non farla cascare più in basso». Questi soccorritori sono ragazzi di poche parole. Lo speleologo dice solo che di mestiere fa il carpentiere- saldatore: «Niente nomi, non servono». E se ne va sulla montagna di macerie a cercare Martina, studentessa di Ingegneria gestionale. È la grande Italia dei volontari, quanto mai uniti da Nord a Sud. I genitori di Martina aspettano avvolti in una coperta. Il padre è rassegnato: «Ormai mi devo mettere il cuore in pace». In via Persichetti, altro quartiere, altra strage. I condomini sono sbrecciati. Le case dell'Ottocento sembrano quasi indenni. In mezzo il crollo delle palazzine più nuove ha spianato l'isolato. Due bare attendono in mezzo alla strada che qualcuno le recuperi. “L'Aquila - Visa Persichetti, non identificata", scrive un soccorritore con il pennarello sul nastro adesivo. L'assenza di funzionari dell'anagrafe impedisce al momento di sapere chi sono i residenti a ogni indirizzo. L'identificazione verrà fatta nei prossimi giorni. Anche se la mancanza di numero civico sul nastro adesivo non sarà d'aiuto. Appare nel buio Pasqua E., la mamma di Alice Dal Brollo. È arrivata da Cerete in provincia di Bergamo e scopre che nessuno sta scavando nella casa di sua figlia. Poco fa c'è stata una scossa oltre il quarto grado Richter. Per questo i vigili del fuoco si sono allontanati. Tornano poco dopo con la guardia forestale. «Alice è sicuramente lì. Una sua compagna di stanza l'hanno già trovata morta. Un'altra, ritornata a L'Aquila da Sora poco prima del terremoto, è riuscita a scappare. Forse mia figlia è bloccata». La quarta studentessa, anche lei di Sora, deve ringraziare l'influenza che si è presa. E domenica sera non è tornata a L'Aquila. Alle nove del mattino i genitori scoprono che Alice è morta. Come Luigi Giugno, 34 anni, guardia forestale, ucciso nell'unica camera da letto crollata nel loro palazzo. L'hanno trovato sopra il lettino del suo bimbo, Francesco, 2 anni, che ha tentato inutilmente di proteggere. Accanto il cadavere della moglie e la valigia già pronta per il ricovero al reparto maternità. Francesco questa settimana avrebbe avuto una sorellina. Anche la loro casa sembrava sicura. Dovremmo costruire case antisismiche, come in Giappone e in California dove i palazzi tremano ma pochi si fanno male. Invece spenderemo quei soldi per un grande ponte a Messina. Silvio Berlusconi l'ha ripetuto in questi giorni. Dove? Dopo aver visto le macerie a L'Aquila.
Il crollo della prefettura. L'ospedale lesionato. La questura inagibile. Così i soccorsi sono rimasti senza testa. Perché nonostante le scosse nessuno aveva verificato gli edifici ?
Giù la Prefettura: quello che doveva essere il centro nevralgico della gestione dell'emergenza è completamente fuori uso e ridotto a un cumulo di macerie. Inutilizzabile anche la questura, altro luogo considerato fondamentale per affrontare le grandi calamità. E poi si sbriciolano anche gli impianti dell'ospedale San Salvatore, inaugurato dieci anni fa, costruito con colonne in cemento armato e sale operatorie di cartapesta. Così il terremoto spazza via tre dei pilastri dei soccorsi: obbliga la Protezione civile a rivedere da zero i piani di intervento, in una zona che da sempre si conosce come sismica e che da settimane vive una sciame di scosse. Ma dove nessuno si era preoccupato di verificare la robustezza dei capisaldi per affrontare la crisi più drammatica: fino a domenica il palazzo ottocentesco della Prefettura era il fulcro di ogni strategia.
Davanti al collasso di queste strutture, il professor Franco Barberi, vulcanologo e presidente vicario della Commissione grandi rischi, non usa mezzi termini. "È desolante vedere un simile spettacolo di inefficienza e imprevidenza in un paese come il nostro che a misurarsi con le conseguenze dei forti terremoti dovrebbe essere abituato da sempre". E accusa: "Le responsabilità sono diffuse a tutti i livelli, purtroppo siamo un paese che non impara le lezioni". Invece l'emergenza è stata doppia, trasformando la pianificazione in improvvisazione.
Guido Bertolaso, sottosegretario e commissario straordinario per questo disastro, è stato persino costretto a sdoppiare la sala operativa, il cervello di tutte le operazioni. Una parte è finita nei locali della scuola sottufficiali delle Fiamme Gialle, una parte ha dovuto addirittura chiedere ospitalità a una struttura privata come la Reiss Romoli: un centro di alta formazione per le telecomunicazioni appartenente a Telecom Italia. Eppure, mai come questa volta si poteva essere pronti a scattare. Bastava rispettare la legge e ascoltare i segnali della natura, usando buon senso.
Dopo la strage di San Giuliano di Puglia, dopo l'assurdità di un terremoto che rade al suolo soltanto la scuola ossia l'edificio che doveva essere più solido, dopo la morte di quei ventisette bambini erano state varate nuove regole. Ma sono passati sette anni da quel sisma, scioccante ma di dimensioni limitate, e i controlli sui palazzi pubblici non sono ancora diventati operativi: rinvio dopo rinvio, l'entrata in vigore delle norme continua a slittare. La legge ignora i tempi della terra. E così in Abruzzo tanti sono morti per colpa di verifiche che i legislatori hanno preferito rimandare. Con oltre 70 mila edifici da esaminare, finora in tutta Italia di verifiche ne sono state fatte sette mila, appena il dieci per cento del totale. In Abruzzo la media è ancora più bassa. Quanto, nessuno lo sa esattamente. Un alto responsabile della Protezione civile che preferisce mantenere l'anonimato confessa con rabbia a “L'Espresso” di avere chiesto questi dati alla Regione Abruzzo senza riuscire ad ottenerli. Quello che è sicuro invece è che nessun intervento è stato fatto negli ultimi anni sugli edifici crollati all'Aquila, nonostante la Protezione civile disponesse di 280 milioni di euro per l'analisi della vulnerabilità e la messa in sicurezza delle strutture strategiche.
Il palazzo della Prefettura, per esempio, per la sua storica usura, secondo il professor Barberi andava pesantemente rinforzato. Oppure, in mancanza di volontà o di risorse, abbandonato a favore di un'altra sede sicura che ospitasse il quartiere generale dei soccorsi. Altre strade da seguire non ce n'erano. Non aver fatto né una cosa né l'altra apre un delicato capitolo sul fronte delle responsabilità che, secondo Barberi, "vanno comunque individuate". Il crollo della Prefettura ha infatti fatto perdere ore chiave. Subito dopo quella maledetta scossa delle 3.32 la macchina dell'emergenza a L'Aquila è rimasta senza testa: nessuna centrale, nessuna rete di collegamenti per coordinare il territorio con le strutture nazionali. Per indirizzare i soccorsi verso i paesi più colpiti, per orientare i mezzi a seconda delle necessità. "C'era un gravissimo problema di reti telefoniche e non riuscivo a contattare, dirigenti della provincia e sindaci", denuncia il presidente della Provincia, Stefania Pezzopane: "La gravità di quello che stavamo vivendo non è stata percepita subito".
I vertici delle operazioni si sono prima installati nella scuola di Telecom Italia, poi si sono trasferiti nella base della Guardia di Finanza, che disponeva di spazi per i veicoli e di connessioni con tutti gli apparati dello stato. Per ore c'è stato incertezza su come rintracciare i responsabili delle operazioni e sulla gestione delle informazioni. Ore preziose, in cui altre persone potevano essere salvate: altri superstiti oltre ai cento estratti dal coraggio di abitanti e soccorritori. Perchè nessuno ha verificato la stabilità della Prefettura? I piani di intervento, che la indicavano come centrale dell'emergenza, ricadono sotto la responsabilità della Protezione civile. Ed è incredibile che nonostante lo sciame di scosse che da giorni sia mancata la minima precauzione. Stefania Pezzopane parla di "tragedia annunciata": "Soprattutto dopo quello che succedeva da due mesi con numerosissime scosse come quella forte del 30 marzo che ci aveva portato alla chiusura di scuole". A più di dieci ore dal sisma, dichiara sempre la presidente della Provincia: "Ho l'impressione che la situazione del circondario sia stata sottovalutata".
La scossa del 30 marzo poteva essere un segnale d'allarme per mettere la macchina della Protezione civile in posizione di lancio. L'area interessata dai fenomeni sismici dista pochissimo da Roma, da Pescara e da Ancona, con una rete autostradale celebre per la sua estensione. Ci sono a distanze ridotte aeroporti civili e militari, ci sono basi di elicotteri, ci sono caserme dell'esercito e delle forze dell'ordine. C'era tutto per essere ineccepibili. E invece sono venuti a crollare i pilastri per la gestione dell'emergenza, lasciando nella confusione le prime ore, quelle più importanti per salvare le persone intrappolate tra le macerie.
Ancora più grave il caso dell'ospedale San Salvatore, entrato in funzione nel 1994 e che avrebbe dovuto resistere ad ogni genere di sisma. Invece è stato addirittura evacuato per le pesanti lesioni strutturali registrate anche nell'armatura del cemento. "E pensare che è costato tantissimo", afferma il suo direttore generale Roberto Merzetti: "In più, secondo le carte di cui disponiamo era stato a suo tempo garantito per resistere a terremoti addirittura più forti di quello che abbiamo appena registrato".
Non si sa quali garanzie siano a suo tempo state date per la Casa dello studente crollata e costata la vita di alcuni ragazzi. Anch'essa però era stata realizzata in cemento armato puntualmente spappolatosi sotto la spinta del sisma. Cemento del tutto particolare e inadatto alla bisogna e sul quale, sospettano in Regione, costruttori disonesti potrebbero avere speculato realizzando armature di scarsa qualità. Su tutto questo già si invoca l'intervento della magistratura. Perché i soccorritori arrivati sul posto lunedì si sono prodigati per tirare fuori dalle macerie quante più persone possibili, ma quelle ore chiave perse nell'assenza di un quartiere generale possono avere determinato la fine per molte altre vite imprigionate tra le travi. Nella speranza che almeno questa volte la lezione serva a evitare altri disastri futuri.
“Qui sono cadute anche le case nuove”. Parole di allarme del sindaco de L’Aquila a conferma che non sono crollate soltanto le vecchie case in pietra del centro storico: il terremoto del 6 aprile ha distrutto o danneggiato in modo tale da renderli inabitabili anche palazzi moderni. L’ospedale, un presidio che non dovrebbe solo restare in piedi ma anche funzionare in emergenza, è stato evacuato e dichiarato inagibile (per il 90%). Come l’hotel “Duca degli Abruzzi”, che non era in un palazzo di pietra antica e si è accartocciato su se stesso. O la chiesa di Tempera, a sette chilometri dall’Aquila, che era un edificio moderno, fino alla ormai tristemente nota Casa dello studente, in via XX Settembre, costruita a metà degli anni sessanta e crollata su se stessa.
Un problema non solo dell’Abruzzo, che pure è zona ad elevato rischio sismico. La Protezione civile calcola che in Italia siano 80 mila gli edifici pubblici “vulnerabili”: scuole, ospedali, uffici, caserme. A essi vanno aggiunte le infrastrutture presenti in zona (strade, ferrovie, ponti). Le scuole costituiscono una vera emergenza: quelle edificate in zone a rischio sarebbero 22 mila, 16 mila delle quali in aree ad alto rischio; di queste circa novemila sarebbero prive di criteri antisismici e potrebbero subire danni in caso di scosse. Si calcola che gli ospedali da mettere a norma siano invece 500. Ma a chi tocca intervenire? Chi decide le priorità, anche economiche? Un’autorità centrale specifica non esiste e gli enti responsabili sono una quantità enorme: le regioni hanno competenza per ospedali e strutture sanitarie, province e comuni per le scuole, lo Stato per prefetture e caserme. Dal 2003 la Protezione civile dirama con regolarità ordini di verifica, i controlli però sono impossibili, così come capire quali siano le priorità: bisognerebbe pianificare interventi in un lungo arco di tempo, almeno un decennio. Lo stesso discorso andrebbe fatto per il patrimonio edilizio privato. Un monitoraggio completo su scala nazionale non è stato fatto, ma soltanto una mappatura in alcune aree particolarmente a rischio.
Secondo statistiche Istat elaborate dall’ Associazione Nazionale dei Costruttori Edile (ANCE), le case costruite in base alla normativa del 1974 sono un terzo del totale in quanto gli immobili a uso abitativo costruiti prima di quell’anno sono 7,2 milioni, il 64 per cento. Si stima che tre milioni di italiani vivano in zone a elevata sismicità, soprattutto lungo la dorsale appenninica del Centro e Sud Italia (dalle Marche alla Calabria fino alla Sicilia), quasi 21 milioni in aree a media sismicità, più di 15 milioni e mezzo in aree a bassa sismicità e circa 20 milioni in aree a sismicità minima. Oltre un terzo del territorio nazionale presenta un rischio terremoti medio - alto.
Il presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri, Paolo Stefanelli, è stato molto netto: “Non stupisce affatto che della Casa dello studente sia crollata la parte più giovane. Tutti gli edifici costruiti negli anni ‘50 e ‘60, a causa del tipo di cemento armato usato, sono a rischio sismico in un tempo tra i 5 e i 30 anni”. E, a proposito del piano casa presentato dal Governo, dice: “Questo piano potrebbe rappresentare uno stimolo importante per ricostruire edifici a rischio a costo zero per lo Stato. Chi demolisce un edificio per ricostruirlo ampliato del 35 per cento potrebbe dare in permuta la volumetria aggiuntiva all’impresa che fa l’intervento ed avere un’abitazione sicura praticamente a costo zero con la consapevolezza che tanto prima o poi quell’edificio avrebbe richiesto un intervento radicale ai fini della sicurezza”.
A oggi, dice Stefanelli, manca ancora una norma che renda obbligatorio il monitoraggio sul tempo di vita delle costruzioni. Forse solo quella, perché di norme sull’edilizia antisismica l’Italia ne ha quattro, tutte contemporaneamente in vigore. Il decreto ministeriale 16 gennaio 1996 (”Norme tecniche per le costruzioni in zona sismica”) seguito, dopo il terremoto del 2003 in Molise, dall’Ordinanza della Protezione Civile 3274, che ha rimappato il territorio nazionale, aggiungendo zone sismiche o elevandone la classe. E poi altri due decreti, uno del 2005, l’ultimo del 2008, denominato “Nuove norme tecniche per le costruzioni in zona sismica”. Scienziati e tecnologi parlano chiaro: serviranno strutture antisismiche. Così a mettere le proprie competenze a disposizione delle popolazioni colpite dal sisma scende in campo il CNR che ha progettato, e testato con successo un anno fa in Giappone, una casa antisismica in legno, capace di resistere all’onda d’urto di magnitudo 7,2 della scala Richter, pari al sisma di Kobe che uccise, nel 1995, oltre seimila persone. Il progetto si chiama Sofie, Sistema costruttivo fiemme, ed è un prototipo messo a punto dall’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio nazionale delle ricerche (IVALSA CNR), insieme alla Provincia di Trento.
A convalidare il progetto italiano, spiega il CNR, “sono stati i laboratori dell’Istituto nazionale di ricerca sulla prevenzione disastri (NIED) di Miki, in Giappone, dove, alla fine del 2007, la casa di legno di sette piani e 24 metri di altezza realizzata dall’Ivalsa-Cnr di San Michele all’Adige ha resistito con successo al test antisismico considerato il più distruttivo per le opere civili: la simulazione del terremoto di Kobe di magnitudo 7,2 sulla scala Richter”. “Il legno è una valida alternativa ai metodi costruttivi tradizionali, in acciaio o muratura, e soprattutto un’alternativa economica, visto che, a parità di costi, le prestazioni e i rendimenti sono migliori”, dice una nota del Cnr. Attualmente, il primo esempio di rigorosa applicazione della tecnologia Sofie a un edificio pubblico è in fase di realizzazione a Trento, con un collegio universitario di 5 piani che ospiterà, in piena sicurezza, circa 130 studenti.
XILELLA FASTIDIOSA: RESPONSABILITA' DI STATO.
Xylella: responsabilità di Stato.
L’inettitudine e l’imperizia dei governanti, la demagogia, l’ignoranza e la falsità di un certo mondo ambientalista e gli appetiti di coloro che ne vogliano fare un business sono più dannosi della malattia. Si vuol desertificare il Salento sterminando tutte le piante in loco. Come dire: c’è una persona malata, si annientano tutti i conviventi e tutti i suoi compaesani. E' l'Isis europea che si abbatte sul patrimonio ambientale salentino.
Il grido d’aiuto lanciato dagli alberi salentini che possono avere una vita millenaria comincia ad espandersi e diffondersi, purché non si affronti la questione con un allarmismo che non solo sarebbe inutile, ma rischia di essere dannoso. Certo, nemmeno il complottismo può funzionare quasi che i salentini siano stati vittime di chissà quale trama ordita da chi lo vuol vedere piegato agli interessi extralocali.
All’inizio il progressivo ammalarsi delle piante venne riferito ad una molteplicità di fattori tra i quali figurava anche un batterio parassita, la Xylella fastidiosa. Con il corollario della prospettazione di un pericolosissimo rischio di contagio. Quasi che il Salento fosse diventato una bomba pronta ad esplodere contaminando il resto del Paese e persino l’Europa.
Ed ecco allora che si cerca di capire chi è il responsabile.
Parlare di responsabilità dello Stato italiano: di questo sì che si può parlare.
Il dr Antonio Giangrande, scrittore e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, autore del libro Agrofrodopolitania”, imputa al Governo la responsabilità della diffusione della malattia degli ulivi salentini e ne spiega analiticamente i motivi.
La Procura di Lecce apre un’inchiesta - al momento a carico di ignoti - per diffusione colposa della malattia degli ulivi nel Salento? I responsabili ci sono e non sono ignoti: è il Governo centrale e tutti quelli ambientalisti da strapazzo che si sciacquano la bocca con il termine “tutela dell’ambiente e della natura”, ma che in realtà sono più dannosi dei germi patogeni della Xylella. Non è una tesi campata in aria o di stampo complottistico. Ma la consapevolezza che i responsabili tanto ignoti non sono. Di sicuro vi è che il patrimonio olivicolo del Salento ha registrato un attacco grave ad opera di un processo chiamato CoDiRo (Complesso del disseccamento rapido degli ulivi).
Precisiamo che gli ulivi del Salento hanno centinaia di anni. Molti di loro erano centenari già all’epoca di Dante. Queste creature tante ne hanno viste e tanto ne avrebbero da raccontare sugli umani. «I miei ulivi stanno bene - precisa a Leccenews24 l'anziano agricoltore con gli occhi lucidi che lasciano trapelare una certa preoccupazione - ma ci sono campagne vicino alla mia dove è arrivata "quella cosa"». «Io non ci credo che non ci sia una cura, è impossibile. Guardi quest'albero, è storto, piegato su se stesso, sembra sul punto di spezzarsi da un momento all'altro. Eppure sono settant'anni che lo trovo sempre lì. Così mio padre. E mio nonno, non è bello?». Per un attimo stentiamo a capire come si fa a definire un albero "bello" poi basta guardarlo con un occhio diverso per rendersi conto che non esiste altro termine per descrivere quel tronco massiccio e contorto, che affonda le sue radici nel terreno puntellato di pietre e che si dirama verso il cielo con le sue chiome argentee e rigogliose. Queste lo sono ancora. Non una foglia marrone, non un ramo secco. Niente. A pensarci bene persino un genio della pittura come Renoir se n'era accorto, in una lettera datata 1889 scriveva testualmente «L'olivo, che brutta bestia! Non potete sapere quanti problemi mi ha causato. Un albero pieno di colori, neanche tanto grosso, e le sue foglioline, sapeste come mi hanno fatto penare! Un soffio di vento, e tutta la pianta cambia tonalità perché il colore non è nelle foglie ma nello spazio tra loro. Un artista non può essere davvero bravo se non capisce il paesaggio». L'anziano che abbiamo incontrato non sarà il maestro dell'impressionismo, ma il messaggio è più o meno lo stesso: la terra è un patrimonio naturalistico di inestimabile valore che deve essere tutelato, protetto. E i primi che dovrebbero farlo sono i contadini. Eppure sembrano essere diventati l’ultima ruota del carro, semplici spettatori di un dramma diventato ormai inarrestabile. «Le malattie ci sono da sempre, perché questa sarebbe diversa? Possibile che si possa combattere solo con l'eradicazione? Ma quando mai? - prosegue il contadino convinto che una soluzione ci sia e che basta solo trovarla – prima di prendere qualunque decisione bisogna fare molta attenzione perché i nostri ulivi, millenari e non, sono stati ottenuti mediante l’innesto della varietà (Cellina di Nardò e Ogliarola) su ceppo di selvatico resistente a ogni tipo di malattia. Non a caso i nostri uliveti sono soprannominati “uliveti reali” (così come classificate nelle carte geografiche dell’IGM) per la bellezza delle piante e la bontà delle olive e degli oli prodotti». «Non bisogna dimenticare poi che questa tipologia di alberi è riuscita anche a resistere all’incuria grazie al suo legame con la terra da cui estrae la linfa vitale per sopravvivere». «L’unico torto di questi alberi ultra secolari e alcuni addirittura millenari che sono gli unici testimoni viventi della storia dell’uomo è che non hanno mai chiesto niente a nessuno, nemmeno alle istituzioni che investono fior di milioni per un edificio storico, dove per edificio storico si intende anche un fabbricato con meno di cento anni, e delle piante non si sono mai interessati. Adesso devono pensare pure agli ulivi, che sono veri e propri monumenti. Glielo dobbiamo». «Queste cose succedono da quando abbiamo smesso di rispettare la terra – ci dice – gli ulivi sono stati dimenticati in primis dall’uomo, sono stati bistrattati, sono stati relegati in uno stato di assoluto abbandono, che solo l’inversione di rotta degli ultimi anni, forse salverà…». «Lei è favorevole all’eradicazione?» chiediamo al 70enne pur conoscendo la risposta e, infatti, perentorio, pronuncia un secco NO «al massimo si più tagliare tanto dalla radice. Usciranno dei polloni che nel giro di pochi anni possono diventare nuovi alberi di pregio, mantenendo così facendo la varietà autoctona nel nostro territorio». E poi usa un termine che strappa quasi un sorriso “scattunare”, questo bisogna fare. Prima di salutarci ci dice una frase che ci lascia un po’ l’amaro in bocca «dai batteri dobbiamo difenderci, ma se dobbiamo difenderci anche dagli uomini, siamo davvero spacciati». Quando si dice vecchia saggezza contadina.
Attenzione!!! Lo Stato Italiano, genuflesso al potere degli altri Stati europei, Francia in primis, gli ulivi li vuole eradicare, cioè sdradicare. Basterebbe tagliare il tronco in modo che germoglino nuove piante su quelle radici e in pochi anni tutto ritornerebbe allo status quo. Ma ciò non si può fare. Sarebbe troppo semplice e nessuno speculerebbe sulla disgrazia.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso internazionale con l'inerzia del Governo italiano che non difende il suo territorio. Nel Consiglio dei 28 ministri dell’agricoltura Ue del 16 marzo 2015, la sentenza per la Puglia: “Abbattere tutti gli alberi infettati dal batterio Xylella fastidiosa”. La richiesta è stata comunicata dal Commissario alla Salute Vytenis Andriukaitis, al Ministro italiano dell'Agricoltura, Maurizio Martina. L'eradicazione degli ulivi resta al centro della strategia Ue per contrastare la Xylella fastidiosa, il batterio killer che sta distruggendo gli ulivi del Salento. I paesi europei che si sentono più vulnerabili all'espansione del batterio Xylella, in particolare Francia, Grecia e Spagna, chiedono di abbattere almeno un decimo dei circa 9 milioni di alberi dell'area del Salento, mentre l'Italia ritiene sufficiente il piano del commissario Giuseppe Silletti, che prevede interventi più contenuti. In Italia, invece, lo scontro si è già spostato sul piano legale, dopo che la sezione di Lecce del Tar di Puglia ha accolto il ricorso di due avvocati proprietari di un uliveto a Oria, la località da cui dovrebbero partire le misure di emergenza. L’Europa ce lo chiede: “Prima di tutto dobbiamo essere molto chiari, tutti gli alberi colpiti dal batterio Xylella fastidiosa devono essere rimossi e questa è la prima cosa”. Colpi di accetta e motoseghe, dunque, su migliaia di ulivi e non solo. Anche su lecci, mandorli, ciliegi, albicocchi e tutte le altre piante, appartenenti ad almeno 150 specie, che risulteranno attaccate dal patogeno da quarantena arrivato dalle Americhe. Una raccomandazione che avrà come contraltare, in caso di mancato adempimento, l’avvio di una procedura di infrazione comunitaria. Non ha usato mezze misure il commissario europeo alla Salute e sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, al termine del Consiglio dei 28 ministri dell’agricoltura. Per Bruxelles, il contagio va contenuto dentro i confini della Puglia meridionale, a costo di applicare la soluzione più “dolorosa”. Come dire: gli abbattimenti dovranno essere ovunque, pure nei diecimila ettari intorno a Gallipoli, epicentro del contagio originario, e non solo mirati nei dodici focolai individuati e nella “fascia di eradicazione”. È questa striscia la prima sorvegliata speciale, lunga 50 chilometri e profonda 15, una sorta di fossato immaginario a cavallo tra le province di Lecce, Brindisi e Taranto. Le ruspe entreranno in azione innanzitutto lì, a tutela di una “fascia cuscinetto” al momento indenne. Tutta la penisola salentina, invece, è dichiarata “zona infetta”, sebbene sia interessata dal fenomeno solo in parte, in quaranta comuni. Spetterà agli stessi proprietari l’obbligo di tagliare le piante colpite, concetto al limite della discrezionalità, visto che sono ritenute tali quelle identificate “sia con analisi di laboratorio che con riscontro dei sintomi ascrivibili all’infezione di Xylella fastidiosa”, ma anche quelle “individuate come probabilmente contagiate”. Per chi si opporrà? Sanzioni amministrative e interventi in sostituzione da parte dell’agenzia regionale Arif. Così anche per chi non effettuerà le arature entro aprile e per chi si rifiuterà da maggio di usare insetticidi chimici.
Eppure la strage degli ulivi in Salento ha delle chiare responsabilità dello Stato italiano che ha legiferato sotto la spinta di un pseudo ambientalismo da strapazzo senza sentire i contadini. Ma andiamo per ordine. Oggi, il tanto decantato prodotto biologico profuso dagli ambientalisti ha portato i proprietari dei terreni a non trattare con prodotti naturali o chimici terreni e piante. Questa neo cultura impedisce di lavorare i terreni o le piante, con arature e concimazioni. Dietro lo spirito ambientalista, spesso, però, si nasconde la grave crisi dell’agricoltura. Non si curano i terreni e le piante per mancanza di liquidità e, perciò, si abbandonano. L’abbandono provoca l’essiccamento delle piante. Per quanto riguarda la potatura delle piante e la produzione delle stoppie i nostri antenati bruciavano in loco quanto si era potato. Ciò produceva concime e, di fatto, impediva che si propagasse l’infezione da parte di qualche pianta malata. Ma i nostri governanti, spinti dai soliti ambientalisti, ha ribaltato secolari sistemi di coltivazioni. Ricordiamo che l’art. 13 del D.Lgs. 205/2010, modificando l’art. 185 del D.Lgs. 152/2006, stabiliva che “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericolosi...", se non utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente o mettono in pericolo la salute umana devono essere considerati rifiuti e come tali devono essere trattati. Accendere falò in campagna per bruciare questi residui è quindi contro la legge poiché integrerebbe il reato, non solo amministrativo ma anche penale, di illecito smaltimento dei rifiuti. Sono già accaduti casi di verbali molto importanti a carico di agricoltori, sanzionati ai sensi dell' art. 256 del D.Lgs 152/2006 che prevede: “la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi” come sono considerate stoppie e ramaglie.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso legislativo. Con il decreto legge del 24 giugno 2014 n. 91, in vigore dal 25 giugno, si risolve il problema della bruciatura delle stoppie e dei residui vegetali che ha creato tanti problemi negli ultimi anni in quanto considerati rifiuti speciali. Il comma 8 dell’art. 14 del decreto legge modifica l’articolo 256 – bis del decreto legislativo 152/2006 ( “Codice Ambientale”) relativo alla combustione illecita di rifiuti, prevedendo che tali disposizioni “non si applicano al materiale agricolo e forestale derivante da sfalci, potatura o ripuliture in loco nel caso di combustione in loco delle stesse. Di tale materiale è consentita la combustione in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro nelle aree, periodi e orari individuati con apposita ordinanza del Sindaco competente per territorio. Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata.”. Ergo: Il Parlamento riconosce di aver emanato una legge sbagliata. Dalla nuova norma si capisce che il legislatore aveva fatto una gran boiata nell’alterare il naturale smaltimento dei residui di potatura. Si riconosce, inoltre, che lo spostamento di quei residui in altre aree di smaltimento ha prodotto il propagarsi del contagio.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso giudiziario. La procura di Lecce indaga sull’origine del batterio Xylella fastidiosa che sta decimando gli alberi di ulivo salentini. L’inchiesta, secondo quanto riferiscono alcuni quotidiani, starebbe seguendo due possibili strade. La prima è che il batterio sia arrivato in Puglia in occasione di un convegno scientifico che fu organizzato nel settembre 2010 dall’Istituto agronomico mediterraneo. Con una particolarità. Uno dei possibili indiziati, l’Istituto agronomico mediterraneo di Valenzano (Bari), “gode per legge di immunità assoluta”, spiega il pm di Lecce, titolare dell’inchiesta Elsa Valeria Mignone in un’intervista a Famiglia Cristiana. “L’autorità giudiziaria italiana non può violare il domicilio dell’istituto, non può effettuare sequestri, perquisizioni o confische”, spiega il magistrato. La seconda pista ipotizza che il batterio killer sia stato introdotto con le piante ornamentali importate dall’Olanda e provenienti dal Costa Rica. Ergo: Mancato controllo dello Stato o di Organi pubblici sull’introduzione di organismi dannosi nel territorio nazionale.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso finanziario. Tredici milioni di euro a disposizione del commissario straordinario per l’emergenza-ulivi. Lo ha annunciato il direttore dell’area Politiche per lo sviluppo rurale della Regione, Gabriele Papa Pagliardini. Le attività riguarderanno prevalentemente la lotta ai vettori del batterio, attraverso arature, sfalciature, potature e utilizzo di principi attivi che dovranno impedire ai cicadellidi di diffondere Xylella. Ovviamente si dovrà investire anche sulla ricerca, per sconfiggere il batterio là dove ha già attecchito (si parla di circa 40mila ettari infetti su un totale di 95mila coltivati a uliveto). Ma sulla ricerca di somme di denaro non si è parlato. Ergo: lo Stato finanzia l’estirpazione delle piante, ma non finanzia la ricerca per debellare la causa. Eppure basta poco. Basta dar credibilità a chi di piante se ne intende ed aiutarli finanziariamente a praticarne la cura.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso mediatico. L’idea è nata sul web, per iniziativa dello scrittore Pino Aprile, scrive Flavia Serr. Su La Gazzetta del Mezzogiorno. E dopo una valanga di «post», «tweet» e «ri-tweet», ecco che la grande mobilitazione promette di portare in piazza migliaia di persone (11mila le adesioni raccolte sulla rete). Tutti uniti sotto lo slogan «Difendiamo gli ulivi». Lo stesso grido di battaglia che è diventato un hashtag e ha inondato i social network (Facebook, Twitter e Instagram), fino a coinvolgere decine di artisti e volti noti dello spettacolo, salentini e pugliesi di nascita o «de core», mobilitati da Nandu Popu dei Sud Sound System, agguerritissima «sentinella» degli ulivi. Fra gli altri, sono scesi in campo (e ci hanno messo la faccia) Federico Zampaglione dei Tiromancino, Claudia Gerini, Emma Marrone, Samuele Bersani, Marco Mater azzi, Elio degli Elio e le Storie Tese, Fabio Volo, Raffaele Casarano, Après la classe, solo per citarne alcuni. E nelle scorse ore, anche Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, direttamente da New York dove sta ultimando il nuovo disco del gruppo, ha pubblicato su Fb una sua foto con il cartello in mano «#Difendiamo gli ulivi». Allo scatto, ha aggiunto anche un messaggio: «Queste straordinarie creature che stanno per essere eradicate, questi alberi secolari, chiamati “ulivi”, rappresentano centinaia, per non dire migliaia, di anni della storia e della vita di un popolo, come il nostro. So poco di agricoltura o di botanica. Ma so per certo una cosa: loro (le straordinarie creature) meriterebbero una riflessione ampia e consapevole e tutti noi abbiamo diritto di conoscere, di sapere se e perchè “nostri simili” stanno per lasciare la vita terrena. Abbiamo diritto alla verità». Sangiorgi in piazza ci sarebbe venuto oggi, e col pensiero c’è. Ed è vicino a quel movimento che chiede maggiore chiarezza sulle cause del disseccamento rapido degli ulivi e su tutte le possibili cure per affrontarlo. Insieme a Sangiorgi, il resto della «famiglia » Negramaro sposa la battaglia, con il batterista Danilo Tasco e il chitarrista «Lele» Spedicat o. Già nei giorni scorsi, un fiume di altre «star» pugliesi si sono dette pronte a mobilitarsi in difesa degli ulivi: dal regista Edoardo Winspeare allo stilista Ennio Capasa, passando per i comici Nuzzo e Di Biase, i fotografi Flavio&Fr ank, fino ad arrivare al rapper Caparezza che su Twitter ha scritto: «Arruolatemi tra le sentinelle degli ulivi. Urge chiarezza sulla xylella». Così, Le Iene il 2 aprile 2015 hanno mandato in onda un servizio con Nadia Toffa sull'argomento. Fabio Ingrosso e Nadia Toffa si sono recati nel Salento dove moltissime coltivazioni di ulivi sono state infettate da un batterio molto pericoloso originario della California, di cui in Europa in precedenza non si era riscontrata alcuna traccia. Il parassita si chiama "xylella" e rischia di decimare migliaia di ulivi secolari. La UE ha chiesto misure drastiche di intervento che prevedono l'eradicazione degli alberi malati seguendo una precisa mappatura. Ma l'eradicazione, per la quale sono stati stanziati diversi milioni di euro, è davvero l'unica soluzione? La Iena lo chiede ad un gruppo di ricercatori e, in seguito, ad alcuni contadini del posto che hanno adottato delle cure naturali per provare a salvare gli ulivi. Testimonial del servizio Caparezza a Albano Carrisi, due musicisti che, come molti altri artisti si stanno schierando contro l'eradicazione degli ulivi. Toffa ha spiegato con parole molto semplici qual è la situazione, dal punto di vista geografico (cioè per quali zone si sta prevedendo l'eradicazione), ma anche dal punto di vista storico: «Fino a oggi la Xylella non aveva mai colpito gli ulivi, e non è detto che sia la Xylella a far ammalare gli ulivi» sono state le sue parole, che contribuiscono a sollevare molti dubbi su quello che sta accadendo. Sono meno di 300, ha detto Toffa, gli ulivi malati: e allora perché l'eradicazione si preannuncia tanto massiva? Il servizio de Le Iene suggerisce un metodo per risanare gli ulivi dalle parole di un agricoltore, che ha curato le sue piante malate, oggi in salute, in alcuni mesi, irrorandole con una mistura di calce e solfato di rame, un rimedio della nonna che a quanto pare, nel caso dell'agricoltore intervistato, ha sortito il suo effetto. La parola degli ulivicoltori è al momento molto importante nel Salento: un'eradicazione massiva li getterebbe sul lastrico.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa una denuncia per la mancanza di volontà di trovare un rimedio curativo naturale per le piante. Quelli del movimento 5 Stelle di Tuglie hanno intervistato un agricoltore.
Domanda: Poltiglia bordolese, suggestione o via percorribile?
Risposta. Noi non interveniamo sul batterio, rafforziamo le autodifese della pianta con rimedi naturali. Non è affatto una suggestione, io curo ancora molte patologie dell’apparato respiratorio con i rimedi della nonna a base di erbe. Abbiamo solo utilizzato vecchie pratiche agronomiche, il solfato di rame è un antibatterico e un antifungino, l’idrossido di calcio (calce) è un disinfettante naturale usato da secoli. La vecchia poltiglia bordolese autoprodotta non porta ricchezza alle casse delle multinazionali dell’agrochimica. Successivamente siamo intervenuti alla radice, con un prodotto naturale a base di aglio, che alcuni ricercatori spagnoli venuti fin qui ci hanno gratuitamente consegnato per la nostra sperimentazione empirica. Ci siamo accertati che fosse un prodotto naturale e registrato e lo abbiamo usato alla base della pianta, intervenendo sulle radici.
D. Quali i sintomi della malattia?
R. La sintomatologia si nota dall’alto della chioma per poi diffondersi su tutta la branca, sino al basso della pianta. Proprio come una verticillosi.
D. Che fare appena si sospetta che l’uliveto potrebbe essere stato contaminato?
R. Noi non ci sostituiamo agli organi preposti, di certo non ci atterremo a quelle norme scellerate previste dalla quarantena che prevedono l’uso massiccio di diserbanti e insetticidi per uccidere i fantomatici insetti “vettori”.
D. E in termini di prevenzione?
R. Curare la terra e gli olivi. Una buona potatura aiuta la pianta a rivegetare, ossigenare il terreno con un leggero coltivo, ritornare alle buone pratiche dell’innerbimento e del “sovescio”: così facendo si restituisce alla pianta sostanza organica a costo zero. Disinfettare la pianta con la solita poltiglia bordolese autoprodotta (grassello di calce e solfato di rame). All’occorrenza, disinfettare e nutrire i tronchi con solfato di ferro e calce alle dosi consigliate.
D. Come si trasmette il batterio?
R. Non capisco il perché alcuni soggetti si accaniscono sul batterio e non sulla moltitudine di funghi tracheomicosi presenti sulla pianta e sulla radice. Credo che si stia facendo cattiva informazione: abbiamo perso il contatto con la realtà, e quindi dobbiamo tornare a essere più umili, prima con noi stessi e poi con madre Terra. Con la rivoluzione “verde” dettata dall’agrochimica sponsorizzata da alcune Università, abbiamo contribuito a distruggere la biodiversità e rotto quell’equilibrio biologico perfetto, frutto del creato. Io non uccido nessun essere vivente!
D. La falda inquinata, magari da rifiuti tossici, da percolato, può essere una spiegazione alla xylella?
R. Una cosa è certa: la nostra Terra è martoriata.
D. L’uso scriteriato della chimica e la smania di far produrre ogni anno le piante può aver influito sulla diffusione del batterio?
R. L’altro giorno leggevo la retro etichetta di una nota multinazionale dei diserbanti, recita così: “Buona Pratica Agricola nel controllo delle malerbe, l’applicazione degli agrofarmaci non è corretta se viene realizzata con attrezzature inadeguate”. Come possiamo ben notare, le stesse multinazionali dell’agrochimica, che prima ci avvelenano e poi ci “curano”, stravolgono il senso delle parole.
Domenica 5 Ottobre 2014 a Trani abbiamo concluso la 3 giorni del 2° meeting “Terra e Salute”, tra i relatori spiccavano alcuni nomi noti del mondo accademico, il prof. Cristos Xiloyannis e il prof. Pietro Perrino, ed erano entrambi a conoscenza della drammatica situazione in cui versano i nostri olivi, ne abbiamo parlato a lungo, sono concordi con le nostre analisi e con i nostri metodi naturali di intervento. La flora batterica è completamente assente, le sostanze nutritive di origine organica sono granelli di sabbia, la chimica non aiuta certo la pianta, anzi, contribuisce ad abbassare le autodifese.
D. L’eradicazione di cui si parla può fermare il batterio?
R. Che facciamo, applichiamo l’eutanasia agli olivi viventi? Di olivi completamente morti non ce ne sono e l’eradicazione non è una via percorribile e non risolve il problema batterio. Con i batteri e altri patogeni dobbiamo convivere, Dio non ha creato animali per essere uccisi, dobbiamo cercare il giusto equilibrio. Gli olivi sono la bellezza del nostro paesaggio agro-culturale. I nostri olivi non si toccano!
D. Posto che si eradichi, il pollione che nascerà crescerà sano?
R. Nelle zone più interessate all’essiccamento, Li Sauli, Castellana, ecc., possiamo notare che l’arbusto olivo reagisce, ma non ha la forza per mantenere tutto il peso della chioma, perché mancano le sostanze nutrienti naturali. Quindi, è la pianta che lascia morire parte di se stessa. Quando viene potata e quindi alleggerita dal suo carico, l’olivo reagisce, perché concentra le proprie energie nutritive sui pochi rami rimasti.
D. Cosa pensa dell’ipotesi che la xylella sia stata portata per boicottare l’olio di Terra d’Otranto?
R. Se sia stata importata o no, non sta a noi verificarlo, avevamo dei dubbi e per questo presentammo un esposto in Procura. Una cosa è certa: questa nostra martoriata Terra è sotto attacco, e gli avvoltoi sono troppi, la nostra Terra fa gola a molti speculatori, fa gola pure alle mafie del cemento.
D. Che interessi si giocano sul nostro olio?
R. La nostra Regione era la terra più vitata d’Italia, poi ci convinsero a estirpare circa il 30-40% deiDSC_1301 nostri vitigni, con punte del 50% nel Salento in cambio di 10-12 milioni delle vecchie lire per ha, quote cedute alle Regioni del Nord. Non vorrei che si praticasse lo stesso parassitismo per i nostri olivi: il Sud ha già dato troppo al Nord.
D. La raccolta 2014 è iniziata, la produzione
calerà. Dall’estero arrivano disdette di ordini: può rassicurare il consumatore
che nonostante il batterio l’olio prodotto è di ottima qualità?
R. L’attuale annata è scarsa in tutto il Bacino del Mediterraneo, e non a causa
del batterio. La nostra preoccupazione è per le prossime annate, fin quando i
nostri olivi non si riprenderanno. Quest’anno la produzione non sarà sufficiente
a soddisfare tutte le richieste, e l’essiccamento non incide minimamente sulla
qualità del prodotto. Siamo preoccupati dell’invasione di olio proveniente dagli
impianti ultra-intensivi dell’Australia.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa una denuncia sugli aspetti speculativi dell’ambiente. Scrive Antonio Bruno. La speculazione della Green Economy Industriale, la stessa che sta devastando impunemente il nostro Paese con pannelli e pale eoliche nelle campagne! La stessa lobby politico-imprenditoriale trasversale che ha devastato la campagna di Puglia con mega torri eoliche e che falcidia uccelli e stupra paesaggio, e con deserti sconfinati di pannelli fotovoltaici. Non un solo albero è stato piantato contro il “climate change” in Salento, contro la desertificazione, ma i suoli sono stati strappati all’agricoltura e alla vita, e desertificati artificialmente al fotovoltaico. E’ quello della Green Economy Industriale un mercato drogato da iperincentivazione pubblica e di rapina! A partire dalla costituzione della Banca Mondiale a Washington (accordi di Bretton Wood), uno dei primi obiettivi fissati fu quello di riportare ricchezza nel Salento a beneficio dei salentini, attraverso proprio l’ampio progetto di riforestazione del Salento, mediante la piantumazione massiccia di piante autoctone, ma non fu mai portato a termine! Il paradosso è che se ogni giorno sul Financial Times o sul The Guardian si parla di riforestazione inglese per combattere il “climate change”, non si riesce a capire come sia possibile che Governo, Regione e province ignorino del tutto questa necessità per il Salento, terra d’Italia con il minor numero di boschi, a causa di artificiali disboscamenti selvaggi. Mentre un tempo non lontano era tra le più verdi e pittoresche regioni d’Italia, ed era anche più ricca d’acqua in superficie, proprio grazie alla presenza del fitto manto boschivo! Una foga economica degenerante, sviluppatasi purtroppo a partire dal Protocollo di Kyoto, trasformato ingiustamente in cavallo di Troia della frode. Ora, con la scusa dei fuochi accesi stupidamente nei campi dai contadini per smaltire le ramaglie, si son giustificati inceneritori di biomasse-ramaglie, ed in realtà anche rifiuti, a fini termoelettrici, di potenze fino ad 1MW, realizzabili attraverso la incostituzionale L.R. 31/2008 della Puglia, con una semplice DIA Dichiarazione di Inizio Attività presentata al comune interessato! Un intero nocivo e pericoloso opificio industriale realizzato con una DIA! Tutto questo quando invece bastava un’ordinanza dei sindaci per vietare quei fuochi inutili fumosi ed indiscriminati nei campi, ed invitare i contadini a triturare le ramaglie e altri scarti in loco, al fine di farne compost. Non a caso nel mercato vi sono biotrituratori che triturano e spargono sminuzzati scarti vegetali e organici in generale sui suoli, che in piccolissime pezzature vanno incontro a rapidissimi processi di compostaggio naturale al suolo. Serviva alimentare queste centrali a biomasse solide con scarti locali, secondo la filiera corta, quale allora migliore trovata delle ramaglie e degli scarti di potatura dei prossimi uliveti e vigneti per giustificarne l’autorizzazione, spiegando che si sarebbe eliminato il problema dei fuochi nei campi! Problema risolto portando tutta la biomassa in uno stesso luogo, magari alle porte di una città, e accendendo lì nelle fornaci di quell’industria elettrica un fuoco perenne, 24 ore su 24! Questa l’hanno chiamata soluzione ecocompatibile! Ma allora non era meglio lasciar accendere quei fuochi sparsi nei campi, con un effetto di diluizione dei fumi anziché concentrarli tutti a danno di una comunità? E poi c'è il business del Pellet. Perché questo combustibile - definito eco - è ormai un business da diversi zero, vista l'enorme richiesta di questo combustibile. Mentre le analisi sui Pellet provenienti dalla Lituania della NaturKraft continuano ad essere eseguite nei laboratori dei reperti speciali dei Vigili del Fuoco di Roma, alcuni organi di stampa hanno riportato la notizia di altre anomalie riscontrate in Pellet prodotti da una decina di aziende italiane. Ricordiamo che i pellet devono essere prodotti con lo scarto della lavorazione di legno vergine. Ossia, è vietato il riutilizzo di legno già impiegato per altri scopi o altri prodotti. Quindi, per dirla in altre parole, deve trattarsi di materiale di scarto proveniente dalle industrie che producono e trasformano il legno vergine. Nel caso riportato da organi di stampa nazionale, sembrerebbe che questo non stia succedendo. Anzi, nei pellet si troverebbero tracce di legno utilizzate da mobilio vario, tra cui anche bare funerarie. Non solo. Il Nucleo operativo ecologico (Noe) di Treviso ha denunciato 14 persone di 10 aziende delle province di Treviso e Vicenza per la produzione di pellet da residui di lavorazione del legno di provenienza illegale. Gli investigatori hanno precisato che l’indagine non ha attinenze con i controlli sull’esistenza di presunto materiale radioattivo nei pellet in atto da alcuni giorni. La Procura di Treviso ha posto sotto sequestro un’azienda di San Michele di Piave (ritenuta la maggiore produttrice di pellet in Italia) assieme a oltre 20 mila tonnellate di legno trattato che sarebbe stato trasformato in combustibile per stufe e bruciatori. Insomma, in questi pellet si troverebbero residui di lavorazione di mobili, cornici, bare e altri prodotti trattati con vernici e colle. Perché questo? Perché gli scarti di legno trattato costano all’incirca la metà del legno vergine. Contaminato.
Ecco dimostrato. Responsabile di tutto è lo Stato e un certo ambientalismo speculativo.
Terremoto xylella. La Procura blocca le eradicazioni: dieci indagati (anche Silletti), ulivi sequestrati, scrive “Il Quotidiano di Puglia” del 18 dicembre 2015. Terremoto sul piano di contenimento della diffusione della xylella fastidiosa. La Procura di Lecce esce allo scoperto con un decreto di sequestro preventivo che blocca le eradicazioni degli ulivi. E mette sott’inchiesta i protagonisti della lotta contro l’essiccamento rapido. Primo fra tutti il colonnello della Forestale, Giuseppe Silletti, 62 anni, commissario per l'emergenza xylella e responsabile dei due piani di intervento che portano il suo nome. I nomi. Le 58 pagine di decreto di sequestro preventivo a firma del procuratore capo Cataldo Motta, dell’aggiunto Elsa Valeria Mignone e del sostituto Roberta Licci sono in corso di notificazione in queste ore e riguardano anche Antonio Guario, 64 anni, nel ruolo di ex dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale di Bari; Giuseppe D’Onghia, 59 anni, dirigente del Servizio Agricoltura area politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia”; Silvio Schito, 59 anni, dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale di Bari, Giuseppe Blasi, 54 anni, capo dipartimento delle Politiche europee ed internazionali e dello Sviluppo rurale del Servizio fitosanitario centrale; Nicola Vito Savino, 66 anni, docente universitario e direttore del centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura Basile Caramia” di Locorotondo; Franco Nigro, 53 anni, micologo di Patologia vegetale dell’università di Bari; Donato Boscia, 58 anni, responsabile della sede operativa del Cnr dell’istituto per la Protezione sostenibile delle piante; Maria Saponari, 43 anni, ricercatrice del Cnr dell’istituto per la Protezione sostenibile delle piante; e Franco Valentini, 44 anni, ricercatore dello Iam di Valenzano. I reati contestati. L’inchiesta dell’aggiunto Mignone e del sostituto Licci contesta violazioni colpose e dolose delle disposizioni ambientali, diffusione di una malattia delle piante, falso ideologico, turbativa violenta del possesso di cose immobili in merito all’obbligo delle eradicazioni, nonché deturpamento o distruzione di bellezze naturali. Gli sviluppi. La Procura di Lecce che indaga dopo gli esposti presentati nella primavera dell’anno scorso dalle associazioni ambientaliste, ribalta le certezze sull’efficacia del piano Silletti annunciate dall’Unione europea e dal Ministero delle Politiche agricole: non vi sarebbe prova - secondo la Procura - che la Xylella fastidiosa sia stata importata dal Costarica. Come non vi sarebbe prova dell’efficacia delle eradicazioni, anzi l’essiccamento non ha fatto altro che aumentare. Ci sarebbe invece un concreto pericolo per l’incolumità della salute pubblica con l’uso massiccio di pesticidi, alcuni dei quali vietati ed autorizzati in via straordinaria: già nel 2008, quando ancora non si parlava ufficialmente di Xylella, nel Salento ne furono impiegati 573mila 465 chili su 2 milioni 237mila 792 chili in tutta Italia. L’attenzione è tutta sui campi di sperimentazione della lebbra dell’ulivo: gli stessi dove si è poi diffusa la Xylella. Fra questi la zona fra Gallipoli, Alezio e Taviano, Lecce nel parco Rauccio, il Nord Salento fra Sud e Trepuzzi ed il Sud di Brindisi. Le istituzioni sono state accusate di aver avuto un approccio scientifico univoco che non ha fermato il disseccamento ed ha invece messo in pericolo la salute della popolazione. Gli avvisi di garanzia sono legati al provvedimento di sequestro preventivo, provvedimento che rende necessario informare le persone coinvolte nelle indagini. L'inchiesta prosegue.
Xylella, sequestrati tutti gli ulivi da abbattere: 10 indagati. C’è anche commissario straordinario Silletti. Il provvedimento della Procura di Lecce riguarda gli esemplari destinati all’abbattimento secondo il piano di contenimento del batterio. Iscritti nel registro degli indagati anche i ricercatori di Cnr e Iam. I reati contestati vanno dalla diffusione colposa di una malattia delle piante alla distruzione o deturpamento di bellezze naturali, scrive Tiziana Colluto il 18 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Svolta nell’inchiesta della Procura di Lecce sulla diffusione del batterio Xylella fastidiosa. Sono dieci i nomi che sono stati iscritti sul registro degli indagati. Tra loro, oltre a funzionari della Regione Puglia, ricercatori del Cnr e dello Iam e componenti del Servizio Fitosanitario centrale, c’è anche Giuseppe Silletti, comandante regionale del Corpo Forestale, nelle vesti di commissario straordinario per l’emergenza fitosanitaria. Rispondono dei reati di diffusione colposa di una malattia delle piante, inquinamento ambientale colposo, falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali. I nomi sono riportati nel decreto con cui le pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci dispongono il sequestro preventivo d’urgenza di tutte le piante di ulivo interessate dalle operazioni di rimozione immediata come previsto dal Piano Silletti e individuate nell’ordinanza del commissario del 10 dicembre scorso. Sotto chiave sono finiti anche tutti gli ulivi interessati dalla richiesta di rimozione volontaria “sulla base del verbale dell’Ispettore fitosanitario, in cui si rileva la presenza di sintomi ascrivibili a Xylella fastidiosa”, in esecuzione alle previsioni della nota di Silletti del 3 novembre scorso. Inoltre, sono sequestrate tutte le piante di olivo già destinatarie dei provvedimenti di ingiunzione e prescrizione di estirpazione di piante infette emessi dall’Osservatorio fitosanitario regionale. Su quei terreni, ad ogni modo, si consente qualunque intervento colturale che non sia il taglio degli alberi al colletto del tronco o la loro eradicazione. Il decreto è stato notificato a Silletti nel pomeriggio del 18 dicembre dagli agenti del Nucleo ispettivo del Corpo Forestale dello Stato. Gli altri indagati sono l’ex e l’attuale dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale, Antonio Guario e Silvio Schito; Giuseppe D’Onghia, dirigente del Servizio Agricoltura Area politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia; Giuseppe Blasi, capo dipartimento delle Politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale del Servizio fitosanitario centrale; Vito Nicola Savino, docente dell’Università di Bari e direttore del Centro di ricerca Basile Caramia di Locorotondo; Franco Nigro, docente di Patologia vegetale presso Università di Bari; Donato Boscia, responsabile della sede operativa dell’Istituto per la protezione sostenibile delle Piante del Cnr; Maria Saponari, ricercatrice presso lo stesso istituto del Cnr; Franco Valentini, ricercatore presso lo Iam di Valenzano. Nelle 58 pagine di decreto, viene ripercorsa l’intera vicenda, a partire dalla prima segnalazione dei sintomi di disseccamento degli ulivi, già dal 2004-2006 e poi nel 2008. All’inizio, però, si attribuirono le cause solo alla lebbra dell’olivo, per la quale, tra il 2010 e il 2012, sono stati anche avviati campi sperimentali “per testare prodotti non autorizzati” per combattere la malattia e per il diserbo degli oliveti con fitofarmaci Monsanto. Nelle varie tappe anche i primi convegni italiani su Xylella, come quello nell’ottobre 2010 presso lo Iam di Bari. Infine, le analisi, fatte svolgere dalla Procura su ulivi di San Marzano (Ta) e Giovinazzo (Ba), con gli stessi sintomi delle piante salentine. Hanno dato esito negativo. E per gli inquirenti questa è la prova per cui “la sintomatologia del grave disseccamento degli alberi di ulivo non è necessariamente associata alla presenza del batterio, così come d’altronde non è, ancora allo stato, dimostrato che sia il batterio, e solo il batterio, la causa del disseccamento”.
Xylella, procura di Lecce: “Ue tratta in errore. Batterio presente in Salento da 20 anni. Indagheremo su fondi emergenza”. “Non voglio dire che l’Unione Europea sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti - ha detto il procuratore capo Cataldo Motta in conferenza stampa - l'inchiesta non è conclusa", continua Tiziana Colluto il 19 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". “L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri sulla vicenda Xylella”: è la stoccata lanciata dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, all’indomani del sequestro di tutti gli ulivi salentini destinati all’estirpazione e dell’avviso di garanzia a dieci indagati, tra cui il commissario straordinario Giuseppe Silletti. “Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti – ha ribadito Motta durante la conferenza stampa convocata in mattinata in Procura, a Lecce –. Uno dei dati non esatti è legato proprio alla diffusione recente del batterio sul territorio, ciò che è stato dato per scontato e ha motivato i provvedimenti di applicazione dei protocolli da quarantena”. Viene capovolta, così, l’intera prospettiva: secondo la ricostruzione fatta dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, Xylella è presente nel Salento “da almeno 15 o 20 anni”. Cosa significa? Che “la quarantena per un batterio che sta sul territorio da tanto tempo dovrebbe essere assolutamente inutile” e, quindi, non sarebbe giustificata la proclamazione dello stato di emergenza fatta dal governo. “Ben altre sarebbero state le misure da attendersi anche a livello europeo a tutela dello Stato italiano e della Regione Puglia”, scrivono gli inquirenti. Sono bollate, infatti, come “inidonee” le drastiche misure di contenimento del parassita, quali l’uso massiccio di pesticidi e il taglio di migliaia di ulivi, tra l’altro senza la necessaria e preventiva valutazione di impatto ambientale. “I tentativi fatti in tutto il mondo – hanno spiegato i magistrati –hanno dimostrato l’inutilità dell’estirpazione. I rimedi vanno studiati e attuati con gradualità”. È quello che si ritiene sia mancato. E di fronte all’assunto, più volte ribadito dall’Osservatorio fitosanitario regionale, per cui basta la semplice rilevazione dell’esistenza di Xylella per applicare il regime di quarantena, la Procura ha ribattuto: “Quelle misure hanno un senso se l’introduzione è recente. È poi anche una questione di gradualità dei mezzi di contenimento. Se avete l’influenza non vi fate abbattere. A maggior ragione in un territorio che fonda non solo l’economia ma anche la propria immagine sugli oliveti, questo contemperamento di interessi doveva essere tenuto presente”. I test di fitofarmaci non autorizzati per combattere la lebbra dell’olivo e per diserbare i terreni sono i principali indiziati del disseccamento che ha colpito le piante. Tra il 2010 e il 2012, sono stati avviati dei campi sperimentali appositi nelle campagne intorno a Gallipoli, cuore del primo focolaio dell’infezione. In particolare, in quel periodo è stato concesso per due volte l’utilizzo in deroga, nel secondo caso prolungato, di un fitofarmaco di nome Insigna della Basf, distribuito in grossi quantitativi dai consorzi agrari ai coltivatori. “E’ possibile – scrivono i pm – che questo secondo impiego del prodotto per un periodo così lungo e senza limitazioni di trattamenti abbia scatenato l’esplosione della sintomatologia che ha poi portato alla ricerca di altri patogeni. Altamente probabile è dunque l’ipotesi che prodotti impiegati, unitamente ad altri fattori antropici e ambientali, abbiano causato un drastico abbassamento delle difese immunitarie degli alberi di olivo, favorendo la virulenza dell’azione dei funghi e batteri, tra i quali Xylella fastidiosa”. A questi si sono aggiunti i test del Roundup Platinum di Monsanto. “Quel che è dato acquisito – è riportato nel decreto – è che le due società interessate alle sperimentazioni in campo nel Salento sono collegate tra loro da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito sin dal 2008 la società Allelyx (specchio di xylella…) dalla società brasiliana Canavialis ed avendo la Basf a sua volta investito 13,5 milioni di dollari in Allelyx nel marzo 2012”. Il workshop tenuto presso l’Istituto agronomico mediterraneo di Bari, nell’ottobre 2010, è una delle strade indicate dalla Procura per l’introduzione in Italia del batterio da quarantena “in violazione della normativa di settore”. Oltre al muro di gomma che i magistrati avrebbero, almeno all’inizio, riscontrato a causa del particolare regime di immunità giurisdizionale di cui gode lo Iam, gli occhi sono puntati sull’importazione di campioni di Xylella a fini di studio, in parte su vetrini e in parte tramite piantine già inoculate. I materiali, provenienti da Belgio e Olanda, avrebbero dovuto viaggiare scortati da specifici passaporti, di cui in parte, secondo gli inquirenti, si è persa traccia, tanto da parlare di “gravi irregolarità nella documentazione di accompagnamento”. “L’inchiesta non è conclusa”, ha specificato Motta. Sono almeno tre i filoni su cui si continuerà ad indagare. Il primo attiene alla destinazione dei finanziamenti piovuti sulla Pugliadopo la proclamazione dello stato di emergenza da parte del governo. Il secondo, invece, riguarda gli “inquietanti aspetti relativi al progettato stravolgimento della tradizione agroalimentare e della identità territoriale del Salento per effetto del ricorso a sistemi di coltivazione superintensiva e introduzione di nuove cultivar di olivo”. Il riferimento è all’accordo tra l’Università di Bari, “che ha gestito in maniera monopolistica lo studio” del batterio, e la spagnola Agromillora Research srl. L’intesa, approvata dal senato accademico nell’ottobre 2013, riguarda la valutazione e commercializzazione di nuove selezioni di olivo, nate dall’ibridazione di due cultivar, Leccino (considerata resistente a Xylella) e Ambrosiana. L’ateneo barese incasserà il 70 per cento delle royalties sul fatturato annuo derivante dallo sfruttamento del brevetto. Il terzo filone d’indagine riguarda la ricerca. “Da notizie in corso di verifica giunte alla polizia giudiziaria operante – è riportato nel decreto di sequestro – sembrerebbe che il Comitato (di natura tecnico-scientifica, istituito dal Ministero delle Politiche agricole e composto da 16 esperti, ndr) compia mera attività di facciata con poca possibilità di entrare nel merito dei fatti per i quali è stato istituito, in quanto i membri appartenenti al gruppo di ricerca di Bari non forniscono chiari risultati di ricerca da poter essere valutati in seno alle riunioni del Comitato”. È certo che su questo ci saranno nuovi ascolti. Ed è certo anche che ciò apre la porta all’individuazione di eventuali nuove responsabilità sull’omesso controllo in capo al Ministero delle Politiche agricole.
Ulivi malati, ricercatori sotto accusa. Motta: «Ingannata l’Unione europea». Il procuratore di Lecce parla dopo il sequestro delle piante malate. Dieci indagati, scrive Antonio Della Rocca il 19 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. «L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto è stato rappresentato con dati impropri e non del tutto esatti», ha spiegato il capo della Procura di Lecce, Cataldo Motta, illustrando i punti salienti dell’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Xylella fastidiosa, il patogeno considerato concausa del disseccamento rapido degli ulivi salentini. La Procura ha disposto il sequestro degli ulivi malati e tra gli indagati, oltre a studiosi, ricercatori e funzionari della Regione, vi è anche Giuseppe Silletti, il commissario governativo per l’emergenza Xylella. «Ci siamo trovati di fronte a direttive europee, in parte molto rigorose, come l’eradicazione degli ulivi, che sono state emesse dall’Unione europea sulla falsa rappresentazione della situazione», ha specificato Motta. La Procura, che nel corso delle indagini, peraltro ancora in corso, si è avvalsa della collaborazione di un pool di periti, ha anche emanato un decreto di sequestro di tutti gli ulivi che, in base alla più recente ordinanza commissariale, dovrebbero essere abbattuti nell’ambito delle misure di contrasto alla batteriosi scoperta nel 2013 nelle campagne di Gallipoli. Secondo la Procura, inoltre, non ci sarebbe stato finora il necessario «confronto allargato» tra organismi scientifici per poter stilare adeguate strategie di contenimento della diffusione del batterio. Piuttosto, lo studio si sarebbe concentrato in un regime quasi monopolistico nelle mani di pochi ricercatori. Inoltre, ha sottolineato Motta, «non è stato accertato il nesso di causalità tra il batterio Xylella fastidiosa e la malattia», e malgrado si possa ipotizzare che il fenomeno del disseccamento sia presente nel Salento da almeno 15 anni, si è deciso, in modo inappropriato, di procedere con l’abbattimento delle piante. Un metodo che, a giudizio della Procura, non rappresenta la soluzione più idonea per combattere un fenomeno ormai diffuso e radicato da molti anni.
Xylella, il procuratore di Lecce accusa: "Europa ingannata, lucrano sull'emergenza". Per il capo dei pm Cataldo Motta alla base del caos ci sarebbe una conoscenza incompleta del problema: "Il commissario ha privilegiato solo ipotesi che portavano all'eradicazione", scrive chiara Spagnolo il 19 dicembre 2015 su “La Repubblica”)"L'Unione europea è stata tratta in inganno con una falsa rappresentazione dell'emergenza xylella fastidiosa, basata su dati impropri e sull'inesistenza di un reale nesso di causalità tra il batterio e il disseccamento degli ulivi". Per questo l'inchiesta della Procura di Lecce "indagherà anche sui finanziamenti stanziati e usati per l'emergenza, considerato che di emergenza non si tratta". Il giorno dopo il sequestro di tutti gli ulivi salentini per cui è stata disposta l'eradicazione e l'invio di avvisi di garanzia al commissario di governo e a nove fra dirigenti e ricercatori che si sono occupati del caso, è il capo della Procura leccese, Cataldo Motta, a spiegare il motivo di un provvedimento che ha posto fine ai tagli di alberi e forse anche all'esperienza del commissario Giuseppe Silletti. Alcuni ambientalisti, entrati nella stanza del procuratore poco prima della conferenza stampa, hanno applaudito e mostrato un cartello di ringraziamento ai pm che hanno condotto l'inchiesta. Sul cartello la scritta: "C'è un giudice a Lecce, anzi due. Grazie". A quest'ultimo viene contestato di avere disposto Piani inappropriati e addirittura dannosi per l'ambiente salentino, a causa del massiccio uso di fitofarmaci. E di eradicazioni a tappeto, che non sembrano affatto risolutive. Il nodo sta tutto nel fatto che la xylella è presente in Puglia "da almeno venti anni" e che allo stato esistono ben nove ceppi diversi, che ne mostrano la mutazione genetica. "Ciò escluderebbe la necessità di interventi emergenziali - ha chiarito Motta - e la stessa legittimazione della quarantena, che è stata la base da cui l'Europa è partita per imporre misure drastiche". Secondo quanto hanno accertato gli uomini del Corpo forestale (di cui fra l'altro il commissario Silletti è comandante regionale), alla base del caos xylella ci sarebbe innanzitutto una conoscenza incompleta del problema, "determinata dalla scarsità di confronto scientifico e dall'aver privilegiato solo alcune ipotesi, che portavano inevitabilmente alle eradicazioni". Per questo il sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone - che ha coordinato l'indagine assieme alla collega Roberta Licci - si è augurata che "inizi proprio da ora un confronto scientifico vero sulla materia", al fine di individuare la strada giusta per combattere il disseccamento rapido degli ulivi. Sul fatto che i tagli non siano la scelta migliore, i magistrati non hanno dubbi: "l'eradicazione del batterio non si fa con l'estirpazione delle piante - ha chiarito il procuratore capo - E anche l'Unione europea non ha mai imposto di abbattere immediatamente tutti gli alberi malati ma di contenere la malattia, provando prima altre soluzioni". Tentativi che, a quanto pare, non sono stati fatti. E sui quali, a questo punto, bisogna ragionare perché l'Ue chiede comunque risposte che fino a pochi giorni fa si pensava dovessero pagare dalle eradicazioni. Intanto gli indagati penseranno a difendersi. I reati contestati sono diffusione colposa della malattia delle piante, falso ideologico e materiale in atto pubblico, inquinamento ambientale e deturpamento delle bellezze naturali.
Procuratore di Lecce: «Falsi i dati sulla xylella inviati all'Europa», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 dicembre 2015. «L'Europa ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti sulla Xylella, così come realmente accaduto nel Salento. E’ stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri». Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta stamattina per illustrare i presupposti dell’inchiesta che ha portato al sequestro di tutti gli ulivi delle province di Brindisi e Lecce interessati da provvedimenti di abbattimento decisi nel corso dell’ultimo piano redatto dal commissario straordinario Giuseppe Silletti. «L'indagine non è compiuta» ha specificato poi il procuratore Motta in riferimento all’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Xylella fastidiosa che ha portato ieri all’emissione di un decreto di sequestro d’urgenza a firma dei magistrati Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci che indagano su dieci persone tra cui anche il commissario straordinario per l'emergenza Xylella, Giuseppe Silletti. Accertamenti sarebbero in corso - a quanto si è appreso - anche sulla modalità di concessione e utilizzo dei finanziamenti pubblici. L’inchiesta parte dal presupposto, ha spiegato Motta: «che non è stato accertato il nesso di causalità tra il complesso del disseccamento rapido degli ulivi e la Xylella Fastidiosa». «Abbiamo trovato alberi non colpiti da disseccamento che sono però risultati positivi alla Xylella - ha detto Motta - e alberi secchi che non sono invece risultati contagiati». Hanno applaudito e mostrato un cartello di ringraziamento ai due pm che hanno condotto l'inchiesta, Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, alcuni ambientalisti che hanno fatto ingresso nella stanza del procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta, poco prima della conferenza stampa. Sul cartello mostrato c'è scritto: "C'è un giudice a Lecce, anzi due. Grazie".
Terremoto xylella, il governatore Emiliano: "Il provvedimento è una liberazione", scrive “Lecce Sette” sabato 19 dicembre 2015. Il commento del governatore di Puglia, Michele Emiliano, in relazione alla svolta nelle indagini della Procura di Lecce sull'affaire Xylella. “La notizia del provvedimento di sequestro da parte della Procura della Repubblica di Lecce è arrivata come una liberazione. Finalmente avremo a disposizione dati tecnici ed investigativi per discutere con l’Unione Europea della strategia finora attuata per contrastare la Xylella, fondata essenzialmente sull’eradicazione di massa di alberi malati e sani”. Così in una nota il governatore Michele Emiliano, a poche ore dalla notiza della clamorosa svolta nelle indagini della Procura di Lecce sull'affaire xylella. “Questa strategia viene messa totalmente in dubbio dalle indagini effettuate da magistrati scrupolosi, prestigiosi e notoriamente stimati per la prudenza che li ha sempre contraddistinti nell’esercizio delle funzioni – commenta - Credo anche che possiamo considerare chiusa la fase della cosiddetta emergenza. La malattia è ormai insediata, e non può più essere totalmente debellata. Dobbiamo dunque riscrivere da zero le direttive da impartire agli agricoltori e a tutti gli altri soggetti interessati, che potranno consistere in tutti quegli atti e quelle azioni che non comportino l’eradicazione delle piante”. “In questi mesi la Regione Puglia ha sempre ribadito alla Procura della repubblica di Lecce la sua disponibilità a fornire collaborazione alle indagini in corso. E anche oggi ribadisco questa disponibilità assieme alla piena fiducia negli uffici giudiziari leccesi. Mi sento di dire che questo intervento è l’equivalente di quello della magistratura tarantina nel caso Ilva”, si legge nella nota e conclude: “La Regione Puglia è persona offesa degli eventuali reati commessi si riserva di indicare elementi di prova che possano contribuire all’accertamento della verità. In caso di rinvio a giudizio si costituirà parte civile nei confronti di tutti gli imputati”.
Xylella, M5S: Emiliano chieda scusa agli agricoltori, scrive “Inchostro Verde” il 19 dicembre 2015. Accolgono con estrema soddisfazione la decisione della Procura di bloccare le eradicazioni i Consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle. Le indagini dei magistrati si incardinano infatti sulle stesse tesi che i pentastellati ribadivano da tempo sia in Consiglio regionale che nelle piazze pugliesi e che sono state oggetto di una mozione votata all’unanimità dal Consiglio solo qualche giorno fa. In merito alle dichiarazioni di Emiliano replicano così: “Oggi, Emiliano, con la sua Giunta, dovrebbe solo tacere” dichiarano Rosa Barone, Gianluca Bozzetti, Cristian Casili, Mario Conca, Grazia Di Bari, Marco Galante, Antonella Laricchia e Antonio Trevisi “proprio lui che aveva promesso di scatenare l’inferno in campagna elettorale contro la Xylella e che non ha fatto nulla se non limitarsi ad istituire un tavolo multidisciplinare sul tema identico a quello proposto dal M5S. Addirittura usando le stesse parole per definirlo e convocando gli stessi esperti che il M5S aveva dichiarato di voler coinvolgere. Proprio lui Presidente di una Regione che ha osato arrivare a costituirsi contro quei poveri agricoltori che hanno dovuto subire passivamente la distruzione dei loro terreni e che si “erano azzardati” a fare ricorso. Dopo aver deliberato per le eradicazioni, aver richiesto al Ministero l’accelerazione di queste procedure, questo dovrebbe essere il giorno della vergogna. Quelle parole che oggi usano per guadagnare qualche titolo sulla stampa piuttosto le usino per porgere le loro scuse agli agricoltori e ai cittadini nei comitati, con le loro decisioni li hanno soltanto umiliati. Oggi Emiliano parla di “soddisfazione perchè finalmente qualcuno ha portato delle prove” ma mente sapendo di mentire perchè quelle stesse prove le aveva portate il Movimento 5 Stelle in Regione Puglia da mesi, aveva convocato addirittura esperti che ripetevano le nostre stesse tesi ed aveva presentato una mozione votata all’unanimità dall’intero Consiglio Regionale (su cui Emiliano e la sua Giunta si erano invece vergognosamente astenuti) ed incardinata sulle stesse identiche tesi che oggi anche i magistrati portano avanti. Quali altre prove aspettava Emiliano che il Movimento 5 Stelle non gli avesse portato sotto gli occhi da tempo?”. I 5 Stelle non risparmiano una stoccata neanche le altre forze politiche: “Non possiamo non ricordare inoltre che, affinchè fosse votata in Consiglio Regionale, la nostra mozione ha dovuto subire delle modifiche perchè per i vecchi partiti ‘i nostri termini erano troppo forti’. Oggi invece tutti si spellano le mani nell’applaudire i magistrati. Saremmo felici di constatare che non è mai troppo tardi per cambiare idea se non fosse che la loro incoerenza ha lasciato morire migliaia di alberi e le speranze degli agricoltori. Se fossimo stati noi ad amministrare questa regione, tutto ciò non sarebbe mai successo”.
Xylella, la denuncia di "Nature": in Italia ricercatori sotto accusa come per il sisma a L'Aquila. La prestigiosa rivista scientifica dedica sul proprio sito un articolo sull'inchiesta della Procura di Lecce che ha chiamato in causa, insieme col commissario straordinario Silletti, anche nove ricercatori, scrive “La Repubblica” il 22 dicembre 2015. Indice puntato contro i ricercatori ancora una volta in Italia: lo rileva la rivista scientifica internazionale Nature, che sul suo sito dedica un articolo alla diffusione della xylella in Puglia e ai nove ricercatori sospettati di avere avuto un ruolo nella diffusione del batterio che ha gravemente danneggiato gli uliveti. Nell'inchiesta è coinvolto anche il commissario straordinario Giuseppe Silletti. Non è la prima volta che in Italia i ricercatori salgono sul bando degli accusati: è già accaduto nella vicenda giudiziaria seguita al terremoto dell'Aquila, con sette ricercatori sul banco degli accusati (sei dei quali assolti dalla Cassazione nel novembre scorso). Nella conferenza stampa del 18 dicembre scorso, citata anche da Nature, i magistrati avevano additato l'attività scientifica effettuata da ricercatori di Università di Bari, Istituto agronomico mediterraneo (Iam) di bari e Centro di ricerca e sperimentazione in agricoltura Basile Caramia di Locorotondo (Bari). Per i magistrati, come ha ampiamente riferito Repubblica nei giorni scorsi, sono i "protagonisti assoluti e incontrastati nella storia xylella". Nessuna dichiarazione in merito da parte dei ricercatori. Uno degli accusati, il responsabile dell'unità di Bari dell'Istituto per la protezione sostenibile delle piante del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), Donato Boscia, ha detto di essere "certo che emergerà quanto prima la nostra completa estraneità". Il sospetto, per lui come per gli altri ricercatori, è di aver diffuso il batterio e presentato false documentazioni alle autorità giudiziarie, oltre che di inquinamento ambientale e deturpazione del paesaggio naturale. "Sono accuse folli", ha detto a Nature Boscia, che non ha intenzione di commentare una vicenda sulla quale è in corso un'indagine. Computer e documentazione dei ricercatori erano stati confiscati nel maggio scorso e da allora, osserva la rivista, "non è stata resa nota alcuna evidenza contro i ricercatori". Eppure, prosegue Nature, permane il sospetto che la xylella sia stata importata dalla California in occasione di uno workshop organizzato nel 2010 dall'Istituto agronomico mediterraneo. Più volte in passato, tuttavia, i ricercatori hanno affermato che in quell'occasione non era stata utilizzata la xylella. Nature rileva che il ceppo di xylella diffuso in Puglia, originario di Costa Rica, Brasile e California, è stato identificato per la prima volta in Europa, nell'Italia meridionale, nel 2013. Per la maggior parte dei ricercatori, conclude la rivista, è molto probabile che il batterio sia arrivato in Italia con piante ornamentali importate dal Costa Rica.
Xylella, l'ombra del complotto con le multinazionali. I pm: "Il batterio importato durante un convegno". I magistrati leccesi sono convinti che, al contrario di quanto sostenuto da Università e Istituto agronomico del mediterraneo (Iam), il batterio sia stato importato dallo Iam nel corso dell'evento nel 2010, scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica" del 20 dicembre 2015. Mettiamola così: se ha ragione la Procura di Lecce, si tratta del più grande complotto mai realizzato da attori istituzionali ai danni di un territorio e della loro principale ricchezza: la natura. Università, politica, centri di ricerca, multinazionali, tutti insieme per un piano diabolico e infame. Se invece i magistrati di Lecce stanno sbagliando, si tratta di un attacco violentissimo alla scienza. Per capire come stanno le cose sarà quindi necessario aspettare le prossime settimane, quando altre istituzioni, a partire dall'Unione europea passando dal governo italiano, dovranno evidentemente dire qualcosa. Prendere una posizione. Perché mai come in questo momento è opportuno sapere. La prima domanda da farsi è: il batterio della xylella causa l'essiccamento degli ulivi? Su questo la comunità scientifica aveva pochi dubbi: sì. E invece la Procura, sulla base di altre perizie, nel decreto di sequestro spiega esattamente il contrario. "E' stata fornita una falsa rappresentazione della realtà con riguardo all'asserito, ma assolutamente incerto, ruolo specifico svolto dalla xylella fastidiosa nella sindrome del disseccamento degli alberi di ulivo - si legge negli atti - e con riguardo all'asserita, ma assolutamente incerta, presenza nel Salento di una popolazione omogenea del batterio e della sua recente introduzione dal Costa Rica. I magistrati sono convinti che, al contrario di quanto sostenuto da Università e Istituto agronomico del mediterraneo (Iam), il batterio sia stato importato dallo Iam nel corso di un famoso convegno del 2010. Che dai documenti che attestavano l'ingresso in Italia della xylella "emergessero gravi irregolarità". E che la documentazione originale non è mai stata ritrovata anche perché i ricercatori dello Iam avrebbero finto di cercarle nel corso della perquisizione. Ma non basta: la Procura, senza per il momento fare contestazioni formali, nota due cose: la prima è che ci sono interessi nella diffusione del batterio. Chi, per esempio, ha puntato su nuovi tipo di coltivazioni dell'olivo come la Sinagri srl, spin off dell'Università di Bari, che lavora con Iam e Basile Caramia, gli enti incaricati dei controlli sulla xylella. E che ha tra i suoi 'amici' i professori Vito Savino, all'epoca preside della facoltà di Agraria; Angelo Godini, "fautore dell'eliminazione del deviato degli alberi di ulivo e in particolare di quelli monumentali ", e Giovanni Paolo Martelli, "lo stesso che poi suggerirà, in base a una mera "intuizione" di fine agosto 2013, di indagare la presenza della xylella quale causa dei fenomeni di disseccamento dell'ulivo". "Savino, Godini e Martelli - scrive ancora la Procura - condividono peraltro un medesimo approccio culturale nell'Accademia dei Georgofili, di cui fa parte anche il professor Paolo De Castro, già ministro dell'Agricoltura e attualmente eurodeputato, che ha riferito in commissione proprio sulla questione xylella". Negli atti è poi raccontato uno strano episodio: nel 2010-2011 in Salento si tengono "campi sperimentali di nuovi prodotti contro la 'lebbra dell'olivo', epoca prima della quale - nota la Procura - non era esploso il fenomeno del disseccamento rapido". Per questo motivo li ministero autorizza l'uso di alcuni diserbanti particolari, per un periodo limitato di qualche mese, in zone specifiche del Salento. La Forestale ha contattato alcuni dei proprietari dei terreni e altri testimoni: raccontavano di aver visto in quel periodo persone che "in abiti civili, con tute bianche modello 'usa e getta' in dotazione alla polizia scientifica, si aggiravano fra gli olivi con in mano dei barattoli di colore blu e bianco. Effettuavano anche alcune manovre, alla base degli alberi". Gli alberi avevano dei cartelli. Bene: durante il sopralluogo della polizia giudiziaria, si è notato che "la maggior parte degli alberi di olivo, sui quali erano stati appesi i cartelli, erano quasi completamente bruciati: alcuni mesi addietro si era sviluppato un incendio". Strano, perché aveva colpito alcuni alberi e alcuni no. "Sembrerebbe che abbiano colpito - dice la procura soltanto quelli legati alla sperimentazioni della "Lebbra dell'olivo" ovvero la prove in campo del Roundpop Platinum della Monsanto. L'incendio dovrebbe essere dunque di natura dolosa con finalità di eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi ". Che cos'è la Monsanto? E' un leader nella realizzazione dei pesticidi. Ed è la stessa ditta che finanza un convegno sulla xylella nel 2010, nel quale "presenta un progetto di nome Gipp per la buona pratica di diserbo nell'oliveto di Puglia". La pratica prevede una serie di interventi compreso l'uso di un diserbante totale che serve per mantenere "pulito da erbacce l'oliveto". Bene, si tratta proprio del Roundpop, lo stesso che avrebbe potuto bruciare quegli ulivi. E' la stessa società che nel 2007 ha acquisito la società "Allelyx - scrive la Procura - Parola specchio di xylella...".
Xylella, Bruxelles a pm di Lecce: “Dati non sbagliati, avanti con taglio degli ulivi”. Ma i test furono condotti in serre bucate. Enrico Brivio, portavoce dell'Esecutivo comunitario per l'Ambiente, la Salute e la Sicurezza alimentare, risponde a Cataldo Motta, capo della procura salentina, che sabato scorso aveva parlato di una "falsa interpretazione dei fatti". La rimozione degli alberi, quindi, deve continuare. Ma dalle carte dell’inchiesta emerge uno dei dettagli più pesanti: le prove di patogenicità sono state condotte all’interno di vivai non a norma, scrive Tiziana Colluto il 22 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". L’Ue tira dritto sull’emergenza Xylella, nonostante l’alt della Procura di Lecce: la Commissione europea “non ha al momento alcuna indicazione del fatto che l’Italia le avrebbe comunicato dati sbagliati”, ha detto il portavoce dell’Esecutivo comunitario per l’Ambiente, la Salute e la Sicurezza alimentare, Enrico Brivio. Dunque, avanti con le procedure di eradicazione del batterio, comprese quelle di abbattimento degli ulivi. “Se gli alberi sono sotto sequestro, non si possono toccare”, si mette di traverso il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha chiesto ai pm di essere ascoltato come persona offesa e di acquisire il decreto di sequestro e le consulenze allegate per inviarle a Bruxelles. In quelle carte, tra le varie prove raccolte, c’è qualcosa di clamoroso: i test di patogenicità, vale a dire la prova del nove del rapporto di causa-effetto tra Xylella e disseccamento delle piante, sono stati condotti in serre bucate, non a norma, e sono stati avviati cinque mesi prima dell’autorizzazione rilasciata dall’Osservatorio fitosanitario nazionale. L’Ue: “Le misure vanno attuate” – Quella di Brivio è la risposta implicita alle parole del procuratore capo: “Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti. E’ stata tratta in errore da quanto è stato rappresentato con dati impropri e non del tutto esatti”, aveva detto Cataldo Motta, nella conferenza stampa di sabato mattina. “La Commissione europea non commenta le inchieste giudiziarie in corso”, ha replicato il portavoce dell’Esecutivo comunitario, ricordando che due settimane fa l’Ue ha messo in mora l’Italia per non aver pienamente realizzato il piano contro la Xylella. “E’ molto importante che queste misure siano attuate”, ha ribadito, poiché, laddove si è diffusa, “la Xylella è uno dei patogeni delle piante più pericolosi, con un enorme impatto economico sull’agricoltura”. Come ammesso dallo stesso Brivio, “resta da capire pienamente il ruolo specifico svolto dalla Xylella e le sue implicazioni” nella diffusione della sindrome del disseccamento rapido degli ulivi in Salento; tuttavia, il batterio “è stato trovato in piante giovani che mostravano i segni della sindrome e che non avevano altri patogeni”. Dunque, nessun passo indietro su quanto dettato da Bruxelles nella decisione di esecuzione di maggio e recepito dal Ministero delle Politiche agricole e dal commissario straordinario Giuseppe Silletti, anche lui tra i dieci indagati. I provvedimenti prevedono la rimozione degli alberi infetti e delle piante potenziali ospiti in un raggio di cento metri, nei focolai fuori dalla provincia di Lecce, soprattutto nel Brindisino. Tagli congelati, per il momento, prima dal Tar Lazio e ora dalla Procura. Sulla stessa sponda dell’Ue ci sono la Società Italiana di Patologia Vegetale e la Società Entomologica Italiana, che si dicono “sconcertate” dal decreto di sequestro degli ulivi. Per il tramite dei loro rispettivi presidenti, Giovanni Vannacci e Francesco Pennacchio, entrambe affermano di non essere a “conoscenza di nuove evidenze sperimentali, validate dalla comunità scientifica, tali da modificare le linee guida già espresse nel documento rilasciato al termine del convegno nazionale”, organizzato sull’argomento il 3 luglio scorso a Roma. “Le motivazioni degli interventi di contenimento – aggiungono – originano dal solo riscontro della presenza di un organismo da quarantena qual è Xylella fastidiosa, e non dal nesso di causalità tra questo e la sindrome di disseccamento rapido dell’olivo. Le solide basi di conoscenza fornite dalla ricerca internazionale, recepite dall’Ue e dalle organizzazioni fitoiatriche nazionali e internazionali, consentono di concludere che la diffusione di X. fastidiosa sul territorio nazionale ed europeo aprirebbe prospettive drammatiche per l’agricoltura. La misura del suo potenziale impatto economico può essere stimata dal confronto con episodi precedenti, quale la diffusione in Brasile di questo patogeno, ritenuto responsabile di danni per circa 100 milioni di euro l’anno”. Eppure, per gli inquirenti a traballare è l’impianto stesso su cui si fondano i piani di contenimento del batterio. La consulenza allegata al decreto “ha posto in serio dubbio – hanno scritto i pm – l’attendibilità delle conclusioni scientifiche rappresentate all’Europa e che hanno costituito il presupposto delle determinazioni assunte sia a livello europeo che a livello nazionale”. Il riferimento è soprattutto alla presenza di più ceppi, e non di uno solo, di Xylella sul territorio: almeno nove, segno di una presenza del patogeno sul territorio “da 15-20 anni”, così tanti da non poter giustificare, secondo la Procura, lo stato di emergenza. I protocolli da quarantena, a suo avviso, sono stati tradotti in un “piano di interventi univocamente diretto alla drastica e sistematica distruzione del paesaggio salentino, benché costituisca ormai dato inconfutabile che l’estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione dell’organismo nocivo né a impedire la diffusione del disseccamento degli ulivi né tantomeno a contribuire in alcun modo al potenziamento delle difese immunitarie delle piante interessate”. Cuore delle indagini resta l’assenza di un dimostrato nesso di causalità tra Xylella e disseccamento degli ulivi. Ad appurarlo dovranno essere i test di patogenicità svolti dal Cnr di Bari. Ma quali? È su questo che, dalle carte dell’inchiesta, emerge uno dei dettagli più pesanti: quelle prove sono state condotte all’interno di serre non a norma. Il5 novembre scorso, infatti, la polizia giudiziaria e uno dei consulenti tecnici della Procura hanno fatto un sopralluogo nel vivaio dell’Arif (Agenzia regionale per le risorse irrigue e forestali), in contrada Li Foggi, a Gallipoli, culla dell’infezione. È quello uno dei luoghi in cui sono state messe a dimora numerose piantine di varie specie, nelle quali Xylella è stata veicolata mediante infezione naturale da parte del vettore e inoculo artificiale del batterio. I risultati sono destinati, molto probabilmente, ad essere invalidati: “La rete della serra presentava una grossa fessura che ne permette il contatto diretto con l’esterno e che pertanto non è garantito l’isolamento totale delle piante in essa allocate per la sperimentazione”. Non una sottigliezza, dunque. Tra l’altro, quelle prove sono iniziate a partire dal 4 luglio 2014, mentre il Cnr è entrato in possesso della necessaria autorizzazione alla detenzione e manipolazione del patogeno da parte del Servizio fitosanitario nazionale solo il 16 dicembre 2014.
«Xylella, attacco al paesaggio», scrive Pino Ciociola il 23 dicembre 2015 su “Avvenire”. Territorio sotto attacco. Affaire Xylella: dai «protagonisti istituzionali e non», c’è stata «perseveranza colposa, tale da sfiorare la previsione dell’evento se non il dolo eventuale, nell’adozione di un piano d’interventi univocamente diretto alla drastica e sistematica distruzione del paesaggio salentino». Si legge a pagina 51 dell’'Ordinanza di sequestro preventivo d’urgenza' degli ulivi, firmata dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci e dal capo della Procura leccese, Cataldo Motta. Altro «dato inconfutabile» (fra molti): «Proprio le misure imposte dai Piani Silletti, ivi compreso l’uso massiccio dei pesticidi, rappresentano un serio rischio per l’incolumità pubblica». E ancora, «è stata fornita una falsa rappresentazione della realtà riguardo all’asserito, ma assolutamente incerto, ruolo specifico svolto dalla Xylella nella sindrome del disseccamento degli ulivi». Insomma, la realtà è «molto più articolata e complessa» di quella riportata «alla Comunità Europea». E col «serio dubbio» sull’«attendibilità » di quelle conclusioni scientifiche rappresentate all’Europa», ma che sono state «il presupposto delle determinazioni assunte a livello europeo e nazionale». Il capo della Procura leccese l’aveva spiegato sabato scorso: «Le indagini non sono compiute» e ne appaiono chiari i motivi scorrendo l’ordinanza, emessa insieme a 10 avvisi di garanzia. Ricostruzione con prove e testimonianze (queste ultime a volte false o contraddittorie) di quanto 'accade' dal 2009, cioè quando «appare già indubbio sia databile il fenomeno del disseccamento degli ulivi in Salento». Lunga storia dalla quale, per gli inquirenti, «emerge chiaramente la colposa inerzia degli organi preposti al controllo fitosanitario nazionale e della Regione Puglia nell’attenzionare l’ingravescente fenomeno del disseccamento degli ulivi» e «l’assoluta imperizia dei suddetti organi e dei soggetti con essi interfacciatisi quali unici interlocutori, vale a dire Iam, Università di Bari e Cnr». Il lavoro della Procura appare certosino, le sue conclusioni anche. È «ormai dato inconfutabile – scrivono i magistrati – che la estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione del disseccamento, né a contribuire al potenziamento delle difese immunitarie delle piante», anzi dov’è stata realizzata, per esempio a Trepuzzi, «ha comportato una esplosione del fenomeno del disseccamento!». Fra gli altri dati «acquisiti», poi, c’è che «almeno dal 2013» si sapeva come «al disseccamento rapido dell’ulivo contribuissero diverse concause» e che «la manifestazione della sintomatologia del disseccamento non sia necessariamente correlata alla presenza della Xylella». Passo indietro. I primi anomali disseccamenti sugli ulivi vengono notati nel 2008 nelle campagne fra Gallipoli, Racale, Alezio, Taviano e Parabita. Ed è sempre «dato conclamato» che negli anni 2010/2011 e 2013 «sono state condotte in territorio salentino sperimentazioni anche con l’uso di prodotti fortemente invasivi». Torniamo ai giorni nostri. Da marzo scorso alcuni agricoltori si accorgono che uomini in tu- ta bianca («Modello 'usa e getta' in dotazione alla polizia scientifica», spiega la Procura) si aggirano fra gli ulivi con barattoli di vernice blu e bianca, affiggono cartelli con la scritta «Campo sperimentale». Accade che poi questi ulivi brucino e qualche volta stranamente o miratamente. Morale? «Si ritiene – scrive la Procura – che l’incendio di ulivi sui quali sarebbero avvenute le sperimentazioni legate alla 'lebbra dell’ulivo', ovvero le prove in campo del Roundop Platinum della Monsanto, sia di natura dolosa con finalità d’eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi». Nuovo passo indietro: la multinazionale aveva promosso a Bari nel 2013 il 'Progetto Gipp', con l’utilizzo del 'Roundup Platinum' del Roundup 360 power con glifosato e l’'Area manager Centro Sud' della Monsanto, Lino Falcone, raccontava che «il 'Progetto Gipp' non nasce dal caso, abbiamo lavorato due anni per studiare la situazione malerbologica nell’uliveto pugliese e individuare gli aspetti critici». Infatti il Roundup è un diserbante totale – annota la Procura leccese – e il glisofato «si trasmette nel terreno, predispone le piante a malattie e tossine» e provoca diverse altre conseguenze. L’11 settembre 2014 c’è un’altra serata di presentazione del Progetto Gipp e del Roundup platinum, stavolta nel leccese, in un resort a Lequile. Detto che «non è pervenuta risposta» alla richiesta d’informazioni «sulle aree interessate da campi di sperimentazione all’Osservatorio Fitosanitario regionale», i magistrati vanno avanti: «Le due società interessate alle sperimentazioni in Salento, Monsanto e Basf, sono collegate da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito dal 2008 la società Allelyx (leggete la parola al contrario... ndr) dalla società brasiliana Canavialis e avendo la Basf nel marzo 2012 investito 13,5 milioni di dollari nella 'Allelyx'». Contattata, l’azienda rimanda al suo blog: «Non c’è nessuna ragione plausibile per cui Monsanto, i cui prodotti servono ad aiutare gli agricoltori, farebbe qualcosa che può causare problemi agli olivicoltori italiani», si legge ad esempio sull’Affaire Xylella. La Procura non ha dubbi: dai primi disseccamenti e «senza che ne fossero state individuate le cause – si legge nell’Ordinanza –, sono state condotte in territorio salentino sperimentazioni anche con l’uso di prodotti fortemente invasivi, tanto da essere vietati per legge, in un contesto di grave compromissione ambientale» e senza «alcun previo studio sull’impatto che avrebbero avuto sull’ambiente». Ma l’Affaire Xylella è appunto complesso. Ci sono – sottolinea la Procura leccese – laboratori che «hanno effettuato analisi e ricerche su campioni di ulivo senza il necessario accreditamento» e 10 mesi prima di ottenerlo, come il Centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura 'Basile Caramia' (a Locorotondo). L’Università di Bari che «ha effettuato prove in campo e serra senza la necessaria autorizzazione» e 4 mesi prima di ottenerla. A proposito. Pagina 35 fra le 59 dell’Ordinanza: «Ciò che è emerso è che in Salento potrebbero esserci più ceppi differenti» di Xylella, «per lo meno nove!» e «nonostante i ricercatori del Cnr di Bari Donato Boscia e Maria Saponari in più occasioni ufficiali sostengano essercene uno solo».
NO TAP. VIOLENZA ED IPOCRISIA.
La coperta corta e l’illusione della rappresentanza politica, tutelitaria degli interessi diffusi.
Di Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha scritto i libri che parlano delle caste e delle lobbies; della politica, in generale, e dei rispettivi partiti politici, in particolare.
La dittatura è una forma autoritaria di governo in cui il potere è accentrato in un solo organo, se non addirittura nelle mani del solo dittatore, non limitato da leggi, costituzioni, o altri fattori politici e sociali interni allo Stato. Il ricambio al vertice decisionale si ha con l’eliminazione fisica del dittatore per mano dei consanguinei in linea di successione o per complotti cruenti degli avversari politici. In senso lato, dittatura ha quindi il significato di predominio assoluto e perlopiù incontrastabile di un individuo (o di un ristretto gruppo di persone) che detiene un potere imposto con la forza. In questo senso la dittatura coincide spesso con l'autoritarismo e con il totalitarismo. Sua caratteristica è anche la negazione della libertà di espressione e di stampa.
La democrazia non è altro che la dittatura delle minoranze reazionarie, che, con fare ricattatorio, impongono le loro pretese ad una maggioranza moderata, assoggetta da calcoli politici.
Si definisce minoranza un gruppo sociale che, in una data società, non costituisce una realtà maggioritaria. La minoranza può essere in riferimento a: etnia (minoranza etnica), lingua (minoranza linguistica), religione (minoranza religiosa), genere (minoranza di genere), età, condizione psicofisica.
Minoranza con potere assoluto è chi eserciti una funzione pubblica legislativa, giudiziaria o amministrativa. Con grande influenza alla formazione delle leggi emanate nel loro interesse. Queste minoranze sono chiamate "Caste".
Minoranza con potere relativo è colui che sia incaricato di pubblico servizio, ai sensi della legge italiana, ed identifica chi, pur non essendo propriamente un pubblico ufficiale con le funzioni proprie di tale status (certificative, autorizzative, deliberative), svolge comunque un servizio di pubblica utilità presso organismi pubblici in genere. Queste minoranze sono chiamate "Lobbies professionali abilitate" (Avvocati, Notai, ecc.). A queste si aggiungono tutte quelle lobbies economiche o sociali rappresentative di un interesse corporativo non abilitato. Queste si distinguono per le battagliere e visibili pretese (Tassisti, sindacati, ecc.).
Le minoranze, in democrazia, hanno il potere di influenzare le scelte politiche a loro vantaggio ed esercitano, altresì, la negazione della libertà di espressione e di stampa, quando queste si manifestano a loro avverse.
Questo impedimento è l'imposizione del "Politicamente Corretto” nello scritto e nel parlato. Recentemente vi è un tentativo per limitare ancor più la libertà di parola: la cosiddetta lotta alle “Fake news”, ossia alle bufale on line. La guerra, però, è rivolta solo contro i blog e contro i forum, non contro le testate giornalistiche registrate. Questo perché, si sa, gli abilitati sono omologati al sistema.
Nel romanzo 1984 George Orwell immaginò un mondo in cui il linguaggio e il pensiero della gente erano stati soffocati da un tentacolare sistema persuasivo tecnologico, allestito dallo stato totalitario. La tirannia del “politicamente corretto”, che negli ultimi anni si è impossessata della cultura occidentale, ricorda molto il pensiero orwelliano: qualcuno dall'alto stabilisce cosa, in un determinato frangente storico, sia da ritenersi giusto e cosa sbagliato e sfruttando la cassa di risonanza della cultura di massa, induce le persone ad aderire ad una serie di dogmi laici spacciati per imperativi etici, quando in realtà sono solo strumenti al soldo di una strategia socio-politica.
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
Tante menzogne e tanta ipocrisia gira intorno alla questione dei NO TAP.
Generalmente si dice “Le sentenze si rispettano”, quando queste sono attinenti al culo degli altri. Invece nel basso Salento vige l’anarchia. Magari hanno anche le loro ragione quelle comunità. Ma in un paese ove vige il Diritto, la legge e le sentenze che la applicano, esige rispetto. E comunque non si può usare violenza nascondendosi dietro un numero. Cioè il numero di persone coinvolte loro malgrado in questioni più grandi di loro, giusto per soddisfare le manie oniriche di grandezza di qualche personaggio in cerca di visibilità. Usando i bambini, per giunta. Così come fa una certa antimafia per le sue manifestazioni liturgiche.
Una società civile ha i suoi strumenti per affermare il suo dissenso. Le vie per poterlo fare sono:
Adire le vie legali fino ai più alti gradi di giustizia, anche per vedere se dietro i lavori si nascondono interessi mafiosi che lucrano e che coprono anche giudiziariamente e politicamente i responsabili;
Rivolgersi a coloro che li rappresentano in sede politica ed istituzionale locale e nazionale. Perché è da masochisti votare sempre e comunque coloro che prendono per il culo l'elettorato.
Altro non si può fare e si passa dalla ragione al torto se si usa violenza contro le Forze dell’Ordine con sassaiole e bombe carta nel loro albergo; contro gli operai dei cantieri; contro i giornalisti che documentano i fatti.
Inoltre si passa dalla ragione al torto se in nome di una ideologica battaglia i NO TAP, a loro dire “in difesa degli Ulivi secolari”, distruggono i muretti a secco, anch’essi secolari, per fare blocco stradale, per impedire la libera circolazione e il proseguimento dei lavori.
Il solito autolesionismo. Adesso abbiamo i No Tap, che sono peggio dei No Tav e s'affratellano con loro nel disordine pubblico e nella politica di decrescita felice, anti capitalista, scrive Francesco Forte, Mercoledì 29/03/2017, su "Il Giornale". Adesso abbiamo i No Tap, che sono peggio dei No Tav e s'affratellano con loro nel disordine pubblico e nella politica di decrescita felice, anti capitalista. Non c'è più la stella rossa. In cambio ce ne sono 5 senza colore che li sostengono e promettono loro il reddito di cittadinanza, con cui avranno più tempo per protestare. L'opposizione alla Tap è peggio di quella alla Tav sia perché colpisce la Puglia che ha molti più problemi di sviluppo del Piemonte e sia perché mentre oltre alla linea Lione-Torino-Kiev esistono altri corridoi ferroviari ad alta velocità, invece la Tap apre una linea di rifornimento energetico del tutto nuova. Nonostante i danni che il blocco della Tav ha arrecato al Piemonte e in particolare alla provincia di Torino, l'area in questione ha molte altre opportunità economiche e legami internazionali tramite Fiat Chrysler, Ferrero, Zegna. La Puglia non ha un'analoga situazione di sviluppo economico e di internazionalizzazione e ha la crisi dell'Ilva. Questo gasdotto le apre nuove prospettive di sviluppo e di internazionalizzazione. La Tap lunga 870 km di cui 104 sotto il mare Adriatico, che inizia in Grecia a Kipoi, al confine con la Turchia, e attraversa l'Albania arrivando a san Foca nel Salento collega l'Italia con l'Azerbaijan, cioè con gli immensi giacimenti petroliferi del Caspio, alternativi quelle russi e ai Mediorientali. La Tap non passa né per la Russia né per l'Ucraina, aree con rischio di complicazioni politiche, perché a Kipoi in Grecia si collega al gasdotto Scp (South Caucasus Pipeline) che traversa il Mar Caspio e va a Baku nell'Azerbaijan. Essendo uno dei corridoi energetici prioritari dell'Ue fruisce dei suoi finanziamenti agevolati. L' Italia attualmente paga il gas il 20% di più che la Germania, perché ha collegamenti meno facili e meno diversificati con i giacimenti di gas delle are circostanti. Il nuovo hub salentino genererà concorrenza nel nostro mercato del gas e ne favorirà la riduzione di prezzo in particolare nelle aree vicine. L'opposizione degli ambientalisti è autolesionistica dal punto di vista ambientale ed economico. Le analisi di impatto ambientale del ministero hanno negato che la Tap generi un danno ambientale. Il ricorso della Regione al Consiglio di Stato è stato respinto perché il riesame ha confermato il giudizio delle autorità statali. Ora la Regione cerca di bloccare la Tap con un ricorso alla Corte Costituzionale basato non sul danno ambientale ma su una presunta violazione delle procedure riguardanti le competenze regionali. L'opposizione alla Tap in nome dell'ambiente è autolesionistica perché essendo il gas meno inquinante del petrolio, la sua sostituzione al petrolio migliora l'ambiente. Si tratta anche di autolesionismo economico perché la Puglia, con questo gasdotto avrà rilevanti vantaggi economici e occupazionali, sia nel periodo in cui si faranno i lavori, sia in quello successivo dato che potrà utilizzare questo gas nella produzione di acciaio all'Ilva, nelle imprese di lavorazione a valle, nelle altre sue attività. Resta il presunto danno ambientale dell'abbattimento degli ulivi. Il programma iniziale prevede l'abbattimento di 230 ulivi, per quello complessivo il numero di piante è imprecisato. I No Tap sostengono che si tratta di 2mila alberi. Ma gli ulivi abbattuti vengono indennizzati. E il Salento ha la piaga della Xylella la cui diffusione si combatte diradandoli. L'indennizzo può esser utilizzato per piantare ulivi non contaminati o altre piante. Quanto al danno al turismo a San Foca non si capisce in cosa possa consistere dato che i tubi passano sotto la superficie del mare e proseguono sotto la costa. Ma ai No Tap come ai No Tav non si può chiedere di ragionare, loro protestano contro il capitalismo e si sfogano contro polizia ed edifici in nome della decrescita felice.
Gli ulivi e il fronte del «no» a priori. Corriere della Sera, 29 mar 2017 di Pierluigi Battista Borrillo, Ducci, Gramigna. Proteste e scontri tra polizia e manifestanti nel Salento per dire no al gasdotto che costringerebbe a sradicare gli ulivi. Ieri erano i No Tav in Piemonte, oggi i No Tap in Puglia. Proteste, spesso, venate di ideologia. A opporsi alle forze dell’ordine anche alcuni sindaci. «Ragazzi, dai, facciamo il nostro lavoro». Gli agenti di polizia sono abituati a farsi scudo con questa frase. E anche ieri, nelle campagne del Salento, l’hanno ripetuta più volte fronteggiando, tra spintoni e tafferugli, i NoTap, circa 300 persone che si oppongono al gasdotto che approderà sul litorale di San Foca, frazione di Melendugno. La differenza rispetto alle piazze e agli stadi è il «lavoro»: presidiare il transito dei camion che trasportano ulivi espiantati. Ventotto ulivi in tutto ieri (che si aggiungono ai 33 già trasferiti il 20 marzo, prima del momentaneo stop), per i quali due agenti sono rimasti contusi a causa del lancio di sassi da parte dei manifestanti. Due persone si sono sentite male: un 15enne e un 65enne in sciopero della fame da una settimana, soccorso da un’ambulanza che lo ha portato all’ospedale di Galatina dopo la prima carica degli agenti intervenuti a forzare il blocco del cantiere, tra fischi e urla e un elicottero della polizia a controllare l’area. Tutti assicurano che non si voleva arrivare al confronto violento: non volevano i manifestanti (un centinaio quelli in prima linea), tra cui sindaci e consiglieri regionali, donne e interi gruppi familiari; né gli agenti che dovevano far passare i camion con gli ulivi. Ma per aprire un varco, le fazioni contrapposte sono arrivate, inevitabilmente, a contatto. «Un dolore enorme — sottolinea il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano — per i sindaci che si sono trovati davanti ai manganelli. E per me, che con le forze dell’ordine ho sempre lavorato. È stato un dramma constatare che per obbedire agli ordini quegli uomini in divisa siano dovuti entrare in contatto fisico con sindaci e cittadini per colpa di politici che non ascoltano». Il governo — ha ribadito — «dà la misura della sua incapacità di ascoltare una regione intera». La protesta di ieri è scoppiata alla riapertura del cantiere dopo il doppio via libera di lunedì: l’ok del Consiglio di Stato, che ha respinto gli appelli del Comune di Melendugno e della Regione Puglia sulla valutazione di impatto ambientale, e quello del ministero dell’Ambiente che ha inviato alla Prefettura di Lecce una nota per autorizzare l’espianto degli ulivi, sospeso dal prefetto di Lecce (che nella serata di ieri ha convocato i sindaci) in attesa di chiarimenti del ministero sull’iter autorizzativo. Nota che la Le autorizzazioni Il cantiere è riaperto dopo gli ok di Consiglio di Stato e ministero dell’Ambiente Regione ha deciso di impugnare dinanzi al Tar. Il gasdotto Tap, Trans adriatic pipeline da 878 chilometri, rappresenta la parte terminale del corridoio meridionale europeo del gas, 3.500 chilometri dall’Azerbaijan all’Italia. Di questi, poco più di 8 chilometri saranno in provincia di Lecce, dall’approdo sul litorale di San Foca al terminale di ricezione nelle campagne di Melendugno. I lavori preliminari prevedono, per la realizzazione di un microtunnel, l’espianto di 211 ulivi, da trasportare nel sito di stoccaggio dal quale saranno riportati nel luogo di origine una volta realizzato il tunnel. Ma la Regione Puglia, nonostante tutti gli ok avuti da Tap, non demorde perché, come spiega Emiliano, «non diciamo no al gasdotto ma che si faccia altrove, laddove lo vogliono. E poi pende ancora davanti alla Corte costituzionale il ricorso per conflitto di attribuzione proposto dalla Regione nei confronti del governo». Insomma, per Emiliano la partita non è chiusa: la Consulta si pronuncerà il 4 aprile. Il governo dà la misura della sua incapacità di ascoltare un’intera regione. Noi non ci opponiamo al Tap, ma va fatto altrove: dove lo vogliono.
Zuppa di Porro, 3 aprile 2017: I No Tap usano i bambini per la protesta. Toglieteli come per la famiglia del Bangladesh.
Lo Stato ha il diritto di sradicare gli ulivi. Poco più di un lustro fa, nell’azienda agricola condotta da mio fratello Gian Michele, arriva una comunicazione ufficiale, scrive Nicola Porro, su Il Giornale il 30 marzo 2017. Il mittente è l’acquedotto pugliese. Spettabile Tenuta Rasciatano, è il nome della nostra azienda di famiglia, dobbiamo fare passare un tubo anche nelle vostre terre. Inizieremo presto gli scavi, l’espropriazione del terreno e tutte le opere utili all’operazione. Punto. Noi siamo in Puglia, abbiamo uliveti secolari, facciamo olio e vino. La faccio breve: nel giro di un paio di mesi arrivano le ruspe, un po’ di cemento, e poco più di duecento olivi secolari vengono rasi al suolo. Pubblica utilità. Quando lo Stato ti entra in casa e decide come arredare il tuo appartamento, un po’ ti scoccia. Eppure lo stesso padre dei liberali, anzi oggi si direbbe liberisti, Adam Smith, alla fine del 700, scriveva: «Lo stato serve per tre cose. La difesa, la giustizia e per realizzare quelle opere pubbliche che i privati da soli non farebbero mai». Non so se un acquedotto, gestito all’epoca molto male, dalla Regione Puglia, era ciò a cui pensava l’economista scozzese. Ma il principio che la proprietà privata, privatissima come la mia terra, possa subire una ferita dall’intervento dello Stato, anche per un liberista acceso come chi scrive, purtroppo si deve prendere in considerazione. Mai mi sarei permesso di infastidire i lettori del nostro Giornale, con questa piccola (per noi grande) vicenda domestica. Ma quando leggo del casino che stanno facendo per 212 olivi salentini e secolari come i nostri, che vengono momentaneamente spianati per fare arrivare un tubo fondamentale per i nostri approvvigionamenti energetici, be’ mi viene il sangue al cervello. Questi no-tap, dove erano quando la sinistrissima regione Puglia espropriava per il suo acquedotto? Un nostro ulivo andriese, vale forse meno di una pianta simile nel Salento? Invece di stare appresso a queste sciocchezze, quella salentina è veramente roba da nulla, i fan della nostra identità enogastronomica e paesaggistica, si occupassero delle cento follie con cui stanno distruggendo l’agricoltura meridionale. Solo la Confagricoltura, con scarso seguito nella politica, ha fatto il diavolo a quattro sulla norma del caporalato, un kalasnikov giudiziario puntato su chiunque assuma un operaio. Si occupi del fatto che hanno cancellato i voucher, che in agricoltura erano stabili nel loro utilizzo. Siamo vittime del clamore agitato da pochi esaltati. Un caso di cronaca nera diventa la regola su cui legiferare, duecento piante nel Salento, una porzione di quelle distrutte per motivi pubblici negli ultimi anni, diventano un caso nazionale. Non si difende la nostra identità, con gli schiamazzi no-tap, ma rendendo le nostre aziende produttive. Liberandole dalla mole di adempimenti burocratici che le sommergono. Utilizzando il buon senso nei controlli, che sono diventati asfissianti. Insomma lasciandoci fare il nostro lavoro. Rinuncerei ad altre cento piante, se solo una parte di queste richieste venissero davvero esaudite. Ps. Tutti che si improvvisano agricoltori, contadini, ma in un campo ci siete mai stati per più di una bella giornata di sole?
Gasdotto Tap, sindaci in presidio davanti al cantiere: "Andiamo a Roma, il governo ci ascolti". Sindaci salentini pronti a marciare su Roma per fare sentire la voce di contrarietà alla realizzazione del gasdotto Tap. La mobilitazione degli amministratori locali cresce di pari passo con quella dei manifestanti, che dal 15 marzo presidiano il cantiere di Melendugno. Nella mattina di giovedì 23, tredici sindaci hanno voluto esprimere sostegno al primo cittadino di Melendugno, Marco Potì, facendosi fotografare uniti davanti al cancello chiuso del cantiere, con le fasce tricolore. I lavori di espianto degli ulivi sono fermi dal 21 marzo, in attesa di un parere del ministero dell’Ambiente, sollecitato dalla Prefettura di Lecce. L’idea di una protesta sotto Palazzo Chigi è stata lanciata dalla sindaca di Calimera, Francesca De Vito: “Auspico che insieme ai miei colleghi decideremo di andare a Roma, perché se tanti sindaci protestano il governo non potrà non ascoltarli. Queste scelte non possono passare sulla testa del nostro territorio e delle nostre comunità”. (Di Chiara Spagnolo, 23 marzo 2017 su Repubblica TV)
Gasdotto Tap, il presidente di Confindustria Lecce: "Basta proteste, opera necessaria". Giancarlo Negro commenta la protesta del fronte anti-Tap, che ha coinvolto anche i bambini: "La situazione è insostenibile, perché non si sono fatte marce quando la costa salentina è stata devastata?" Scrive Chiara Spagnolo il 2 aprile 2017 su "La Repubblica".
"Portare i bambini alla manifestazione contro il Tap e piazzarli davanti ai camion significa avere oltrepassato la misura, esasperare una situazione che è diventata insostenibile dal punto di vista della responsabilità sociale".
E' duro il presidente di Confindustria Lecce, Giancarlo Negro, nel giorno in cui la marcia dei cittadini ha fermato i camion Tap.
Il territorio è contro questa infrastruttura, non sarebbe il caso di fermarsi?
"Tap ha svolto tutte le procedure e ottenuto tutte le autorizzazioni. Riconduciamo la questione nel sistema di regole che ci governa e, se la decisione è presa, mettiamo l'azienda nella possibilità di lavorare".
Ma la politica, regionale e locale, contesta la scelta dell'approdo a Melendugno.
"Credo si siano svegliati tardi, in questo momento non ci sono altri approdi possibili, dovevano pensarci prima. Ciò che ora possono fare è mettere tutte le istituzioni attorno a un tavolo e capire che il gasdotto è un'opportunità per il territorio".
In che termini lo ritiene un'opportunità?
"Esiste un fabbisogno energetico e il gas è una fonte meno inquinante di altre, insieme alle energie rinnovabili. C'è anche un impatto occupazionale che va considerato, anche se questo non significa barattare il lavoro con l'ambiente. Inoltre credo che l'opera abbia un impatto minimo sul territorio".
Ma le comunità locali lamentano proprio la ripercussione sulla zona turistica.
"La costa salentina è stata devastata per decenni, dai cittadini e anche dalle istituzioni, e non ho mai visto marce. Migliaia di alberi vengono eradicati ogni anno in Puglia, come ha ricordato il manager Tap anche per fare spazio ai tubi dell'Acquedotto, eppure non ci sono crociate in difesa degli ulivi. Qui si sta alzando la tensione, anche con le bombe alla polizia, le minacce agli operai, la situazione è insostenibile".
Tap, ecco la sentenza che affossa le velleità della Regione Puglia retta da Michele Emiliano, scrive Veronica Sansonetti su "Formiche.net" il 28 marzo 2017. Il Consiglio di Stato ha dato il via libera alla realizzazione del Trans adriatic pipeline (Tap), il gasdotto lungo 870 chilometri, parte terminale del corridoio meridionale europeo del gas da 3.500 chilometri che attraverserà sei Paesi dall’Azerbaijan all’Italia. Con una sentenza, pubblicata ieri, la IV Sezione del Consiglio di Stato ha respinto gli appelli proposti dal Comune di Melendugno e dalla Regione Puglia nei confronti della sentenza del Tar sul Tap. La sentenza pone fine al contenzioso amministrativo sull’Autorizzazione unica rilasciata a Tap il 20 maggio 2015 e sull’applicazione della direttiva Seveso sugli incidenti rilevanti. Lo scorso 20 marzo i “No Tap” hanno bloccato i lavori di spostamento degli ulivi dal punto di approdo sul litorale di San Foca (frazione di Melendugno, provincia di Lecce).
IL RICORSO. L’amministrazione comunale di Melendugno con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado aveva impugnato il decreto del ministro dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare (Mattm) n. 223 dell’11 settembre 2014 con cui era stata rilasciata la valutazione di impatto ambientale sul progetto di realizzazione del gasdotto denominato “Trans Adriatic Pipeline – TAP” e la delibera del 10 settembre 2014 con cui il Consiglio dei ministri aveva fatto propria la posizione del Mattm ed aveva superato il parere negativo del Ministero dei bei e delle attività culturali e del Turismo, nonché le note con cui il Mattm aveva sospeso la procedura per circa un anno.
L’IMPATTO AMBIENTALE. In una nota dell’ufficio stampa del Segretariato generale della giustizia amministrativa, il Consiglio di Stato spiega che “ha ritenuto che la valutazione di impatto ambientale resa dalla Commissione Via avesse approfonditamente vagliato tutte le problematiche naturalistiche e che anche la scelta dell’approdo nella porzione di costa compresa tra San Foca e Torre Specchia Ruggeri (all’interno del Comune di Melendugno) fosse stata preceduta da una completa analisi delle possibili alternative (ben undici)”.
LA DIRETTIVA SEVESO. Il Tar ha ricordato che “la problematica relativa alla applicabilità della normativa “Seveso” alla contestata opera era emersa sin dall’inizio dell’esame del progetto Tap : ciò era dimostrato dalla Sito Istituzionale della Giustizia amministrativa – circostanza che la stessa Commissione Via/Vas, nel parere del 29 agosto 2014, aveva inserito la prescrizione (poi divenuta A13 nel decreto 223/2014 e riguardante la preventiva acquisizione, con riferimento al Prt, del nulla osta di fattibilità rilasciato, ai sensi del d.lgs n. 334 del 1999, dal comitato tecnico regionale) in forma dubitativa ovvero “se ed in quanto prescritto e/o previsto”. È stato infine riconosciuto “l’avvenuto rispetto del principio di leale collaborazione tra Poteri dello Stato nella procedura di superamento del dissenso espresso dalla Regione alla realizzazione dell’opera”.
CONCLUSIONE. Si tratta – notano gli addetti ai lavori – dell’ennesima vittoria nelle aule di giusizia per Tap: nessuna iniziativa legale contro il gasdotto strategico è stata avallata da un tribunale.
No Tap, Assostampa: sconcerto per violenza a troupe TgNorba, scrive il 21 marzo, 2017 la Redazione di "Bat Magazine. Il Comitato di redazione di Telenorba e l’Associazione della Stampa di Puglia esprimono sconcerto per la violenza con cui è stata aggredita una troupe del TgNorba, inviata a Melendugno per realizzare un servizio sull’espianto degli ulivi nell’ambito dei lavori in corso sul gasdotto. «Uno dei manifestanti “No Tap” – spiega in una nota il sindacato regionale – ha pensato bene di sfogare la sua rabbia contro i due colleghi impegnati nel servizio, per fortuna provocando solo danni alla telecamera. Il sindacato dei giornalisti pugliesi, nell’invitare i colleghi a proseguire il loro lavoro senza farsi condizionare dalle intimidazioni, sollecita la Prefettura e le forze dell’ordine a compiere tutti gli sforzi possibili per consentire a tutti i giornalisti di esercitare con serenità il loro lavoro». Il diritto di cronaca e il diritto dei cittadini ad essere informati su ciò che accade nel loro territorio, conclude la nota, «non possono essere imbavagliati dalla violenza e dalla intolleranza di pochi esagitati».
Ecco violenze e atti illegali contro il gasdotto Tap. Avanti tutta verso l’abisso, scrive Michele Arnese su "Formiche.net" il 30 marzo 2017. Ecco i non violenti. Ecco i difensori della legalità. Ecco gli assertori dei metodi pacifici. Ecco gli aedi dell’ambientalismo bucolico che non ammazzano neppure una zanzara. I signori della non violenza sono entrati in azione in queste ore per seminare odio e metodi incendiari in Puglia all’insegna del No Tap. Evidentemente non bastano leggi che indicano come opera strategica per l’Italia l’infrastruttura, non sono sufficienti le sentenze (ultima quella di due giorni fa del Consiglio di Stato) che sbugiardano anni di contrapposizioni deleterie avallate pure da politici locali e nazionali fra silenzi, tartufismi e pusillanimità. I fatti inducono alla tristezza. O alla vergogna. Eccoli. Nelle ultime ore sono state registrate minacce nei confronti di partecipanti ai progetti finanziati da Tap sul territorio pugliese, di partner di questi progetti e persino nei confronti degli operai che stanno facendo il proprio lavoro in cantiere nel pieno rispetto della legge. “Altri comportamenti violenti – denuncia in una nota il consorzio – sono stati registrati nell’area di cantiere. Questa notte è stata lanciata una bomba carta contro la recinzione; uno striscione con esplicite minacce di morte a uno dei nostri colleghi è esposto in cantiere tra i manifestanti senza che nessuno, a partire dai soggetti istituzionali presenti da giorni in agro di Melendugno, abbia preso le distanze da questi comportamenti. È stata inoltre lanciata una torcia accesa all’interno dell’area di cantiere, mettendo a rischio l’incolumità di chi sta lavorando al trasferimento temporaneo degli ulivi”. Non solo: sulla pagina Facebook del presidio “No Tap” è stato riportato un elenco di tutte le aziende e i soggetti che lavorano con Tap, con “fini non ben chiari” rispetto a tutti coloro che collaborano con il progetto. Avanti tutta, avanti verso l’abisso, avanti verso il declino economico, industriale, civile e legale.
Ed a proposito della distruzione dei muretti a secco.
La non violenza paga: bloccate le strade con barricate: cantieri fermi, scrive Lucilla Parlato; in difesa dei No TAP, il 30 marzo 30 2017. La lotta non violenta dei no tap in Puglia dovrebbe essere un esempio per i “rivoluzionari” o presunti tali del resto del sud. Stanotte infatti i militanti hanno bloccato le strade interpoderali con pezzi di muretti a secco, cassonetti della spazzatura e materiale di risulta Il quattordicesimo giorno di protesta contro la realizzazione del gasdotto Tap inizia così a Melendugno. I blocchi sono comparsi nella notte sulle diverse vie che collegano l’area di cantiere in località San Basilio alla marina di San Foca e alla strada regionale 8, dalla quale nei giorni scorsi sono arrivati sia i blindati delle forze dell’ordine che i mezzi delle ditte incaricate dell’espianto degli ulivi e del trasporto nel sito di stoccaggio. Risultato: al momento il cantiere – come confermano dai Comitati no tap – resta chiuso, oggi c’è meno disponibilità di forze dell’ordine e dunque lo Stato non è in grado di fronteggiare i manifestanti, manganellati – insieme al sindaco barricadero Marco Potì, primo cittadino di Melendugno e a altri primi cittadini – lo scorso 28 marzo e che hanno fronteggiato, a mani alzate, l’inusitata violenza dello Stato. Potì ha anche ribadito che non ha alcuna intenzione di incontrare Tap né di accettare alcuna compensazione per la realizzazione del gasdotto nel suo territorio.
Istituzioni in prima linea nella lotta, azioni di boicottaggio non violente: dai No Tap un esempio da seguire. Oggi comunque il presidio continua, i militanti non mollano e restano in guardia. Nonostante la lotta incessante, la foto sopra indica lo scempio compiuto finora da tap, con lo sradicamento di alcune decine di ulivi: un pugno nell’occhio, un buco nel cuore per chi da anni si batte per salvare le piante secolari che producono l’oro giallo di Puglia. Lucilla Parlato.
Ciò nonostante c’è la guerra delle menzogne. No Tap accusa gli altri, abbattuti muretti a secco. Ansa 2 aprile 2017. Secondo il comitato No Tap, che si oppone alla realizzazione a San Foca di Melendugno dell'approdo del gasdotto, la multinazionale Tap avrebbe abbattuto ieri alcuni muretti a secco delle strade poderali della zona per consentire ai camion che trasportano gli ulivi espiantati di aggirare i blocchi stradali. Lo Gianluca maggiore, il portavoce del comitato che da giorni sta fronteggiando sul campo la multinazionale con un presidio fisso che si rafforza con l'arrivo di decine di persone ogni volta che riprendono il lavori nel cantiere. Il comitato si oppone all'espianto degli ulivi lungo il tracciato del microtunnel che ospiterà il gasdotto. Le proteste e le barricate alzate dai manifestanti hanno di fatto rallentato i lavori, ma considerando gli ultimi espianti e trasferimenti eseguiti ieri (oggi i lavori sono sospesi) Tap è riuscita a rimuovere 183 dei 211 ulivi previsti. Nel pomeriggio è prevista una manifestazione M5s sul lungomare di San Foca.
Tap, 5 cose da sapere sul gasdotto della discordia. Che cosa è, a che cosa serve, da dove passa il metanodotto al centro delle proteste e degli scontri in Salento, scrive il 29 marzo 2017 Claudio Longo su Panorama.
I lavori di costruzione del gasdotto Trans Adriatic Pipeline (TAP), che trasporterà gas naturale dalla regione del Mar Caspio in Europa, sono cominciati nel 2016, ma solo negli ultimi giorni le proteste del comitato "No TAP" contro l'espianto degli ulivi hanno riacceso i riflettori sull'opera considerata strategica dal governo italiano. In Puglia i comitati protestano per evitare l'espianto di circa 200 alberi di ulivo secolari (che saranno ripiantati in un'altra zona della provincia), sui terreni del Salento a Melendugno (Lecce) dove passerà il gasdotto. Ma che cos'è il gasdotto che continua a causare proteste?
1- Il progetto. Collegando il Trans Anatolian Pipeline (TANAP) alla zona di confine tra Grecia e Turchia, il metanodotto attraverserà la Grecia settentrionale, l'Albania e l'Adriatico per approdare sulla costa salentina di San Foca di Melendugno (Lecce) e collegarsi alla rete nazionale. Una volta realizzato, TAP - secondo i progetti - costituirà il collegamento più diretto ed economicamente vantaggioso per approvvigionarsi alle nuove risorse di gas dell'area del Mar Caspio, aprendo il Corridoio Meridionale del Gas.
2 - Il percorso. Il gasdotto TAP, progettato dall'omonima multinazionale, si snoderà per 878 chilometri e porterà fino in Italia il gas naturale estratto nel Mar Caspio (Azerbaijan). Tra i principali azionisti di TAP ci sono le principali società del settore energetico: Socar, Snam, Bp, Fluxys, Enagas ed Axpo. TAP raggiungerà la massima altitudine di 1.800 metri tra i rilievi albanesi e la massima profondità di 820 metri sotto il Mare Adriatico. In Grecia il gasdotto sarà lungo 550 chilometri, partendo da Kipoi al confine con la Turchia, per terminare al confine con l'Albania, a sud ovest di Ieropigi. In Albania avrà un'estensione di 215 chilometri, da Bilisht Qender, al confine con la Grecia, per approdare a 17 km a nord ovest di Fier, fino a 400 metri verso l'entroterra rispetto alla linea di costa.
3 - Il tratto sottomarino. Il tratto sottomarino nelle acque albanesi misurerà circa 37 chilometri. Nell'attraversamento dell'Adriatico percorrerà 105 chilometri di fondali dalla costa albanese a quella italiana. In Italia TAP approderà in Salento, a San Foca, marina di Melendugno. La condotta sottomarina che attraverserà le acque territoriali italiane misurerà circa 25 chilometri, mentre il tratto sulla terraferma del tracciato del gasdotto sarà di 8,2 chilometri fino al terminale di ricezione. Nel punto di approdo di San Foca, la conduttura passerà in prossimità del litorale dopo aver attraversato l'Adriatico, passando sotto la costa attraverso un microtunnel di approdo lungo 1,5 chilometri. Il microtunnel verrà scavato nell'entroterra, a circa 700 metri di distanza dalla spiaggia, e uscirà nel fondale marino a circa 800 metri dalla riva, ad una profondità di 25 metri.
4 - La portata. Il metanodotto avrà una capacità iniziale di 10 miliardi di metri cubi di gas naturale all'anno, equivalenti al consumo energetico di circa sette milioni di famiglie in Europa. Considerando il possibile incremento dei fabbisogni futuri, i progettisti hanno previsto che l'opera possa trasportate volumi aggiuntivi rispetto a quelli iniziali. Con l'aggiunta di altre due stazioni di compressione, la quantità trasportata potrà essere, infatti, duplicata fino a 20 miliardi di metri cubi all'anno, a fronte di ulteriori forniture disponibili nella più vasta area del Mar Caspio.
5 - Gli scenari alternativi. Il progetto Tap è "un'opera importante per un duplice motivo. Da un lato concorre a spingere il Paese nella direzione di un mix energetico più equilibrato, dall'altro il gasdotto è un'infrastruttura che rende l'Italia meno dipendente, per esempio, dal carbone. Vuol dire che il maggiore utilizzo di gas contribuirà a rispettare gli impegni assunti con gli accordi di Parigi sul clima". Lo afferma in un'intervista al Corriere della Sera il ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti, sottolineando che "sono stati valutati 14 scenari alternativi, prima di concludere che la soluzione corretta era stata individuata a Melendugno".
L'Alleato Azero: ora una graphic novel racconta il grande affare del gasdotto Tap. Anticipazione del libro curato dall'associazione Re: Common e disegnato da Claudia Giuliani. Protagonista è la giornalista Khadija Ismaiylova, che ha svelato gli affari segreti del regime di Baku e l'alleanza fra Italia e Azerbaigian. Pagando con il carcere la sua voglia di libertà e giustizia, scrive Stefano Vergine il 21 novembre 2016 su "L'Espresso". La protagonista de “L'Alleato Azero”, pubblicato nella collana “Bolina” di Round Robin editrice, è la giornalista investigativa Khadija Ismaiylova, uno dei simboli dell'opposizione al regime che governa da decenni l'Azerbaigian. Con il suo prezioso lavoro, Khadija svela gli intrighi e la corruzione del potere e per questa ragione viene incarcerata sulla base di accuse inventate, stessa sorte toccata negli ultimi anni ad almeno un centinaio di oppositori del governo. I Panama Papers sono i protagonisti di uno degli snodi principali della storia. Le carte della Mossack Fonseca confermano in pieno la veridicità dei reportage scritti dalla giornalista sull'impero offshore del presidente Ilham Aliyev. In particolare, come la proprietà della principale miniera d'oro del Paese del Caspio sia riconducibile a tre società registrate a Panama e controllate dalle due figlie di Aliyev, Leyla e Arzu. L'unico personaggio fittizio di questa graphic è il giornalista Andrea Ulivieri, trait d'union con il versante italiano della storia, quello della saga infinita del gasdotto Tap e della forte opposizione che sin dal primo momento il progetto ha incontrato sul territorio salentino, dove il tubo dovrebbe approdare. Non a caso gli altri protagonisti sono i ragazzi del comitato No Tap. Il metano che si vorrebbe far passare per il gasdotto arriva proprio dall'Azerbaigian, Paese che soffre di un evidente deficit di democrazia e non ha molto a cuore la tutela dei diritti umani, come dimostra la vicenda di Khadija.
Tap, gli affari sporchi degli uomini del gasdotto. Il manager finito in mezzo a un caso di riciclaggio mafioso, l'azero con la società offshore svelata dai Panama papers, l'uomo d'affari scelto perché ha buoni agganci con la politica e il condannato per furto di libri antichi. Ritratto dei nomi più importanti legati alla maxi opera, scrivono Paolo Biondani e Leo Sisti il 3 aprile 2017 su "L'Espresso". Mister Tap, la mafia calabrese, i narcos sudamericani, le valigie piene di denaro nero, le casseforti anonime con la targa offshore, gli oligarchi russi, gli affaristi italiani legati alla politica e altri misteriosi protagonisti e comprimari. Alla base del Tap, il supergasdotto che minaccia di perforare le coste del Salento, c’è una storia nera mai raccontata prima. Un intreccio di vicende pubbliche e segreti privati che rilancia quel groviglio di interrogativi che fanno da detonatore delle proteste esplose in Puglia contro lo sradicamento dei primi 231 olivi: chi ha deciso l’attuale tracciato? È davvero necessario far passare miliardi di metri cubi di gas tra spiagge meravigliose e oliveti secolari, anziché dirottare i maxi-tubi in zone già industrializzate, che si potrebbero disinquinare con una minima parte dei fondi del Tap? Come mai i finanziamenti pubblici europei sono stati incamerati da una società-veicolo con azionisti svizzeri? Se è vero che il gasdotto è strategico per molti Stati sovrani, perché sono le aziende private a progettare dove, come e con chi costruire una grande opera tanto costosa e controversa? Il Tap, che sta per Trans Adriatic Pipeline, è la parte finale di un gasdotto gigantesco: quasi quattromila chilometri di condotte per trasportare enormi quantità di metano dall’Azerbaijan all’Italia. Il costo preventivato è di 45 miliardi. Il troncone iniziale Sud-Caucasico parte dal giacimento azero di Shah Deniz 2 e attraversa la Georgia. Il secondo tratto, chiamato Tanap, percorre tutta la Turchia. Il Tap è l’ultimo pezzo, lungo 878 chilometri, che s’inerpica nel nord della Grecia (fino a quota 1.800), scende sulla costa albanese, s’inabissa in mare (fino a meno 820 metri) e arriva in Salento: l’approdo previsto è la spiaggia di San Foca, a Melendugno, dove in questi giorni, tra rumorose proteste popolari, è iniziato lo sradicamento degli olivi. La società capofila Tap Ag, che raggruppa in Svizzera una cordata di multinazionali, assicura che il gasdotto sarà interrato, tutti gli alberi verranno ripiantati e gli altissimi standard di sicurezza azzereranno ogni rischio di inquinamento, incidente o disastro. In Italia finora sono iniziati solo i lavori preparatori del micro-tunnel previsto dal ministero dell’Ambiente per non devastare una costa che vive di turismo: una galleria di cemento che parte in mare, a 800 metri dalla riva, passa sotto la spiaggia e riaffiora nei campi, a 700 metri dalla battigia. Da lì il progetto continua su terra, per altri 8,2 chilometri, fino a un nuovo terminale di recezione: qui il consorzio Tap prevede di spostare 1.900 alberi secolari. Per collegarsi alla rete nazionale del gas, poi, servono altri 55 chilometri di condotte fino a Mesagne, vicino a Brindisi. Gli olivi a rischio, in totale, salgono così a 10 mila. Contro questo tracciato, oltre ai cittadini del fronte “No Tap”, si sono schierati i sindaci interessati e il governatore della Puglia, Michele Emiliano, che ha chiesto più volte di «far approdare il gasdotto direttamente a Brindisi, evitando 55 chilometri di scavi e tubi superflui». I governi Monti, Letta e Renzi hanno però inserito il Tap tra le opere strategiche, per cui si possono ignorare comuni e regioni: basta una valutazione d’impatto ambientale gestita dal ministero, che in questi giorni è stata convalidata dal Consiglio di Stato. Il super gasdotto, dunque, è un’opera progettata, eseguita e gestita da imprese private, ma dichiarata di eccezionale interesse pubblico, addirittura sovranazionale. L’Espresso ha potuto esaminare una serie di documenti riservati della Commissione europea, che svelano il ruolo cruciale di una società-madre, finora sconosciuta: l’azienda che ha ideato il progetto e ha ottenuto i primi decisivi finanziamenti pubblici. Si chiama Egl Produzione Italia, è una società per azioni con 200 mila euro di capitale, ma è controllata dalla Egl lussemburghese, a sua volta posseduta dal gruppo elvetico Axpo, che fa capo a diversi cantoni della Svizzera tedesca. Le carte, ottenute grazie a una richiesta di atti dell’organizzazione Re: Common, documentano che la Egl italiana ha ottenuto, nel 2004 e 2005, due finanziamenti europei a fondo perduto, per oltre tre milioni, utilizzati proprio per i progetti preliminari e gli studi di fattibilità del Tap. I ricercatori avevano chiesto di esaminare tutti gli altri atti, ma la Commissione europea ha risposto che devono restare riservati per rispettare i segreti industriali, la sicurezza e la privacy delle aziende del gasdotto. Comunque ora è chiaro che il Tap è nato con «fondi strutturali europei» concessi a un colosso svizzero dell’energia, in teoria esterno alla Ue. Anche l’amministratore delegato di questa Egl Italia, la società-madre del Tap, è un cittadino svizzero: Raffaele Tognacca, 51 anni, un manager che ha fatto anche politica con i liberali in Canton Ticino. Tognacca ha lavorato per anni tra Roma e Genova come dirigente del gruppo italiano Erg, che ha diversificato dal petrolio agli impianti eolici e solari soprattutto al sud. Tornato in Svizzera, ha aperto con la moglie la società finanziaria Viva Transfer, che un’indagine anti-mafia italiana ha additato come una lavanderia di soldi sporchi. Intervistato dalla tv svizzera italiana, il procuratore aggiunto Michele Prestipino descrisse la vicenda come «un caso esemplare di riciclaggio internazionale di denaro mafioso». Tutto parte nella primavera 2014, quando la Guardia di Finanza di Roma scopre una presunta banda di narcotrafficanti collegati alla ’ndrangheta. Il clan, capeggiato dal calabrese Cosimo Tassone, è accusato di aver importato oltre mezza tonnellata di cocaina dal Sudamerica, con altri 220 chili sequestrati a Gioia Tauro. In quei giorni, secondo l’accusa, il clan calabrese deve versare un milione e mezzo di euro ai narcos sudamericani, ma non può usare il previsto canale bancario brasiliano. Quindi il braccio destro di Tassone recluta una famiglia di promotori finanziari toscani, il padre e due figli, che accettano di «trasportare quei soldi in contanti, dentro due trolley, a Lugano, nella sede della Viva Transfer», come confermano le confessioni degli stessi corrieri poi arrestati. A ricevere tutte quelle banconote, da mandare in Brasile, è stato «Raffaele Tognacca in persona». Proprio il manager che ha tenuto a battesimo il Tap. Quando Tognacca entra in scena, le intercettazioni captano una lite che rischia di degenerare: dal Sudamerica i narcos si lamentano di aver ricevuto mezzo milione in meno. In Italia Tassone, furibondo, pensa a un furto e manda i suoi uomini a terrorizzare un figlio del corriere toscano: «Gli spacco la testa... Noi non siamo imprenditori!». L’altro figlio intanto viene tenuto in ostaggio in Brasile, come garanzia umana. Dopo altre violenze e intimidazioni, il boss calabrese si convince che nessuno gli ha rubato i soldi mancanti: è la società di Tognacca che ha incamerato una parcella-record di oltre 400 mila euro («il 30 per cento!»). Proprio allora scattano gli arresti. Al processo, tutt’ora in corso, i pm di Roma hanno formulato una specifica accusa di riciclaggio. E dopo la retata, hanno incontrato i colleghi elvetici, competenti a valutare la parte estera del presunto reato. Tognacca si è difeso pubblicamente dichiarando di «non essere stato oggetto di nessuna misura penale né in Italia né in Svizzera». Per i magistrati italiani resta assodato che il clan calabrese usò la Viva Transfer per pagare la cocaina. Ma i giudici elvetici potrebbero aver archiviato tutto per «mancata prova del dolo»: Tognacca poteva non sapere che erano soldi di mafia. Magari pensava di aiutare onesti evasori fiscali. Certo è che mister Tap non disprezzava le valigie di denaro nero. Oggi la Egl italiana non esiste più: è stata assorbita da Axpo. Ma il Tap va avanti. Nel 2009 la Commissione europea accetta pure di cambiare il beneficiario del residuo finanziamento a fondo perduto, dirottato dalla Egl alla Tap Asset spa, un’altra filiale di Axpo con sede a Roma, nello stesso palazzo della delegazione europea. La vicinanza aiuta. La società-bis infatti eredita i contributi quando è già diventata una scatola vuota: nove mesi prima, infatti, ha venduto il progetto del supergasdotto, per almeno 12 milioni, all’attuale capofila Tap Ag. Pure questa è una società svizzera, ma oggi è controllata da multinazionali dell’energia come l’italiana Snam, l’inglese Bp, la belga Fluxys, la spagnola Enagas, l’azera Az-tap e naturalmente Axpo. Nel 2013 il corridoio sud del gas, cioè l’intero maxi-gasdotto, viene approvato dalle autorità europee, appoggiate dagli Usa, con una dichiarata funzione anti-russa, per creare un’alternativa al metano della Gazprom. Ma ora i documenti mettono in dubbio questa giustificazione geo-politica: il gigante russo Lukoil, infatti, è entrato con il 10 per cento nel consorzio guidato da Bp e dalla società azera Socar per sfruttare il giacimento di Shah Deniz 2, proprio quello del Tap. Mentre alcune intercettazioni italiane autorizzano a pensare all’esistenza di accordi sotterranei anche con altre società russe. Controllate da oligarchi fedeli al presidente Vladimir Putin. Nel febbraio 2009 l’imprenditore pugliese Giampaolo Tarantini viene registrato al telefono, nell’inchiesta sulle escort di Berlusconi, mentre parla con Roberto De Santis, un manager legato all’ex premier Massimo D’Alema. Nel colloquio, già pubblicato dall’Espresso, De Santis chiede aiuto a Tarantini per ottenere il via libera del governo Berlusconi a un progetto «enorme», dove «la società capogruppo si chiama Tap». Ora è possibile capire i retroscena di quell’intercettazione. Intervistato dalla tv pugliese Telerama, De Santis ha giustificato così le sue parole sul gasdotto: «Ero consigliere d’amministrazione della società Avelar, che aveva interesse nel Tap, ma dal 2010 in poi non ne ha più avuto, perché non ha più ritenuto opportuno continuare in quella avventura imprenditoriale... Avelar aveva degli accordi con la svizzera Egl, che poi sono venuti meno nel 2010». Il problema è che Avelar non è mai comparsa ufficialmente nel Tap. È una società svizzera creata dal miliardario Viktor Vekselberg, titolare del colosso Renova e vicinissimo a Putin, per investire nelle energie rinnovabili. Per sbarcare in Italia, Vekselberg ha inserito nella Avelar due manager senza alcuna esperienza nell’energia, ma con forti agganci politici a destra e a sinistra: il dalemiano De Santis, appunto; e un grande amico di Marcello Dell’Utri, Massimo Marino De Caro, come vicepresidente esecutivo. De Caro è stato poi arrestato e condannato per il colossale furto di libri antichi nella biblioteca dei Girolamini a Napoli. Quell’inchiesta nata a Firenze ha anche rivelato che De Caro, dopo aver ricevuto un bonifico milionario dalla Avelar, ha girato oltre 400 mila euro a Dell’Utri, per motivi rimasti oscuri, mentre l’ex senatore di Forza Italia era ancora libero, in attesa della condanna definitiva per mafia. Finora si ignorava che un oligarca amico di Putin, attraverso l’italo-svizzera Avelar, avesse stretto accordi, mai rivelati, sul gasdotto anti-russo. Ad aumentare il tasso di misteri attorno al Tappensano anche i Panama Papers . I documenti offshore ottenuti dal consorzio giornalistico Icij, di cui fa parte L’Espresso in esclusiva per l’Italia, mostrano che tra i clienti dello studio Mossack Fonseca (i cui titolari nel frattempo sono stati arrestati a Panama) compare anche il manager più importante della Tap Ag svizzera. Si chiama Zaur Gahramanov, è nato nel 1982 in Azerbaijan e occupa ruoli cruciali in tutte le società chiave del maxi-gasdotto: è dirigente di grandi aziende del gruppo Socar, il colosso petrolifero dello Stato azero; consigliere d’amministrazione dei gasdotti Tap e Tanap; e gestore di varie società estere, tra cui la cassaforte svizzera che gestisce i profitti miliardari di gas e petrolio. Nella sua posizione di super manager di Stato, dovrebbe avere qualche problema ad aprire società offshore, cioè casseforti anonime utilizzabili per nascondere denaro nero e azzerare le tasse (o peggio). Invece il 18 febbraio 2011 lo studio di Panama registra proprio Gahramanov come azionista di una società offshore delle British Virgin Islands, chiamata Geneva Commodities International Ltd. La società è gestita da un fiduciario elvetico e tutti gli atti vengono trasmessi in Svizzera, spesso su richiesta di una banca. Gli altri due soci della offshore sembrano fiduciari di altri soggetti che vogliono restare nell’ombra: sono un professionista tedesco residente in Svizzera e un russo con domicilio in Israele. Nello studio Mossack Fonseca, accanto al certificato azionario, ci sono tutti i dati personali del manager azero dei gasdotti. Il timbro della società anonima ha un disegno con tre spighe di grano. Sembra quasi un programma: con le offshore c’è grano per tutti. La cassaforte segreta delle Isole Vergini viene resa inattiva il 12 settembre 2014, con una singolare coincidenza di date: proprio quel giorno il governo di Enrico Letta approva la valutazione d’impatto ambientale del Tap. La stessa autorizzazione ministeriale ora convalidata da un’autorevole sentenza del Consiglio di Stato. Che sarebbe stata ancora più autorevole se, a guidare il collegio, fosse andato un togato diverso dall’espertissimo burocrate scelto dal governo Renzi come presidente aggiunto del Consiglio di Stato: Filippo Patroni Griffi, ex ministro e poi sottosegretario dello stesso esecutivo che ha approvato il Tap.
Cos'è la Tap, il mega gasdotto che tanto piaceva all'amico di D'Alema. Il parlamento sta per dare il sì definitivo al progetto del gasdotto che dall'Azerbaijan arriverà in Puglia. Ma ai sindaci e agli abitanti della costa salentina l'idea non piace: temono infatti che la stutttura danneggi le coste. Tarantini e De Santis parlavano dell'affare già nel 2009. Ma c'è chi protesta. E chi teme la nascita di un altro movimento stile no-tav e infiltrazioni violente, scrivono Emiliano Fittipaldi e Chiara Spagnolo il 29 novembre 2013 su "L'Espresso". Gianpaolo Tarantini e Roberto De Santis sanno leggere nel futuro. Almeno così sembra, a spulciare alcune intercettazioni del 2009, in cui il lenone di Silvio Berlusconi e l’imprenditore che si autodefinì il «fratello minore» di Massimo D’Alema chiacchieravano della guerra tra due gasdotti. «C’è un tubo che sbarca dalla Grecia a Otranto, che è di Edison, e un altro tubo che sbarca dall’Albania a Brindisi, che è quello su cui stavo lavorando io... La società capogruppo si chiama Tap», spiegava De Santis parlando del progetto Trans Adriatic Pipeline, un gasdotto che dovrebbe portare in Europa il metano dell’enorme giacimento scoperto a Shah Deniz, in Azerbaijan. Tarantini si offre per parlarne con Berlusconi: «Fammi uno schema di cinque righe, gliele do...al ministro dell’Industria, a Scajola...Si mette a pecora quello». Era il febbraio 2009. Quattro anni dopo, è chiaro che Giampi e De Santis avevano visto giusto: la battaglia per il predominio sul cosidetto “Corridoio Sud” è stata vinta proprio dal consorzio Tap a scapito del progetto Igi Poseidon, ideato da Edison (controllata da maggio 2012 dalla francese Edf) e dai greci della Depa e benedetto dal governo Prodi nel 2007. Se la Tap ha sempre smentito qualsiasi rapporto con i due affaristi, di sicuro la politica ha fatto inversione a U. Berlusconi ha appoggiato la Tap fin dall’inizio, ma anche Mario Monti prima ed Enrico Letta poi si sono spesi con accordi intergovernativi e viaggi di lavoro a Baku, capitale dello Stato caucasico. Così tra pochi giorni, dopo il sì del Senato all’accordo italo-greco-albanese arrivato un mese fa con la sola opposizione di Sel e M5S, la Camera dovrebbe dare l’ok definitivo al gas azero, e i lavori per la costruzione del megacondotto che arriverà a Melendugno, in Puglia, potrebbero iniziare già a gennaio 2015, in modo che l’impianto possa essere operativo nel 2020. A patto - ovviamente - che il ministero dell’Ambiente dia il beneplacito autorizzando la Via, la valutazione d’impatto ambientale consegnata dal consorzio lo scorso 10 settembre.
ORO AZZURRO. In Salento si gioca una partita gigantesca. Non solo da un punto di vista economico, ma anche geopolitico e sociale. Nelle intenzioni di Palazzo Chigi la Tap contribuirà a trasformare l’Italia in una sorta di “hub” europeo del metano, condizione che porterebbe - questa la speranza - maggiore concorrenza sul mercato domestico e un abbassamento dei prezzi al consumo: storicamente al Belpaese il metano costa circa il 20 per cento in più rispetto quello che pagano i tedeschi. D’altra parte, in Puglia il fronte del no è sempre più agguerrito: il gasdotto, protestano decine di sindaci e il comitato “No Tap”, rischia di distruggere una delle più belle coste dell’Adriatico. Fosse così, si farebbe a pezzi l’economia di una zona che vive esclusivamente di turismo e eccellenze agroalimentari. Ma quali sono davvero gli interessi e i player in campo? Tap è un acronimo che nasconde una società anonima svizzera nata nel 2007 - il capitale sociale è di 149 milioni di franchi svizzeri - controllata oggi dalla compagnia di Stato azera Socar, dalla British Petroleum, dalla norvegese Statoil (ognuna ha un pacchetto pari al 20 per cento delle azioni), dalla belga Fluxys (16 per cento), dalla francese Total (10 per cento), dai tedeschi di E.On (9 per cento) e dalla svizzera Axpo (5 per cento). Colossi che da mesi stanno piazzando pubblicità su siti Internet e giornali pugliesi per cercare di spiegare alla popolazione locale la bontà del progetto. «Il percorso del gasdotto», ha spiegato il sottosegretario allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti, «dovrebbe svilupparsi lungo la Grecia e l’Albania per approdare in Italia. Sarà lungo 800 chilometri circa, di cui 105 sottomarini nel mar Adriatico, e trasporterà 10 miliardi di metri cubi l’anno, ma la società prevede di raddoppiarli». Una volta arrivato a San Foca, a poca distanza da Otranto, il progetto prevede la costruzione di un «microtunnel per l’attraversamento della linea di costa lungo circa un chilometro e mezzo, una condotta interrata in terraferma di 10 chilometri e un terminale di ricezione» da edificare a Melendugno. La pipeline dovrebbe collegarsi infine alla rete nazionale gestita da Snam, in modo da poter far arrivare il gas del caucaso anche nel resto d’Italia e d’Europa. Nel progetto, però, non ci sono ancora dettagli sull’allaccio finale: ben 58 chilometri separano il terminal da Mesagne, che è il più vicino snodo di raccordo di Snam. «Una carenza di unitarietà del progetto», attacca il comune di Melendugno, che renderebbe «impossibile» ai vari uffici preposti quantificare le reali ricadute ambientali sul territorio.
TUTTI CONTRO TUTTI. La Tap, conquistando i favori degli azeri lo scorso giugno, in un solo colpo ha sbaragliato non solo la vecchia ipotesi del gasdotto Igi Poseidon di Edison (che secondo il progetto dovrebbe approdare nel porto di Otranto), ma anche l’altro concorrente del “Corridoio Sud”, cioè il “Nabucco”, metanodotto che dal Mar Caspio sarebbe dovuto arrivare fino in Austria. Un progetto fortemente appoggiato dagli Usa per danneggiare il quarto progetto in gara, quello chiamato “South Stream”, promosso da Gazprom per portare in Europa, passando sotto il Mar Nero con arrivo a Tarvisio in Friuli, il combustibile made in Russia. Un mega gasdotto già in fase di realizzazione a cui partecipa, con il 20 per cento, anche la nostra Eni, da anni sponsor importante dell’azienda preferita da Vladimir Putin. È questo il motivo, spiegano fonti interne dell’azienda guidata da Paolo Scaroni, «per cui non siamo entrati nella Tap: anche se tra Baku e Mosca le relazioni sono buone, il progetto è di fatto concorrente al “South Stream”, e noi non vogliamo far innervosire i nostri soci russi». Sarà un caso, ma nessun colosso energetico nostrano, nonostante i tentativi della Socar che si sentirebbe maggiormente garantita da una partecipazione italiana, sembra interessata ad investire in azioni Tap: l’ad della Snam Carlo Malacarne ha ripetuto che le uniche attività che gli interessano sono quelle relative «al conferimento del gas nella rete di trasporto», mentre Fulvio Conti di Enel ha annunciato che potrebbe acquistare la materia prima, ma nulla di più. Un paradosso, visto che la Tap è un affare miliardario che potrebbe far arrivare in Italia circa il 10 per cento del nostro fabbisogno, oggi garantito dalle importazioni dall’Algeria (che pesa per il 35 per cento sul totale), dalla Russia (il 30 per cento) e - in misura minore - dalla Libia.
VIVA LA TAP, ABBASSO LA TAP! La diversificazione delle fonti d’approvvigionamento, secondo la Commissione europea, è fondamentale da un punto di vista strategico. Anche gli Stati Uniti, che nel 2007 hanno definito come loro interesse prioritario «impedire l’unione energetica di Russia ed Europa», guardano con favore alla Tap: dopo il fallimento del “Nabucco” il gasdotto azero è per ora l’unico concorrente di Gazprom rimasto in campo. Tutti sembrano assai soddisfatti: Enrico Letta, che è andato ad agosto in Azerbaijan per incontrare il chiacchierato premier Ilham Aliyev (succeduto nel 2003 al padre), ha spiegato che «questo gasdotto è importante non solo per il futuro dell’Italia ma per l’intera Ue». Per palazzo Chigi anche i pugliesi dovrebbero mostrarsi felici: secondo il ministero dello Sviluppo economico non solo la Tap investirà in progetti locali («Come un intervento di tutela della costa dall’erosione costiera da 5 milioni di euro»), ma nella fase di costruzione l’opera tra lavori diretti e giro d’affari dell’indotto porterà al Pil regionale «290 milioni euro in più l’anno e circa 2 mila posti di lavoro». Che però diventeranno appena 220 nella fase successiva, quella della semplice gestione dell’infrastruttura. Se a Roma, Bruxelles e Baku sono in molti a mostrare entusiasmo, altri nutrono invece alcuni dubbi sul reale impatto del metanodotto sulla nostra economia: per Davide Tabarelli, direttore di Nomisma Energia, la portata del gasdotto sarebbe «troppo bassa, mentre gli azeri non potranno fare grossi sconti rispetto ai russi». L’effetto sulle bollette di cittadini e imprenditori, in pratica, potrebbe essere minimo. I danni sull’ambiente e sul business del turismo, temono invece i salentini, rischiano di essere enormi. La Regione guidata da Nichi Vendola per ora nicchia spiegando di non avere voce in capitolo sulle scelte di Palazzo Chigi, ma in provincia di Lecce 11 amministrazioni comunali e 35 tra associazioni e comitati si sono già schierate con il movimento No Tap, che da mesi protesta contro la costruzione dell’opera. Che, tra emissioni, condotte, tunnel e terminal, secondo un contro-studio preparato da un pool di esperti coordinati dal professor Dino Borri, ordinario del Politecnico di Bari, rischia di mettere a rischio migliaia di ulivi (che la Tap dice di voler ripiantare), l’assetto idrogeologico della costa, una spiaggia e un’oasi protetta, senza parlare dell’ecosistema che vede, tra le specie a rischio, cetacei e tartarughe caretta caretta. Tra Ilva di Taranto e siti d’interesse nazionale come Brindisi e Manfredonia la Puglia è una delle zone più avvelenate d’Italia, e i residenti sono preoccupati per possibili nuove fonti d’inquinamento, anche se sia Tap che il governo hanno promesso che l’impatto ambientale sarà «praticamente nullo». Il movimento non ci crede, ed è deciso a far saltare il progetto a ogni costo. O, quantomeno, a far cambiare l’approdo finale. Finora manifestazioni e sit-in si sono svolti senza alcun problema di ordine pubblico, ma la Digos teme che in futuro il fronte del no possa essere infiltrato da gruppi anarchici provenienti dalla regione, ma non solo: negli ultimi cortei anti-Tap si sono visti anche volantini dei No Tav piemontesi. La lotta d’altronde è simile, e l’obiettivo comune. «Se si usa qui nel Salento la stessa determinazione e la stessa unanimità della Val Susa», ha ragionato lo scrittore Erri De Luca in visita a Melendugno, «non si farà neanche la Tap».
Tap: tutti d'accordo, ma chi ci guadagna? Il premier Renzi dà l’ok al Trans Adriatic Pipeline, che trasporterà il metano dall’Azerbaijan alla Puglia. I costi di realizzazione peseranno sulle bollette e servirà soprattutto ai nostri alleati, scrive Stefano Vergine il 25 settembre 2014 su "L'Espresso". Indipendenza dalla Russia e risparmio sulle bollette. Sono questi i vantaggi promessi dal Trans Adriatic Pipeline, meglio noto come Tap, il gasdotto che punta a portare in Italia il metano dell’Azerbaijan. Un serpentone d’acciaio che attraverserà Grecia e Albania prima di arrivare sulla spiaggia di San Foca, a Melendugno, il paesino del Salento scelto come punto di approdo. Dopo mesi di attesa, venerdì 12 settembre il progetto ha ricevuto il via libera dal ministero dell’Ambiente italiano. L’iter autorizzativo è ancora lungo, ma il governo sembra deciso a non farsi fermare dall’opposizione di sindaci e comitati locali. Non a caso il premier Matteo Renzi ha programmato per sabato 20 settembre una visita a Baku, la capitale dell’Azerbaijan, per annunciare al presidente-padrone dello Stato caucasico, Ilham Alyev, che l’opera si farà. Resta da capire se il tubo della discordia ci renderà davvero più indipendenti dal gas di Vladimir Putin. E se i consumatori beneficeranno di prezzi più bassi. Questioni rilevanti, poiché molti pugliesi temono che l’infrastruttura possa rovinare l’ambiente e far fuggire così i turisti. Insomma, la domanda è se gli eventuali danni sulla zona di Melendugno saranno compensati dai benefici che il Tap porterà all’Italia.
Per giustificare la costruzione dell’opera, il governo ha sempre puntato su un concetto: allentare la dipendenza dal metano russo. Un’esigenza diventata ancora più pressante negli ultimi mesi, vista la guerra combattuta a colpi di sanzioni economiche tra l’Unione europea e gli Stati Uniti da una parte e Mosca dall’altra. Ma davvero l’Italia è così legata alle forniture di Gazprom? E in che misura il Tap potrà contribuire ad allentare questo vincolo? Meglio dirlo subito: se tutto andrà come previsto, il tubo sarà pronto nel 2020, quindi non servirà se quest’inverno Mosca dovesse decidere di lasciare tutti al freddo. Per capire come andranno le cose in futuro bisogna invece guardare al passato. Snam, la società che gestisce quasi tutti i gasdotti nazionali, dice che l’anno scorso l’Italia ha consumato 70 miliardi di metri cubi di gas, di cui 25 provenienti dalla Russia. Il Tap, almeno inizialmente, ne porterà in Italia 8. Dunque, l’oro azzurro dell’Azerbaijan potrebbe sostituire al massimo un terzo di quello russo. Potrebbe, appunto. Perché la Strategia energetica nazionale, disegnata nel 2013 dal governo Monti, immagina per l’Italia il ruolo di hub europeo del gas. Vale a dire che il metano proveniente dall’estero non resterà tutto qui, ma servirà in buona parte per scaldare le case di tedeschi, austriaci e olandesi. «Quegli 8 miliardi di metri cubi provenienti dall’Azerbaijan», fa notare Matteo Verda, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), «sono esattamente la stessa quantità che il nostro governo prevede di esportare nel 2023 in Nord Europa». Certo, in situazione di emergenza - se cioè la Russia dovesse chiudere i rubinetti - potremmo tenerci quel gas. Ma che cosa ci guadagna l’Italia nell’immediato? Le tariffe di transito pagate a Snam. Che è una società a controllo pubblico. E che, secondo Verda, per gli 8 miliardi di metri cubi targati Azerbaijan dovrebbe incassare ogni anno 200 milioni di euro. Il gioco sarebbe a somma positiva, non fosse che per portare verso le Alpi tutto quel gas Snam deve ampliare il tubo che collega Brindisi alla Pianura Padana. Secondo Giuseppe Rebuzzini, analista della società d’investimenti Fidentiis, «il potenziamento della Dorsale Adriatica comporterà un investimento di circa 1 miliardo. Chi paga? Tutti, dato che il costo sostenuto da Snam finirà in bolletta, ma sarà un aumento davvero basso: molto meno di un centesimo di euro per metro cubo di gas». Dicono però i sostenitori del Tap che la piccola gabella verrà compensata dalla riduzione delle tariffe energetiche. Vero? In teoria sì. Il gas proveniente dall’Azerbaijan aumenterà infatti l’offerta sul mercato, e questo dovrebbe portare a una discesa dei prezzi. Ma il sillogismo dipende da una variabile: il costo del gas di Shah Deniz. Il giacimento azerbaigiano da cui uscirà il metano è controllato da un consorzio i cui soci principali sono l’azienda locale Socar e l’inglese Bp, che è anche l’operatore dei pozzi. Le stesse società risultano tra gli azionisti di maggioranza del Tap. Fra spese per l’estrazione e per la costruzione dei tubi fino all’Italia (non c’è solo il Tap ma anche il Tanap, la condotta che attraverserà la Turchia), l’investimento previsto è di 45 miliardi di dollari. Tutti soldi privati, assicurano le società coinvolte nel consorzio. Che dicono di aver già stipulato con nove operatori, tra cui l’italiana Enel, contratti della durata di 25 anni, e del valore totale di 200 miliardi di dollari, per la vendita del gas in Europa. Ma alla fine quanto costerà ai consumatori questo gas? Una stima l’ha fatta Luigi De Paoli, docente di Economia dell’Energia alla Bocconi: «Considerando una remunerazione del capitale investito del 10 per cento, il costo potrebbe arrivare a circa 0,3 dollari al metro cubo. Questo valore, a cui vanno aggiunti quelli operativi di trasporto, non è molto diverso dal prezzo attuale del gas in Italia all’ingrosso. Insomma, per vendere il proprio metano a un prezzo competitivo il governo di Baku dovrebbe rinunciare quasi totalmente ai suoi guadagni, oppure una parte significativa dei ricavi dovrebbe provenire dalla vendita dei condensati che vengono recuperati con il metano». Come dire che i risparmi in bolletta probabilmente non ci saranno. E poco importa se alla fine Azerbaijan e soci riusciranno a trovare una formula per rendere l’investimento redditizio. «La storia secondo cui qualcuno porta gas sul mercato e lo vende a prezzi bassi è un falso mito», dice Rebuzzini, «una discesa significativa si avrebbe solo in caso di eccesso di offerta, ma gli operatori non sono così stupidi da distruggere il mercato». Viene allora da chiedersi perché l’Italia deve rischiare di rovinare un’area a vocazione turistica. Per la sicurezza energetica, è la risposta degli esperti. Non tanto quella dell’Italia, però, ma quella dell’Unione europea. Che grazie al gas azero, a cui prima o poi potrebbe aggiungersi quello del Medio Oriente, potrà diventare più indipendente dalle forniture di Mosca. Una visione in cui il singolo Stato mette da parte l’interesse particolare a beneficio dell’intera comunità. Non proprio quello che succede da anni con la crisi del debito, dove i Paesi più in salute, Germania in testa, si rifiutano di sacrificare il proprio benessere per sollevare le economie più deboli. Chissà se il Tap diventerà un’arma per convincerli a cambiare idea.
L’opposizione intransigente al gasdotto Tap e i suoi molti motivi, scrive Jacopo Giliberto il 28 marzo 2017 su "Il Sole 24 ore". Sei mesi fa l’Acquedotto Pugliese completò un’opera colossale: posò in mezzo all’intero Salento la conduttura del Sinni, la meraviglia di 37,5 chilometri di tubo tra Salice Salentino e Seclì. Il diametro della condotta è 1 metro e 40 centimetri, un adolescente potrebbe camminarci a testa alta. La cerimonia avvenne a Seclì il 7 settembre e impugnando le forbici inaugurali il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, parlò entusiasta della grande tubazione. Per posare sotto il terreno quelle decine di chilometri di condotta, la società guidata da Nicola De Sanctis ha dovuto traslocare 2.500 olivi. In lettere: duemilacinquecento. Furono sradicati, depositati in un vivaio, e poi richiuso lo scavo ripiantati dov’erano. Ora il presidente della Regione ha sotterrato il nastro inaugurale e la forbice e invece ha dissotterrato l’ascia di guerra. Il tubo questa volta porta non acqua bensì metano dall’Asia all’Europa e Michele Emiliano sostiene i comitati nimby contro il gasdotto Tap. Secondo Emiliano sarebbe assai meglio se la conduttura che importerà il metano dall’Azerbaigian prendesse terra in Puglia altrove, a Squinzano, devastando in mare una folta prateria di posidonia (una pregiata pianta acquatica) e un’area protetta. Prima di scegliere il luogo dove far approdare il tubo, è stata esaminata una ventina di diversi punti della costa salentina, da Brindisi a Otranto. La spiaggia in contrada San Basilio — frazione San Foca, comune di Melendugno, provincia di Lecce — pur delicata è la meno vulnerabile fra tutte. La considerazione di Emiliano è che più a nord approderà la tubazione, meno conduttura bisognerà posare attraverso il Salento per allacciare il Tap alla dorsale nazionale della Snam. Se il tubo arriverà a Melendugno, come da progetto, bisognerà posare un’altra cinquantina di chilometri di condotta verso nord. Se la tubatura farà più strada in mare e prenderà terra a Squinzano, come propone Emiliano, il metano sarà assai più caro (posare in mare una tubazione costa uno sproposito in più) e saranno devastate le zone più pregiate, ma poi ci sarà meno percorso fra gli olivi. Con ogni probabilità, il presidente Emiliano ha più obiettivi. Non solamente vuole indurre un ritardo e ridurre il percorso a terra (a scapito dei costi e dei danni ambientali a mare) ma anche fare arrivare il metano alla centrale Enel di Cerano e all’acciaieria Ilva di Taranto, oggi alimentate con il carbone. E infine, il presidente vuole forse solleticare il consenso dei movimenti che temono un modello di sviluppo più sostenibile.
I No Tap non li ferma neppure il Consiglio di Stato. Questa mattina circa 300 manifestanti hanno tentato di nuovo di bloccare l'espianto degli ulivi e ci sono stati momenti di tensione con le forze dell'ordine. Per Emiliano non è Nimby, "basterebbe spostare l'approdo a Squinzano", scrive Maria Carla Sicilia il 28 Marzo 2017 su “Il Foglio”. Nella tensione generale dovuta ad un nuovo tentativo di blocco del cantiere, sono ripresi questa mattina i lavori del gasdotto Tap a Melendugno. Dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha respinto il ricorso della Regione Puglia e del Comune di Melendugno contro la sentenza del Tar sul Trans Adriatic Pipeline, è arrivata questa mattina anche una nota del ministero dell'Ambiente. Chiamato in causa la scorsa settimana dalla Prefettura di Lecce, il ministero ha chiarito con una lettera che l'operazione di espianto dei 211 ulivi è legittima. Gli alberi saranno infatti ripiantati non appena terminata la posa del tubo, che approderà a Melendugno dall'Azerbaigian, attraversando Geogia, Turchia e Grecia per approvvigionare l'Europa di gas. A tentare nuovamente di bloccare l'avvio dei lavori questa volta erano circa 300 manifestanti, attivisti del movimento "No Tap" - cittadini e politici locali - che hanno presidiato il cantiere dall'alba. Verso le 7,30 i lavoratori del cantiere sono comunque riusciti ad entrare tra le urla e le proteste con l'intervento della polizia, che staziona nella zona del cantiere con una decina di mezzi. Nel corso della mattinata sono stati diversi i momenti di alta tensione tra la polizia e i manifestanti. Secondo l'AdnKronos la polizia ha liberato le vie di accesso spostando di peso le persone e avanzando con scudi protettivi, dopo gli inviti inascoltati a non ostacolare le operazioni. È stata poi ripristinata la calma anche se il presidio rimane e non c'è intenzione da parte dei manifestanti di rimuovere il blocco. "Il dispiegamento di forze sproporzionato che è presente sul territorio in questo momento è stato un modo per dimostrare che si le opere si fanno anche passando sulla testa della popolazione" ha detto il sindaco di Melendugno su RaiNews24. "Non c'è nessun effetto Nimby - ha spiegato invece il governatore della Puglia Michele Emiliano, ospite di RaiNews24 - tutti o quasi riconoscono l'utilità dell'opera. Spostare l'approdo nei luoghi indicati dalle istituzioni locali avrebbe risolto il problema, ma il governo non ha voluto concedere questa vittoria politica alla Regione Puglia. A San Foca si stanno confrontando non i manganelli della polizia e le fasce tricolori dei sindaci, ma due diverse concezioni della politica. L'una servile rispetto agli interessi dei grandi gruppi economici e dura e severissima con i diritti dei cittadini. L'altra, basata sulla connessione tra istituzioni e popolo a tutela dell'ambiente e della bellezza". L'approdo alternativo a cui si riferisce Emiliano è più a nord, nell'area del comune di Squinzano, che ha dato il suo consenso ad utilizzare il proprio territorio per accogliere il rigassificatore. Il governatore della Puglia ha poi spiegato che la Regione porterà avanti la battaglia legale in tutte le sedi possibili. "Ieri abbiamo dovuto incassare una pesante sconfitta giudiziaria da parte del Consiglio di Stato. Pende ancora davanti alla Corte Costituzionale il ricorso per conflitto di attribuzione proposto dalla Regione Puglia nei confronti del Governo per non aver dato neanche una risposta alla Regione sulla richiesta di revoca dell'autorizzazione unica, per non averla coinvolta sin dal momento della presentazione del progetto da parte di Tap. In attesa della pronuncia della Corte Costituzionale, che ove accogliesse le nostre richieste ci consentirebbe di ridiscutere l'approdo Tap, abbiamo deciso di impugnare la nota di ieri del ministero dell'Ambiente che "autorizza" Tap ad effettuare le attività preparatorie alla effettiva fase di inizio dei lavori. La Regione Puglia si riserva ogni ulteriore eventuale iniziativa giudiziaria finalizzata alla modifica del punto di approdo. Aggiungo - ha concluso Emiliano - infine che un'ulteriore battaglia si sta svolgendo a livello nazionale in sede di Via per l'esame del progetto di microtunnel. In quella sede vigileremo con grande determinazione per ottenere lo spostamento dell'approdo nell'area del comune di Squinzano da noi indicata".
Tap, Vendola: “Protesta giusta, non è sindrome nimby”, scrive Dire il 2 aprile 2017. “La cosa che trovo più odiosa è che si classifichi la protesta della popolazione salentina contro Tap come una insorgenza periferica della sindrome di Nimby. Negli anni della mia presidenza alla Regione Puglia non siamo stati il territorio del rifiuto, abbiamo detto sì alle energie alternative. Ma la localizzazione di Melendugno l’abbiamo sempre ritenuta irricevibile, a questo progetto io ho sempre detto no ponendo due paletti: la validazione tecnico-scientifica e la validazione democratica”. Lo dice Nichi Vendola in un’intervista sull’edizione pugliese di Repubblica. “Dopodichè non ci hanno dato più la possibilità di esprimerci - prosegue l’ex governatore - Hanno cambiato persino le leggi per togliere alle Regioni ogni possibilità di dire la propria. L’elenco dei pareri negativi è lunghissimo. In realtà l’unico yes man è stato il ministro dell’Ambiente, quello che avrebbe dovuto difendere il territorio. All’epoca ha espresso pure parere negativo il Mibact”. “Il più grande esproprio che governo e Tap stanno facendo è di tipo democratico. I loro sono solo atti di autorità con sullo sfondo opacità da pelle d’oca, come quelle che si intuiscono leggendo l’inchiesta de L’Espresso. La Regione fa bene a cercare vie legali e politiche per riaprire la questione. E la protesta- conclude Vendola- è giusta: c’è una comunità che si sente minacciata, e quello schieramento di polizia contro le famiglie e le fasce tricolori è davvero una fotografia pessima”.
Schierati col “no” 94 sindaci, la protesta continua. Replica di Tap alla lettera per Mattarella, scrive Mauro Bortone su "Il Quotidiano di Puglia" Lunedì 3 Aprile 2017. Il maltempo ha fermato ieri i lavori al cantiere ma non ha arrestato la protesta dei No Tap a San Foca: la pioggia battente che dalla notte tra domenica e lunedì è scesa sul Salento ha concesso una tregua alle operazioni di espianto degli ulivi, sul tracciato dove dovrebbe sorgere il tunnel del gasdotto, ma non ha scoraggiato gli attivisti del comitato “No Tap”, che, dopo il successo della manifestazione di piazza Sant’Oronzo, si sono ridati appuntamento sin dalle prime ore del mattino nella zona del presidio. La comunicazione che non sarebbero ripresi i lavori è arrivata quasi subito, ieri mattina, ma è diventata il pretesto per organizzare un nuovo corteo pacifico che dai cancelli del cantiere ha raggiunto attorno a mezzogiorno la piazza di Melendugno: all’adunata mattutina hanno partecipato almeno 500 manifestanti da ogni parte d’Italia, con delegazioni della Campania, dell’Abruzzo, di Trieste, di Torino e della Val di Susa coi rappresentanti del movimento “No Tav”, che da anni si oppongono al progetto dell’Alta Velocità; c’erano studenti e bambini a dimostrazione di una protesta, che supera le barriere generazionali. Sul cantiere di San Basilio non mancano gli esponenti politici dai rappresentanti del Movimento Cinque Stelle a quelli di Sinistra Italiana, col segretario nazionale, Nicola Fratoianni. Tra loro anche Luca Casarini, storico leader del movimento “No global”. «È dovere della politica e delle istituzioni – ha dichiarato Fratoianni - ascoltare il suo popolo. Non si governa contro il popolo, si governa col popolo. Bisogna avere il coraggio di fermarsi, riaprire un confronto, una discussione, non é troppo tardi, come si va invece ripetendo». Uno striscione polemico è stato esposto all’esterno del cantiere contro la viceministro per lo Sviluppo economico, Teresa Bellanova, con un invito alle dimissioni. A livello istituzionale, sono 94 su 97 totali le amministrazioni comunali che hanno aderito alla lettera inviata al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e al premier, Paolo Gentiloni. All’appello mancano solo Galatina, Parabita (entrambi enti commissariati) e Otranto, che ha approvato in passato un gasdotto alternativo a Tap, ovvero l’Igi-Poseidon dell’Edison spa. Hanno firmato la missiva diversi consiglieri regionali e parlamentari del territorio: «Sta crescendo in tutti – ha puntualizzato il sindaco di Melendugno Marco Potì - una consapevolezza, quella che ogni decisione debba passare necessariamente dall’ascolto della comunità locale». Si parte, dunque, da una questione di metodo, per arrivare a quella di merito, che, come ribadito in più occasioni, riguarda l’incompatibilità dell’opera con la vocazione turistica del territorio. Sono concetti ribaditi proprio nella missiva inviata al Capo dello Stato, in cui si chiede la sospensione di ogni attività in corso e un passaggio tecnico-politico, propedeutico all’individuazione di una soluzione alternativa. Ma Tap, in una nota, replica proprio alla lettera dei sindaci indirizzata a Mattarella, provando a confutare alcune delle critiche mosse nel testo, dove si legge che «i gasdotti sono infrastrutture compatibili con i territori che attraversano e rispettose dell’ambiente» senza «alcuna interferenza con le attività agricole e turistiche» e che «l’uso del tunnel sotterraneo per l’attraversamento della fascia costiera permette la realizzazione dell’opera senza alcuna interferenza diretta sulla spiaggia, sugli ambienti protetti a mare e terra»; e ancora che Tap, «nello studio di Impatto Ambientale e Sociale, ha preso in considerazione tutti i siti di interesse ambientale e storico archeologico» dell’area e che il «terminale di Ricezione non produce emissioni durante il suo normale funzionamento» ma solo alcune definite «occasionali» per «un massimo di 160 ore» e «ben al di sotto dei limiti di legge e comunque equivalenti alle emissioni annuali di circa 96 caldaie domestiche». Inoltre, l’azienda respinge l’accusa di non aver ascoltato le comunità locali, puntualizzando di aver affrontato oltre 1000 incontri con tutte le parti interessate dal progetto sul territorio: “Tra questi – scrivono - purtroppo non è possibile annoverare incontri con l’amministrazione comunale di Melendugno, che Tap ha sempre cercato per un confronto serio, duraturo e costruttivo sul progetto”. Dall’azienda ribadiscono di voler “esercitare un ruolo attivo nella crescita del territorio” di cui “si sente già parte e farà parte per almeno i prossimi cinquant’anni”. Argomenti, che non sembrano, però, far breccia nella comunità locale. Intanto arriverà oggi il verdetto della Corte costituzionale sul ricorso per conflitto di attribuzione presentato dalla Regione nei mesi scorsi: un’ulteriore tappa del complesso incastro giudiziario che gravita attorno alla vicenda Tap.
Potì: «Si poteva cambiare ma Tap e governo imposero San Foca», scrive Oronzo Martucci su "Il Quotidiano di Puglia", Domenica 2 Aprile 2017. «La mobilitazione spontanea e pacifica di semplici cittadini, anziani e donne accompagnate da bambini, senza etichette politiche ha portato il prefetto a sospendere le attività. Ha prevalso il buonsenso, perché le condizioni in cui si svolgeva la protesta, compresa l’alta temperatura, potevano degenerare»: il sindaco di Melendugno, Marco Potì, così racconta la mattinata di ieri, quando decine di poliziotti in tenuta antisommossa erano schierati a San Foca, nella zona degli espianti degli ulivi, dove Tap vuole realizzare l’approdo del gasdotto. Sindaco Potì, a proposito della politica, i rappresentanti politici del Salento sono impegnati in queste ore in un riposizionamento, per cui chi era a favore dichiara di essere contrario e viceversa.
«Non so a chi si riferisce, però ho preso atto che molti politici salentini non hanno sulla vicenda Tap il dono della coerenza. La coerenza dovrebbe essere un valore, purtroppo non è così. Posso fare un esempio?».
Lo faccia.
«Il viceministro Teresa Bellanova nel 2013 partecipò a una manifestazione per sostenere la sua avversione all’approdo di Tap a San Foca. La sua posizione, come quella di tanti altri, era: sì al gasdotto, ma non a San Foca. Dopo aver ottenuto incarichi governativi è per il sì al gasdotto a San Foca. Vendola ed Emiliano sono rimasti sempre sulla stessa posizione: sì al gasdotto, non a San Foca. Io, al contrario, sono per il no al gasdotto a San Foca e in qualunque altro posto».
Vendola ed Emiliano sono contrari all’approdo di San Foca, ma non sono riusciti a indicare un approdo alternativo.
«Le scelte relative all’approdo sono di competenza della società, la quale sottopone il progetto ai diversi controlli per ottenere ad esempio la Valutazione di impatto ambientale favorevole. La Regione ha sempre detto no all’approdo di San Foca, sia con la Via regionale che nella Conferenza di servizi e nel tentativo di conciliazione per superare il dissenso esperito da Palazzo Chigi. Per la verità anche il Ministero dei Beni culturali disse no all’approdo di San Foca. Ma Renzi diede il via libera».
Era possibile a suo parere individuare un sito diverso? La società Tap ha ha sempre sottolineato che vi erano tempi da rispettare per la realizzazione del gasdotto.
«Il punto è proprio questo. Il governo ha assunto come riferimento solo e soltanto il punto di vista di Tap, la quale sottolineava la impossibilità di esperire nuove indagini ed effettuare lo studio di una nuova localizzazione perché ci sarebbero voluti almeno due anni per arrivare alla Via. Ricordo che questi ragionamenti, condivisi dal governo, venivano sviluppati tra il 2014 e il 2015. Sono passati quasi tre anni e il problema non è stato risolto. Quindi il tempo per ragionare c’era».
Qualcuno sostiene che l’arrivo di Tap a Melendugno è stato facilitato da Vittorio Potì, suo parente, anche lui sindaco di Melendugno. Così si spiega l’abbandono dell’approdo di Lendinuso, sul quale la società sembrava orientata sino al 2009.
«Mio zio, come quelli che lo hanno conosciuto sanno, era persona disponibile ad esperire ogni tentativo per risolvere problemi e per il bene della collettività. È vero che promosse un incontro tra esponenti dei gruppi di maggioranza e di opposizione di Melendugno con i tecnici di Tap. Ma la decisione di spostare l’approdo a Melendugno era stata già assunta, abbandonando il sito di Lendinuso, come ha detto in più occasioni l’ex vicepresidente della Regione Sandro Frisullo. Ricordo anche che mio zio un giorno dell’estate del 2011 disse che il progetto di Tap gli sembrava troppo grande e che lui non si sentiva le forze per contrastarlo. Due mesi dopo morì».
Resta il mistero sul trasferimento da Lendinuso a San Foca.
«Nessuno mistero. Nel 2004 Tap aveva già studiato il sito di San Foca e aveva trovato presenze di posidonia e altri habitat marini che sconsigliavano l’uso di quel sito. Si cominciò allora a lavorare su Lendinuso. Poi di nuovo su San Foca che fu scelto come sito di approdo perché secondo le mappe presentate da Tap per ottenere la Via non vi era presenza di posidonia, in caso contrario la localizzazione con minore impatto sarebbe stata quella di Lendinuso. Ora, però, la stessa società ha depositato mappe dalle quali risulta che anche a San Foca c’è posidonia. Con l’attuale documentazione sarebbe stato scelto il sito di Lendinuso».
Potì, c’è il rischio che la protesta possa degenerare?
«I cittadini sono pacifici, come le manifestazioni di protesta. Ma il rischio, onestamente, c’è. In ogni caso voglio rassicurare i turisti che sono affezionati a San Foca e alle altre sue marine che in ogni caso qui durante l’estate non ci saranno cantieri, perché i lavori anche preparatori da maggio a settembre non sono ammessi».
Bellanova: «L’approdo concordato con le autorità locali. Emiliano parla solo ora», scrive Vincenzo Maruccio su "Il Quotidiano di Puglia" Domenica 2 Aprile 2017.
Viceministro Teresa Bellanova, la protesta contro l’individuazione del sito di San Foca-Melendugno è cresciuta e nel mirino è finito il governo di cui lei fa parte. Perché nessuno ha fatto nulla per cambiare approdo?
«Parto dai dati: in sede di autorizzazione ambientale nazionale sono state valutate 11 alternative di località: San Foca è risultato il sito meno impattante. Sempre in sede di Via nazionale, la Regione Puglia, presieduta all’epoca da Nichi Vendola, non solo non ha proposto alternative, ma è stata assente».
Eppure Lendinuso, a sud di Brindisi, è tra le soluzioni indicate da subito, poi all’improvviso sparisce e spunta San Foca: un giallo riferito ad un periodo di cui mancano atti e protagonisti. Cos’è accaduto?
«Ricordo il plastico del tracciato di Tap con approdo Lendinuso alla Fiera del Levante 2008. Non so cosa sia accaduto dopo, non ero né a Melendugno né a Bari. So, però, che quando si firma il 27 settembre 2012 il memorandum italo-greco-albanese, presidente Monti, e successivamente ad Atene il 13 febbraio 2013 l’accordo tra le Repubbliche di Albania, Grecia e Italia, ratificato il 19 dicembre 2013 con atto dei ministri Bonino, Zanonato, Saccomanni, nel glossario si indicano come approdo le vicinanze di Lecce. San Foca è già cosa nota. Sono altri, ritengo, a doverci dire cosa sia accaduto».
Si è detto che cambiare sito avrebbe compromesso l’intera opera: non le sembra un alibi?
«Senta, nel giugno del 2013 io e Salvatore Capone interroghiamo il Governo. Il Mise, Ministro Zanonato, risponde così: “Anche nella scelta della cabina terminale di approdo la società Tap ha studiato insieme alle Autorità locali il miglior tracciato al fine di preservare il territorio nella sua integrità paesaggistica. È prevalsa la scelta di collocare la cabina nell’area del Comune di Meledugno, su terreno agricolo, al di fuori dell’area vincolata”. Devo ripeterlo? Non mi risulta che sia mai stato smentito».
Si fanno le varianti delle autostrade e delle grandi opere ferroviarie. Perché non si poteva spostare di pochi chilometri verso nord il gasdotto?
«Infatti tra il 2008 e il 2012, se stiamo ai fatti conosciuti, l’approdo è stato spostato a sud, da Lendinuso a San Foca. In accordo, diceva il Governo dell’epoca, con le autorità locali. Davanti a grandi opere le comunità locali non cambiano idea continuamente».
Quando un territorio chiede di cambiare, chi governa non dovrebbe trovare un nuovo punto di equilibrio tra le esigenze dello sviluppo e quelle espresse dalla comunità? Ad esempio, la Tap a Lendinuso e la riconversione di Cerano?
«Non c’è dubbio. Qui abbiamo avuto a disposizione sei anni per discutere e negoziare. A un certo punto, però, le partite si chiudono. Quella si è chiusa con la ratifica dell’accordo internazionale».
Al Governo Letta prima e al Governo Renzi si imputa un comportamento pilatesco: ve ne siete lavati le mani?
«Rispondo solo di me. Io sono stata sempre vigile e trasparente. Aver interrogato il Governo, essere andata a Melendugno guardando negli occhi persone certo non benevole nei miei confronti, aver scelto da parlamentare di non incontrare mai, pur tempestata di richieste e al contrario di altri, l’azienda. Le sembrano atteggiamenti pilateschi? Io non direi».
Il fronte politico del no si è allargato e ora include leader del suo stesso partito: cosa risponde al segretario Piconese che parla di “silenzio preoccupante” dei parlamentari Pd sulla libertà violata dei manifestanti?
«Se è per questo comprende anche autorevoli rappresentanti di Forza Italia. Il partito dei “tengo famiglia” è l’unico, in questo Paese, a non conoscere crisi».
Ma il Pd non è il partito che ha supportato per primo le ragioni del gasdotto?
«Il Pd condivide la necessità di diversificazione energetica e di abbandono delle fonti fossili. Il che significa servirsi del gas nel periodo di transizione».
Michele Emiliano è schierato con il “no”: è credibile o è solo una mossa per guadagnare consenso come dice qualcuno?
«Emiliano è stato presidente e segretario regionale del Pd. Non ha mai convocato il partito con questo tema all’ordine del giorno. Fuori tempo massimo fare i rivoluzionari non costa niente e rende molto. Vale anche per i 5Stelle».
E i sindaci Pd anti-Tap che, per anni, sono rimasti silenti?
«Capisco che in questo momento dire sì a Tap è antipopolare. Il punto è questo. Qui non si tratta di difendere un’impresa privata ma il fondamento stesso dell’idea di diritto e vorrei ricordare che se un’azienda dimostra perfino nell’ultima sede di giudizio di avere tutte le certificazioni in regola è quanto mai rischioso alimentare dubbi al proposito, minando in questo modo la necessaria fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e della magistratura. Il germe dell’antipolitica è qui. Chi lo semina se ne assume tutte le conseguenze».
Il governo di Nichi Vendola aveva condiviso la necessità del progetto e, ricostruzioni alla mano, era al corrente delle scelte di Tap: oggi si smarca parlando di “sfregio a San Foca”. Che sinistra è questa: di lotta e di governo?
«Appartengo alla vecchia scuola: per me la lotta è una cosa seria e lo è anche il governo. Più passa il tempo e più mi riesce difficile capire dove si inscriva Vendola».
Resta la domanda finale che si fanno tante famiglie: il Salento, già terra di impianti siderurgici e di grandi centrali elettriche, cosa ci guadagna dal gasdotto Tap?
«Aggiunga i campi di fotovoltaico, che desertificano ettari ed ettari di terreno, e le pale eoliche anche dove le valutazioni anemometriche non le giustificherebbero. Io mi sono battuta e sto lavorando notte e giorno perché a Taranto salute, ambiente e lavoro si tengano. Cerano è cosa più complessa di un tweet. Tap è considerata un’opera strategica di interesse europeo e il Salento è Italia. Non è un caso se, ancora adesso, ho enorme rimpianto ed enorme rispetto per Guglielmo Minervini che organizzò l’Open Space Technology alle Cantelmo. Se, invece, di lavarsene le mani prima e sventolare adesso slogan la Regione avesse svolto puntualmente il suo ruolo, il Salento sarebbe stato meno solo e avrebbe discusso alla pari. Con Tap e con il Governo nazionale. Senza svendersi né mercanteggiare ma, se necessario, imponendo condizioni. Una classe dirigente fa questo».
Tutto quello che avreste voluto sapere sul TAP (e non avete mai osato chiedere). Sradichiamo alcuni dei pregiudizi su gasdotto pugliese. Che fine faranno gli ulivi espiantati da TAP? Chi ha autorizzato la realizzazione del gasdotto? Rispetta le norme di tutela ambientale del paesaggio? E soprattutto: ma alla fine questo TAP serve o no? Scrive Giovanni Drogo venerdì 31 marzo 2017 su "Next Quotidiano”. Due anni fa il progetto del tracciato del metanodotto SNAM Trans Adriatic Pipeline (TAP) era al centro di fantasiose ipotesi di complotto secondo le quali la Xylella era stata diffusa con lo scopo di rendere più facili le operazioni di “sgombero” dei terreni che si trovano sul percorso del metanodotto in modo da fornire una scusa agli operatori per poter abbattere gli ulivi. A denunciare la strana coincidenza era proprio il Comitato NO Tap che aveva scoperto che il metanodotto avrebbe attraversato alcune delle aree dove erano stati registrati focolai di Xylella. Ma al di là delle ipotesi di complotto cosa sta succedendo davvero in Puglia e perché si è arrivati allo scontro tra manifestanti e forze dell’ordine in una delle aree dove la società sta provvedendo all’espianto (quindi non all’abbattimento) di duecento ulivi?
Cos’è il TAP?
Il TAP è un metanodotto che fa parte del Corridoio Meridionale del Gas – un concetto elaborato dalla Commissione Europea per identificare nuove rotte di approvvigionamento di gas – l’opera quindi è la parte finale di un progetto più ampio e che complessivamente è lungo quasi 4.000 chilometri. Il tracciato di TAP inizia al confine tra Grecia e Turchia dove il gasdotto si collega Trans Anatolian Pipeline (TANAP) che a sua volta dopo aver attraversato la Turchia si collega al South Caucasus Pipeline che attraversa Georgia e Azerbaijan e ha origine dai giacimenti di metano sulla costa azerbaigiana del Mar Caspio. TAP è lungo 878 km e attraversa Grecia, Albania, il Mar Adriatico per arrivare in Italia dove si connette alla rete nazionale di Snam. L’opera è realizzata completamente con contribuiti privati (all’azionariato di TAP – che è un consorzio – partecipano SOCAR, Snam, BP, Fluxys, Enagás ed Axpo). Lo scopo principale di TAP è quello di creare un nuovo corridoio per l’approvvigionamento (italiano ed europeo) di gas metano in modo da poter consentire una diversificazione degli approvvigionamenti energetici e garantirne la sicurezza e la continuità. Il tracciato italiano del TAP sulla terra ferma è lungo 8 chilometri per una larghezza massima della pista dei lavori di 26 metri. TAP parte da San Foca per arrivare a Melendugno dove è stata prevista la costruzione del Terminale di Ricezione. A scegliere tra le 15 varianti d’approdo proposte da TAP è stato il Ministero dell’Ambiente che ha stabilito che il gasdotto avrebbe dovuto partire da San Foca, sulla costa adriatica, per arrivare a Melendugno. TAP pagherà al Comune di Melendugno 500 mila euro l’anno di tasse per tutta la durata della concessione in cambio del permesso a far passare il gasdotto sul suo territorio. Da Melendugno poi SNAM (e non TAP) dovrà realizzare l’allaccio fino dal Terminale di Ricezione alla rete nazionale di Snam a Mesagne. Il “progetto di interconnessione” però non è compito di TAP ma della sola Snam ed inizierà solo una volta terminata la posa del gasdotto di TAP, la lunghezza di questo secondo tracciato è di 56 km.
Chi ha autorizzato la costruzione dell’opera?
Il progetto è stato presentato nel 2012 e fino al 2014 le istituzioni locali hanno avuto la possibilità – nel corso di circa 167 incontri svoltisi con i vari rappresentanti locali – di fare una proposta alternativa di approdo a TAP ma, fanno sapere da TAP, non è arrivata alcuna proposta formale né dalla Regione Puglia né dai comuni interessati. Nell’agosto del 2014 TAP ha ottenuto il via libera dalla Commissione Valutazione dell’Impatto Ambientale (VIA) e Valutazione Ambientale Strategica (VAS). Il Ministero ha sottoposto a valutazione le varie soluzioni d’approdo proposte e ha stabilito che TAP dovesse arrivare da San Foca. Durante la fase conclusiva della Valutazione di Impatto Sociale e Ambientale (ESIA) è stato stabilito di limitare l’impatto ambientale nel punto di approdo a San Foca, tra il lido di San Basilio e lo stabilimento Chicalinda, tramite l’uso di un “micro tunnel” che partirà al largo (quindi TAP non arriverà sulla spiaggia ma ci passerà sotto), lungo circa 1.500 metri, che passerà sotto la spiaggia a una profondità di 10 metri, evitando qualsiasi interferenza sulle praterie di Posidonia oceanica e sul cordone dunale, così come eventuali impatti visivi o interferenze con la spiaggia e la ‘macchia Mediterranea’. Inoltre sono state stabiliti anche degli interventi mirati a ridurre l’impatto del Terminale di Ricezione di Melendugno sia dal punto di vista delle emissioni di CO2 sia per quanto riguarda l’impatto visivo delle costruzioni sul tipico paesaggio pugliese. Tra le varie opzioni è stato scelto Melendugno perché sul territorio del corridoio all’interno del quale passerà il TAP non ci sono vincoli dovuti alla presenza di Aree Protette naturali, Rischio idrogeologico (aree classificate PG3) o Posidonia oceanica (per la parte costiera) e i vincoli PUTT/p (Piano Urbanistico Territoriale Tematico “Paesaggio”) stabiliti dalla Regione Puglia nell’area sono considerati compatibili con “gli aspetti costruttivi e operativi programmati per il Progetto TAP”. A sancire la legittimità della realizzazione dell’opera e il rispetto delle normative vigenti c’è la sentenza del Consiglio di Stato che ha respinto i ricorsi presentati dal Comune di Melendugno e della Regione Puglia contro la decisione della Commissione di Valutazione di Impatto Ambientale.
Chi ha autorizzato l’espianto degli ulivi e che fine faranno?
Sul tracciato del TAP nel quale sono in corso i lavori attualmente sono stati individuati, nel corso delle indagini preliminari condotte in questi mesi 211 alberi di ulivo che per consentire la posa del metanodotto verranno espiantati (e non abbattuti), conservati in un luogo di stoccaggio temporaneo appositamente preparato e al riparo da eventuali contaminazioni da Xylella Fastidiosa e successivamente rimessi a dimora nell’esatto punto in cui si trovavano in precedenza e che è stato appositamente marcato e segnalato. Ad occuparsi dell’espianto e della messa a dimora provvisoria delle piante, così come della cura e delle operazioni di manutenzione è una ditta specializzata in operazioni agro-forestali il cui progetto ha ricevuto il via libera dagli uffici dell’osservatorio fitosanitario della Regione Puglia. TAP rende noto che si tratta di un’operazione che per le ditte specializzate è ormai di routine visto che nella sola provincia di Lecce ogni anno vengono espiantati e spostati 100 mila ulivi. Senza contare tutti quegli ulivi secolari che vengono espiantati e venduti e finiscono per diventare piante ornamentali nei giardini delle ville e delle case di cittadini di altre parti d’Italia (e per i quali in pochi si stracciano le vesti). Va anche sottolineato che la realizzazione dall’Acquedotto Pugliese – conclusasi un anno fa – si è svolta con le stesse modalità ha richiesto lo spostamento e ripristino di 2500 ulivi disposti lungo i 37 km del percorso della condotta dell’acquedotto. Sull’intero tracciato del Tap dovrebbero essere spiantati, e poi ripiantati a fine lavori, oltre 1.900 ulivi, su un totale in tutta la Regione di circa 60 milioni.
Ma alla fine questo TAP serve o no?
Una volta capito che tutto si svolge secondo le regole resta da chiedersi se TAP è un’opera utile o meno. Secondo TAP il gasdotto renderà possibile il processo di decarbonizzazione della Puglia e una transizione della produzione di energia elettrica verso l’utilizzo di fonti meno inquinanti come appunto il gas. Secondo l’Unione Europea il Corridoio Meridionale è di importanza strategica per affrancare il continente dalla dipendenza dall’approvvigionamento di gas che proviene da paesi geopoliticamente poco stabili. Per quanto riguarda il fabbisogno attuale del nostro Paese è pari a 70 miliardi di metri cubi di gas all’anno, di cui 65 arrivano dalle importazioni, in particolare da Algeria e Russia. TAP consentirà di aumentare di 9 miliardi di metri cubi la capacità massima di importazione (che è di 130 mld di metri cubi) delle attuali linee di rifornimento. C’è quindi da chiedersi a questo punto se questi nove miliardi di metri cubi in più siano davvero utili all’Italia. Guardando le stime del fabbisogno di gas verrebbe da dire di no, perché riusciamo ad importare tutto quello che ci serve. Questo però vale per oggi e non per il futuro e non è chiaro quanto potrebbe incidere sul fabbisogno l’abbandono dell’utilizzo del carbone nelle centrali elettriche. Secondo TAP il gasdotto potrebbe far fronte al surplus della domanda dovuta alla decarbonizzazione.
Tutti i complotti sul TAP. Xylella, multinazionali dell'agribusiness, mafia calabrese, narcos sudamericani, russi che "non vogliono il TAP" contro russi che possiedono quote dei giacimenti. Il meraviglioso mondo dei TAP-complotti spiegato, scrive Giovanni Drogo lunedì 03 aprile 2017 su "Next Quotidiano". Melendugno, in provincia di Lecce, continua la battaglia contro il metanodotto TAP. Anche se i lavori di espianto e trasferimento degli ulivi che si trovano lungo gli otto chilometri del percorso del tratto italiano del progetto della Trans Adriatic Pipeline sono interrotti da sabato le proteste non si fermano e i manifestanti continuano a presidiare l’area del cantiere e la notte scorsa per impedire e rallentare il passaggio dei mezzi del cantiere lungo le strade d’accesso all’area di San Basilio sono stati posizionati numerosi blocchi stradali. Sul posto, al sostegno dei No Tap si è recato anche il sindaco di Melendugno, Marco Potì, ed altri primi cittadini salentini.
La settimana scorsa abbiamo spiegato che cos’è il TAP, a cosa serve e come mai si è arrivati alla decisione di far passare il tratto finale del metanodotto proprio dall’approdo di San Foca e alla posa delle condutture che arriveranno al Terminale di Ricezione di Melendugno da cui poi verrà fatto il raccordo con la rete nazionale Snam a Mesagne (in provincia di Brindisi) che dista 56 chilometri da Melendugno. Abbiamo spiegato che il progetto del TAP ha ottenuto tutte le necessarie autorizzazioni e che ha superato la Valutazione d’impatto ambientale del Ministero dell’Ambiente che ha scelto l’approdo di San Foca – dove il “micro tunnel” arriverà ad 800 metri dal litorale passando sotto la spiaggia. Gli ulivi “sradicati” saranno messi in un’area dedicata da dove, al termine dei lavori, verranno ripiantati nella loro posizione originaria, proprio come è successo per i 2.500 ulivi che sono stati espiantati e ripiantati lungo il percorso delle condutture dell’Acquedotto Pugliese un anno fa. TAP verserà tre milioni di euro nelle casse del Comune per la durata dei lavori e pagherà un canone d’affitto di 500 mila euro per tutta la durata della concessione.
Questo è – a grandi linee – TAP per come lo raccontano le carte del Ministero dell’Ambiente e per come lo conoscono gli uffici dell’osservatorio fitosanitario della Regione Puglia che hanno autorizzato i lavori di espianto temporaneo degli ulivi per consentire al consorzio di aziende che partecipano a TAP (tra cui l’italiana Snam) di posare le condutture del metanodotto. Non è insomma andata esattamente come racconta l’ex Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola che sull’Huffington Post parla di «una multinazionale che intende investire alcuni miliardi di euro per un’opera di questa portata non ha i soldi per istruire un progetto sulla base di molteplici studi di fattibilità che prevedano siti alternativi? Il governo nazionale è solo il notaio che certifica la bontà dell’investimento?» in primo luogo perché di varianti al progetto ne sono state presentate 15 e in secondo luogo perché a decidere è stata una commissione tecnica, non politica. Infine bisogna far notare che in questi mesi gli enti locali (comuni e Regione) non hanno formalmente proposto soluzioni alternative. Anche chi dice che TAP (intesa come società) sradicherà migliaia di ulivi sbaglia perché i lavori di ricongiungimento con la rete nazionale (a proposito è illuminante guardare la cartina con tutti i gasdotti in Puglia) verranno effettuati dalla sola Snam.
Per i No Tap però, che non vogliono la realizzazione dell’opera, c’è dell’altro. È la solita storia delle multinazionali e dei poteri finanziari malvagi che prevaricano gli interessi dei cittadini e delle comunità locali in nome del profitto. A chi giova la costruzione del TAP? Non certo ai pugliesi – sostengono – che di quel gas non sanno che farsene anche se potrebbe coprire il fabbisogno della decarbonizzazione delle due centrali elettriche di Cerano (Enel) e Costa Morena (Edipower). E così torna prepotentemente alla ribalta la teoria del complotto, già sollevata qualche tempo fa da Sabina Guzzanti e Nando Popu dei Sud Sound System che all’epoca ci spiegavano che la Xylella era stata inventata per poter sostituire gli ulivi salentini con ulivi OGM (quindi ulivi della multinazionale malvagia Monsanto). In questi giorni l’ispettore Guzzanti sta cantando vittoria: aveva ragione lei il complotto c’era e non era immaginario. Però a quanto pare non è lo stesso (dettagli) visto che ora si scopre che la Xylella è stata diffusa per consentire l’eradicazione degli ulivi e facilitare il passaggio del TAP. Ma allora perché tante cure nell’espianto dei duecentoundici (211) ulivi di Melendugno e tante attenzioni nel posizionarli temporaneamente in un’area al riparo dall’infezione causata dalla Xylella fastidiosa? Questo non è dato di saperlo per ora, ma senza dubbio a posteriori verrà trovata una spiegazione anche per questo.
Ma TAP non è solo una questione locale, quegli otto chilometri sono solo la parte terminale di un metanodotto che complessivamente è lungo più di quattromila chilometri e sul quale – denuncia L’Espresso – ci sono le mani della criminalità organizzata. I legami sono quelli – non proprio limpidissimi – del manager che dirigeva una società svizzera che ha ricevuto dei finanziamenti europei per il progetto che poi è stato acquisto da TAP (il consorzio di aziende composto da SOCAR, Snam, BP, Fluxys, Enagás ed Axpo) con la criminalità organizzata calabrese e i narcos sudamericani. Una storia di traffico di droga e riciclaggio di denaro che però non tocca direttamente TAP che ha deciso di querelare l’Espresso per aver accostato alla mafia il progetto di realizzazione del gasdotto. Anche perché dalla ricostruzione giornalistica di Paolo Biondani e Leo Sisti gli interessi della criminalità organizzata nella realizzazione della parte italiana del TAP sono tutt’altro che evidenti e si fermano molto prima della stesura del progetto. A dirla tutta non è chiaro nemmeno che interessi avrebbero e i narcos nel metanodotto, la ‘Ndrangheta. Diversa invece è la questione che vede il coinvolgimento della Russia. Perché se credete che il complottismo sia appannaggio di una sola parte (ovvero dei No Tap) vi sbagliate. Ad esempio Carlo Vulpio sul Corriere della Sera scrive che bisognerebbe guardare chi non vuole la realizzazione del gasdotto: E se invece ci chiedessimo: chi ha interesse a «non» fare il gasdotto, che, guarda caso, non attraverserà la Russia e perlomeno non farà di Italia e Ue una specie di Ucraina?
Bingo! I russi ovviamente che se venisse ultimato TAP si vedrebbero levare dalle mani una delle leve per condizionare in loro favore le politiche comunitarie: i rubinetti del gas russo che rifornisce l’Unione Europea. Il complotto diventa implicito: chi sta protestando contro TAP? Il MoVimento 5 Stelle che notoriamente ha un buon rapporto con la Russia e che secondo alcuni sostiene “troppo da vicino” gli interessi russi. Siamo a tanto così dal dire che i manifestanti No Tap sono l’equivalente italiano degli hacker russi che hanno truccato il voto delle presidenziali americane. Il tutto ovviamente senza prove. Anzi, come ci rivela la già citata inchiesta dell’Espresso, la questione potrebbe essere più complicata di così (ovvero russi cattivi contro europei buoni) perché la più grande società petrolifera russa, Lukoil, che possiede anche lo stabilimento petrolchimico di Priolo Gargallo in Sicilia è entrata a far parte del consorzio che gestisce il giacimento azero di Shah Deniz: Nel 2013 il corridoio sud del gas, cioè l’intero maxi-gasdotto, viene approvato dalle autorità europee, appoggiate dagli Usa, con una dichiarata funzione anti-russa, per creare un’alternativa al metano della Gazprom. Ma ora i documenti mettono in dubbio questa giustificazione geo-politica: il gigante russo Lukoil, infatti, è entrato con il 10 per cento nel consorzio guidato da Bp e dalla società azera Socar per sfruttare il giacimento di Shah Deniz 2, proprio quello del Tap. Mentre alcune intercettazioni italiane autorizzano a pensare all’esistenza di accordi sotterranei anche con altre società russe. Controllate da oligarchi fedeli al presidente Vladimir Putin. L’intento anti-russo del TAP c’è, e non è proprio un segreto che l’Unione Europea voglia cercare una fonte di approvvigionamento alternativa, ma a quanto pare “i russi” avrebbero comprato il dieci percento di uno dei “rubinetti” che alimentano il Corridoio Meridionale del Gas, ma non il corridoio stesso. E nemmeno questa informazione è un segreto visto che è proprio sul sito della BP. Insomma chi crede che chi si agita contro TAP a Melendugno stia facendo un favore ai russi è un complottista mentre chi sostiene che TAP sia anche dei russi non la racconta giusta.
Puglia, i No Tap e quella strana protesta contro il gasdotto. Venerdì sera esplose bombe carta davanti all’hotel a Lecce che ospita i poliziotti. All’alba di sabato ripresi i lavori di espianto degli ulivi a Melendugno. La protesta degli ambientalisti e gli interessi in campo, scrive Carlo Vulpio il 2 aprile 2017 su “Il Corriere della Sera”. È strana questa protesta «ambientalista» contro il gasdotto Azerbaigian-Italia. È strana perché il metano è il meno inquinante tra tutti i combustibili fossili: non c'è paragone con il petrolio o con il carbone, che alimentano, per esempio, le due centrali elettriche di Brindisi (tra le più inquinanti d'Europa) e l'Ilva (la più grande acciaieria europea, produttrice incontrollata di cancerogeni e di diossina). Il gasdotto - un tubo del diametro di 90 centimetri, a 10 metri di profondità - sboccherà nell'entroterra, a 8 chilometri dalla costa. Ma ci sono gli ulivi sul tracciato e bisogna fare attenzione. Giusto. Infatti ne sono stati espiantati 211, e saranno tutti ripiantati. Ma fossero anche di più? È la Xylella il nemico degli ulivi, non il gasdotto. Come non lo sono i 38 km del nuovo troncone Basilicata-Salento dell'Acquedotto pugliese (diametro del tubo 1,40 metri), che ha comportato l'eradicazione (provvisoria) di 2.500 ulivi e che è stato inaugurato proprio da Michele Emiliano. Con un discorsetto opposto a quelli che egli fa per alzare la temperatura del gas. Con Emiliano, contro il gasdotto, c'è anche Vendola, che nel suo «decennio» ha regalato alla Puglia assurde discariche, pale eoliche e pannelli fotovoltaici come da nessun'altra parte, con espianto (perenne) di migliaia di ettari di uliveti e vigneti. Senza che Emiliano, e l'altro caballero della protesta anti-gasdotto, Grillo, abbiano emesso un solo sospiro per le campagne e il paesaggio scempiati. Si poteva far approdare il gasdotto a Brindisi, dicono Emiliano & Co. Fingendo di non sapere che dire Brindisi significa dire mai, dato che per la Direttiva Seveso III, la città è «area a rischio di incidente rilevante». E allora ecco che «in Azerbaigian non vengono rispettati i diritti umani». Come se Cina, Kazakhstan, Arabia Saudita, Nigeria, Algeria e i tanti altri nostri partner commerciali fossero democrazie liberali. Infine, la mafia. Poteva mancare la mafia del gas azerbaigiano, con un tubo che attraversa Georgia, Turchia, Grecia, Albania? Certo che no. Ma se anche questo non bastasse, ecco la domanda jolly: chi ha interesse a fare «quel» gasdotto? E se invece ci chiedessimo: chi ha interesse a «non» fare il gasdotto, che, guarda caso, non attraverserà la Russia e perlomeno non farà di Italia e Ue una specie di Ucraina?
Vi racconto le bufale sul gasdotto Tap. Parla Carlo Vulpio, scrive Francesco De Palo il 3 aprile 2017 “Formiche.net". Perché Vendola, Emiliano e Grillo non hanno detto nulla contro il fotovoltaico, le pale eoliche e le discariche selvagge che hanno scempiato la Puglia e invece oggi foraggiano una crociata contro il gasdotto Tap? E perché la Regione Puglia ha detto no al Tap e sì al South Stream? Se lo chiede da tempo il giornalista Carlo Vulpio, poliedrica figura di giornalista e inviato, che sul Corriere della Sera di domenica 2 aprile ha firmato un commento ficcante sulle stranezze della protesta anti Tap, sciorinando dati sui passati interventi e conseguenze ben peggiori rispetto all’espianto di 200 ulivi come nel caso relativo alla marina di Melendugno. Il Tap, lungo 878 km, porterà ogni anno in Europa 10 miliardi di metri cubi di gas attraverso Turchia, Grecia, Albania e Italia. I lavori in Albania e Grecia sono già stati avviati da tempo, mentre in Puglia si registra la feroce mobilitazione di amministratori locali e rete.
STRANEZZE. “La protesta inscenata dai no Tap in questi giorni a Melendugno è strana – dice Vulpio a Formiche.net – Se chi manifesta avesse fatto un accenno al merito dei lavori con argomenti forti e basati, allora sarebbe stata una protesta normale. Il punto riguarda invece l’origine di questi moti”. E cita il caso di quando tre anni fa si recò personalmente in Azerbaijan per vedere e raccontare la nascita del gasdotto realizzato dalla società azera Socar. Analizzò cosa fosse davvero la via del gas, quanto potesse interessare l’Italia e l’Europa. E già allora, dalle colonne de La Lettura, l’inserto domenicale del Corriere, scrisse come fosse assurdo che proprio l’ultimo miglio del gasdotto, ovvero il tratto pugliese, potesse condizionare la realizzazione dell’intera opera con in campo 40 sindaci e le istituzioni regionali. “E’ bastato che mi chiedessi il motivo di quelle proteste e lo argomentassi con dati e valutazioni nel merito, per raccogliere da quelle falangi organizzate in rete accuse di aver preso denaro da qualche committente, cosa che mi vanto di non aver mai fatto in tutta la mia carriera”.
PARALLELISMI. “Strano che la Puglia, con l’ineffabile Vendola – continua Vulpio – abbia dato parere negativo al Tap che sbarcherà a Melendugno, mentre invece diede l’ok ad un altro progetto, il South Stream, che sarebbe dovuto sbarcare, via Grecia, ad Otranto”. Quest’ultimo, poi, ha subìto uno stop dopo i noti contrasti tra Europa e Russia a causa della guerra in Ucraina. Possibile che Otranto sia meno delicata di Melendugno, si chiede? Una domanda che ha spinto Vulpio ad approfondire la questione, andando anche al di là dell’apparenza di mobilitazioni e campagne sui social. Quel corsivo sul Corriere della Sera di domenica 2 aprile “nasce da lontano e rappresenta se vogliamo la logica conclusione di un vero e proprio viaggio di inchiesta” tra attori, fautori e ispiratori iniziato in tempi non sospetti, nel 2014. E utilizzando un piglio lontano da certo anti industrialismo, come fatto sul caso Ilva a cui ha dedicato il pamphlet “La città delle nuvole. Viaggio nel territorio più inquinato d’Europa”, (Edizioni Ambiente 2009) vincendo il Premio “Magna Grecia Awards” 2012. “Il conflitto tra progresso e ambientalismo classico è roba vecchia – sottolinea – e ce lo stanno insegnando gli indiani che riescono a costruire le acciaierie in India meglio di come la mano pubblica abbia fatto con l’Ilva di Taranto. Dimostra che, se si vuole, si possono fare le cose per bene e senza incidenti legati al cattivo industrialismo come accaduto alla centrale a carbone di Brindisi o nel rione tarantino Tamburi, che oggi andrebbe raso al suolo e sostituito con un grande bosco”.
I SILENZI SUGLI SCEMPI. C’è un altro elemento che ha fatto da propellente alle riflessioni di Vulpio sul Tap e riguarda i silenzi della classe politica e delle istituzioni sugli scempi che in Puglia si sono consumati negli ultimi due lustri. “Curioso – aggiunge – che l’ex governatore Nichi Vendola, dopo aver affittato i suoi uteri, scriva pochi giorni fa sull’Huffington Post che bisogna tutelare i cittadini dai danni del gasdotto e dalla democrazia del manganello, dimenticando i suoi scempi a danno della Puglia con pale eoliche, pannelli fotovoltaici e discariche in luoghi sensibili: come quella che voleva realizzare a Grottelline, vicino Spinazzola, su di un insediamento neolitico e a pochi metri da una sorgente di acque minerale e da antiche masserie dei Templari. Un’altra l’hanno fatta a Corigliano d’Otranto, in perpendicolo ad un grande bacino d’acqua potabile che alimenta l’Acquedotto Pugliese. Lì davvero sono stati tagliati uliveti e vigneti per sempre, non momentaneamente spostati come i 200 del Tap”. E racconta che tra l’altro in occasione della costruzione massiccia di pannelli fotovoltaici si è utilizzato un consistente quantitativo di diserbante affinché non crescesse più nemmeno l’erba. “Molto curioso che su tutto questo Vendola, Emiliano e Grillo non abbiano detto nulla, mentre adesso cavalcano la protesta del no Tap”. Troppe stranezze secondo Vulpio, al pari della decisione del Governatore pugliese Emiliano di andare ad inaugurare lo scorso settembre i 38 km della dorsale jonico-salentina di acquedotto che dal fiume Sinni alimenterà proprio quell’area destinata all’approdo del gasdotto. E si interroga: “Chi decide che sia lecito espiantare gli ulivi su quei 38 km e che non lo sia farlo a Melendugno?”
MEDIA. Vulpio ricorda anche una puntata di Report, condotta su Rai3 da Milena Gabanelli, che mescolò in maniera disarticolata il gasdotto Tap, i riverberi paesaggistici, le accuse ad alcuni politici come l’ex Udc Luca Volonté e i diritti umani in quel paese. “Guardando quella trasmissione ecco che il pensiero va ad altri interrogativi, legati alle pressioni di gruppi di potere, di lobbisti, di Stati che non possiamo far finta di non sapere che esistono. Il fatto che avvengano non è affatto una giustificazione, ma la domanda è: perché mischiare tutto per far passare il messaggio che acquisteremo gas da dei criminali?”. Senza contare anche una certa direzione impressa dalla stampa italiana, che ha assecondato gli umori dei no Tap: “Non solo quella locale pugliese, ma anche quella nazionale non mi pare sia brillata per obiettività, anzi, la bussola sembra essere il riposizionamento in virtù di futuri scenari politici” aggiunge Vulpio. E conclude: “Poi mi sono detto che è sufficiente osservare la cartina geografica e scoprire che la geopolitica avrebbe molto da dire per chiarire qualcuna di quelle stranezze”.
NO TAP E PROTESTA CONTRO IL DEPURATORE CONSORTILE MANDURIA-SAVA AD AVETRANA. NON SONO FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA.
Avetrana. Manifestazione contro il Depuratore consortile Manduria-Sava. 31 marzo 2017. Ad Avetrana, nell’indifferenza dei media, migliaia di persone da ogni dove venuti a dire no al depuratore consortile Manduria-Sava, da costruire al confine con la zona turistica di Avetrana, ed al relativo scarico al mare prospicente delle acque reflue di risulta.
L’opinione dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
A Sava e a Manduria va bene che si faccia scempio di quelle zone, sostenute da politici locali tarantini e regionali pugliesi, disinteressati agli interessi del posto. I media nazionali e locali, che se ne infischiano della questione, potrebbero pensare di avere a che fare con una cricca di ambientalisti comunisti anarchici, se non essere, addirittura, i giornalisti asserviti al potere.
Se io non fossi di Avetrana, ma fossi un barbaro leghista, però, me ne fotterei dell’aspetto ambientale, sì, ma non potrei esimermi, però, dal chiedermi come cazzo si fa a sperperare dei soldi pubblici, per perorare un’opera che dista una trentina di chilometri dal sito da servire. Se il costo dell’opera rientra nei bilanci pubblici, è inaccettabile ed illogico spendere soldi pubblici per chilometri di condutture, per portare la merda manduriana e savese alle soglie di Avetrana. E poi il costo dei tanti terreni da espropriare e dei tantissimi ulivi secolari da estirpare (se fossero autorizzati a farlo). La questione Tap a Lecce, in confronto, sarebbe un’inezia. A questo punto non sarebbe l’organo amministrativo ad essere interpellato, ma l’organo contabile della Corte dei Conti, affinchè gli amministratori incapaci possano pagare di tasca propria le nefandezze che combinano.
Depuratore di Specchiarica. I tanti padri di un fallimento. Ricordo molto bene quando Emiliano promise solennemente che lo scarico a mare imposto da Vendola non si sarebbe fatto.
Il Pd di Avetrana abbandona la linea Emiliano-Del Prete in tema di depurazione, scrive "La Voce di Manduria" il 12 marzo 2017. Al partito democratico di Avetrana non convince più il piano del governatore Michele Emiliano del depuratore con scarico emergenziale sul terreno e chiede di spostare il sito altrove. Dicendosi ora «da sempre contrari alla localizzazione nella località Urmo Belsito», appena due settimane fa i piddini avetranesi, esprimevano «la massima soddisfazione in merito alle decisioni che, in itinere, la Regione Puglia ed Acquedotto Pugliese, con il prezioso contributo dei Comuni Interessati, dei Consiglieri Regionali del territorio e quelli del Gruppo PD, e soprattutto del Prof. Mario Del Prete, sono in fase di elaborazione, riguardo il Depuratore Consortile Manduria-Sava». Evidentemente convinti a cambiare idea dall’onda di proteste della loro comunità che vuole contrastare a tutti i costi il progetto Aqp-Del Prete-Emiliano, gli esponenti del Pd di Avetrana scrivono ora che «i recenti sviluppi della vicenda, che prevedono uno studio di fattibilità per il superamento dello scarico in mare delle acque come recapito finale della depurazione, nonché il venir meno della realizzazione della rete fognaria nelle località marine di Manduria, rendono superata quella localizzazione. Si considera, infatti – aggiungono -, che un depuratore posto presso il mare abbia dei costi molto maggiori rispetto ad una struttura che dovrebbe servire solo ed esclusivamente i nuclei abitati di Manduria e Sava». Per questo, secondo quanta nuova linea, «Il Circolo di Avetrana del Partito Democratico chiede a gran voce che sia preso in considerazione lo spostamento del sito del Depuratore per i motivi sopra esposti, ovvero: la mancanza del servizio fognario presso le marine di Manduria, il superamento dello scarico in mare, ed i costi eccessivi di una condotta che da Sava dovrebbe arrivare fino a Urmo Belsito». Il Pd avetranese, infine, «invita tutte le componenti politiche e sociali di Avetrana a ritrovare l’unità per poter ottenere un risultato utile all’intera popolazione, piuttosto che intraprendere lotte in solitaria che non fanno altro che dividere il fronte e rendere vana la deliberazione unitaria del Consiglio Comunale del 17 febbraio scorso, in cui si confermava la contrarietà di Avetrana all’ubicazione del sito del depuratore».
SPECCHIARICA. Quando il turista malcapitato viene a San Pietro in Bevagna, a Specchiarica o a Torre Colimena dice: “qua non c’è niente e quel poco è abbandonato e pieno di disservizi. Non ci torno più!”. Al turista deluso e disincantato gli dico: «Campomarino di Maruggio, Porto Cesareo, Gallipoli, Castro, Otranto, perché sono famosi?» “Per il mare, per le coste, per i servizi e per le strutture ricettive” risponde lui. «Questo perché sono paesi marinari a vocazione turistica. Ci sono pescatori ed imprenditori e gli amministratori sono la loro illuminata espressione» chiarisco io. «E Manduria perché è famosa?» Gli chiedo ancora io. “Per il vino Primitivo!” risponde prontamente lui. Allora gli spiego che, appunto, Manduria è un paesone agricolo a vocazione contadina e da buoni agricoltori, i manduriani, da sempre i 17 km della loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna ed edificati abusivamente, perciò da trascurare.
Specchiarica è Salento. Specchiarica è un territorio costiero posto sul lato orientale della marina di Taranto. E' una lontana frazione decentrata di Manduria, provincia di Taranto, attigua al confine territoriale di Porto Cesareo, provincia di Lecce. Specchiarica confina con altre frazioni manduriane: ad est con Torre Colimena; ad ovest con San Pietro in Bevagna. Specchiarica è meno nota delle precedenti località pur se, in periodo estivo, ospita il doppio dei loro villeggianti. Le sue spiagge sono alternativamente sabbiose e rocciose ed il mare è incontaminato. Specchiarica è delimitata da due importati risorse ambientali. Sul lato est di Specchiarica vi è la Salina dei Monaci, sul lato ovest vi è il fiume Chidro. Specchiarica è formata da 7 contrade: quota 10; quota 11; quota 12; quota 13; quota 14; quota 15; quota 16. Le contrade non sono altro che delle strade di campagna comunali perpendicolari alle parallele strade provinciali e statali: la litoranea Salentina e la Tarantina. Le strade contradaiole oggi asfaltate alla meno peggio, sono bucate da tutte le parti. Ai lati di queste strade comunali da sempre si è lottizzato e costruito abusivamente. Prima a ridosso della litoranea e poi man mano, fino all'interno senza soluzione di continuità. Migliaia di case e decine di strade che da private sono divenute pubbliche. Gli organi preposti giudiziari ed amministrativi, anzichè regolare questo scempio, lo hanno agevolato.
A Specchiarica è quasi impossibile arrivarci: non ci sono vie di collegamento degne di un paese civile. Non vi è una ferrovia: i treni si fermano a Taranto (50 km). Non vi è un aeroporto: gli aerei si fermano a Brindisi (50 km). Non vi sono autostrade: l'autostrada si ferma a Massafra (60 km). Non vi sono porti: le navi si fermano a Taranto o Brindisi. Non vi sono autolinee extraurbane: gli autobus si fermano a Manduria (20 km) e qualche volta ad Avetrana (6 km).
Di questo diciamo grazie a chi ci amministra a livello provinciale, regionale, statale, ma diciamo grazie anche alla maggioranza di chi abita il territorio, abulici ad ogni autotutela e servili con il potere per voto di scambio o altre forme di clientelismo. Compromessa con la politica, la maggior parte degli abitanti di Specchiarica sono consapevoli del fatto che tutte le abitazioni della zona (Specchiarica, ma anche San Pietro in Bevagna e Torre Burraco e Torre Colimena) sono insalubri (mancanza di fogna e acqua potabile) e quindi inabitabili, oltre che inquinanti la falda acquifera. Devono solo ringraziare le omissioni delle Autorità preposte allo sgombero degli immobili per sanità e sicurezza pubblica, se si può ancora usufruire di quelle case.
Gli abitanti di Specchiarica sono degni e meritevoli dell'irridenza e dello sberleffo dei "Polentoni" (mangia polenta ovvero un pò lentoni di comprendonio) che definiscono i "Terroni" retrogradi ed omertosi, anche se molti settentrionali abitano la zona e non si distinguono per niente dalla massa. Gli specchiarichesi anziché ribellarsi, subiscono e tacciono. In questo modo, per non pretendere quello che gli spetta, le loro proprietà sono svalutate ed improduttive.
Percorrendo la litoranea Salentina, Specchiarica, a guardarla dal lato del mare è un paradiso vergine ed incontaminato, ma volgendo gli occhi all'interno ci si trova un ammasso di immobili, per lo più seconde case, costruite tutte abusivamente nell'indifferenza delle istituzioni. L'urbanistica del posto non esiste, e quello che c'è, di fatto, è mancante di qualsivoglia servizio civico. Mancano: acqua potabile e sistema fognario, la cui mancanza incide sull'inquinamento della falda acquifera; percorsi di viabilità pedonale ed automobilistica; illuminazione pubblica e luoghi di svago e di ritrovo. Assurdo, ma manca addirittura una piazza e perfino i marciapiedi per camminare o passeggiare. Tempo fa a Specchiarica vi era un luogo di ritrovo. Un bar-ristorante-pizzeria con annesso parcheggio roulotte, parco giochi e sala da ballo all'aperto. Vi era movimento, luci, suoni, svago, intrattenimento. Svolgeva altresì la funzione di ufficio informazioni. Era frequentato per lo più dai turisti, ma era malvisto da molti locali, erosi dal tarlo dell'invidia, abituati all'assistenzialismo e disabituati all'iniziativa imprenditoriale ed all'emancipazione culturale ed economica. In precedenza quel luogo era usato come campo di calcio da comitati estemporanei di gente locale, per lo più di Avetrana, avendoselo appropriato illegalmente, senza ristoro economico per il proprietario. Un intrattenimento gratuito per chi si accontenta di poco o di niente e pretende che gli altri facciano lo stesso. Hanno perso il giocattolo nel momento in cui chi ne aveva diritto ha creato un'azienda. Pur essendo proprietà privata, dei "Pesare" noti possidenti di Avetrana prima di passare all'attuale legittima proprietà, le malelingue diffamatorie divulgarono la convinzione che il terreno fosse stato usurpato illegalmente a danno del demanio. Il venticello della calunnia tanto soffiò forte che un giorno d'inverno qualcuno appiccò il fuoco alla struttura. Un avvertimento del racket a chi non voleva pagare il pizzo o una mano armata dall'invidia. La calunnia ancor oggi è un venticello che non smette di soffiare. L'amministrazione pubblica non ha più dato modo ai proprietari di ricostruire quello che la mafia o l'invidia aveva distrutto. La mafia ti rovina la vita; lo Stato ti distrugge la speranza. Le rovine di un passato sono ancora lì a ricordarci l'incapacità degli amministratori pubblici di governare e gestire un territorio.
Il paradosso è che a Specchiarica ha più diritto una pianta vegetale, pur non inserita in un sistema protetto di macchia mediterranea, che un essere umano, la sua proprietà, la sua azienda.
Se tocchi una pianta o bruci le erbacce le autorità ti distruggono con la delazione di pseudo ambientalisti. Vi è indifferenza, invece, se si abitano case insalubri ed inabitabili, in zone prive di ogni strumento urbanistico.
L'amministrazione comunale di Manduria è incapace di dare un'immagine ed una regolamentazione affinchè il territorio sia una risorsa economica e sociale per il territorio. Specchiarica è un luogo desolato ed abbandonato a sè stesso. Posto nel limbo territoriale e culturale tra i comuni di Avetrana e Manduria è un luogo di vacanze. Ambìto da entrambi i Comuni, il territorio è oggetto di disputa sulla sua titolarità. Avetrana ne vanta l'autorità per precedenti storici e per l'infima prossimità. L'argomento ad Avetrana è l'unico tema per le campagne elettorali. I proprietari delle case o i locatari che li occupano temporaneamente (pagando affitti in nero) sono gente di varie origini anche estere o extra regionali o provinciali. I specchiarichesi per lo più sono di origini autoctone, ossia sono cittadini di Avetrana, ma anche di Erchie, Torre Santa Susanna, Manduria e di altri paesi pugliesi limitrofi che si affacciano sulla costa ionica.
Specchiarica ha un solo ristorante, un solo bar, un posteggio per roulotte: troppo poco per sfruttare economicamente la risorsa del turismo. Ma i locali son contenti così. I saccenti amministratori locali ed i loro referenti politici provinciali e regionali, anzichè impegnarsi a porre rimedio ad un danno economico e d'immagine incalcolabile, nel deserto hanno pensato bene di progettare lo sbocco a mare del depuratore fognario di Manduria e Sava (paesi lontani decine di chilometri), arrecando addirittura un probabile danno ambientale.
Un comitato si è formato per fermare quello che il Comune di Manduria, l'Acquedotto Pugliese e la Regione Puglia vogliono fare in prossimità della località "Ulmo Belsito", frazione turistica di Avetrana, ossia il depuratore con lo scarico a mare nella marina incontaminata di Specchiarica, frazione di Manduria; nessuno, invece, ha mai alzato la voce per obbligare a fare quello che si ha sacrosanto diritto a pretendere di avere come cittadini e come contribuenti che sul posto pagano milioni di euro di tributi.
Comunque i comitati in generale, non questo in particolare, sono composti da tanti galletti che non fanno mai sorgere il sole e guidati da personaggi saccenti in cerca di immeritata visibilità o infiltrati per parte di chi ha interesse a compiere l'opera contro la quale lo stesso comitato combatte. Questi comitati sono formati da gente compromessa con la politica e che ha come referenti politici gli stessi che vogliono l'opera contestata, ovvero nulla fanno per impedirlo. Valli a capire: combattono i politici che poi voteranno alle elezioni. Spesso, poi, ci sono gli ambientalisti. Questi a volte non sanno nemmeno cosa significhi amore per la terra, la flora e la fauna, ma per ideologia impediscono il progresso e pretendono che si torni all'Età della Pietra. Ambientalisti che però non disdegnano i compromessi speculativi, tanto da far diventare le nostre terre ampie distese desertiche tappezzate da pannelli solari e fotovoltaici che fanno arricchire i pochi. Pannelli solari che offendono il lavoro dei nostri nonni che hanno conquistato quei terreni bonificandoli da paludi e macchie. Sicuramente non vi sono professionisti competenti a intraprendere le azioni legali e giudiziarie collettive adeguate, anche con l'ausilio delle norme comunitarie. Di sicuro i membri del comitato non vogliono sborsare un euro e si impelagano in proteste infruttuose fine a se stesse. Se il singolo può adire il Tar contro un atto amministrativo che lede un suo interesse legittimo (esproprio), la comunità può tutelare in sede civile il diritto alla salute ed all'immagine ed alla tutela del proprio patrimonio.
Per quanto riguarda la costruzione ed il funzionamento del depuratore vi sono norme attuative regionali che regolano la materia. A livello nazionale invece, si fa riferimento ai due decreti legislativi il n. 152/06 (“Norme in materia ambientale”) e il n. 152/99 (recante “Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole”) che, recependo la normativa comunitaria allo scopo di tutelare la qualità delle acque reflue, disciplinano che gli scarichi idrici urbani siano sottoposti a diverse tipologie di trattamento in funzione della dimensione degli agglomerati urbani. Altro è il controllo successivo rispetto ai parametri microbiologici di riferimento, gli stessi fissati dal D. lgs. 116 del 30 maggio 2008 ad integrazione del D.p.r. n. 470 dell’8 giugno 1982, norma emanata in recepimento della direttiva 79/160/CEE sulla qualità delle acque di balneazione e ora sostituita dalla più recente direttiva 2006/7/CE.
Il sindaco di Avetrana aveva firmato per il depuratore a Ulmo, scrive il 10 settembre 2015 "La Voce di Manduria". Scarico a mare no, depuratore in zona Ulmo Belsito sì. E’ scontro su questo tra il vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia e il consigliere regionale di Torricella, Peppo Turco. Il numero due della giunta avetranese fomenta la polemica postando su facebook gli atti deliberativi e i documenti attestanti la contrarietà degli avetranesi non solo alla condotta sottomarina, ma anche all’ubicazione delle vasche di raccolta e deposito previste a due passi dalla zona residenziale di Ulmo Belsito. Il consigliere Turco, da parte sua, fa notare la differenza di vedute di Scarciglia con il suo sindaco il quale, spiega Turco, è invece favorevole al sito Ulmo. «Da sempre – scrive il vicesindaco di Avetrana – siamo stati contro lo sversamento in mare delle acque reflue e contro l’ubicazione del depuratore (collettore) nei pressi dell’unica località turistica del nostro comune». Come prova di questo, l’amministratore avetranese posta tutte le delibere prodotte negli anni che, in effetti, attestano l’opposizione degli avetranesi sia alla condotta che alla sede delle vasche». Il consigliere di Torricella che con il suo collega manduriano, Luigi Morgante hanno preso a cuore la vicenda del «no scarico a mare», richiama l’amico Scarciglia e fa emergere la contraddizione tra lui e il suo sindaco. «Gli atti – scrive Turco – sono che stai facendo una figuraccia; per vincere una campagna elettorale avresti dovuto dirci tutto prima e non dopo. Negli incontri – continua il consigliere regionale – abbiamo sempre parlato di condotta». Infine Turco smaschera il capo dell’amministrazione di Avetrana citando un documento da lui sottoscritto. «Perché – chiede a Scarciglia – non posti il documento sottoscritto dal tuo sindaco in cui accetta tutto?». Più imbarazzante, per l’amministratore di Avetrana, l’intervento pubblico dell’ambientalista Nicolò Giangrande che su Facebook ha pubblicato la lettera richiamata da Turco (con tanto di firma del sindaco De Marco), con questo duro commento: «È semplice sbraitare, oggi, contro un tavolo riannodato tra mille difficoltà – si legge nel post – quando, invece, il Comune di Avetrana è stato il primo a firmare a Bari, il 4 agosto 2014, un avallo all’AQP per la condotta sottomarina. Una firma che ancora oggi pesa come un macigno nella ricerca di una soluzione condivisa tra tutti gli attori coinvolti. E’ meglio rinfrescare la memoria a quegli amministratori avetranesi – aggiunge Giangrande -, forse un po’ distratti o smemorati, che ricostruiscono la vicenda del depuratore sempre in maniera incompleta e sempre omettendo i documenti a loro più scomodi».
LA STORIA DEL DEPURATORE PUNTO PER PUNTO. Intervento del 24 aprile 2015 di Nicolò Giangrande su "Viva Voce Web". Dopo aver ascoltato molti degli interventi alla manifestazione di domenica 19 aprile, reputo sia doveroso ricostruire brevemente la decennale vertenza “no scarico a mare” per fare chiarezza sulle responsabilità del progetto al quale ci stiamo opponendo. Uno sguardo all’indietro non per motivi nostalgici bensì per chiarire alcuni elementi che, a mio avviso, stanno portando il dibattito, e il conseguente scontro, ad una contrapposizione “locale” versus “regionale”. La realtà è ben più complessa e chi vuole ridurla ad un banale schema del tipo “noi” contro “loro” ha come obiettivo quello di nascondere le responsabilità e confondere la situazione. Se vogliamo capire quanta responsabilità abbiano i diversi attori istituzionali coinvolti, dobbiamo analizzare le “parole” e i “(f)atti” che caratterizzano il loro discorso e le loro azioni.
Partiamo dal livello locale: Manduria.
Primo punto. L’Amministrazione Comunale di Manduria (sindaco Francesco Massaro, centrosinistra) ha indicato una localizzazione per il depuratore tanto lontana dal centro abitato cittadino quanto vicino all’unica area turistico residenziale di Avetrana con la motivazione di voler servire la marina manduriana. Una scelta miope che ha portato, sì, l’impianto lontano dal naso dei cittadini-elettori di Manduria ma lo ha avvicinato così troppo alla costa che l’unico scarico possibile dei reflui era, e rimane, il mare.
Secondo punto. Quando è stata presentata la Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) vi era la disponibilità regionale alla modifica del sito (leggere pag. 13 della VIA, febbraio 2011) e, quindi, del conseguente scarico a mare. Il Comune di Manduria (sindaco Paolo Tommasino, centrodestra) non ha colto quella preziosa occasione e la VIA è stata approvata lasciando invariato il sito. Sei mesi dopo, nell’agosto 2011, lo stesso sindaco Tommasino era in prima fila nella manifestazione di San Pietro in Bevagna ad arringare la folla contro lo scarico a mare.
Terzo punto. L’attuale Amministrazione di Manduria (sindaco Roberto Massafra, liste civiche) si oppone alla costruzione dello scarico a mare ma non lo ha ancora dimostrato con degli atti amministrativi rilevanti. Passiamo ora dal livello locale a quello regionale. Salto volutamente i commissariamenti prefettizi della Città di Manduria e il livello provinciale poiché le responsabilità in questi livelli, pur essendoci, sono minime. Metto di lato anche l’AQP perché l’Acquedotto in questa partita è il braccio operativo della Regione Puglia.
Quarto punto. Nichi Vendola – nel suo triplice ruolo di Presidente della Regione Puglia, Commissario Straordinario all’Ambiente nominato dal Governo e leader nazionale di “Sinistra, Ecologia e Libertà” - è rimasto totalmente indifferente dinanzi alle richieste, provenienti da più parti, di ascoltare le soluzioni alternative. Una persona come lui, tanto impegnata nel mettere in luce le contraddizioni di alcune opere in altre regioni italiane e pure sulla costa adriatica pugliese, avrebbe dovuto rivolgerci un’attenzione particolare. Tra le incoerenze che voglio sottolineare vi è quella lettera a firma di Luca Limongelli (dirigente del Servizio Idrico della Regione Puglia), in cui si riconosce la netta contrarietà delle popolazioni interessate, si citano le autorizzazioni mancanti e si chiede al Ministero dell’Ambiente di inserire la costruzione del depuratore nel decreto “Sblocca Italia”. È paradossale come la Regione Puglia di Vendola sia tanto impegnata ad opporsi allo “Sblocca Italia” -poiché considerato un provvedimento calato dall’alto che non permette alcun confronto con la popolazione locale- e poi un funzionario della stessa Regione lo invoca, nel silenzio di tutti i vertici regionali, per imporre una scelta ad un territorio nettamente contrario.
Quinto punto. Fabiano Amati e Giovanni Giannini - rispettivamente l’ex e l’attuale assessore regionale ai Lavori Pubblici (entrambi del Partito Democratico) - si sono rivelati strenui difensori delle scelte e degli interessi dell’Acquedotto Pugliese. Infatti, tutti e due non hanno mai voluto ascoltare le nostre proposte alternative allo scarico a mare.
Sesto punto ed ultimo. Gli attuali consiglieri regionali eletti nella circoscrizione di Taranto -Anna Rita Lemma, Donato Pentassuglia, Michele Mazzarano (PD), Alfredo Cervellera (SEL, oggi Misto), Francesco Laddomada (La Puglia per Vendola), Giuseppe Cristella, Arnaldo Sala, Pietro Lospinuso (PDL-Forza Italia), Antonio Martucci (Italia dei Valori, oggi Moderati e Popolari) - sono stati tutti quanti, chi più chi meno, interpellati per occuparsi della vertenza. Gli impegni presi, però, non sempre si sono trasformati in atti tangibili. Tra di loro vi è qualcuno che negli ultimi giorni ha pure espresso vicinanza alla nostra lotta. Questi atteggiamenti da convertiti sulla via di Damasco, forse meglio dire “sulla litoranea di Specchiarica”, li fanno apparire superficiali quanto quegli studenti che il 6 di gennaio si ricordano di non aver fatto i propri compiti e pensano a quale giustificazione usare il giorno dopo. Come vediamo le responsabilità della condotta sottomarina non sono solo da un lato bensì interessano le Istituzioni di ogni livello e i Partiti di ogni colore. Manduria e Bari sono accomunate entrambe dal dire una cosa e farne un’altra. Una pericolosa separazione tra “parole” e “(f)atti” che sta portando ad un progressivo allontanamento tra le Istituzioni e i cittadini e tra i Partiti e gli elettori. Non ci si può, quindi, meravigliare se poi i giovani presenti in piazza domenica scorsa contestano apertamente i simboli e gli uomini delle Istituzioni e dei Partiti. Per risolvere questa vertenza non c’è bisogno di alcun eroe pronto a immolarsi davanti alle ruspe. Sembrerà strano ma è sufficiente che i rappresentanti che tutti noi abbiamo eletto, dal Comune fino alla Regione, facciano semplicemente il proprio dovere. Il Coordinamento Intercomunale deve quindi giocare su tre fronti: in piazza, nei tribunali e nel Palazzo. È indispensabile continuare a tenere alta l’attenzione sulla nostra lotta, spingere i rappresentanti delle Istituzionali locali a dare mandato ad avvocati che possano predisporre una corretta azione legale e, infine, preparare l’incontro con il Ministero dell’Ambiente. Una volta coinvolto il Ministero, sarà compito di quest’ultimo decidere se affrontare la questione o rimandarla indietro alla Regione Puglia che, a quel punto, avrà un nuovo Presidente, una nuova Giunta e un nuovo Consiglio regionale.
CONTRO IL DEPURATORE CONSORTILE SAVA-MANDURIA AD AVETRANA E SCARICO A MARE. LOTTA UNITARIA O FUMO NEGLI OCCHI?
Sentiamo la voce del dissenso dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e dell’Associazione Pro Specchiarica entrambe di Avetrana. La prima a carattere nazionale e la seconda prettamente di interesse territoriale. Il perché di un rifiuto a partecipare alla lotta con gli altri, spiegato dal Dr Antonio Giangrande, componente del direttivo di entrambe le associazioni avetranesi.
«L’aspetto da affrontare, più che legale (danno emergente e lucro cessante per il territorio turistico di Avetrana) è prettamente politico. La gente di Avetrana non si è mobilitata in massa e non vi è mobilitazione generale, come qualcuno vuole far credere, perché è stufa di farsi prendere in giro e conosce bene storia e personaggi della vicenda. Hanno messo su una farsa poco credibile, facendo credere che vi sia unità di intenti.» Esordisce così, senza giri di parole il dr Antonio Giangrande.
«Partiamo dalla storia del progetto. La spiega bene il consigliere comunale Arcangelo Durante di Manduria: “Che la realizzazione a Manduria di un nuovo depuratore delle acque reflue fosse assolutamente necessario, era già scontato; che la scelta del nuovo depuratore non sia stata fatta dall’ex sindaco Francesco Massaro, ma da Antonio Calò, sindaco prima di lui, ha poca importanza. Quello che invece sembra molto grave, è che il sindaco Massaro, in modo unilaterale, nel verbale del 12 dicembre 2005 in allegato alla determina della Regione Puglia di concessione della Via (Valutazione d’Impatto Ambientale), senza informare e coinvolgere il consiglio comunale sul problema, ha indicato il mare di Specchiarica quale recapito finale del depuratore consortile”. Bene. Da quanto risulta entrambi gli schieramenti sono coinvolti nell’infausta decisione. Inoltre questa decisione è mirata a salvaguardare il territorio savese-manduriano ed a danneggiare Avetrana, in quanto la localizzazione del depuratore è posta sul litorale di Specchiarica, territorio di Manduria (a poche centinaia di metri dalla zona residenziale Urmo Belsito, agro di Avetrana)».
Continua Giangrande, noto autore di saggi con il suffisso opoli (per denotare una disfunzione) letti in tutto il mondo. «L’unitarietà della lotta poi è tutta da verificare. Vi sono due schieramenti: quello di Manduria e quello di Avetrana. Quello di Manduria è composto da un coordinamento istituito solo a fine maggio 2014 su iniziativa dei Verdi e del movimento “Giovani per Manduria” con il comitato “No Scarico a mare” di Manduria. Questo neo coordinamento, precedentemente in antitesi, tollera il sito dell’impianto, purchè con sistema di filtrazione in tabella IV, ma non lo scarico in mare; quello di Avetrana si oppone sia alla condotta sottomarina che alla localizzazione del depuratore sul litorale di Specchiarica. Il comitato di Avetrana (trattasi di anonimo comitato ed è tutto dire, ma con un solo e conosciuto uomo al comando, Pino Scarciglia) ha trovato una parvenza d’intesa fra tutti i partiti, i sindacati e le associazioni interpellate, per la prima volta sabato 17 maggio 2014, e si schierano compatti (dicono loro), superando ogni tipo di divisione ideologica e ogni steccato, che sinora avevano reso poco incisiva la mobilitazione. In mattinata del 17 maggio, il Consiglio Comunale di Avetrana si è riunito per approvare, all’unanimità, la piattaforma di rivendicazioni già individuata nella riunione fra il comitato ristretto e i rappresentanti delle parti sociali. In serata, invece, maggioranza e minoranza sono saliti insieme sul palco di piazza Giovanni XXIII per rivolgere un appello alla comunità composta per lo più da forestieri. Si legge nel verbale dell’ultima riunione del Movimento. “E’ abbastanza chiaro, inoltre, che le Amministrazioni Comunali di Manduria, che si sono succedute nel tempo da 15 anni a questa parte, non hanno avuto nè la volontà nè la capacità di modificare o di bloccare questo obbrobrio, trincerandosi dietro a problematiche e a questioni tecniche/burocratiche, a parer loro, insormontabili”. Il gruppo di lavoro unitario avetranese è composto da consiglieri di maggioranza e minoranza (Cosimo Derinaldis, Antonio Baldari, Pietro Giangrande, Antonio Lanzo, Emanuele Micelli e Rosaria Petracca). “Vorrei innanzitutto far notare come, finalmente, si stia superando ogni tipo di steccato politico o ideologico – afferma l’assessore all’Agricoltura e al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. Steccato veramente superato? A questo punto reputo poco credibile una lotta portata avanti da chi, di qualunque schieramento, continui a fare propaganda politica contrapposta per portare voti a chi è ed è stato responsabile di questo obbrobrio ai danni dei cittadini e ai danni di un territorio incontaminato. Quindi faccio mia la domanda proposta da Arcangelo Durante “Bisogna dire però, che il presidente Vendola è in misura maggiore responsabile della questione, poichè di recente ha firmato il decreto di esproprio, nonostante che, prima il consiglio comunale dell’ex amministrazione Massaro e dopo quello dell’amministrazione Tommasino, si siano pronunciate all’unanimità contrarie allo scarico a mare. Presidente Vendola, ci può spiegare come mai, quando si tratta di opere che riguardano altri territori, vedi la Tav di Val di Susa, reclama con forza l’ascolto e il rispetto dei cittadini presenti sul territorio; mentre invece, quando si tratta di realizzare opere che interessano il nostro territorio, (dove lei ha il potere) non rivendica e utilizza lo stesso criterio, come l’ultimo provvedimento da lei adottato in qualità di Commissario Straordinario sul Depuratore?”»
Monta la polemica per il divieto ai sindaci di salire sul palco con Romina Power, scrive il 9 aprile 2017 Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. Non ancora passati gli echi della grande manifestazione unitaria di venerdì contro ogni forma di scarico in mare del depuratore e per lo spostamento del costruendo impianto previsto sulla costa, il dibattito s’infiamma ora nella polemica tra organizzatori dell’evento e i sindaci e politici con cariche varie a cui l’altro ieri è stato impedito di conquistare il palco. Mantenendo fede agli accordi precedentemente presi da tutti i promotori della manifestazione, partiti, associazioni, comitati ed enti, tra cui il comune di Avetrana, al termine del corteo a cui hanno partecipato non meno di diecimila persone, gli esponenti politici presenti, sindaci con il tricolore, consiglieri regionali e consiglieri dei comuni di Manduria, Sava, Erchie, Lizzano ed Avetrana, hanno espresso la volontà di salire sul piccolo palco dove, secondo i programmi, sarebbero dovuti salire solo la cantante Romina Power, per un appello al presidente Michele Emiliano, e il portavoce degli organizzatori il quale avrebbe letto (come ha letto) un messaggio unitario indirizzato al sindaco di Manduria e alla struttura tecnica della Regione Puglia. Il tentativo di intrusione non è piaciuta ai coordinatori i quali avevano fatto di tutto per impedire qualsiasi caratterizzazione politica, o peggio ancora partitica, all’importante e riuscitissima manifestazione. Ne è nata un’accesa e verbalmente violenta discussione dietro al palco con i sindaci e il loro codazzo di politici al seguito che tentavano di conquistare la scaletta, e gli organizzatori che glielo impedivano. Urla, minacce, improperi, alcuni dei quali davvero irripetibili, hanno rischiato di rovinare la bella festa. I politici per convincere chi si opponeva, hanno detto di avere bisogno di una deroga al divieto concordato poiché quella mattina c’era stata a Bari un’importante riunione in cui si sarebbero prese decisioni importanti in tema di depurazione. E che bisognava riferire al popolo tali novità. Con uno sforzo alle regole, gli organizzatori della manifestazione hanno dato mandato ad uno di loro di salire sul palco e informare la folla di quanto stesse accadendo e chiedere il loro parere in merito. Il rifiuto dei manifestanti è stato univoco e rumoroso: «Niente politici sul palco». E così è stato. L’arrivo, finalmente di Romina Power, ha tolto ogni speranza ai sindaci che hanno dovuto rinunciare all’eccezionale platea dei diecimila assiepati sulla piazza. Tra le fasce tricolori che anelavano un posto su quel palco c’era anche il sindaco di Manduria, Roberto Massafra, lo stesso che una settimana prima aveva rifiutato il permesso di quella piazza che ora desiderava avere, motivando il diniego con la concomitanza del consiglio comunale che poi non si è più tenuto. Ieri, infine, è stato il giorno delle arrabbiature. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, che si era fatto garante con gli altri suoi colleghi facendo lui stesso parte del comitato che ha organizzato l’appuntamento, si è scusato pubblicamente con gli ospiti tricolore accusando ancora una volta gli altri del comitato di aver privato i manifestanti delle buone notizie che venivano da Bari. In effetti dagli uffici della Regione Puglia, più che una soluzione (questo lo si è capito ieri quando le carte sono cominciate a circolare), è venuta fuori una proposta, anzi tre. In sostanza la Regione Puglia ha demandato ai consigli comunali di Manduria e Avetrana la scelta su tre ipotesi progettuali: quella originaria con il depuratore in zona residenziale Urmo e la condotta sottomarina; la seconda, proposta di recente con il depuratore sempre a Urmo, i buffer per uso irriguo dei liquami, e lo scarico emergenziale al suolo, tra le abitazioni e un hotel a 700 metri dal mare; infine una terza ipotesi che prevede lo spostamento del depuratore nell’entroterra con le vasche di drenaggio e senza scarico a mare ma in una lama che va a finire nel fiume Chidro.
Noi ambientalisti colpiti dal fuoco amico, scrive il 10 aprile 2017 Francesco Di Lauro su “La Voce di Manduria". Un clamoroso caso di fuoco amico noi sul palco a parlare di soluzioni condivise, di tavolo permanente per adottarle, ed Avetrana, che tiene famiglia, pur avendo firmato quel documento va e propone (sarebbe meglio dire si fa suggerire dall’aspirante sindaco geometra Coco) la soluzione Serpente- Canale Rizzo-Chidro. Chapeau, tutto da decidere in due giorni, neanche il tempo di prendere fiato dalla manifestazione di venerdì scorso. Alla faccia delle ‘istanze’ che dovevano arrivare dalla gente ed essere recepite dai politici, e tutto per consentire alla ditta Putignano di non perdere un appalto già assegnato (che è, naturalmente riassegnabile, ma perché “lasciare il comodo per lo scomodo?”). Non abbiamo nessun timore, da sempre, di dire quello che pensiamo anche contro una dura realtà, e la dura realtà è che questo è l’ennesimo colpo di mano a danno del territorio, ma soprattutto di un metodo che permetta davvero soluzioni condivise. Questo accade ad esserci fidati dei ‘politici’, altri, ma pur sempre politici, questa volta avetranesi, che, “giustamente ” secondo le logiche di questo raffinato ambiente, si portano a casa un risultato anche se questo lo si è ottenuto con lo stesso metodo dei savesi: per dirla con un eufemismo, “futti e camina…” Così, nello stesso istante in cui Romina Power parla di tutela della bellezze naturali della Puglia a 10.000 persone, il geometra Coco firma e fa firmare il Comune di Avetrana, di cui è neo consulente, per l’ipotesi Serpente-Chidro. Certo non rappresenta, mai ha rappresentato e mai nemmeno potrebbe, nessuno di noi, convinti assertori di quanto sia fondamentale avere un’idea di programmazione e vocazione del territorio, di rispetto dell’ambiente e delle dinamiche ecologiche. Non ho nessuna difficoltà ad esprimere l’assoluta contrarietà all’ipotesi Serpente: burocrati che hanno passato la vita a mummificare nei retrobottega amministrativi forse non sanno neanche dove sia e quanto sia intatto e pregevole il contesto Serpente-Canale Rizzu-Chidro, a fronte di centinaia di ettari di pietraie a nord di Manduria, lungo la direttrice Sava-San Pancrazio, la zona industriale, insomma ovunque ci sia onestà progettuale e soprattutto politica. Certo, restringe il campo all’obbligo dello scarico di emergenza in corpo idrico superficiale, ma proprio per questo avevamo previsto nel documento congiunto, firmato dai consiglieri di opposizione manduriani e dal sindaco di Avetrana, l’abbandono della ipotesi consortile, ‘madre di tutte le magagne’. Noi ci siamo. Tra un anno ci saranno le elezioni a Manduria, e qualcuno dovrà assumersi la responsabilità di questa ennesimo deserto (di cemento e liquami) in una cattedrale (naturalistica.) Tra pochi giorni invieremo una richiesta a Cantone (Anticorruzione) di mettere finalmente il naso in questa maleodorante vicenda. Alla magistratura contabile e penale, compresa quella ‘locale’, il compito di tappare le voragini della politica, magari ponendosi una domanda semplice semplice: se, alla luce del nuovo accordo, sarà Avetrana ad ospitare gli scarichi delle reti fognanti dei centri costieri (quelli che saranno costruiti …nel 3017) anche il progetto consortile che si vuole cominciare a tutti i costi deve essere dimezzato o ridotto in proporzione. Così come l’importo dell’appalto. Così come la necessità dello scarico emergenziale in corpo idrico, quindi la presunta necessità di farlo lì. Per tutti coloro che credono ancora nel valore di ciò che si firma e con chi lo si firma, e’ il momento di battersi per le nostre proposte alternative. Francesco Di Lauro
La minoranza di Avetrana: «il nostro depuratore in cambio di Colimena». Intervista del 10 aprile 2017 di Monica Rossi su "La voce di Manduria". Alla vigilia del consiglio comunale di domani convocato ad Avetrana per approvare la disponibilità dell’ente al futuro accoglimento dei reflui delle marine di Manduria nel proprio depuratore quale condizione indispensabile per spostare il depuratore consortile lontano dall’Urmo Belsito, il consigliere comunale di minoranza, Luigi Conte, esprime tutti i dubbi in merito a tale proposta. E ci anticipa le mosse del proprio gruppo.
In merito alla proposta partorita dall’incontro a Bari tra rappresentanti del comuni di Manduria e Sava, rispettivi tecnici e la Regione Puglia, lei l’ha definita: “dalla padella alla brace”. In che senso?
“Certo, un documento firmato con superficialità e ora quel consiglio comunale convocato in tutta fretta per dare il consenso per i reflui delle Marine…”
Ma se lei fosse stato sindaco lo avrebbe firmato quel documento?
“Assolutamente no”
Ma come mai allora?
“L’amministrazione di Avetrana paga delle scelte sbagliate fatte nel 2014, quando l’allora sindaco De Marco e assessore Minò, firmarono il documento che prevedeva il depuratore in zona Urmo. Ora abbiamo sia il depuratore che i reflui delle marine. Una idea geniale di Manduria…”
Ma la nuova collocazione del depuratore lo ha scelto il comune di Avetrana se non sbaglio.
“Certo! Un paradosso! Un comune che sceglie un luogo vicino a sè per un depuratore che servirà ad un altro comune e per di più si prende in carico i reflui delle Marine! Ma dico io: almeno avessero chiesto come contropartita Torre Colimena!”
Ma perché il sindaco e il vice sindaco hanno firmato allora?
“Non stanno comprendendo cosa hanno firmato”.
Domani lei è il suo gruppo voterete il consenso?
“Assolutamente no. Noi chiediamo che questa proposta venga spiegata ai cittadini. Se loro diranno di sì noi ci adegueremo. È grazie ai cittadini e al loro protestare e scendere in piazza che si sta cominciando a parlare di delocalizzare il depuratore. Fino a pochi giorni fa in molti dicevano che non era possibile, anche quel primo cittadino (di Manduria, ndr) che ora sale sul carro dei vincitori. Il depuratore si deve spostare anche da contrada Serpenti”.
Come mai anche questo luogo della terza ipotesi non va bene secondo lei?
“Perché se il depuratore non deve più servire le Marine, visto che vogliono dare i reflui ad Avetrana, allora perché continuarlo a fare vicino alla costa e lontano da Sava e Manduria?”
Cosa propone il vostro gruppo?
“Di rescindere il rapporto con la ditta Putignano. Di migliorare il depuratore a Manduria e farne uno a Sava. Che se proprio ce ne deve essere uno consortile, va fatto tra Sava e Manduria. Che se le Marine dovranno in futuro (ora non esiste rete fognaria e acqua) scaricare nel depuratore di Avetrana, questo deve essere accettato con indennizzo (Torre Colimena agli avetranesi). In ultimo che nessun depuratore va fatto vicino alla costa”.
Ma perché secondo lei si parte a costruire dal depuratore?
“Mistero. Mai visto costruire una casa partendo dal comignolo. Sava non ha le fogne, Manduria le ha al 50 per cento, nonostante questo che fanno? I lavori li fanno partire dal depuratore…”
E perché secondo lei si parla più volte nel documento di sanzioni della commissione europea quando non sembra essere a rischio di sanzioni questo depuratore?
“Non lo so. Forse bisogna spendere quei soldi e basta”.
Di seguito Comunicato Stampa sul depuratore Manduria-Sava del gruppo consiliare Avetrana Riparte. Avetrana Riparte durante il Consiglio Comunale di Avetrana di lunedì 10 aprile, non ha preso parte al voto che ha approvato un documento sottoscritto a Bari venerdì 7 aprile secondo il quale si chiede lo spostamento del depuratore Manduria Sava in contrada Serpente e asservimento del depuratore di Avetrana per la depurazione delle acque reflue delle marine di Manduria.
I fatti. In data 7 aprile 2017, alla presenza del Direttore del Dipartimento Opere Pubbliche (tra le altre cose) ing. Barbara Valenzano, il Sindaco di Avetrana sottoscrive un verbale in cui si prende atto della proposta del Comune di Avetrana di localizzare il depuratore consortile Manduria Sava non più in zona Urmo Belsito ma in contrada Monte Serpente. In conseguenza dello spostamento Avetrana si impegna “a ricevere i reflui delle Marine nel proprio depuratore consortile”. Detto verbale viene chiuso e sottoscritto in tarda mattinata (primo pomeriggio) a Bari. Alle ore 15:00 a Manduria inizia il corteo di protesta che sfila sulla base di una piattaforma condivisa anche dal Comune di Avetrana, che ha come obiettivi:
l’immediata sospensione dei lavori;
la delocalizzazione del depuratore lontano dalla costa;
la rinuncia alla scelta di un impianto di tipo consortile;
la rinuncia formale dello scarico a mare, sia pure di tipo emergenziale, da parte della Regione, attraverso atto deliberativo.
Al termine della manifestazione nulla si dice circa il verbale sottoscritto in Regione. Detto verbale comincia a circolare sul web.
Sabato 8 aprile nel primo pomeriggio siamo convocati in consiglio comunale per lunedì (Consiglio Comunale già convocato precedentemente) per approvare un deliberato che attesti la volontà del Comune di Avetrana a ricevere i reflui delle marine. In tutto questo, il grande assente, ancora una volta ignorato, è il cittadino. Il protagonista delle proteste, quello invocato per riempire le piazze, quello vocato al sacrificio perché cede parte del suo guadagno (con la serrata) alla causa, viene superato dai propri rappresentanti. Considerato ormai inutile. Noi invece riteniamo che questo tema non può essere liquidato in 24 ore.
Le favole. Lunedì 10 aprile alle ore 12:00 si tiene il Consiglio Comunale in cui la realtà lascia il posto alla fantasia. Scopriamo infatti che il deliberato del Consiglio è sostanzialmente diverso dal verbale sottoscritto: infatti il Consiglio Comunale di Avetrana, pur richiamando il verbale, dice che è disponibile “al recepimento dei reflui delle Marine di Manduria e, comunque, fino al raggiungimento della capienza massima prevista dal depuratore di Avetrana”. Quindi a Bari si sottoscrive una cosa e ad Avetrana se ne approva un’altra. Alla richiesta dell’opposizione di Avetrana Riparte di rinviare anche solo di 24 ore il Consiglio per avere il tempo di spiegare alla cittadinanza questa novità e chiedere il relativo parere, la maggioranza e la minoranza di Cambiamo Avetrana, vota contro, adducendo il fatto che la cittadinanza è ampiamente rappresentata. Consigliere di maggioranze e ex Sindaco grande scettico sulla possibilità di riaprire la partita con la Regione e firmatario di un accordo con il Sindaco di Manduria in cui accettava il sito in cambio di opere che fornissero accurata ambientalizzazione come risarcimento del danno per la localizzazione, si permette ora di giudicare le osservazioni di Avetrana Riparte con la solita arroganza. Certo è comprensibile perché l’attuale Sindaco ha prodotto in pochi mesi più azioni concrete rispetto al suo decennale inconcludente mandato. Consiglieri di maggioranza e minoranza poi millantano, come specchietto per le allodole, la possibilità di accedere a finanziamenti per servire con acqua potabile e impianto fognario le marine. Ricordiamo che le marine sono territorio di Manduria e che Manduria è l’unica deputata a partecipare all’assegnazione di fondi per le infrastrutture stesse. Infrastrutture che sarebbero già state realizzate se il Comune di Manduria e la Regione Puglia non fossero state così caparbie (precedente amministrazione regionale) nel non voler risolvere la questione depuratore consortile.
Conclusioni. Avetrana Riparte non volendo danneggiare il voto unanime del Consiglio e non potendo prendere a cuor leggero decisioni gravi e importanti senza adeguato approfondimento e senza un serio coinvolgimento popolare, decide di uscire dall’aula al momento della votazione.
Manduria, depuratore: troppi gli assenti in Consiglio comunale, scrive il 12 aprile 2017 "Il Corriere di Taranto". “Restiamo sconcertati da quanto accaduto in Consiglio comunale: l’Amministrazione Massafra, la stessa che appena quattro giorni fa proclamava al mondo di avere in tasca la soluzione definitiva al problema depuratore, tanto da volerla ad ogni costo sbandierare in piazza, dimostra ancora una volta tutta la sua inconsistenza, non riuscendo a racimolare i voti necessari ad approvare l’ipotesi progettuale tanto caldeggiata”: è la dura accusa del laboratorio politico Manduria Lab, al termine del Consiglio comunale di ieri. “Maggiori perplessità suscita inoltre l’assenza dall’assise cittadina dei due consiglieri che fanno riferimento al consigliere regionale Luigi Morgante, principale fautore del tavolo tecnico apertosi in Regione e massimo sostenitore dell’ipotesi C – aggiunge il movimento -. Non minore stupore suscita, inoltre, la scelta dell’opposizione di abbandonare l’aula, facendo venire meno il contraddittorio e rendendo possibile il rinvio ad una seconda convocazione, che probabilmente perverrà all’approvazione del provvedimento da parte di una risicatissima rappresentanza”. Il comportamento “degli uni e degli altri rende evidente l’assenza di certezze in chi dovrebbe comunque pronunciarsi, a favore o contro, rispetto alla problematica in esame e avvalora la nostra convinzione della necessità di un approfondimento della questione, attraverso un pubblico dibattito, con il contributo della cittadinanza e delle categorie professionali e sociali”. Quanto all’ipotesi di spostare il depuratore in Contrada Serpente (zona di grande pregio naturalistico e ricca di insediamenti produttivi), “la nostra opinione è che tale soluzione al momento non è sufficientemente motivata dal punto di vista tecnico-giuridico, per poterne discutere con cognizione di causa, e risulta comunque vincolata all’approvazione da parte di AQP e della ditta appaltatrice. Risulta tuttavia difficile da comprendere la scelta di collocare l’impianto in tale località, alla luce della accettazione da parte del Comune di Avetrana di accogliere i reflui delle marine nel proprio depuratore: se proprio si vuole conservare la soluzione consortile, in presenza di un dimensionamento proporzionato alle effettive utenze, risulterebbe più logico collocare il depuratore in una località compresa tra Sava e Manduria”.
Legambiente: giù le mani dal Monte dei Serpenti, scrive il 12 aprile 2017 "La Voce di Manduria". Noi soci del circolo Legambiente di Manduria, abbiamo sempre espresso dei dubbi sulle criticità che si andavano di volta in volta evidenziando, ma sempre con spirito collaborativo nel comune intento di conciliare la salvaguardia dell’ambiente con la necessita di avere un moderno impianto di depurazione. Adesso però, alla luce della pericolosa ed estemporanea proposta di taluni di delocalizzare il sito spostandolo in una delle aree più belle e pregevoli dal punto di vista paesaggistico e naturalistico, non possiamo assolutamente restare in silenzio. All’interno di questa lunga vicenda, questa proposta è sicuramente, di gran lunga, la peggiore fra tutte le ipotesi fino ad ora formulate (non che le altre fossero idonee, sic!) ed è ovvio, che se dovesse essere questo il sito, ci opporremo con tutti i mezzi che la legge ci mette a disposizione. L’area individuata come nuovo sito del depuratore (monte dei Serpenti) si trova circondata da innumerevoli vincoli paesaggistici ed ulteriori contesti e a differenza, di quanto affermato da qualcuno, non si tratta di 10 ettari, ma di molto meno (probabilmente sarà sfuggito qualche vincolo). Inoltre la bellezza incomparabile e l’unicità di tutta quella zona (ripeto una delle più pregevoli di questa parte del Salento) la rende inidonea ad essere utilizzata per questo scopo, infatti:
– si trova vicino a molte meravigliose masserie (ad es. Masseria Marcantuddu, la stupenda masseria dei Potenti, ecc.);
– si trova vicino al famoso sito archeologico messapico della città fortificata di Felline;
– è a fianco del meraviglioso bosco dei Serpenti che con la sua ampia biodiversità costituisce un unicum in tutta l’area di Manduria e paesi limitrofi (presenza di enormi esemplari di corbezzolo, presenza di erica arborea e presenza unica di un nucleo di querce angustifolie probabilmente ibridate con quercia virgiliana;
Inoltre si devono tener conto dei vincoli derivanti dalla legge 353 del 2000 sulle aree percorse dal fuoco (vincoli che scattano anche in mancanza di inserimento nel catasto delle aree percorse dal fuoco, perché, come ha stabilito una sentenza del Tar Liguria confermata dal Consiglio di Stato, tale inserimento ha solo valore dichiarativo e non costitutivo del vincolo); proprio a tale scopo, la nostra associazione possiede un vasto archivio documentale e video fotografico delle aree percorse dal fuoco per fini probatori.
Per ultimo, ma non per importanza, segnaliamo che:
– la nuova localizzazione del buffer 2 andrebbe a ricadere pienamente all’interno della Riserva Regionale del Litorale Tarantino Orientale;
– anche il nuovo scarico emergenziale andrebbe a finire all’interno della Riserva Regionale, proprio in una delle aree più belle e suggestive di detta Riserva. (Tra l’altro anche area bosco).
– lo scarico emergenziale in questa area, oltre che incompatibile per i motivi su esposti, lo sarebbe anche per la rarissima presenza di tane di tasso e per la tipologia di vegetazione che predilige un ambiente arido e non troppo umido (ambiente il cui microclima andrebbe stravolto con uno scarico emergenziale, oltre che per i danni meccanici che tale scarico potrebbe avere sulla flora).
Quindi proprio alla luce di quanto esposto sembra incomprensibile la decisione di spostare il sito all’interno di questa area: se le motivazioni erano quelle che il vecchio sito non era idoneo per motivi paesaggistici e per motivi di vicinanza alle aree protette, a maggior ragione questo sito risulta improponibile visto che questo progetto ricade in aree sicuramente più pregevoli e , in parte, addirittura all’interno delle stesse Riserve. Se si dovesse scegliere questo nuovo sito, risulta evidente che i rischi di ricorsi al Tar da parte di più di qualcuno, sono molto alti e concreti con un’inevitabile allungamento dei tempi per la realizzazione del depuratore per Manduria. Sempre con lo stesso spirito collaborativo che ci ha contraddistinto, restiamo a disposizione di tutte le istituzioni per un'eventuale incontro per poter descrivere le motivazioni delle nostre perplessità e soprattutto per individuare un sito idoneo che finalmente sia privo di vincoli e che abbia un bassissimo impatto sull’ambiente, sul paesaggio e sugli insediamenti turistico e produttivi. Legambiente Manduria
Depuratore, interviene anche Bruno Vespa. Il giornalista ha investito nel Primitivo ma definisce scoraggiante il nuovo progetto, scrive Nando Perrone su “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 12 Aprile 2017. «L’ubicazione del depuratore nell’area di masseria “Serpenti” sarebbe, per me, un fortissimo disincentivo agli investimenti compiuti e a quelli programmati». Dopo Romina Power, intervenuta in una trasmissione di punta di Rai Uno (“L’arena” di Giletti) e alla mobilitazione di venerdì scorso a Manduria, ecco un altro personaggio molto popolare che esprime la propria opinione sull’ubicazione del depuratore consortile della città messapica e di Sava. E’ Bruno Vespa, giornalista che conduce da anni la trasmissione “Porta a porta”, che, da produttore vitivinicolo, invia una lettera aperta al sindaco Roberto Massafra e all’intero Consiglio Comunale poche ore prima della riunione, in prima convocazione, del consesso elettivo, che doveva discutere di depuratore ma, mancando il numero legale, è stato aggiornato ad oggi. Chiaro l’obiettivo: convincere i presenti a non approvare la delocalizzazione del sito. «Caro signor sindaco, caro Roberto, cari signori consiglieri» scrive Bruno Vespa nella lettera aperta del giornalista, «mi ha chiamato allarmatissimo Gianfranco Fino (altro produttore vitivinicolo, ndr), anche a nome delle altre masserie e delle altre strutture produttive della nostra zona, sulla ipotesi dello spostamento del depuratore dalle aree già indicate a quella della masseria Serpenti. Per le nostre strutture ricettive e produttive sarebbe la rovina. Per me personalmente un fortissimo disincentivo agli investimenti compiuti e a quelli programmati». Poi il giornalista e scrittore entra nel merito della questione esprimendo un proprio parere. «Ho il più alto rispetto per il comune di Avetrana, ma credo che sarebbe folle penalizzare una delle aree più pregiate del Primitivo di Manduria» sostiene Vespa. «Vi saremmo tutti assai grati se poteste scongiurare questo pericolo. Grazie e un caro saluto a tutti». Parlando al plurale, Vespa interpreta evidentemente la preoccupazione di tutti gli altri operatori vitivinicoli della zona. Com’è noto, il giornalista ha acquistato, nell’area di Manduria, ampi appezzamenti di vigneti (in cui produce il Primitivo di ottima qualità, già da qualche anno sui mercati internazionali) e una masseria, che sta trasformando in azienda in cui imbottigliare i propri prodotti. Nel progetto, Vespa ha pensato altresì di destinare un’area dell’immobile per la ricettività degli eno-turisti. Sin qui la posizione di Bruno Vespa. Molto meno facile quella del Consiglio comunale di Manduria, che ha ora solo tre opzioni: la prima con lo scarico in mare; la seconda con il depuratore in contrada Urmo e con il contestatissimo “ruscellamento”; la terza con la localizzazione del depuratore in contrada “Serpenti”. Non crediamo che la Regione possa ulteriormente pazientare. Non è un caso, infatti, se venerdì scorso è stato concesso un termine ristrettissimo (una settimana) per deliberare la scelta fra le tre opzioni. E temiamo che si sia ormai innescata una spirale: ovunque si tenterà di spostare il depuratore, ci sarà qualcuno che protesterà...
La replica il 12 aprile 2017 su “La Voce di Manduria”. Ma… ma, è lo stesso Bruno Vespa che, con Michele Emiliano seduto nel suo salotto televisivo, spalava merda sulla presunta sindrome Nimby dei salentini che si oppongono alla Tap? Ed è sempre lo stesso Bruno Vespa che, ora che la merda tocca a lui, sale sulle barricate sulla base – guarda un po’- della vocazione turistica del territorio (ma soprattutto dei suoi personalissimi investimenti)? Caro Vespa, e allora diciamola una volta tanto la verità. Per alcuni illustri commentatori, onorevoli, eccellenze, cavalieri, monsignori, la sindrome Nimby vale solo in un caso: quando il culo è degli altri. Danilo Lupo, giornalista La7 (La Gabbia)
Perchè a Urmo? Tutta la storia sul depuratore, scrive il 7 aprile 2017 Nazareno Dinoi su "La voce di Manduria". L’idea di localizzare il depuratore sulla costa e non nell’entroterra è nata da due fatti contingenti: il primo di natura giudiziaria, il secondo per garantire una rete fognante nelle località marine completamente (ancora) sprovviste. Percorrendo a ritroso tutti i passaggi, bisogna partire dal 2000 quando dalla Regione Puglia arrivò l’invito all’allora sindaco di Manduria, Gregorio Pecoraro, ad adeguare il vecchio depuratore situato sulla via per San Pancrazio (dov’è tuttora). L’impianto, inoltre, doveva essere potenziato per permettere un recapito anche alla rete di Sava in virtù di un accordo consortile tra i due comuni. L’amministrazione Pecoraro predispose le carte per un nuovo depuratore che ebbe il primo intoppo. Il sito confinava con un centro sportivo, regolarmente condonato, quindi incompatibile normativamente. Così gli uffici individuarono un altro lotto più distante, sempre in quella contrada «Laccello», ma i proprietari del terreno si opposero all’esproprio e il Tar gli diede ragione.
Sindaco Antonio Calò. Non se ne parlò più sino alla nuova amministrazione del sindaco Antonio Calò. Siamo nel 2003 e dalla Regione continuavano ad arrivare solleciti per il nuovo depuratore. Bisognava individuare un altro sito così l’allora sindaco Calò ebbe l’idea di spostare il depuratore verso la costa. Avanzò la proposta dei terreni della Masseria Marina, più vicini a San Pietro in Bevagna che avrebbe avuto la concreta possibilità di una rete fognante. Un’opportunità che avrebbe eliminato il fenomeno degli scarichi civili abusivi e nello stesso tempo dato più valore catastale a tutto l’abitato. Si presentò però un altro problema: all’epoca gli scarichi dei depuratori lungo la costa potevano avere solo il recapito in battigia per cui fu improponibile pensare ad una cosa simile proprio al centro di San Pietro in Bevagna così densamente abitato. Si doveva trovare una soluzione diversa, sempre sulla costa, ma lontana dalla località balneare principale.
Sindaco Francesco Massaro. Cade il sindaco Calò e viene eletto Francesco Massaro. Toccò a lui la scelta di un sito che non fosse San Pietro in Bevagna, quindi o a destra, verso Torre Borraco e l’omonimo fiume, o dall’altra parte, Torre Colimena con i corsi d’acqua della Palude del Conte, i canali dell’Arneo e la Salina. La scelta cadde proprio qui, nel punto più distante dei confini territoriali di Manduria ma più vicino a quelli di Avetrana: zona Urmo Belsito, appunto. Fu allora che si cominciò a temere l’infrazione comunitaria che aveva già puntato gli occhi sulla Puglia per i troppi depuratori non a norma: non era più possibile scaricare in falda. Bisognava fare in fretta e l’allora sindaco Massaro si preoccupò di evitare almeno lo scarico in battigia. Presentò un ricorso al Tar di Lecce che gli diede ragione. Secondo il tribunale amministrativo, uno scarico in battigia non sarebbe stato concettualmente compatibile con la vocazione turistica della zona. La soluzione alternativa fu trovata dai tecnici regionali: una condotta sottomarina che scaricasse in mare i liquami frullati e non depurati come prevedeva la normativa di allora.
Sindaco Paolo Tommasino. Dopo Massaro è stata la volta del sindaco Paolo Tommasino. Il presidente della Regione era Nichi Vendola. Le proteste degli ambientalisti e l’intervento dell’amministrazione Tommasino ottennero un altro risultato: l’affinamento delle acque in tabella 4. Acqua pulita da impiegare in agricoltura ma sempre con la condotta sottomarina di emergenza. Solo promesse, senza progetti, però. E’ stato allora che l’amministrazione Tommasino commissionò uno studio di fattibilità ai tecnici Muscoguri-Dellisanti che ipotizzarono lo spostamento del depuratore in zona Monte Serpenti e le vasche di drenaggio in zona masseria Marina. Progetto mai preso in considerazione.
Sindaco Roberto Massafra. Finisce l’era Tommasino e, dopo un periodo di commissariamento, entra in gioco l’attuale sindaco Roberto Massafra che formalizza, in accordo con l’allora sindaco di Avetrana, Mario De Marco, il progetto del depuratore all’Urmo con affinamento in tabella quattro, le vasche di raccolta e drenaggio in contrada Marina e l’uso quasi esclusivo dei liquidi depurati in agricoltura. Lo scarico emergenziale in mare, però, rimane.
Morgante-Turco-Del Prete. La storia diventa recente. I due consiglieri regionali Luigi Morgante e Giuseppe Turco, con la consulenza del geologo Mario Del Prete, convincono i tecnici regionali e dell’Aqp alla soluzione dei buffer: depuratore sempre all’Urmo, vasche alla Marina (buffer 1) e vasche a Specchiarica (buffer 2) con recapito emergenziale, per almeno 15 volte l’anno e comunque quando l’impianto a monte non funzionerà (impossibile fare ipotesi sulla frequenza e sulla durata dei guasti), sul terreno tra le abitazioni di Specchiarica, in discesa verso il mare che dista circa 700 metri. Secondo il sostenitore del famoso ruscellamento nel terreno, i liquami di emergenza non arriverebbero mai al mare e anche se fosse, a bloccarle ci penserebbero le dune. Iin realtà, proprio in quel tratto non ci sono più dune ma la strada litoranea che taglia in due la zona del buffer con il mare.
L’ultima proposta, che piace al comune di Avetrana e a molti manduriani (non al sindaco Massafra che accetta a malincuore), prevede il depuratore in zona Monte Serpenti, a circa 4 chilometri dalla costa, con impianti di dispersione e raccolta in loco, sempre uso irriguo delle acque, e uno scarico emergenziale in una lama naturale. Il resto lo stiamo vivendo in queste ore.
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Note Estese. L’inquinamento globale delle acque superficiali e dei mari combinato con la costante diminuzione dei depositi naturali di acqua potabile richiede un uso ecologicamente sensibile delle risorse idriche. Le acque reflue scaricate provocano un disturbo notevole per l’equilibrio naturale. Sempre più nuove sostanze tossiche vengono trasferite all’uomo attraverso la catena alimentare e il ciclo dell’acqua minacciandone la salute, per cui le conseguenze di ciò sul nostro attuale stile di vita moderno non possono ancora essere pienamente previste. Le nuove norme europee definiscono inequivocabilmente la qualità delle acque reflue destinate alla dispersione sul terreno del stesso tipo di quelle destinate allo scarico nei flussi di acque correnti. Le membrane a ultrafiltrazione siClaro ® separano le particelle più piccole, fino ai colloidi, nei liquidi soltanto su base fisica per le dimensioni dei pori <0,1 micron. Le membrana trattengono queste sostanze senza modificarle in alcun modo, sia fisicamente che chimicamente, così che non possano originarsi sostanze pericolose. Nella realizzazione dei filtri sono usate membrane piane, derivanti da polimeri organici, ottimizzate e molto efficaci che impediscono l’intasamento dovuto a capelli, fibre o altre sostanze grossolane. Il filtrato prodotto dall’impianto soddisfa gli elevati standard qualitativi richiesti per l’acqua di balneazione a norma del regolamento 75/160 / CEE (“EWG” Comunità Economica Europea) del Consiglio dell’Unione europea. La membrana a ultrafiltrazione costituisce una barriera assoluta per batteri e larga parte di virus come quello responsabile della paralisi infantile. Piccole molecole organiche, ioni metallici nonché sali solubili, in parte essenziali per la vita, possono attraversare le membrane a ultrafiltrazione.
Comunque per quanto riguarda il tema depuratore di Manduria-Sava rimane il controverso aspetto del costo di impianto delle condutture e dell’esproprio dei terreni, con il conseguente espianto di migliaia di alberi di Ulivi, pari ai trenta chilometri di distanza tra sito servito ed impianto servente. Tema che fino ad oggi nessuno ha avuto la capacità di trattare, impegnati tutti a contestare l'allocazione dell'impianto di depurazione principale e dello scarico delle acque reflue.